DICEMBRE 2018
L’imbroglio. L’invidia sociale dei frustrati e degli
incompetenti l’ha spuntata. In attesa del responso delle
urne che riporterà molti a casa hanno votato una manovra
senza prospettive di crescita. Ma che punisce chi ha
studiato e lavorato
di Salvatore Sfrecola
Lo hanno capito in molti, anche coloro i quali si erano
illusi che il Movimento 5 Stelle
avrebbe portato una ventata di novità positiva nel mondo
politico per troppo tempo dominato da professionisti del
sottobosco dei partiti, a Roma, come nelle regioni,
soggetti il cui unico lavoro è stato quello della
pedissequa esecuzione di incarichi e consulenze, spesso
inutili, richiesti dai politici. La ventata di novità,
tuttavia, non c’è stata. I pentastellati, come vengono
definiti dalla stampa, si sono presto dimostrati come
gli altri. In più mossi da un livore nei confronti di
quanti occupano ed hanno occupato posizioni
professionali ben remunerate, conquistate con sacrifici
di anni, di studi, di concorsi, di impegni continui di
lavoro e di aggiornamento, spesso nei giorni festivi
sottratti alle famiglie. Anche d’estate perché le ferie
nei posti di responsabilità, certamente dovute, sono un
optional. Chiunque ha fatto questa esperienza o
l’ha sperimentata in famiglia può testimoniarlo.
La novità sta nel fatto che il M5S ha portato in
Parlamento ed al Governo personaggi senza esperienza e,
nella migliore delle ipotesi, con scarsa cultura
generale. E se si è potuto scherzare sui congiuntivi o
sulla consecutio temporum di alcuni, c’è meno da
ridere sull’ignoranza istituzionale nei dibattiti quasi
rivendicata con “lo dice lei” dalla modesta Laura
Castelli inopinatamente messa a fare il
Sottosegretario al Ministero dell’economia e delle
finanze, mentre l’evanescente Danilo Toninelli,
messo alla guida di un ministero fondamentale, è
divenuto presto lo zimbello preferito di Facebook.
Incapaci ma velleitari, decisi a farla pagare ai ricchi.
Non a quelli che si sono arricchiti evadendo il fisco,
tanto è vero che di lotta all’evasione fiscale non si
parla più, ma a quelli che hanno conquistato posizioni
sociali con impegno personale durato anni, nei quali
hanno pagato fior di contributi a fronte dei quali lo
Stato, la Repubblica Italiana, ha promesso una
determinata pensione sempre richiamata dal Ministro del
lavoro Luigi Di Maio al lordo, una
cifra destinata a fare effetto e della quale nessuno
dice essere falcidiata di oltre il 40 per cento. Una
pensione sulla quale tutti hanno fatto conto,
impegnandosi nell’acquisto di beni per i figli ed i
nipoti ai quali hanno assicurato studi e somme che hanno
concorso ai consumi di ogni genere. Quei consumi che
sono funzionali alla produzione e, conseguentemente,
all’occupazione.
Agli invidiosi pentastellati non va bene. Forse anche
loro sono stati aiutati da padri e nonni. Adesso
vogliono il sangue di chi guadagna stipendi e pensioni,
molto inferiori, va detto di quelli che in altri paesi
dell’Unione europea ricevono i pubblici dipendenti.
Perché ovunque gli stati che devono rendere servizi alla
comunità reclutano i migliori, quelli che, pur avendo
altre occasioni nel mercato del lavoro, hanno scelto di
servire le istituzioni pubbliche e ne sono orgogliosi.
Ovunque i dipendenti pubblici sono selezionati e pagati
bene. In nessun paese serio l’impiego pubblico è
considerato di serie B.
E così gli invidiosi, che sono anche incompetenti, hanno
partorito le norme sulle pensioni inserite nella legge
di bilancio. Incompetenti perché non considerano gli
effetti delle misure adottate.
Innanzitutto gli effetti del mancato rispetto, da parte
dello Stato, delle promesse fatte nei confronti di
coloro dai quali ha preteso contributi. La qualcosa,
ovviamente, non preoccupa solamente i pensionati ma
anche i dipendenti in servizio i quali d’ora in poi non
saranno più certi del loro futuro. Non è solo una
questione di promesse non mantenute. È incrinato un
principio fondamentale in uno stato di diritto, quello
della certezza dei diritti che non possono essere negati
con effetto retroattivo. Lo Stato può sempre cambiare le
regole, ma d’ora in avanti.
Ma, si dice, la manovra sulle pensioni nasce dalla
esigenza di far fronte alle condizioni di parte della
popolazione che gli indici ISTAT definiscono al di sotto
della soglia di povertà. Cinque milioni, secondo le
stime ripetutamente portate all’attenzione del dibattito
giornalistico e politico. È un fatto grave, sul quale
non è lecito neppure scherzare. Si tratta di situazioni
che derivano dall’inadeguata politica dei governi degli
ultimi anni, quelli che hanno trascurato gli
investimenti necessari per creare crescita e con essa
lavoro. Questa è l’Italia nella quale, se Cristo si è
fermato ad Eboli, come titola il bel libro di
Carlo Levi, l’alta velocità si è fermata a Salerno,
ignorando la parte più bisognosa di sviluppo del Paese,
quella che potrebbe dare molto all’economia, attraverso
l’agricoltura e la trasformazione dei suoi prodotti
straordinari e il turismo, risorsa unica che dovrebbe
essere messa in condizione di valorizzare arte e
ambiente, creando ricchezza e posti di lavoro, quelli
che non sono messi in forse dalla tecnologia digitale e
dai robot. Una guida turistica, i gestori e gli
operatori delle strutture recettive non possono essere
sostituiti da macchine. Eppure non si fa nulla, neppure
per dar vita a strutture di eccellenza laddove le stelle
che indicano alberghi e ristoranti andrebbero dimezzate
quando non azzerate. Ma nessuno controlla. Così si
diffonde la voce dell’inadeguatezza e il Sud segna il
passo, quando non regredisce.
Vengono da lì molti dei pentastellati ma non hanno idee
e se le hanno non sanno metterle in pratica se non negli
slogan alla Matteo Renzi, un maestro pifferaio
anche lui presto abbandonato dai suoi elettori in una
discesa inarrestabile, consultazione dopo consultazione,
essendosi illuso che quel 40 e dispari per cento alle
europee fosse autentico e non dovuto agli 80 euro appena
elargiti per sollecitare i consumi e, invece,
tesaurizzato in attesa di tempi migliori.
