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DICEMBRE 2018

 

L’imbroglio. L’invidia sociale dei frustrati e degli incompetenti l’ha spuntata. In attesa del responso delle urne che riporterà molti a casa hanno votato una manovra senza prospettive di crescita. Ma che punisce chi ha studiato e lavorato

di Salvatore Sfrecola

Lo hanno capito in molti, anche coloro i quali si erano illusi che il Movimento 5 Stelle avrebbe portato una ventata di novità positiva nel mondo politico per troppo tempo dominato da professionisti del sottobosco dei partiti, a Roma, come nelle regioni, soggetti il cui unico lavoro è stato quello della pedissequa esecuzione di incarichi e consulenze, spesso inutili, richiesti dai politici. La ventata di novità, tuttavia, non c’è stata. I pentastellati, come vengono definiti dalla stampa, si sono presto dimostrati come gli altri. In più mossi da un livore nei confronti di quanti occupano ed hanno occupato posizioni professionali ben remunerate, conquistate con sacrifici di anni, di studi, di concorsi, di impegni continui di lavoro e di aggiornamento, spesso nei giorni festivi sottratti alle famiglie. Anche d’estate perché le ferie nei posti di responsabilità, certamente dovute, sono un optional. Chiunque ha fatto questa esperienza o l’ha sperimentata in famiglia può testimoniarlo.

La novità sta nel fatto che il M5S ha portato in Parlamento ed al Governo personaggi senza esperienza e, nella migliore delle ipotesi, con scarsa cultura generale. E se si è potuto scherzare sui congiuntivi o sulla consecutio temporum di alcuni, c’è meno da ridere sull’ignoranza istituzionale nei dibattiti quasi rivendicata con “lo dice lei” dalla modesta Laura Castelli inopinatamente messa a fare il Sottosegretario al Ministero dell’economia e delle finanze, mentre l’evanescente Danilo Toninelli, messo alla guida di un ministero fondamentale, è divenuto presto lo zimbello preferito di Facebook.

Incapaci ma velleitari, decisi a farla pagare ai ricchi. Non a quelli che si sono arricchiti evadendo il fisco, tanto è vero che di lotta all’evasione fiscale non si parla più, ma a quelli che hanno conquistato posizioni sociali con impegno personale durato anni, nei quali hanno pagato fior di contributi a fronte dei quali lo Stato, la Repubblica Italiana, ha promesso una determinata pensione sempre richiamata dal Ministro del lavoro Luigi Di Maio al lordo, una cifra destinata a fare effetto e della quale nessuno dice essere falcidiata di oltre il 40 per cento. Una pensione sulla quale tutti hanno fatto conto, impegnandosi nell’acquisto di beni per i figli ed i nipoti ai quali hanno assicurato studi e somme che hanno concorso ai consumi di ogni genere. Quei consumi che sono funzionali alla produzione e, conseguentemente, all’occupazione.

Agli invidiosi pentastellati non va bene. Forse anche loro sono stati aiutati da padri e nonni. Adesso vogliono il sangue di chi guadagna stipendi e pensioni, molto inferiori, va detto di quelli che in altri paesi dell’Unione europea ricevono i pubblici dipendenti. Perché ovunque gli stati che devono rendere servizi alla comunità reclutano i migliori, quelli che, pur avendo altre occasioni nel mercato del lavoro, hanno scelto di servire le istituzioni pubbliche e ne sono orgogliosi. Ovunque i dipendenti pubblici sono selezionati e pagati bene. In nessun paese serio l’impiego pubblico è considerato di serie B.

E così gli invidiosi, che sono anche incompetenti, hanno partorito le norme sulle pensioni inserite nella legge di bilancio. Incompetenti perché non considerano gli effetti delle misure adottate.

Innanzitutto gli effetti del mancato rispetto, da parte dello Stato, delle promesse fatte nei confronti di coloro dai quali ha preteso contributi. La qualcosa, ovviamente, non preoccupa solamente i pensionati ma anche i dipendenti in servizio i quali d’ora in poi non saranno più certi del loro futuro. Non è solo una questione di promesse non mantenute. È incrinato un principio fondamentale in uno stato di diritto, quello della certezza dei diritti che non possono essere negati con effetto retroattivo. Lo Stato può sempre cambiare le regole, ma d’ora in avanti.

