FEBBRAIO 2018
Votare è un dovere, astenersi un errore
di Salvatore Sfrecola
Nelle conversazioni che hanno ad oggetto la campagna
elettorale in vista del voto del 4 marzo accade spesso
di sentire, da giovani e meno giovani, una sorta di
rifiuto del voto, in ragione di una diffusa disaffezione
provocata da una classe politica ritenuta, quanto meno,
inadatta al ruolo. Conta molto in queste valutazioni la
percezione del disagio che vivono vaste aree della
popolazione, le difficoltà delle famiglie, soprattutto
di quelle numerose, la diffusa insicurezza, in gran
parte dovuta all’immigrazione incontrollata, la pesante
tassazione che colpisce ogni genere di attività
economica, la disoccupazione che penalizza i giovani,
spesso costretti a cercare lavoro all’estero, risorse
preziose che abbandonano il nostro Paese. Poi la
evidente incapacità della scuola di formare, le diffuse
inefficienze della sanità che in alcune regioni
denunciano gravi ritardi nelle liste di attesa e non
poche disfunzioni, soprattutto in Italia meridionale,
come ci informa spesso la stampa.
Si aggiungono i problemi del sistema pensionistico che
non tutela le persone più modeste per le quali, infatti,
un po’ tutti i partiti propongono aumenti.
Promesse, promesse, promesse di quanti, al governo,
avrebbero potuto fare quanto oggi promettono. E questo,
ovviamente, è un motivo di insoddisfazione e di distacco
dalla politica. Il balletto delle promesse con le quali
i partiti s’inseguono a vicenda non lasciano certo
indifferenti gli italiani e indubbiamente alimentano il
rifiuto del voto. Che sembra diffuso in alcuni ambienti,
anche intellettuali. Come nel caso di Giampaolo Pansa,
battagliero polemista che oggi scrive su La Verità
il quale, senza mezzi termini, ha affermato che si
asterrà come gli “italiani onesti e disgustati da una
Casta politica che fa vomitare”.
Preoccupa non tanto il giudizio, quanto la scelta di non
deporre la scheda nell’urna. Perché votare è un dovere,
civico e morale per tutti i cittadini, in particolare
per quanti, come Pansa hanno dedicato la vita ad un
impegno civile coraggioso. Astenersi è comunque un
errore, politico e civico. Non per un obbligo formale.
Nel definire il testo dell’art. 48 della Costituzione,
secondo il quale il voto “è un dovere civico”, i
costituenti vollero che tutti si sentissero coinvolti
delle scelte. Tanto che la legge elettorale nel 1948
aveva stabilito, in caso di non voto, che il cittadino
si giustificasse dinanzi al suo sindaco, con la
conseguenza che se i motivi non fossero stati giudicati
idonei sarebbe stata applicata la sanzione, sia pure
simbolica, dell’iscrizione in un elenco esposto al
pubblico nella “casa comunale” per trenta giorni. E in
aggiunta la menzione “non ha votato” da mantenere per un
periodo di cinque anni nel certificato di “buona
condotta”. Nel frattempo quel certificato non si
rilascia più, in quanto sono state abrogate le norme che
attribuivano la competenza al Sindaco. Ne sarebbe lieto
Mario Vinciguerra, storico e giornalista, che ne aveva
scritto ne “Il voto obbligatorio nel paese dei
balocchi”, nel quale narrava le sue disavventure nel
vano tentativo di farsi apporre quell’annotazione sul
certificato. Si era rivolto al suo sindaco e, infine,
alla Procura della Repubblica, immaginando financo un
reato di omissione, suo per non aver votato e del
sindaco per non aver provveduto ad apporre la dicitura
prevista. Riferisce che nessuno lo aveva ascoltato e che
tutti si erano infastiditi per la sua insistenza.
Votare è necessario e utile, non solamente quando
troviamo sulla scheda elettorale il simbolo del “nostro”
partito e il nome del candidato che stimiamo e che
vorremmo vedere deputato o senatore. La democrazia vive
di scelte pro o contro un partito o un programma. Se non
c’è quello che vorremmo la partecipazione si manifesta
nel senso di ostacolare il partito o la persona (in caso
di collegio uninominale) lontano dalle nostre idee. Un
po’ come nel ballottaggio, che semplifica il confronto
limitandolo ai due candidati più votati. È accaduto
ovunque, nelle più recenti elezioni amministrative a
Roma ed a Torino, dove gli elettori che aveva votato i
candidati rimasti fuori dal ballottaggio si sono
schierati da una parte o dall’altra.
Altri si sono astenuti. Ma anche astenersi è, in fin dei
conti, una scelta, che peraltro consegniamo a quanti
hanno espresso la preferenza per un partito o un
candidato. E molto spesso significa contribuire a far
prevalere chi non avremmo voluto.
Astenersi , dunque, è in ogni caso un errore. Gli
italiani “onesti e disgustati” da questa classe
politica, per ripetere la frase con la quale Pansa ha
annunciato la sua volontà di non votare, devono dire la
loro. In tempi di prima repubblica Indro Montanelli
invitò quegli italiani ad andare ai seggi turandosi il
naso. È un invito valido ancora oggi. Tutti possiamo
farci un’idea, quantomeno per dire no ad un partito o ad
un candidato, tra quelli che presentano in questi giorni
le promesse più varie senza preoccuparsi di dimostrare
in qualche modo se siano utili ed effettivamente
realizzabili, bilancio mano. Intanto vanno scartati
partiti e uomini che, avendo potuto fare quel che oggi
promettono non lo hanno fatto quando hanno gestito il
potere, al Governo o in Parlamento.
C’è, poi, da mettere in conto i valori, lo Stato, la
Famiglia, la Giustizia, la Sicurezza. Chi li ha difesi,
chi li ha traditi? Chi è credibile per la propria storia
personale e professionale? Insomma, gli elementi per
scegliere pro o contro ci sono. Basta individuare
simbolo e nome e metterci una croce sopra.