Farà la stessa fine Luigi Di Maio? È molto
probabile. E non per i congiuntivi che pure dovrebbe ben
conoscere chi ha frequentato, si legge, il liceo
classico, ma perché si è fatto promotore di una riforma,
quella del “reddito di cittadinanza” che, se applicata
correttamente, deluderà molti di una popolazione fin qui
sopravvissuta grazie al lavoro nero al quale certamente
non vorrà rinunciare, perché vantaggioso, se non altro
perché esentasse. Se ne è reso conto anche il giovanotto
di Pomigliano d’Arco tanto è vero che ha ridotto, sia
pure su indicazione della Commissione Europea, la somma
stanziata per quella finalità. Minaccia controlli degli
Uffici del lavoro e della Guardia di Finanza per
verificare che colui il quale usufruisce di quella
somma, i 780 euro mensili, forse, ne abbia veramente
diritto. E se non basteranno i controlli istituzionali
molto farà il controllo sociale perché è evidente che ci
sarà la caccia all’abusivo e la delazione fornirà alle
autorità preposte, anche alla magistratura, nomi,
cognomi e indirizzi di quanti stanno truffando lo Stato.
Abbiamo detto di incompetenti, velleitari e frustrati,
perché incapaci o sfortunati, privi di adeguata
istruzione, anche professionale. Non cercano lavoro,
semmai lo vorrebbero sotto casa vicino a mammà, ben
pagato, al di là della loro competenza, magari da unire
ad un lavoretto complementare, naturalmente in nero.
E vediamo di fare un po’ di conti. Ho già scritto su
La Verità che togliere ad alcuni per dare ad altri,
a parte i profili di illegittimità e di ingiustizia di
cui ho detto, non determina quell’incremento dei consumi
che favorisce la produzione e nuovi posti di lavoro. Mi
sembra elementare che se i nonni perdono 100 per effetto
della riduzione degli assegni pensionistici e se quei
100 vanno a figli e nipoti il risultato dell’operazione
è pari a zero. E zero è l’incremento dei consumi perché
quello che compravano i nonni, con la stessa cifra
comprano figli e nipoti. Poi si deve tener conto del
fatto che una pensione inferiore, calcolata al lordo,
determina una riduzione dell’imposta. La somma algebrica
della minore pensione e della minore imposta determina
un risultato positivo idoneo a finanziare il reddito e
la pensione di cittadinanza? È improbabile e comunque, a
conti fatti, è una goccia d’acqua nel mare del fondo
ad hoc.
Vediamo adesso le norme (i commi da 260 a 268 dell’art.
1 della legge di bilancio) sul blocco della
rivalutazione automatica e, di seguito, quelle sulla
riduzione degli assegni, anche per sollecitare le
osservazioni dei lettori.
Le riportiamo pedissequamente perché ognuno possa farsi
un’idea indipendentemente dai riassunti che ne danno
giornali e televisioni.
“260. Per il periodo 2019-2021 la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta:
a)
per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o
inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, nella
misura del 100 per cento;
b)
per i trattamenti pensionistici complessivamente
superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti
medesimi:
1)
nella misura del 97 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente pari o inferiori a
quattro volte il trattamento minimo INPS. Per le
pensioni di importo superiore a tre volte il predetto
trattamento minimo e inferiore a tale limite
incrementato della quota di rivalutazione automatica
spettante sulla base di quanto previsto dalla lettera a),
l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a
concorrenza del predetto limite maggiorato. Per le
pensioni di importo superiore a quattro volte il
predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite
incrementato della quota di rivalutazione automatica
spettante sulla base di quanto previsto dal presente
numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito
fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
2)
nella misura del 77 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a quattro volte
il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque
volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di
importo superiore a cinque volte il predetto trattamento
minimo e inferiore a tale limite incrementato della
quota di rivalutazione automatica spettante sulla base
di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di
rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza
del predetto limite maggiorato;
3)
nella misura del 52 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a cinque volte
il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei
volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di
importo superiore a sei volte il predetto trattamento
minimo e inferiore a tale limite incrementato della
quota di rivalutazione automatica spettante sulla base
di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di
rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza
del predetto limite maggiorato;
4)
nella misura del 47 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a sei volte il
trattamento minimo INPS e pari o inferiori a otto volte
il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo
superiore a otto volte il predetto trattamento minimo e
inferiore a tale limite incrementato della quota di
rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto
previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione
è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto
limite maggiorato;
5)
nella misura del 45 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a otto volte il
trattamento minimo INPS e pari o inferiori a nove volte
il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo
superiore a nove volte il predetto trattamento minimo e
inferiore a tale limite incrementato della quota di
rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto
previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione
è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto
limite maggiorato;
6)
nella misura del 40 per cento per i trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a nove volte il
trattamento minimo INPS.
261.A decorrere dalla data di entrata in vigore della
presente legge e per la durata di cinque anni, i
trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo
pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali
dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive,
esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale
obbligatoria e della Gestione separata di cui
all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n.
335, i cui importi complessivamente considerati superino
100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di
un'aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la
parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro,
pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro
fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte
eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35
per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a
500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte
eccedente 500.000 euro.
262. Gli importi di cui al comma 261 sono soggetti alla
rivalutazione automatica secondo il meccanismo stabilito
dall'articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998,
n. 448.
263. La riduzione di cui al comma 261 si applica in
proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici,
ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al
comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si
applica comunque alle pensioni interamente liquidate con
il sistema contributivo.
264. Gli organi costituzionali e di rilevanza
costituzionale, nell'ambito della loro autonomia, si
adeguano alle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263
e 265 dalla data di entrata in vigore della presente
legge.
265. Presso l'INPS e gli altri enti previdenziali
interessati sono istituiti appositi fondi denominati « Fondo
risparmio sui trattamenti pensionistici di importo
elevato »
in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261
a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate.
266. Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le
risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da
261 a 263, accertate sulla base del procedimento
di cui all'articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n.
241.
267. Per effetto dell'applicazione dei commi da 261 a
263, l'importo complessivo dei trattamenti
pensionistici diretti non può comunque essere inferiore
a 100.000 euro lordi su base annua.