Ma, si dice, la manovra sulle pensioni nasce dalla esigenza di far fronte alle condizioni di parte della popolazione che gli indici ISTAT definiscono al di sotto della soglia di povertà. Cinque milioni, secondo le stime ripetutamente portate all’attenzione del dibattito giornalistico e politico. È un fatto grave, sul quale non è lecito neppure scherzare. Si tratta di situazioni che derivano dall’inadeguata politica dei governi degli ultimi anni, quelli che hanno trascurato gli investimenti necessari per creare crescita e con essa lavoro. Questa è l’Italia nella quale, se Cristo si è fermato ad Eboli, come titola il bel libro di Carlo Levi, l’alta velocità si è fermata a Salerno, ignorando la parte più bisognosa di sviluppo del Paese, quella che potrebbe dare molto all’economia, attraverso l’agricoltura e la trasformazione dei suoi prodotti straordinari e il turismo, risorsa unica che dovrebbe essere messa in condizione di valorizzare arte e ambiente, creando ricchezza e posti di lavoro, quelli che non sono messi in forse dalla tecnologia digitale e dai robot. Una guida turistica, i gestori e gli operatori delle strutture recettive non possono essere sostituiti da macchine. Eppure non si fa nulla, neppure per dar vita a strutture di eccellenza laddove le stelle che indicano alberghi e ristoranti andrebbero dimezzate quando non azzerate. Ma nessuno controlla. Così si diffonde la voce dell’inadeguatezza e il Sud segna il passo, quando non regredisce.

Vengono da lì molti dei pentastellati ma non hanno idee e se le hanno non sanno metterle in pratica se non negli slogan alla Matteo Renzi, un maestro pifferaio anche lui presto abbandonato dai suoi elettori in una discesa inarrestabile, consultazione dopo consultazione, essendosi illuso che quel 40 e dispari per cento alle europee fosse autentico e non dovuto agli 80 euro appena elargiti per sollecitare i consumi e, invece, tesaurizzato in attesa di tempi migliori.

Farà la stessa fine Luigi Di Maio? È molto probabile. E non per i congiuntivi che pure dovrebbe ben conoscere chi ha frequentato, si legge, il liceo classico, ma perché si è fatto promotore di una riforma, quella del “reddito di cittadinanza” che, se applicata correttamente, deluderà molti di una popolazione fin qui sopravvissuta grazie al lavoro nero al quale certamente non vorrà rinunciare, perché vantaggioso, se non altro perché esentasse. Se ne è reso conto anche il giovanotto di Pomigliano d’Arco tanto è vero che ha ridotto, sia pure su indicazione della Commissione Europea, la somma stanziata per quella finalità. Minaccia controlli degli Uffici del lavoro e della Guardia di Finanza per verificare che colui il quale usufruisce di quella somma, i 780 euro mensili, forse, ne abbia veramente diritto. E se non basteranno i controlli istituzionali molto farà il controllo sociale perché è evidente che ci sarà la caccia all’abusivo e la delazione fornirà alle autorità preposte, anche alla magistratura, nomi, cognomi e indirizzi di quanti stanno truffando lo Stato.

Abbiamo detto di incompetenti, velleitari e frustrati, perché incapaci o sfortunati, privi di adeguata istruzione, anche professionale. Non cercano lavoro, semmai lo vorrebbero sotto casa vicino a mammà, ben pagato, al di là della loro competenza, magari da unire ad un lavoretto complementare, naturalmente in nero.

E vediamo di fare un po’ di conti. Ho già scritto su La Verità che togliere ad alcuni per dare ad altri, a parte i profili di illegittimità e di ingiustizia di cui ho detto, non determina quell’incremento dei consumi che favorisce la produzione e nuovi posti di lavoro. Mi sembra elementare che se i nonni perdono 100 per effetto della riduzione degli assegni pensionistici e se quei 100 vanno a figli e nipoti il risultato dell’operazione è pari a zero. E zero è l’incremento dei consumi perché quello che compravano i nonni, con la stessa cifra comprano figli e nipoti. Poi si deve tener conto del fatto che una pensione inferiore, calcolata al lordo, determina una riduzione dell’imposta. La somma algebrica della minore pensione e della minore imposta determina un risultato positivo idoneo a finanziare il reddito e la pensione di cittadinanza? È improbabile e comunque, a conti fatti, è una goccia d’acqua nel mare del fondo ad hoc.