7 febbraio 2018
9
maggio 1946 – Umberto di Savoia da Luogotenente a Re
d’Italia
di Domenico Giglio
Premessa
La scomposta
reazione dei ministri repubblicani nel governo De
Gasperi, dei loro partiti e dei loro giornali alla
notizia, il 9 maggio 1946, della abdicazione di Vittorio
Emanuele III, con accuse di “tradimento”, della “ultima
fellonia dei Savoia”, come intitolò l’ Unità, della
“rottura della “tregua istituzionale” e simili,
dimostrano che la assunzione al trono del Principe
Umberto avrebbe senza dubbio giovato alla causa
monarchica. E’ infatti ridicolo ed assurdo che coloro i
quali, due anni e più prima avevano richiesto
pretestuosamente, preteso, intimato, l’abdicazione del
Re, dallo stesso, all’epoca, giustamente respinta, la
ritenessero adesso una scorrettezza ! E che
l’abdicazione potesse giovare alla Monarchia, fu anche
recepita dalla stampa estera, come il caso del
giornalista inglese Martin Moore che sul “Daily
Telegraph”, scrisse:” La reazione della stampa di
sinistra al momento dell’abdicazione dimostra che quei
partiti ne temono gli effetti”.
In realtà, come
lo stesso Umberto ebbe a precisare nel suo messaggio di
saluto agli italiani, nulla cambiava in merito alle sue
prerogative ed agli impegni presi, se non questa,
apparentemente ininfluente, modifica nelle Leggi e nei
Decreti, che gli stessi ora fossero firmati da Re, e non
più dal Luogotenente, anche se questo Re, non lo era più
“per grazia di Dio e volontà della Nazione”. Era però la
figura di Umberto a risaltare e ad assumere quel carisma
che, storicamente, accompagnava la figura dei Sovrani,
per cui da quel momento i monarchici, che ad esempio, a
Roma, accorsero in folla, ad acclamarlo in piazza del
Quirinale, potevano gridare la loro convinzione, che era
anche una fede, con le parole “Viva il Re”.
A questo punto
viene spontanea una domanda. Perché questo anziano
Sovrano, Vittorio Emanuele, che aveva amato l’Italia
appassionatamente, malgrado la sua apparente freddezza,
aveva tardato così tanto a prendere la decisione della
abdicazione? Il 5 giugno del 1944 con la istituzione
della Luogotenenza, aveva rinunciato, in via definitiva
ed irrevocabile ai suoi poteri costituzionali, ma era
pur sempre Re e la sua effigie era rimasta, può sembrare
banale, ma non lo era, sui francobolli, sulle marche da
bollo e simili. L’Italia all’epoca era ancora divisa,
dilaniata dalla guerra e Vittorio Emanuele, era quello
che ne aveva indicato e promosso la strada della
rinascita che voleva attendere come Re. Il 25 aprile, o
meglio ancora la successiva data della firma, a Caserta,
della resa delle truppe germaniche, poteva essere una
data possibile per una abdicazione, ma grondava ancora
troppo sangue. Il successivo, 29 luglio, data della sua
assunzione al Trono? Allora il primo gennaio 1946,
inizio dell’anno che avrebbe visto le elezioni ed il
referendum? Nel diario di Falcone Lucifero dobbiamo
giungere alla data dell’8 marzo 1946, per trovare un
accenno ad una possibile abdicazione, che acquista
concretezza solo alla fine di aprile quando, in data 22
aprile è lo stesso Principe Umberto a comunicare
riservatamente al Ministro della Real Casa che
l’abdicazione sarebbe avvenuta tra il 2 ed il 10 maggio.
Nessuno ha dato una motivazione di questo ritardo, per
cui accettiamolo per quello che è stato, anche se il
rilancio delle motivazioni a favore del mantenimento
della Monarchia, avvenuto dopo il 9 maggio, ci fanno
ragionevolmente pensare che anche un solo mese in più di
effettivo regno di Umberto avrebbe potuto aumentare
ulteriormente i consensi, rendendo più difficile od
impossibili le manipolazioni referendarie di Romita e le
manovre nella magistratura di Togliatti.
Tutta la famiglia
del nuovo Re, acquistava così il giusto risalto,
sintetizzato nel bellissimo ed unico manifesto stampato
per la Monarchia, con la foto della Famiglia Reale nei
giardini del Quirinale, e Maria Josè, come Regina
acquisiva prestigio ed aumentava simpatie, ed a
proposito delle insinuazioni su un preteso
“repubblicanesimo” della Regina, solo perché il
successivo 2 giugno non volle ritirare la scheda per il
“referendum” istituzionale, sempre nel diario di
Lucifero, in data 22 aprile vi è la notizia di una festa
di beneficenza alla quale la Principessa aveva
presenziato con i principini, dove, essendo stata
suonata la Marcia Reale, Maria Josè esclamasse: “
Finalmente. Era tanto che non la sentivo !”.
Inizio del Regno
Risolti i
problemi giuridici con De Gasperi si apriva un periodo
di 20 giorni drammatici perché a questo punto, il nuovo
Re doveva assolutamente scendere in campo per difendere
e riaffermare il ruolo e la funzione della Monarchia, e
più precisamente di una Monarchia che rinnovasse i
valori con i quali si era affermata nella Italia del
Risorgimento, adeguandoli alle mutate condizioni
storiche politiche e sociali. E se le giornate, quando
era Luogotenente, iniziavano prestissimo alle sei del
mattino e si concludevano oltre la mezzanotte per potere
assolvere ai compiti istituzionali, visitare i soldati
del Regio Esercito e le località via via liberate e
ricevere infine tutte le persone che facevano richiesta
di incontrarlo, adesso come Sovrano il tempo era ancor
più necessario a meno di un mese dalle elezioni, che
erano state irrimediabilmente fissate per il 2 e 3
giugno, data che non poteva essere più modificata, anche
se molti in campo monarchico, lo richiedevano. E così il
10 maggio, primo giorno di Regno, i Reali alle 7 della
mattina ascoltarono la Santa Messa nella Cappella del
Quirinale e successivamente si affacciarono al balcone
della Reggia per rispondere alle acclamazioni della
folla accorsa a festeggiarli, e nello stesso giorno il
Re indirizzava al popolo italiano un nobile messaggio.