268. Sono esclusi dall'applicazione delle disposizioni
di cui ai commi da 261 a 263 le pensioni di invalidità,
i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla
legge 12 giugno 1984, n. 222, i trattamenti
pensionistici riconosciuti ai superstiti e i trattamenti
riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di
azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980,
n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206.
269. Con apposito decreto del Ministro dell'economia e
delle finanze, da emanare entro novanta giorni dalla
data di entrata in vigore della presente legge, le
risorse iscritte, per l'anno 2019, nello stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze,
afferenti al contributo a carico del datore di lavoro
per la previdenza complementare del personale delle
amministrazioni statali anche ad ordinamento autonomo,
sono ripartite tra gli stati di previsione dei singoli
Ministeri ovvero sono trasferite ai bilanci delle
amministrazioni statali ad ordinamento autonomo secondo
i criteri di riparto di cui all'articolo 2, comma 3, del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20
dicembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 111 del 15 maggio 2000. Il contributo a carico del
datore di lavoro è versato al relativo fondo di
previdenza complementare con le stesse modalità previste
dalla normativa vigente per il versamento del contributo
a carico del lavoratore. Il comma 2 dell'articolo 74
della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è abrogato.”
Il comma 263 prevede che “ferma restando la clausola di
salvaguardia di cui al comma 267”, nel senso che
“l'importo complessivo dei trattamenti pensionistici
diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro
lordi su base annua”, la riduzione “non si applica
comunque alle pensioni interamente liquidate con il
sistema contributivo”. Così risultando smentito quanto
fin qui detto da Di Maio, che le pensioni dovute
a contributi effettivamente versati non sarebbero state
toccate. Per cui è evidente l’incostituzionalità della
norma ove fosse interpretata nel senso che la riduzione
si applicherebbe anche alla parte delle pensioni dovuta
al calcolo effettuato con il sistema contributivo.
Pasticcioni, dunque, oltre che disonesti perché
tradiscono le promesse fatte dallo Stato. Disonesti
anche perché nel dibattito di questi giorni alla
disperata ricerca di risorse non si fa riferimento
alcuno alla lotta all’evasione fiscale, argomento al
quale ricorrono solitamente i governi alla ricerca di
risorse. E se si pensa che l’evasione, dati
dell’Amministrazione finanziaria, è stimata in oltre 100
miliardi di euro annui non sarebbe stato difficile
recuperarne un 10 per cento per far fronte alle
esigenze. Il fatto è che il “partito degli evasori
fiscali” è trasversale e si accompagna anche al lavoro
nero, quello che, secondo alcuni, tiene su il Paese,
trascurando che il Paese lo tengono su quanti pagano le
imposte al posto degli evasori. Un grande imbroglio
dovuto alla incapacità di chi ci governa che avrebbe
potuto scegliere una strada diversa, alleggerendo le
imposte e contestualmente rendendo il sistema fiscale
più chiaro ed equo in modo da avviare quella
generalizzata riduzione del carico tributario tanto
sbandierata in campagna elettorale, con la flat tax
e non solo.
Tuttavia i partiti di governo trascurano di considerare
che in un contesto economico finanziario nel quale si
manifestano spinte recessive non avere un grande
programma per la crescita e lo sviluppo che mobiliti,
insieme a risorse pubbliche, anche quel rilevante
risparmio privato, del quale i nostri politici si
riempiono la bocca quando vogliono minimizzare il
rilevante debito pubblico, rischia di essere pagato in
sede elettorale. Anche dalla Lega che pure con
Matteo Salvini ha saputo
corrispondere alle istanze popolari in tema di
sicurezza. Un partito che si pone come stabile
espressione del ceto produttivo anziché dei fannulloni
fan di Di Maio non può cedere alle pressioni del
Masaniello di turno se non per scaricarlo quanto prima.
26 dicembre 2018
Il governo “del cambiamento” ma non nella lotta
all’evasione fiscale
di Salvatore Sfrecola
“Fate caso, si parla di tutto ma non di lotta
all’evasione fiscale per recuperare un po’ di
spiccioli”. Questa frase, postata su Facebook ha
riscosso una valanga di like e di condivisioni.
Il Governo “del cambiamento”, di cui tanto si riempie la
bocca Luigi Di Maio, in realtà non cambia nella
lotta all’evasione fiscale, assolutamente inadeguata,
perché l’unica lotta di cui si ha notizia all’Agenzia
delle entrate è quella per gli incarichi
pseudodirigenziali, tra chi ne rivendica la proroga
(spuntata, tra l’altro, in Senato in un emendamento alla
legge di bilancio) o il consolidamento e chi chiede,
invece, che si facciano finalmente concorsi come la
Costituzione prescrive e come la Consulta ha ricordato
già al predecessore del Ministro Giovanni Tria,
quel Pier Carlo Padoan che mai ha esercitato
quell’alta vigilanza che la legge gli attribuisce sulle
agenzie fiscali.
Ma andiamo per ordine. Iniziando da quanto pensano
dell’amministrazione deputata all’accertamento e alla
riscossione delle imposte personalità del giornalismo,
della politica e della giustizia. Federico Rampini,
giornalista di Repubblica, corrispondente dagli
Stati Uniti, nel corso di una puntata di Piazza
pulita ha affermato, richiamando la sua esperienza
di contribuente “americano”, che “l’Italia ha una delle
amministrazioni fiscali più scassate dell’Occidente”.
Infatti l’evasione fiscale, per ammissione della stessa
Amministrazione, supera i 100 miliardi di euro annui,
più di tre manovre di bilancio. E Riccardo Fraccaro,
oggi Ministro per i rapporti con il Parlamento, quando
parlava da esponente del Movimento 5 Stelle
invitava i cittadini a ribellarsi al fisco ingiusto e
rapace. E denunciava che nelle agenzie fiscali ci sono
circa 800 ex funzionari che non hanno vinto un concorso
per entrare nella dirigenza, ma sono hanno avuto un
incarico di funzioni dirigenziali. Ma non è finita qui.