Vediamo adesso le norme (i commi da 260 a 268 dell’art. 1 della legge di bilancio) sul blocco della rivalutazione automatica e, di seguito, quelle sulla riduzione degli assegni, anche per sollecitare le osservazioni dei lettori.

Le riportiamo pedissequamente perché ognuno possa farsi un’idea indipendentemente dai riassunti che ne danno giornali e televisioni.

“260. Per il periodo 2019-2021 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta:

a) per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento;

b) per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e con riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi:

1) nella misura del 97 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla lettera a), l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

2) nella misura del 77 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

3) nella misura del 52 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

4) nella misura del 47 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a otto volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

5) nella misura del 45 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a otto volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a nove volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a nove volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;

6) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.

261.A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di un'aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro.

262. Gli importi di cui al comma 261 sono soggetti alla rivalutazione automatica secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

263. La riduzione di cui al comma 261 si applica in proporzione agli importi dei trattamenti pensionistici, ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo.

264. Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nell'ambito della loro autonomia, si adeguano alle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 e 265 dalla data di entrata in vigore della presente legge.

265. Presso l'INPS e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate.

266. Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261 a 263, accertate sulla base del procedimento di cui all'articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

267. Per effetto dell'applicazione dei commi da 261 a 263, l'importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua.

268. Sono esclusi dall'applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 261 a 263 le pensioni di invalidità, i trattamenti pensionistici di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222, i trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti e i trattamenti riconosciuti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, e alla legge 3 agosto 2004, n. 206.

269. Con apposito decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, le risorse iscritte, per l'anno 2019, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, afferenti al contributo a carico del datore di lavoro per la previdenza complementare del personale delle amministrazioni statali anche ad ordinamento autonomo, sono ripartite tra gli stati di previsione dei singoli Ministeri ovvero sono trasferite ai bilanci delle amministrazioni statali ad ordinamento autonomo secondo i criteri di riparto di cui all'articolo 2, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 111 del 15 maggio 2000. Il contributo a carico del datore di lavoro è versato al relativo fondo di previdenza complementare con le stesse modalità previste dalla normativa vigente per il versamento del contributo a carico del lavoratore. Il comma 2 dell'articolo 74 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è abrogato.”

Il comma 263 prevede che “ferma restando la clausola di salvaguardia di cui al comma 267”, nel senso che “l'importo complessivo dei trattamenti pensionistici diretti non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua”, la riduzione “non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo”. Così risultando smentito quanto fin qui detto da Di Maio, che le pensioni dovute a contributi effettivamente versati non sarebbero state toccate. Per cui è evidente l’incostituzionalità della norma ove fosse interpretata nel senso che la riduzione si applicherebbe anche alla parte delle pensioni dovuta al calcolo effettuato con il sistema contributivo.

Pasticcioni, dunque, oltre che disonesti perché tradiscono le promesse fatte dallo Stato. Disonesti anche perché nel dibattito di questi giorni alla disperata ricerca di risorse non si fa riferimento alcuno alla lotta all’evasione fiscale, argomento al quale ricorrono solitamente i governi alla ricerca di risorse. E se si pensa che l’evasione, dati dell’Amministrazione finanziaria, è stimata in oltre 100 miliardi di euro annui non sarebbe stato difficile recuperarne un 10 per cento per far fronte alle esigenze. Il fatto è che il “partito degli evasori fiscali” è trasversale e si accompagna anche al lavoro nero, quello che, secondo alcuni, tiene su il Paese, trascurando che il Paese lo tengono su quanti pagano le imposte al posto degli evasori. Un grande imbroglio dovuto alla incapacità di chi ci governa che avrebbe potuto scegliere una strada diversa, alleggerendo le imposte e contestualmente rendendo il sistema fiscale più chiaro ed equo in modo da avviare quella generalizzata riduzione del carico tributario tanto sbandierata in campagna elettorale, con la flat tax e non solo.