La modifica della
originale legge relativa alla Costituente, con il
contemporaneo voto referendario, che oltretutto
ricordava i plebisciti che avevano sancito l’adesione
degli abitanti dei precedenti stati al Regno
costituzionale di Vittorio Emanuele II e suoi
successori, dava una precisa motivazione ad una presenza
personale del nuovo Sovrano, che scendeva in campo per
difendere la sua Casa, in quanto sulla scheda, per la
Monarchia, il simbolo scelto era stato lo stemma
sabaudo, sormontato dalla Corona. Ben diverso sarebbe
stata la posizione del Re se si fossero tenute le sole
elezioni per l’Assemblea Costituente, con liste
partitiche, dove non era presente un partito monarchico,
e quindi qualsiasi suo intervento poteva sembrare una
indicazione che avrebbe contrastato con la posizione
“super partes”, tipica della istituzione monarchica.
Per il resto in
quel periodo l’attività legislativa fu molto ridotta se
si eccettua il decreto istitutivo della autonomia della
Sicilia, Regione a Statuto Speciale, che veniva a
concludere due anni difficili, in cui in Sicilia, si era
arrivati a chiedere l’indipendenza, costituendo
addirittura un esercito, l’EVIS, con i suoi gradi e
gerarchie, e solo con un adeguato contenimento da parte
delle forze dell’ordine e dell’esercito, la minaccia
secessionistica era stata sconfitta, ma era appunto
opportuno tenere conto di queste richieste di autonomia
ed inserirle nel quadro unitario così da non metterlo
più in discussione. E di questo rinnovato spirito
unitario fu testimonianza il successivo referendum
istituzionale che vide i siciliani votare a grandissima
maggioranza per la Monarchia Sabauda, con punte
superiori all’80 per cento in diverse città, a
dimostrazione che in uno stato monarchico le autonomie
non avrebbero intaccato quella unità attuatasi il 17
marzo 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, e
completata poi nel 1866 con il Veneto, nel 1870 con Roma
ed infine nel 1918 con Trento e Trieste, raggiungendo i
confini storici e geografici.
Fu pure
significativa la nomina di Luigi Einaudi, monarchico a
viso aperto, già dall’anno precedente, Governatore della
Banca d’Italia, a Commissario dell’Istituto della grande
Enciclopedia Treccani, che così poteva riprendere il suo
cammino storico di vero monumento della cultura
italiana.
Abbiamo accennato
all’assenza nella competizione elettorale di un partito
monarchico, anche se in realtà i due maggiori
raggruppamenti esistenti dal 1944, che si richiamavano
alla Monarchia Sabauda, il Partito Democratico Italiano
di Enzo Selvaggi e la Concentrazione Democratico
Liberale di Alberto Bergamini ed Alfredo Covelli,
avevano concluso un accordo elettorale, con il nome di
Blocco Nazionale della Libertà, e simbolo una “Stella a
cinque punte”, senza alcun riferimento visivo sabaudo,
presentandosi in quasi tutte le circoscrizioni. In
realtà, per completezza di informazione, vi furono
alcune liste (Alleanza Monarchica Italiana – voti
30.505; Movimento Democratico Monarchico Italiano – voti
29.916 e Partito Patriottico Monarchico Rinnovatore –
voti 11.102) con simboli monarchicizzanti che raccolsero
complessivamente 71.523 i voti, disperdendoli senza
raggiungere il quorum per la elezione di un deputato,
per cui gli unici deputati dichiaratamente monarchici,
quali esponenti di partiti o movimenti monarchici furono
i 16 del Blocco della Libertà, che aveva avuto 636.489
voti, anche se numerosi furono, purtroppo minoritari
rispetto al totale dei “Costituenti”, altri deputati di
convinzioni monarchiche eletti nelle liste della
Democrazia Cristiana e, particolarmente, della Unione
Democratica Nazionale (PLI + Democrazia del Lavoro) e
dell’Uomo Qualunque, molti dei quali successivamente
entrarono o nel Partito Nazionale Monarchico, sorto
all’indomani del referendum, per dare ai monarchici una
propria voce partitica, o nella Unione Monarchica
Italiana che doveva unire quanti, pur monarchici,
ritenevano non dovere lasciare il proprio partito.
I venti giorni prima del referendum
Ritornando al Re,
dopo, il 14 maggio quando inviò un opportuno messaggio
di saluto agli italiani d’America, tramite il diffuso
giornale “Progresso Italo-Americano”, diretto da
Generoso Pope, in modo che gli stessi scrivessero ai
loro parenti in Italia in favore del voto alla
Monarchia, iniziarono il 18 le sue visite alle
principali città italiane, e caratteristica di queste
visite furono i messaggi inviati alla popolazione delle
città dove si era recato, con riferimenti storici
specifici per ciascuna di queste, di cui il più
significativo fu quello di Genova dove si accennava ad
un secondo referendum, qualora la maggioranza,
eventualmente raggiunta dalla Monarchia fosse stata
troppo esigua. Questa promessa rientrava nella mentalità
e sensibilità democratica del Re, che riteneva che il
nuovo Regno dovesse basarsi su di un largo consenso
popolare. Non si doveva infatti dimenticare la
precedente esperienza del Regno, dopo il 1861, quando la
Monarchia aveva saputo lentamente attrarre nella sua
orbita molti repubblicani, per cui, anche un modesto
risultato positivo nel 1946 poteva essere seguito da un
successivo risultato migliore, sia per il ravvedimento
di molti che avevano votato repubblica per
disinformazione, sia per il voto delle centinaia di
migliaia di italiani che non avevano potuto votare il 2
giugno e che mai, successivamente, furono interpellati
in ordine al problema istituzionale. Ragion per cui,
anticipando i risultati ufficiali del voto referendario
del 1946 ( repubblica -voti 12.717.923; Monarchia – voti
10.719.284), tenendo conto dei voti nulli ( 1.509.735) e
di queste centinaia di migliaia di cittadini che non
potettero votare, e che assommano ad oltre due milioni,
possiamo affermare serenamente che la repubblica, il cui
vantaggio ufficiale sul numero complessivo dei votanti
(24.946.942), già si era ridotto a soli 244.451 voti, è
stata scelta da una minoranza degli italiani!