Fraccaro rivendicava al
Movimento Cinque Stelle di aver scoperto che nelle
agenzie fiscali ci sono 340 indagati per gravi reati
come la corruzione. E si chiedeva perché sono sempre i
soliti a pagare le tasse, dipendenti e pensionati, e
comunque cittadini che magari fanno fatica arrivare a
fine del mese. Per lui si trattava di “uno scandalo, una
schifezza assoluta”, come il tentativo del Governo PD di
tirar fuori l’agenzia delle entrate e delle dogane dal
perimetro della pubblica amministrazione per eludere le
regole che obbligano a reclutare la dirigenza con
concorsi “fatti per bene”. E concludeva “cercheremo di
bloccare questo schifo”. Lo stesso parlamentare, adesso
che è al governo, tace nonostante non possa non
percepire che monta la rivolta tra i contribuenti
onesti, quelli che pagano fino all’ultimo centesimo, i
lavoratori dipendenti e, soprattutto, i pensionati ai
quali si vuole di nuovo chiedere un “contributo di
solidarietà” bloccando rinnovi contrattuali e
adeguamenti stipendiali e financo prevedendo una
riduzione delle pensioni in barba ai diritti maturati in
ragione dei contributi effettivamente versati.
In tema di funzionalità delle agenzie fiscali interviene
anche Salvatore Giacchetti, Presidente aggiunto
onorario del Consiglio di Stato, un magistrato di grande
esperienza e di straordinario equilibrio, il quale ha
parlato senza mezzi termini di “mancanza del comune
senso del pudore normativo”, a proposito dell’annosa
vicenda delle posizioni dirigenziali nell’ambito
dell’Agenzia delle entrate, e alla ripetuta elusione
delle sentenze dei giudici amministrativi e perfino
della Corte costituzionale messa in campo
dall’Amministrazione anche attraverso tentativi di
sanatorie legislative.
La vicenda prende le mosse dalla istituzione delle
agenzie fiscali, quando, nelle more dei concorsi, alcuni
funzionari furono incaricati dell’esercizio di funzioni
dirigenziali. Inizialmente nominati per un triennio, poi
ripetutamente prorogati con varie disposizioni
legislative di comodo giustificate da asserite urgenti e
indifferibili esigenze di funzionamento. In realtà si
voleva mantenere un corpo di funzionari di provata fede
nominati al di fuori di un ordinario concorso pubblico,
come prescrive l’art. 97, comma 3, della Costituzione
(“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si
accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla
legge”), una regola tante volte richiamata dalla
Consulta quante volte ignorata dalle Agenzie.
L’intervento della Corte costituzionale nel 2015
(sentenza n. 37) è stato patrocinato da una ordinanza
del Consiglio di Stato del 2013 che aveva sollevato
questione di legittimità del decreto legge n. 16 del
2012 che, nel dettare norme “in materia di
semplificazioni tributarie, di efficientamento e
potenziamento delle procedure di accertamento”, aveva
autorizzato le agenzie fiscali ad espletare procedure
concorsuali per la copertura delle posizioni
dirigenziali vacanti prevedendo che, nelle more
dell’espletamento di quelle procedure, le agenzie
potessero “attribuire incarichi dirigenziali a propri
funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo
determinato, la cui durata è fissata in relazione al
tempo necessario per la copertura del posto vacante
tramite concorso”. Questi incarichi da attribuire con
“apposita procedura selettiva” avrebbero consentito a
funzionari, privi della relativa qualifica, di accedere
senza aver superato un pubblico concorso, ad un ruolo
diverso nell’ambito della propria amministrazione, così
eludendo la regola costituzionale anche con un vulnus
ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento
dell’azione amministrativa, poiché permettendo
l’attribuzione di incarichi a funzionari privi della
relativa qualifica, “consentirebbe la preposizione ad
uffici amministrativi di soggetti privi dei requisiti
necessari, determinando una diminuzione delle garanzie
dei cittadini che confidano in un amministrazione
competente, imparziale ed efficiente”.
La Corte costituzionale, pur rilevando che la norma “non
conferisce in via definitiva incarichi dirigenziali a
soggetti privi della relativa qualifica, bensì consente,
in via asseritamente temporanea, la soluzione di tali
incarichi da parte di funzionari, in attesa del
completamento delle procedure concorsuali”, ha
sottolineato come “l’aggiramento della regola del
concorso pubblico per l’accesso alle posizioni
dirigenziali in parola si rivela, sia alla luce delle
circostanze di fatto, precedenti a successivi alla
proposizione della questione di costituzionalità, nelle
quali la disposizione impugnata si inserisce, sia
all’esito di un più attento esame della fattispecie
delineata dall’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del
2012”. Concludendo che il protrarsi delle suddette
proroghe di comodo “ha contribuito all’indefinito
protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente
temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla
copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei
vincitori di una procedura concorsuale aperta e
pubblica”. Nella stessa occasione la Corte ha negato che
l’attribuzione di tali incarichi rispondesse
effettivamente ad urgenti e indifferibili esigenze di
funzionamento ed ha contestualmente annullato tutte le
disposizioni di comodo, rendendo di conseguenza nulli e
quindi non più valutabili tutti gli incarichi attribuiti
in base ad esse.
Naturalmente come accaduto altre volte, in Italia non
c’è niente di più definitivo di ciò che è precario, come
desiderano i fortunati “incaricati” che, per la
posizione assunta nell’ambito degli uffici sono in
condizione di premere sull’amministrazione perché in
qualche modo consolidi la loro posizione. Il ministro
Padoan non si era dato carico di questa pronuncia
della Corte costituzionale e aveva consentito alle
agenzie di attribuire agli ex incaricati “Posizioni
Organizzative Speciali” (POS) e nel corso del giudizio
di impugnazione delle POS la fantasia burocratica ha
prodotto le POT, “Posizioni Organizzative Transitorie”.
Come in una sorta di resurrezione gli ex incaricati
hanno ripreso di colpo le stesse funzioni con una nuova
etichetta. Cosa che - scrive Giacchetti – “in uno
stato normale avrebbe dovuto essere qualificato un
artificio e un raggiro per eludere il dictum
della Corte con il puerile escamotage di
ridenominare in modo diverso (mantenendone invariato il
contenuto) gli stessi incarichi dirigenziali in
precedenza dichiarati illegittimi dalla Corte
costituzionale”. “Artificio e raggiro”, una endiadi che
in diritto identifica la fattispecie delittuosa della
truffa. E adesso le “Posizioni Organizzative Speciali”
diventano “Posizioni organizzative per lo svolgimento di
incarichi di elevata responsabilità, alta
professionalità o particolare specializzazione” (POER),
come previsto dall’art. 1, comma 93, della legge
205/2017 introducendo ancora una disciplina derogatoria
per l’accesso alle qualifiche dirigenziali. Tra l’altro
prevedendo - ad onta dell’enfasi sulla elevata
responsabilità professionalità e specializzazione - la
partecipazione dei funzionari privi di diploma di laurea
giunti alla terza area con corsi di qualificazione e
senza aver mai partecipato a concorsi per la carriera
direttiva, ancora in violazione della pronuncia della
Corte costituzionale, con la conseguenza che “è assurdo
parlare di efficienza della macchina fiscale di lotta
all’evasione – scrive la CONFEDIR DIRSTAT – considerato
il perenne conflitto tra gli addetti ai lavori costretti
ad assistere quotidianamente alle reiterate violazioni
di leggi”.
Con questa iniziativa (14 novembre 2018) l’Agenzia delle
entrate dimostra di tenere in nessuna considerazione la
sentenza n. 8990 del 16 agosto 2018 con la quale il
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione
Seconda ter, pronunciando su un ricorso avverso il
silenzio serbato dall’Agenzia delle entrate sulle
richieste contenute in una diffida diretta a ottenere
l’accertamento dell’obbligo dell’Agenzia di provvedere a
bandire il concorso pubblico a 403 posti dirigente, per
soli esami, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 del
decreto-legge numero 78 del 2015, ha affermato che
l’Agenzia delle entrate è giuridicamente tenuta
“all’espletamento della nuova procedura concorsuale” da
prevedere “per soli esami”, escluso quel riferimento ai
titoli che nell’ottica dell’amministrazione avrebbe
dovuto premiare gli incaricati rispetto a coloro i quali
accedono dall’esterno ed agli interni privi di incarichi
di funzioni dirigenziali, così premiando coloro i quali
sono stati incaricati delle posizioni organizzative
variamente denominate, letteralmente inventate di volta
in volta per aggirare la pronuncia della Corte
costituzionale.
Nuovi ricorsi in vista, dunque, al cui esito i direttori
dell’Agenzia non pagheranno mai di persona. A pagare
sarà lo Stato soprattutto con l’inefficienza in un
settore, quello dell’amministrazione tributaria, che
avrebbe dovuto essere la principale cura di un Paese
serio rispettoso delle leggi e dei diritti dei
cittadini, di quelli a reddito fisso, dipendenti e
pensionati, che sono coloro i quali pagano le imposte
statali e le addizionali regionali, cioè reggono lo
Stato, e vengono sistematicamente beffati qualunque sia
il colore dei partiti al governo. Anzi, grazie ai
Cinque Stelle si va verso una forma assistenziale
che darà luogo a inevitabili abusi denominata “reddito
di cittadinanza”, una presa in giro delle persone
perbene perché i destinatari di quella erogazione nella
maggior parte continueranno a lavorare in nero godendo
anche del sussidio statale. Un capolavoro di ipocrisia e
di incapacità di governare.
Battuti ripetutamente in sede giudiziaria le agenzie ed
il governo hanno pensato di percorrere la via
legislativa in attesa di qualche nuova pronuncia della
Corte costituzionale.
Da queste vicende la CONFEDIR DIRSTAT, in persona del
suo Segretario generale aggiunto, Dottor Pietro Paolo
Boiano, ha tratto lo spunto per invitare il
direttore dell’Agenzia delle entrate, Antonino
Maggiore, un Generale della Guardia di Finanza dal
quale ci si attendeva maggiore rispetto per la
Costituzione, le leggi e la Corte constituzionale, a
“chiudere definitivamente un circolo vizioso che dura
ormai da troppo tempo ed ha fatto male sia alla massima
Agenzia fiscale , come a tanti suoi collaboratori”.
Aggiungendo che “nel marasma che regna negli uffici
diventa poi proibitivo contrastare efficacemente il
diffuso fenomeno della evasione fiscale che richiede un
massiccio impiego di risorse umane e finanziarie”. Per
concludere che “il nuovo corso, detto del cambiamento,
si auspica che faccia del riassetto della dirigenza
pubblica una questione di legalità. Basta precludere
ogni varco di accesso a dirigenza diverso dal concorso e
il problema è risolto”.
20 dicembre 2018
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia europea
Tra le carte che si sono accumulate in questi ultimi
tempi sulla mia scrivania, ho rinvenuto un articolo di
particolare interesse, succinto ma di sicura efficacia,
a firma di Carlo Nordio Un patto per l’Europa: la
giustizia creativa, apparso su Il
Messaggero del 25 luglio 2018, ancora oggi di
indubbia attualità.
Viene, infatti, presa in considerazione una decisione
della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sospeso
lo sgombero di un campo Rom disposto dal Comune di Roma.
Tale atto “si inserisce in quel filone di cosiddetta
giustizia creativa…epilogo di un lungo processo di
irrazionalismo modernista”.
Una decisione di tal fatta, scritta con l’ausilio della
bacchetta del rabdomante, non può che orbitare al di
fuori del pianeta Giustizia, in quanto inidonea a
tutelare le posizioni giuridiche soggettive dei
cittadini, sostanziandosi in ulteriore florilegio di cui
l’Europa periodicamente ci gratifica.
Altro recente intervento, ma di diversa consistenza,
della giustizia europea si rinviene nella pronuncia
della Corte giustizia UE, grande sezione, 12 febbraio
2008, n. 2, secondo la quale nell’ambito di un
procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto
al riesame di una decisione amministrativa divenuta
definitiva in virtù di una sentenza emessa da un giudice
di ultima istanza che, alla luce di una giurisprudenza
successiva della Corte, risulta basata su
un’interpretazione erronea del diritto comunitario; tale
diritto non richiede che il ricorrente nella causa
principale abbia invocato il diritto comunitario
nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto
interno dal medesimo proposto contro tale decisione.
Inoltre, il diritto comunitario non impone alcun limite
temporale per presentare una domanda diretta al riesame
di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli
Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare
termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai
principi comunitari di effettività e di equivalenza.
Giustizia nazionale
Il Presidente del Consiglio di Stato, a conclusione
della Relazione svolta in occasione dell’inaugurazione
dell’anno giudiziario 2018, aveva richiamato, come aveva
già fatto in quella dell’anno precedente, l’autorevole
insegnamento del Prof. A.M. Sandulli secondo il quale
“dove la giustizia dell’amministrazione non è completa e
perfetta, la libertà e la democrazia non possono ancora
considerarsi conquistate”.