Oltre alle visite
nelle principali città italiane, e al ricevere, al
Quirinale tutti coloro che ne facevano richiesta, il
primo atto di Umberto II, l‘11 maggio, era stata la
richiesta, usuale nella tradizione monarchica
all’avvento di un nuovo Re, di un’ampia amnistia
politica, militare ed amministrativa che facilitasse la
pacificazione interna, ma venne a cozzare con la volontà
del Guardasigilli, che era appunto il leader comunista
Palmiro Togliatti, il quale frappose tutti i possibili
ostacoli, offrendo una ridicola amnistia che, a questo
punto, il Re logicamente rifiutò. Si aveva con questo
episodio la conferma che avendo subito la presenza nei
due dicasteri principali, Giustizia e Interni, di due
repubblicani dichiarati, la Monarchia era già
condannata, prima ancora del risultato elettorale! Per
la storia ricordiamo che quell’ampia amnistia negata ad
Umberto II, fu poi predisposta e concessa, dopo il
referendum, dalla repubblica.
Come detto le
visite iniziarono con la Sardegna, arrivando a Cagliari,
il 18 maggio, di prima mattina, proseguendo lungo la
strada intitolata a “Carlo Felice” per Sassari ed
Alghero, fermandosi brevemente anche a Macomer, per
tornare nuovamente la sera a Cagliari accolto da una
grande manifestazione di entusiasmo popolare. Sia in
queste sue prime visite, sia in quelle successive nulla
avevano fatto le autorità prefettizie per dare notizia
della visita alla popolazione, per cui il radunarsi
delle folle fu sempre spontaneo. Nel caso della Sardegna
si deve ricordare anche l’interessamento del Re, che
volle visitare le zone colpite da una impressionante
invasione di cavallette, intrattenendosi con operai e
gente del luogo.
Dove però
l’entusiasmo popolare raggiunse il culmine, fu
l’indomani, 19 maggio, a Napoli, dove Piazza del
Plebiscito non fu sufficiente a raccogliere la folla
inneggiante al Re ed a Casa Savoia, dimostrazione di una
fedeltà che portò, dopo il referendum, a pacifiche, ma
imponenti, manifestazioni monarchiche che la polizia,
riempita da Romita con esponenti provenienti da gruppi
partigiani di sinistra, stroncò nel sangue, in quelle
tragiche giornate che hanno visto cadere, arrossando con
il loro sangue le strade di Napoli, undici giovani, il
più giovane, Carlo Russo, aveva 14 anni, tra i quali era
anche una donna, l’unica non napoletana, ma milanese,
Ida Cavalieri, di 19 anni, passati alla storia come
“martiri di Via Medina”.
Bisognava però
puntare al Nord! Per due anni e più, prima con i
giornali “repubblichini”, poi con i giornali ciellenisti
il Re, Casa Savoia, la Monarchia erano stati oggetto di
una campagna diffamatoria, condotta con una virulenza
polemica alla quale solo dopo la Liberazione aveva
potuto cominciare ad opporsi qualche voce monarchica,
con, ad esempio, il quotidiano “Corriere Lombardo”,
diretto da Edgardo Sogno ed “Il mattino d’Italia”, che
era praticamente quello che l’Italia Nuova aveva
rappresentato a Roma e nel Mezzogiorno, per cui la
presenza del nuovo Re rappresentava la prima importante
riaffermazione che la Monarchia ancora esisteva, e non
era cessata come la avevano definita gli avversari. E la
prima città dove recarsi il 22 maggio non poteva non
essere per il Re, già Principe di Piemonte, che Torino,
capitale del Ducato di Savoia, poi Regno di Sardegna ed
infine Regno d’Italia. E di questi motivi storici,
dinastici e risorgimentali è composto il proclama
lasciato, dopo una giornata che aveva visto Umberto II,
visitare la mensa per i poveri, un asilo nido, la
Basilica di Superga e la “Consolata” e poi ricevere
centinaia di cittadini che, appreso della presenza del
Re, volevano salutarlo, e tra questi anche qualche
comunista. Il Re, che in questi viaggi era sempre
accompagnato, tranne che a Genova, dal Ministro
Lucifero, che serviva di collegamento con la autorità,
dopo aver predisposto il programma delle visite, non
mancò mai di incontrare le massime autorità
ecclesiastiche delle città visitate, in molti casi
Cardinali, che specie nelle città del Meridione,
propendevano per il mantenimento dell’istituto
monarchico, storicamente congeniale alle locali
popolazioni.
Stanco della
giornata torinese o forse per rivedere il luogo dove era
nato, Umberto volle recarsi la mattina successiva a
Racconigi, per poi rientrare a Roma dove lo attendevano
altri visitatori, tra cui alcuni importanti industriali,
il che è significativo perché queste persone non si
erano fatte vive prima della sua ascesa al Trono, come
pure aveva ricevuto l’omaggio dei Senatori del Regno.
Questo soggiorno romano durò alcuni giorni che servivano
per gli incontri sopra citati ed a Lucifero per gli
ultimi tocchi della campagna elettorale monarchica, di
cui aveva preso le redini da alcune settimane e per
definire il messaggio che avrebbe letto alla Radio, dato
che era rimasto insoddisfatto di quanto preparato da
collaboratori.
E la mattina del
28 il Re era a Palermo dove fu oggetto di un’altra
manifestazione delirante della folla accorsa, stimata in
200.000 persone, come giorni prima a Napoli. Poi visita
a due ospedali e forse per ricrearsi lo spirito una
corsa a Monreale, per rivedere l’eccezionale mosaico del
Duomo. Poi a Trapani e l’indomani a Catania, Messina,
sempre accolto da folle numerose e plaudenti,
attraversando lo Stretto su di una torpediniera della
Regia Marina, per raggiungere Reggio Calabria. E questo
entusiasmo, questa folla che si stringeva fisicamente al
suo Re, portarono a strappi della giacca e della
camicia, come non era avvenuto, né avvenne in seguito
per tanti capi partito e per i presidenti della
repubblica.
La scadenza
elettorale si avvicinava e mancava nel calendario delle
visite la più importante città del Nord, Milano, nonché
Genova e Venezia. Ed a Genova, il 31 maggio, il Re nel
proclama prospettava un secondo referendum come già
scritto in precedenza. Proposta e promessa altamente
democratica, che non ebbe alcun riscontro nei
repubblicani, che mai pensarono ad un secondo
referendum, ad esempio, per l’approvazione popolare
della nuova Costituzione. L’indomani Milano e Venezia,
dove se vi furono applausi, vi furono anche fischi, che
erano scontati, ma specie a Venezia dove il Re percorse
le calli in un motoscafo vi furono maggiori
manifestazioni di simpatia.
Avvicinandosi
alla chiusura della campagna elettorale, il 24 maggio,
vide ancora una imponente manifestazione monarchica al
comizio in Piazza del Popolo, che ebbe tra gli oratori
il generale Bencivenga, che era stato il principale
esponente della Resistenza a Roma, dopo la cattura e
l’uccisione del colonnello Montezemolo. Folla che volle
poi salire al Quirinale, ostacolata dalla Polizia, dove
Romita, come già detto, aveva immesso migliaia di ex
partigiani social comunisti, come documentò il
quotidiano “Italia Nuova”, acclamando al Re, che si
affacciò al balcone, prima solo, poi con la Regina ed i
principini.
Chiuse infine la
campagna elettorale per la Monarchia alla Radio, il
Ministro Lucifero con un calmo e nobile discorso,
ragionato ed obiettivo, in cui venivano tratteggiate le
linee di una moderna, rinnovata Monarchia, sempre più
aperta al popolo ed ai problemi sociali, come del resto
era stata la tradizione sabauda, ed anche il desiderio
del Padre, frustrato dall’atteggiamento miope e
controproducente dei socialisti, incapaci di imboccare
la strada del riformismo e della collaborazione
governativa, come era accaduto in altri stati
monarchici, con vantaggio delle classi lavoratrici.
Il referendum
La data stabilita
era il 2 con prosecuzione nel giorno successivo, 3
giugno, fino alle ore 12, dopo di che sarebbe iniziato
lo spoglio delle schede, cominciando da quelle del
referendum istituzionale. La Regina votò il 2 e non
avendo ritirato la scheda del referendum fu quasi
accusata di essere repubblicana, non comprendendone la
signorilità del gesto, lo stesso che la mattina del 3,
avrebbe fatto il Re, che non intendeva votare per sé
stesso, sempre per quella superiore visione di
imparzialità e disinteresse personale che lo aveva
contraddistinto nei due anni di Luogotenenza.
Adesso si entra
nelle vicende del conteggio dei voti, con una lettera
iniziale del 4 giugno, di De Gasperi a Lucifero,
attestante una maggioranza monarchica, che l’indomani 5
giugno, veniva ribaltata, con un vantaggio per la
repubblica, di due milioni di voti, ormai incolmabile.
Di fronte a questi risultati il Re prese una amara
decisione, altrimenti inspiegabile, di far partire da
Napoli per il Portogallo, la Regina ed i principini
sull’incrociatore “Duca degli Abruzzi”, che, un mese
prima aveva portato in esilio, in Egitto, il Re Vittorio
e la Regina Elena, che, per la storia, furono accolti
regalmente dall’allora Re Farouk, prendendo residenza in
una modesta villetta, denominata “Villa Jela” (nome di
Elena in montenegrino ). Ed in questa villa ad
Alessandria d’Egitto, si spense il successivo 28
dicembre 1947, il Re Vittorio Emanuele, avendo, sempre
grazie alla signorilità di Farouk, funerali imponenti,
con l’esercito egiziano schierato, presenti i Reali di
tutte le maggiori famiglie, oltre logicamente al Re
Umberto ed i Savoia, per essere tumulato in una semplice
tomba nella Chiesa di Santa Caterina da dove, dopo
settant’anni, rientrato il feretro in Italia, è stato
accolto nel Santuario di Vicoforte, opera di un suo avo,
Carlo Emanuele I.
Sempre in questa
giornata il Re ritenne di dover lasciare in deposito nel
caveau della Banca d’Italia le gioie della Corona, con
la scritta “a chi di dovere”, atto ancora una volta di
una estrema signorilità perché, obiettivamente,
appartenevano a Casa Savoia, come esclamò Einaudi,
presente quale Governatore, “ma perché non se le porta
via. E’ tutta roba sua”, gioie che Lucifero scrive “…io
vedo per la prima volta e che sono davvero meravigliose:
valgono più di un miliardo”.