Ma, a dire il vero, non sembra che fino ad oggi si siano
verificati significativi passi in avanti verso tali
traguardi.
A ben vedere, la Relazione di cui trattasi è lastricata
abbondantemente di buone intenzioni che sembrano, però,
destinate a rimanere allo stato di mere enunciazioni e
non a tradursi in principi di concreta applicazione,
quantomeno in tempi ragionevoli.
Tra queste, la tanto osannata nomofilachia, cioè a dire
la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge,
che trova purtroppo sistematiche smentite in non poche
sentenze dove l’interpretazione delle norme positive
riposa su discutibili arzigogoli alogici.
Invero, la crisi in cui oggi versa la nostra Giustizia
di ogni ordine e grado è sotto gli occhi di tutti, come
anche evidenzia il clamore mediatico che quotidianamente
suscitano talune deleterie pronunce della magistratura.
Di qui la necessità impellente di porre rimedio,
senz’altri indugi, ad una riforma globale
dell’ordinamento giudiziario che si ponga al passo con i
tempi, satisfattiva delle legittime aspettative dei
fruitori della giustizia che, in caso contrario, rischia
di rimanere definitivamente impantanata in un magma
limaccioso dal quale, forse e senza forse, potrebbe
essere definitivamente inghiottita.
Saccheggi di Roma
E’ di recente in libreria Storia di Roma in
sette saccheggi (Bollati Boringhieri, Torino, 2018),
di Matthew Kneale, storico inglese che vive da quindici
anni a Roma.
Il volume “è una celebrazione del feroce coraggio, brio
e vitalità del popolo romano”, nonché “una lettera
d’amore appassionata per questa città unica al mondo”.
Scrive l’autore, nella pur breve prefazione, che tanto
del passato di Roma è sopravvissuto nonostante la città
abbia subito, nel corso dei secoli, alluvioni
catastrofiche, incendi, terremoti, pestilenze e,
soprattutto, rovinose occupazioni di eserciti nemici.
Il primo saccheggio ricordato nel volume risale al
387 a.C. ad opera dei Galli
guidati da Brenno.
Nel 408 d.C. fu la volta dei Visigoti al comando di
Alarico e, come già precedentemente avvenuto, Roma fu
salva dopo aver pagato un pesante riscatto.
Nel
546, a seguito di un tradimento,
Roma cadeva vittima degli Ostrogoti guidati da Totila.
Nel 1084 Roma subiva il saccheggio dei Normanni di
Roberto il Guiscardo e, nel 1527, quello tremendo dei
Lanzichenecchi che provocò terrore, morte e distruzioni
nell’Urbe.
Correva l’anno 1848 e la sera del 24 novembre il Papa
Pio IX nottetempo fuggiva da Roma riparando a Gaeta e il
9 febbraio 1849 veniva proclamata la Repubblica romana.
Conseguentemente, le truppe francesi, regnante Luigi
Napoleone, alla guida del generale Oudinot, entravano a
Roma. Cadeva così la Repubblica romana ed il Papa,
nell’aprile 1850, faceva ritorno nello Stato Pontificio.
Venuta meno la protezione della guarnigione francese, il
20 settembre 1870 entravano a Roma le truppe del Regno
d’Italia e, a seguito del plebiscito, ne fu sancita
l’annessione all’Italia per divenirne, di lì a poco,
capitale.
Il volume si chiude con l’occupazione di Roma
dell’esercito nazista del 10 settembre 1943, con
richiami di numerosi avvenimenti, anche dolorosi, degni
di particolare rilievo.
L’opera, frutto di accurate ricerche, si legge con
piacere anche per l’agile stile narrativo e i puntuali
richiami alla vita quotidiana dei vari territori
martoriati dai devastanti saccheggi.
14 dicembre 2018
Salvini riparte da Roma per conquistare il Sud
di Salvatore Sfrecola
La piazza osannante il “Capitano”, quella piazza del
Popolo, storica agorà delle grandi manifestazioni
della politica ed oggi della Lega che Matteo Salvini
ha fortemente voluto nazionale ed inclusiva dei vari
ambienti del centrodestra sarà ancora oggetto di
commenti dei giornali e delle televisioni. E si dirà
delle bandiere tricolori sventolate al sole di una
tipica giornata del dicembre romano. Tante bandiere,
prima mai viste nelle manifestazioni della Lega. E si
dirà del discorso del leader, sovranista, ma che cita
San Giovanni Paolo II e l’europeista
Alcide De Gasperi, un po’
democristiano, per soddisfare i moderati, ma anche
prodigo di richiami ad una delle triadi tradizionali
nella cultura della destra, “Dio Patria e Famiglia”, che
apre a tutte le anime, la cattolica tradizionalista
innanzitutto, ma anche la liberale cavourriana, si
potrebbe dire, erede dei Risorgimento sabaudo. E infatti
tra i vessilli tricolore uno recava al centro la “bianca
croce di Savoia”, per dirla con Giosuè Carducci.
Da Roma, da quella piazza stracolma, Salvini
parte a conquistare l’intera Nazione, anche laddove la
Lega ha una presenza recente eppure capace, il 4 marzo,
di sfiorare il risultato in molti collegi nei quali
spesso solo poche migliaia se non centinaia di voti
hanno impedito la prevalenza del candidato del
Carroccio. Voti che non sarà difficile recuperare adesso
che al Governo il vicepresidente e Ministro dell’interno
ha fatto riscoprire la presenza dello Stato alla
borghesia delle arti e delle professioni che da tempo al
Sud richiede ordine e sicurezza per poter affermare
intelligenze e volontà che tanto spesso è costretta ad
esercitare al Nord quando non all’estero.