Tornando alle
vicende post referendarie inizia qui il drammatico
scontro tra il Re, che vuole il rispetto della legalità
democratica e che tutto si svolga regolarmente, con il
controllo della Corte Suprema di Cassazione, cui per
legge spettava il controllo finale dei risultati, ed il
Governo, in cui la quasi totalità dei ministri
repubblicani, ritiene oramai decisa la vittoria
repubblicana e legittimo il risultato, e non vede cosa
aspetti il Sovrano a lasciare anche lui l’Italia. Ma il
7 giugno alcuni politici di parte monarchica, in primo
luogo Enzo Selvaggi, ed alcuni giuristi di Padova
trovano che alle cifre esposte da Romita, manca qualcosa
di molto importante e cioè il numero totale dei
“votanti”, come scritto nelle legge, sul quale calcolare
la effettiva maggioranza dei voti e da qui nascono i
ricorsi alla Corte di Cassazione sul significato di
“votante”, mentre giungono alla stessa centinaia di
ricorsi su singoli fatti avvenuti nelle sezioni prima e
durante gli scrutini. Il Re che deve consultarsi con i
suoi consiglieri, divisi tra i fautori della maniera
“forte” nei confronti del Governo e quelli più propensi
a soluzioni diplomatiche, divisione di punti di vista
che durerà fino alla scelta del 13 giugno, si reca in
una visita già definibile di “commiato”, la sera del 7,
alle 19,30, in Vaticano, da Pio XII. L’incontro privato
di trenta minuti, ha ormai solo un carattere
protocollare ed il Pontefice, accomiatandosi dal Re ha
per Lui nobili parole, “E’ nel segno del rispetto della
legge divina ed umana, che Vostra Maestà troverà, in
questi giorni amarissimi, la giusta strada, secondo le
tradizioni della sua Casa”, ma che ormai non possono
portare ad alcun risultato pratico. E di questo
carattere privato e politicamente inutile la controprova
è nel diario di Lucifero che alla data del 7 non ne fa
alcun accenno, avendo avuto invece incontri importanti,
fra i quali quello con Massimo Pilotti, Procuratore
Generale della Cassazione.
La Chiesa infatti
si era mantenuta piuttosto equidistante sul problema
referendario anche se fra le righe del messaggio papale
poteva scorgersi una certa contrarietà a cambiamenti
istituzionali, ma era abbastanza noto che i due maggiori
collaboratori del Pontefice, i monsignori Montini e
Tardini, fossero uno più propenso alla soluzione
repubblicana e l’altro al mantenimento della Monarchia.
Del resto nessuna pressione era stata esercitata sul
partito democratico cristiano che si era pronunciato nel
suo congresso prima del referendum a maggioranza degli
iscritti (circa un milione) particolarmente i giovani ed
i maggiorenti del partito, per la repubblica,
maggioranza che non corrispose a quella dei suoi
elettori che furono 8.083.208
(ottomilioniottantatremiladuecentootto) dei quali la
stragrande maggioranza votò per la Monarchia.
Nella giornata
dell’8 giugno da parte del Presidente dell’Unione
Monarchica Italiana, Tullio Benedetti, che era stato
eletto alla Costituente con il Blocco Nazionale della
Libertà, viene inviata una lettera all’ammiraglio Stone
per sottolineare la irregolarità del referendum, ma la
lettera rimane senza risposta. Gli anglo-americani
pilatescamente si lavano le mani circa le vicende
elettorali ed a nulla pure giova un incontro del
generale Infante sempre con Stone, malgrado una amicizia
personale tra i due militari. La Monarchia, abbandonata
anche da generali spergiuri e da una parte della
nobiltà, da sola aveva affrontato la battaglia
referendaria e sola era anche adesso, con il solo
popolo, altrimenti non si spiegherebbero i milioni di
voti ottenuti, mentre i “poteri forti” nazionali ed
internazionali avevano parteggiato per la repubblica,
facendo in particolare, per quelli nazionali, della
Monarchia il “capro espiatorio” delle loro colpe ben
maggiori, per cui, come scrisse un grande giornalista
liberale, Manlio Lupinacci, “la Monarchia non è stata
sconfitta, è stata tradita”. Del resto gli americani
erano fondamentalmente e storicamente contrari alle
monarchie e nel Regno Unito, dal 1945, non vi era al
governo Churchill, di cui conosciamo i lusinghieri
giudizi sulla figura di Umberto, battuto alle elezioni
dal laburista Attlee.
Queste manovre di
esponenti del governo sulla magistratura per affrettare
la proclamazione della repubblica, con pressioni e
motivazioni menzognere sul Presidente Pagano portano ad
una riunione ufficiale della Corte Suprema di
Cassazione, il pomeriggio del 10 giugno, a Montecitorio
nella Sala della Lupa, ma il Presidente Pagano si limita
alla lettura dei dati pervenutigli, con i voti
attribuiti alle due forme istituzionali, rinviando ad
una successiva seduta i dati definitivi. Questa lettura
provoca un grande scorno nel campo repubblicano e dà
motivo al Re, di attendere, sempre sereno e fiducioso,
la seconda riunione, da tenersi dopo l’esame delle
contestazioni, delle proteste, dei reclami e dei
ricorsi.
Il Guardasigilli
Togliatti non era stato però in tutti i mesi precedenti
con le mani in mano per cui la Suprema Corte aveva già,
al suo interno, una parte “governativa”, guidata dal
Consigliere Brigante, e di questo si sarebbe avuta la
prova in occasione della discussione del ricorso sul
numero dei votanti, quando contro il parere espresso dal
Procuratore Generale, 12 consiglieri votarono contro
l’accoglimento dei ricorsi e solo sette, compreso il
Presidente Pagano, a favore. Perciò si doveva mettere il
Re di fronte al “fatto compiuto”, e dal 10 al 12 giugno
si susseguono tra il Presidente del Consiglio, De
Gasperi, Lucifero ed il Re incontri e scontri, per
costringerLo a partire, tanto che il Re, in quella che
sarebbe stata l’ultima notte in territorio italiano,
pernottò in una abitazione privata, a via Verona 3,
raggiungibile solo attraverso il generale Graziani, dopo
essere stato a cena a casa dell’amico giornalista Luigi
Barzini, circostanza che denota la tranquillità del Re
che non immaginava quanto stava avvenendo nel Consiglio
dei Ministri. Ed il Ministro Lucifero quando si reca da
Lui il 13 mattina alle 8,30, con il comunicato del
Governo che proclamava De Gasperi, quale Presidente del
Consiglio, nuovo capo dello stato, facendo del Sovrano
un privato cittadino, trova il Re già al corrente,
perché avvertito dal Barzini, così da questa ora
iniziano, per terminare alle 15,30 le sette ore più
drammatiche della vita del Re e della moderna storia
d’Italia.
Epilogo
In queste ore
infatti si decide se e come reagire alla decisione del
Governo, presa alle 2 di notte, con il voto unanime del
Consiglio dei Ministri, eccettuato il voto del liberale
Leone Cattani, Ministro dei Lavori Pubblici, e
l’astensione di De Courten, ministro della Marina, che
si riteneva ministro tecnico. Si scontrano nuovamente i
fautori di una risposta forte, che già il Re in
precedenza aveva respinto perché avrebbe portato
fatalmente alla guerra civile, che per il Sovrano, e lo
era stato anche per il Padre in occasione di determinate
decisioni (firma cosiddette leggi razziali ed entrata in
guerra nel 1940, che ora ipocritamente gli vengono
rinfacciate), significava un trono macchiato di sangue e
la rottura dell’unità nazionale che era stata raggiunta
proprio con e grazie alla Casa Savoia. A queste
considerazioni storico politiche si aggiungeva la
profonda fede religiosa di Umberto alieno dalla violenza
ed il suo senso di responsabilità ed umanità, perché
fossero evitati nuovi morti.
Le quattro
alternative erano le seguenti: dimettere il Ministero
ribelle e nominarne uno nuovo; tacere ed andare avanti
come se nulla fosse accaduto; rimanere protestando;
protestare e partire. Il Re respinse subito i primi due,
mentre ci si soffermò sul terzo, in quanto alcuni
consiglieri ritenevano che il Re, con la sua sola
presenza in Roma poteva esercitare una influenza morale
sulla Corte di Cassazione, essere cioè l’unica vera
forza per coloro che intendevano rispettare la legge.
Anche questa ipotesi fu però scartata per cui rimase
l’ultima e fu questa che il Re scelse. Si apriva però il
problema di una legittima protesta e quindi della
stesura del proclama che partendo, Umberto II, avrebbe
indirizzato alla nazione. Proclama alto e preciso nella
rivendicazione dei diritti calpestati, ma netto
altrettanto nell’invito ai monarchici di astenersi da
qualsiasi atto di rivolta verso le nuove istituzioni.
I consiglieri del
Re in questa ultima mattina furono, come già in
precedenza, il giurista Carlo Scialoia, il senatore
Alberto Bergamini ed i politici Enzo Selvaggi e Roberto
Lucifero, che insieme con Bergamini erano stati eletti
alla Costituente nel già citato Blocco della Libertà, e,
logicamente il Ministro della Real Casa. I “politici”
erano per una risposta forte e fino all’ultimo pregavano
il Re, “Maestà non parta”, ma, tenuto conto della
volontà del Sovrano, addivennero alla stesura di quel
messaggio agli italiani, dove, dopo una prima bozza in
cui si definiva l’atto del Governo, come un “colpo di
stato”, si affermava egualmente chiaro e forte che si
era trattato di “un gesto rivoluzionario, unilaterale ed
arbitrario”, che aveva posto il Re nella alternativa da
Lui rifiutata “di provocare spargimento di sangue”. Così
Umberto II compiva, con la partenza per l’esilio un
“sacrificio nel supremo interesse della Patria”, ma
elevava al tempo stesso una ferma protesta contro la
violenza perpetrata. Ma a questa protesta il Re faceva
seguire, coerente con la nobiltà del suo atteggiamento
tenuto dal 5 giugno del 1944, un invito ai monarchici di
continuare ad operare per il bene della nazione,
sciogliendo infine, quanti lo avevano prestato, dal
giuramento di fedeltà al Re, ma non alla Patria.
Così, alle ore
16,09 del 13 giugno, il velivolo “S.M.95”, ovvero un
“Savoia Marchetti”, con a bordo Umberto II, si levava in
volo, dall’aeroporto di Ciampino, e contemporaneamente
veniva ammainata la bandiera tricolore con scudo sabaudo
e corona reale, dalla Torre del Quirinale.
Considerazioni finali
Solo oggi dopo 72
anni si può capire e constatare che, ammainando quella
bandiera, che era quella del Risorgimento e della Unità
Nazionale, non si ammainava un pezzo di stoffa, ma un
insieme di valori dalla fedeltà, all’onore, all’amor di
Patria, alla lealtà, al senso del servizio verso lo
Stato ed il Sovrano, allo spirito unitario e nazionale,
che avevano accompagnato prima l’ascesa dell’Italia, ed
allora, anche dopo lutti e dolori della guerra, già ne
stavano accompagnando la ripresa, della quale aveva
posto le basi il vecchio Re, ed ora stava proseguendo il
nuovo Sovrano, come, tardivamente, ed in molti casi,
ipocritamente, riconobbero anche gli avversari.
appendici:
Proclama al popolo italiano in occasione dell’assunzione al trono
– 10 maggio 1946-
“Italiani!
il mio Augusto
Genitore, effettuando il proposito manifestato da oltre
due anni, ha abdicato al trono nella fiducia che questo
Suo atto possa contribuire ad una più serena valutazione
dei problemi nazionali nella pace imminente.