Conquistata Roma Matteo Salvini ha compreso che
da questa città deve partire per affermarsi nelle
regioni meridionali. Roma, infatti, non è soltanto la
capitale d’Italia, il centro della politica parlamentare
e governativa. Il suo humus è quello di una
comunità variegata nella provenienza territoriale. Molti
dei romani di oggi sono di origine meridionale, hanno
avuto in passato ragionevoli dubbi che la Lega sapesse
parlare con la voce della Nazione, al di là di certi
“egoismi” della parte più economicamente sviluppata del
Paese. Ed oggi che Salvini scopre e consolida la sua
visione nazionale della storia e della politica sono
pronti a schierarsi e, quindi, a rassicurare parenti e
amici delle regioni di origine che la Lega non è più
solo del Nord, ma è italiana e nazionale e si apre alla
comprensione delle problematiche antiche e recenti di
aree del paese che hanno grandi potenzialità e
straordinarie prospettive di sviluppo economico e
sociale, fin qui mortificate da politiche miopi, locali
e nazionali. E attendono che la Lega sia capace di
schierare personalità romane originarie del Sud in
posizioni di responsabilità. Personalità tratte dai
ministeri, dai grandi enti pubblici, dalle grandi
università, tra cui “La Sapienza”, la più affollata
d’Europa, dagli ordini professionali e dalle
magistrature superiori, Cassazione, Consiglio di Stato e
Corte dei conti.
Ma è tutto da costruire. Al di là delle buone intenzioni
a Roma la Lega non ha ancora una sede nazionale né
personalità delle istituzioni sono scese in campo il 4
marzo né sono state cooptate negli incarichi di governo
e nelle nomine in enti e istituzioni dove siedono
rappresentanti dei ministeri.
La sfida che attende Salvini e quanti vicino a
lui lo consigliano e lo supportano nelle scelte passa,
dunque, da alcune decisioni di carattere organizzativo e
programmatico che finora si è più sentito che visto,
spesso stoppate dalla incapacità di taluni di
comprendere e, forse, anche dal timore che nuove
capacità messe in campo potessero oscurare i padani duri
e puri della prima ora. Quanto volte, avendo detto a chi
gli proponeva una iniziativa politica o organizzativa
“falla tu”, poi Salvini ha dovuto constatare che
a quella indicazione non è stato dato seguito per
insipienza o gelosia. Defaillance che un partito
nazionale non si può permettere se vuole vincere
dovunque, soprattutto al Sud dove l’incapacità del M5S è
ormai percepita in tutta la sua portata di velleitaria
aspettativa di un riscatto sociale che deve
necessariamente passare da una decisa presa di coscienza
di capacità personali e professionali obnubilate da una
mentalità assistenzialista che la borghesia meridionale
da sempre respinge e che adesso, avendo un riferimento
politico certo, intende superare per restituire
prospettive di sviluppo ad aree del Paese per troppo
tempo mortificate da politiche miopi, locali e
nazionali.
10 dicembre 2018
Attila, re della… Gestapo
Quel che non leggerete sulla spoetizzante prima
di Attila alla Scala
di Dora Liguori
Una delle ossessioni ricorrenti nei registi, definiamoli
d’avanguardia, è quella di spostare i tempi dell’azione
teatrale di un’opera che, affidata alle loro cure,
viene, dai tempi previsti da quei “deficienti” degli
autori, scaraventata in altre improbabili epoche. E di
queste trasposizioni, un posto d’onore è riservato al
periodo nazi-fascista. La moda, circa regie di tal
fatta, viene da lontano o meglio proviene dai
“terribili” pronipoti di Wagner: Wieland e Wolfang che,
appunto, nel rinato teatro di Bayreuth del dopoguerra,
misero in scena un “Ring” tutt’altro che filologico.
Anche allora lo scandalo non fu da poco e, quel che è
peggio, nemmeno pochi furono gli imitatori di Wieland,
salvo un piccolo particolare: quasi nessuno di costoro
era in possesso della genialità del discendente di
Wagner, capace di mettere in scena, senza orrori, una
minimalista rappresentazione della Tetralogia… e non
solo di quella. Il pensiero, o chiamiamolo gradimento,
del celeberrimo nonno, per ovvi motivi, non ci è mai
pervenuto.
Tornando ai tanti emuli di Wieland, solo per citare
alcuni casi, fra più eclatanti, siamo stati costretti ad
assistere a una Sonnambula che, insanguinata, vive un
aborto in scena mentre canta “Ah, non credea mirarti”;
una Norma, sacerdotessa non più dei druidi ma
palestinese, che miete il sacro “vischio” nel deserto;
una Giovanna d’Arco, afflitta e perseguitata dalle
incestuose turbe sessuali del padre e un povero Alfredo
della “Traviata” che canta la romanza “Dei miei bollenti
spiriti” mentre stende, col mattarello, la pasta per le
tagliatelle. Al proposito, lo spettatore, avrà pensato
che più che “i bollenti spiriti” di Alfredo, ad essere
bollente avrebbe dovuto essere l’acqua per calare la
pasta.
Cari amici, quanto descrittovi è solo una ridottissima
panoramica di un museo degli orrori che non smette di
offendere le opere d’arte (ché tale è un’opera lirica),
così come offende un pubblico, costretto, per non
privarsi di ascoltare bellissima musica dal vivo, a
chiudere gli occhi, per magari riservarsi, dopo, la
magra consolazione di fischiare, come Dio comanda. E i
fischi sono puntualmente intervenuti alla fine
dell’Attila nei confronti della regia di Livermore;
minimizzati, in ossequio alla consuetudine, dai soliti
“plauditores” del teatro.
Come accennato anche Davide Livermore appartiene alla
schiera dei registi convinti che, spendendo il proprio
genio a “svecchiare” l’ambientazione di un’opera
teatrale, nel caso presente un’opera di quel
“sorpassato” di un Verdi, gli si faccia un gran favore.
Pertanto, a cura del Livermore, l’epoca del verdiano
Attila, dai primi del V secolo, è stata trasposta alla
metà degli anni quaranta del secolo scorso, fine della
seconda guerra mondiale, più o meno caduta di Berlino,
con ambientazione nazista. Non è questa una gratuita
supposizione poiché le divise militari, usate dal
regista, richiamavano quelle dell’esercito tedesco con
qualche citazione di divise italiane, ovviamente
fasciste, tanto per ricordare l’Asse. In virtù di ciò
Attila (lo splendido basso russo Ildar Abdrazakov ),
divenuto, da re degli unni, a improbabile capo forse
della Gestapo, dava di sé l’immagine di un uomo alquanto
confuso, ché tale doveva essere, dopo che, sul fondo, il
regista, invece di far proiettare la distrutta Aquileia,
rimandava le grigie immagini di una città, richiamante
la Berlino del dopo i bombardamenti. Come dire che
Attila, appunto confuso, aveva bombardato se stesso e la
sua gente. Senza contare la trovata della regia che,
visto che si trovava con le citazioni, metteva in scena
un ahimé attualissimo ponte di Genova che si spezzava e
si ricongiungeva… “ad libitum!”. Insomma una specie
della chiusa del Canale di Suez o se preferiamo del
Tamigi. Ma vedi la fantasia!
Citare poi i particolari scenici fuori luogo, sarebbe
come sparare sulla “Croce rossa”, dagli esorbitanti
fucili di assatanati soldati sempre pronti a sparare,
alla fisarmonica al posto delle citate, da Attila, arpe,
senza contare la inutile visione dei soliti maschietti
svestiti, palesi reminiscenze di film raccontanti le
abitudini sessuali dei capi della Gestapo. Ma per
favore, basta ironizzare su questo… rispettiamo la
sessualità di tutti, soprattutto quando certe citazioni
non aggiungono niente di necessario allo spettacolo.
Altra povera disadattata in scena era Odabella, il
soprano spagnolo Saioa Hernandez che, pettinata e
vestita, tanto per non sbagliare, alla Edda Mussolini,
volendo dare un’interpretazione dell’indomita guerriera
italiana, si aggirava per il palcoscenico, tanto furiosa
da divenire, non per sua colpa, alquanto isterica.
Vocalmente parlando, la Hernandez, emette suoni troppo
traballanti e spesso striduli; infatti, quando il
vibrato è naturale e contenuto esso è bellissimo; se
invece è esagerato, oltre a divenire spiacevole è anche
la spia di una voce che, nata per altro repertorio, è
stata innaturalmente forzata. Pertanto la Hernandez ha
una bella voce ma, essendo un soprano lirico e non un
soprano drammatico d’agilità, risulta forzata per il
ruolo vocale di Odabella… senza contare che di soprani
del genere, anzi di molto meglio, è piena l’Italia.
Misteri delle agenzie e delle scelte fatte in
collaborazione con i vari responsabili dei teatri… mi
piacerebbe conoscere il cachet percepito dalla cantante,
possibilmente quello reale e non quello forse,
assolutamente forse, figurante sulla carta.
Per amor del Cielo, qui dichiaro e giuro che le mie sono
solo supposizioni o se preferite… “pensieri molesti”!
Tornando alla serata, gli altri due principali
interpreti: il tenore Fabio Sartori, Floresto e il
baritono Geoge Petean, Ezio, hanno dato un’ ottima resa
vocale, in specie il tenore. Purtroppo nella resa
psicologica dei personaggi, che già non erano gran cosa
nell’opera di Verdi, messi nelle mani di Livermore, sono
diventati due patetiche marionette. Per quanto invece
attiene alla direzione di Riccardo Chailly, inutile dire
che essa è sempre ottima e appunto rassicurante.
Chiudendo gli occhi… l’incanto di Verdi, soprattutto
nella straziante introduzione, c’è per intero. Quando,
poi, apriamo gli occhi, operisticamente parlando: Il
ciel ci assista.
La serata, commentata da una giuliva Carlucci, si
avvaleva del “parere”, non di accreditati esponenti
della critica ufficiale ma di esponenti del “pop”. Corre
il dubbio che i critici di professione si fossero tutti,
per pudore, negati alle telecamere, così come
altrettanto pericoloso avrebbe potuto essere
intervistare uno spettatore, non catechizzato. Infatti
c’era il rischio che, costui, interpellato sul
gradimento allo spettacolo (visti anche i costi del
biglietto) potesse mandare, come si dice a Milano… tutti
a ca…. etc. etc.
Comunque, volendo essere onesti, qualcosa di filologico,
Livermore l’ha salvato, dicasi: la rappresentazione
della tela di Raffaello sull’incontro di papa Leone
Magno e Attila, nonché il cavallo, con il quale Attila è
entrato in scena. E’ probabile che il regista, dopo
“studi approfonditi”, abbia appurato che Attila andava a
cavallo e che si dia il caso che il nobile animale
esista ancora.
Vorrei umilmente avanzare una proposta sul prossimo
Attila che metteranno in scena, con o senza lo
strapagato Livermore: volendo essere davvero “à la page”,
perché il prossimo Attila non lo facciamo scendere da
Marte, con tanto di astronave e con una Odabella che,
addestrata dagli Isdraeliani (i più all’avanguardia in
fatto di strumenti bellici), vada a disintegrare
l’invasore con un laser o quant’altro?
No, meglio non diffondere l’idea… potrebbe essere presa
sul serio!
P.S. Mi sono più volte chiesta: perché deturpare una
scultura o un quadro (a parte le mutande messe e poi
fortunatamente tolte, ad alcuni personaggi del “Giudizio
universale” di Michelangelo) rappresenta un reato,
mentre deturpare un’ opera musicale, ché spesso di
questo trattasi, non solo non costituisce colpa ma è
iniziativa tanto lodevole da essere anche lautamente
pagata? Qualcuno, magari il Parlamento, visto il
dilagare dell’infausta operazione e le conseguenze
diseducative (soprattutto quando le manomissioni sono
eclatanti), vorrà mai procedere a richiamare registi e
relativi sovrintendenti autori dei misfatti, per
chiedere loro conto e ragione del denaro pubblico così
mal impiegato? E non mi si parli di libertà dell’Arte,
poiché il vero artista, sino a prova contraria, è
l’autore della musica e non gli autori della messa in
scena.
È davvero troppo chiedere un minimo di rispetto?
Per quanto mi riguarda, dopo tante infauste serate,
coronate dall’ obbrobrioso ultimo Rigoletto, vorrei fare
in mille pezzi il mio abbonamento al Teatro dell’opera
di Roma; di egual parere sono tanti altri nauseati
abbonati. Allora mi chiedo: signori, non della corte ma
dei teatri: se il pubblico, arrabbiato, v’abbandona, il
risultato non sarà quello di dover lasciare anche voi le
comode poltrone?
Considerata l’eventualità… quasi quasi il gioco varrebbe
la candela! Chiudiamo, dunque, i teatri e mandiamo ad
occuparsi d’agricoltura tanti attuali geni.
Si, ma l’agricoltura che male ha fatto per essere
anch’essa distrutta? Mah!
9 dicembre 2018