Nell’assumere da Re quegli stessi poteri che ho
esercitato come Luogotenente Generale, ho la piena
consapevolezza delle responsabilità e dei doveri che mi
attendono.
Fiero e commosso
ricordo i Caduti della lunga guerra, i Morti nei campi
di concentramento, i Martiri della liberazione e rivolgo
il mio pensiero agli italiani della Venezia Giulia e
delle terre d’oltremare che invocano di rimanere
cittadini della Patria comune, ai prigionieri di cui
aneliamo il ritorno, ai reduci a cui dobbiamo ogni
riconoscenza, a tutte le incolpevoli vittime della
immane tragedia della Nazione.
La volontà del
popolo espressa nei comizi elettorali determinerà la
forma e la nuova struttura dello Stato, non solo per
garantire la libertà del cittadino e l’alternarsi delle
parti al potere, ma per porre altresì la Costituzione al
riparo da ogni pericolo e da ogni violenza, Nella
rinnovata Monarchia costituzionale, gli atti
fondamentali della vita nazionale saranno subordinati
alla volontà del Parlamento, dal quale verranno anche le
iniziative e le decisioni per attuare quei propositi di
giustizia sociale che, nella ricostruzione della Patria,
unanimi perseguiamo. Io non desidero che essere primo
fra gli Italiani nelle ore dolorose, ultimo nelle liete,
e nelle une e nelle altre restare vigile custode delle
libertà costituzionali e dei rapporti internazionali che
siano fondati su accordi onorevoli ed accettabili.
Italiani!
Mentre nel mondo
sussistono divergenze e divisioni e affannosamente si
ricerca la via della pace, diamo esempio di concordia
nella nostra Patria martoriata, con quella tolleranza
che ci è suggerita dalla nostra civiltà cristiana.
Stringiamoci tutti intorno alla Bandiera sotto la quale
si è unificata la patria e quattro generazioni di
italiani hanno saputo laboriosamente vivere ed
eroicamente morire.
Davanti a Dio
giuro alla nazione di osservare lealmente le leggi
fondamentali dello Stato che la volontà popolare dovrà
rinnovare e perfezionare. confermo altresì l’impegno di
rispettare, come ogni italiano, le libere determinazioni
dell’imminente suffragio che, ne sono certo, saranno
ispirate al migliore avvenire della Patria
Messaggio del Re Umberto II all’atto della partenza - 13 giugno
1946-
Italiani!
Nell’assumere la
Luogotenenza Generale del Regno prima, e la Corona poi,
io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo,
liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello
Stato. Eguale affermazione ho fatto subito dopo il 2
giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni
della Corte Suprema di Cassazione,alla quale la legge ha
affidato il controllo e la proclamazione dei risultati
definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione
dei dati provvisori e parziali fatti dalla Corte
Suprema, di fronte alla sua riserva di pronunciare entro
il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere
il numero dei votanti e dei voti nulli ; di fronte alla
questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare
la maggioranza, io ancor ieri, ho ripetuto ch’era mio
diritto e dovere di Re attendere che la Corte di
Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale
repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.
Improvvisamente,
questa notte, in spregio alle leggi ed al potere
indipendente della magistratura, il governo ha compiuto
un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale
ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto
nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di
subire la violenza.
Italiani!
Mentre il Paese
da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue
frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo,
io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché
altro dolore ed altre lacrime siano risparmiate al
popolo che già tanto ha sofferto.Confido che la
Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di
libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la
sua libera parola ; ma, non volendo opporre la forza al
sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il
Governo ha commesso, io lascio il suolo del mio Paese,
nella speranza di scongiurare nuovi lutti e nuovi
dolori.
Compiendo questo
sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il
dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia
protesta contro la violenza che si è compiuta: protesto
nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e
fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo
destino deciso nel rispetto della legge e in modo che
venisse dissipato ogni dubbio ed ogni sospetto.A tutti
coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a
tutti coloro il cui animo si ribella all’ ingiustizia,
io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a
volere evitare l’acuirsi dei dissensi che minaccerebbero
l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio
dei nostri padri, e potrebbero rendere più gtavi le
condizioni del trattato di pace, Con l’animo colmo di
dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni
sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia
patria.
Si considerino
sciolti dal giuramento di fedeltà del Re, non da quello
verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi
hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove.
Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome
d’Italia ed il mio saluto a tutti gli Italiani.
Qualunque sorte
attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di
me come sul più devoto dei suoi figli.
Viva l’Italia
Roma, 13 giugno
1946
UMBERTO
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1959 (il libro a cura di P. Cacace e F. Perfetti è stato
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S.M. Umberto II nei due anni di Regno, conferenza
tenuta al Circolo REX il 21-1-1990, Editore INGORTP
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Staltari, Umberto II, Istituto Teano, 2003
24) Franco
Garofalo, Un anno al Quirinale, Garzanti
25) Enrica
Lodolo, I Savoia, Piemme, 1998
26) Silvio
Bertoldi, Savoia – Album dei Re d’Italia,
Rizzoli, Milano, 1996
27) Aldo A. Mola,
Umberto II di Savoia, Giunti, 1996
CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
***
A completamento di un ciclo storico, relativo al periodo dall’8
settembre 1943 al 13 giugno 1946, tra i più travagliati
ed anche poco conosciuti della storia del Regno
d’Italia, iniziato con la conferenza “Il Regno d’Italia,
da Brindisi a Salerno”, proseguito con “5 giugno 1944 -
9 maggio 1946 – Due anni difficili: la Luogotenenza di
Umberto di Savoia” concluderà
Domenica 4 febbraio, ore 10.30
il Dr. Ing. Domenico Giglio,
Presidente del Circolo
“9 maggio 1946: Umberto di Savoia da Luogotenente a Re d’Italia”
Sala Italia presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B
(ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed
autobus, “910” ,” 223” e “52”