Tuttavia i partiti di governo trascurano di considerare che in un contesto economico finanziario nel quale si manifestano spinte recessive non avere un grande programma per la crescita e lo sviluppo che mobiliti, insieme a risorse pubbliche, anche quel rilevante risparmio privato, del quale i nostri politici si riempiono la bocca quando vogliono minimizzare il rilevante debito pubblico, rischia di essere pagato in sede elettorale. Anche dalla Lega che pure con Matteo Salvini ha saputo corrispondere alle istanze popolari in tema di sicurezza. Un partito che si pone come stabile espressione del ceto produttivo anziché dei fannulloni fan di Di Maio non può cedere alle pressioni del Masaniello di turno se non per scaricarlo quanto prima.

26 dicembre 2018

 

Il governo “del cambiamento” ma non nella lotta all’evasione fiscale

di Salvatore Sfrecola

“Fate caso, si parla di tutto ma non di lotta all’evasione fiscale per recuperare un po’ di spiccioli”. Questa frase, postata su Facebook ha riscosso una valanga di like e di condivisioni. Il Governo “del cambiamento”, di cui tanto si riempie la bocca Luigi Di Maio, in realtà non cambia nella lotta all’evasione fiscale, assolutamente inadeguata, perché l’unica lotta di cui si ha notizia all’Agenzia delle entrate è quella per gli incarichi pseudodirigenziali, tra chi ne rivendica la proroga (spuntata, tra l’altro, in Senato in un emendamento alla legge di bilancio) o il consolidamento e chi chiede, invece, che si facciano finalmente concorsi come la Costituzione prescrive e come la Consulta ha ricordato già al predecessore del Ministro Giovanni Tria, quel Pier Carlo Padoan che mai ha esercitato quell’alta vigilanza che la legge gli attribuisce sulle agenzie fiscali.

Ma andiamo per ordine. Iniziando da quanto pensano dell’amministrazione deputata all’accertamento e alla riscossione delle imposte personalità del giornalismo, della politica e della giustizia. Federico Rampini, giornalista di Repubblica, corrispondente dagli Stati Uniti, nel corso di una puntata di Piazza pulita ha affermato, richiamando la sua esperienza di contribuente “americano”, che “l’Italia ha una delle amministrazioni fiscali più scassate dell’Occidente”. Infatti l’evasione fiscale, per ammissione della stessa Amministrazione, supera i 100 miliardi di euro annui, più di tre manovre di bilancio. E Riccardo Fraccaro, oggi Ministro per i rapporti con il Parlamento, quando parlava da esponente del Movimento 5 Stelle invitava i cittadini a ribellarsi al fisco ingiusto e rapace. E denunciava che nelle agenzie fiscali ci sono circa 800 ex funzionari che non hanno vinto un concorso per entrare nella dirigenza, ma sono hanno avuto un incarico di funzioni dirigenziali. Ma non è finita qui. Fraccaro rivendicava al Movimento Cinque Stelle di aver scoperto che nelle agenzie fiscali ci sono 340 indagati per gravi reati come la corruzione. E si chiedeva perché sono sempre i soliti a pagare le tasse, dipendenti e pensionati, e comunque cittadini che magari fanno fatica arrivare a fine del mese. Per lui si trattava di “uno scandalo, una schifezza assoluta”, come il tentativo del Governo PD di tirar fuori l’agenzia delle entrate e delle dogane dal perimetro della pubblica amministrazione per eludere le regole che obbligano a reclutare la dirigenza con concorsi “fatti per bene”. E concludeva “cercheremo di bloccare questo schifo”. Lo stesso parlamentare, adesso che è al governo, tace nonostante non possa non percepire che monta la rivolta tra i contribuenti onesti, quelli che pagano fino all’ultimo centesimo, i lavoratori dipendenti e, soprattutto, i pensionati ai quali si vuole di nuovo chiedere un “contributo di solidarietà” bloccando rinnovi contrattuali e adeguamenti stipendiali e financo prevedendo una riduzione delle pensioni in barba ai diritti maturati in ragione dei contributi effettivamente versati.

In tema di funzionalità delle agenzie fiscali interviene anche Salvatore Giacchetti, Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato, un magistrato di grande esperienza e di straordinario equilibrio, il quale ha parlato senza mezzi termini di “mancanza del comune senso del pudore normativo”, a proposito dell’annosa vicenda delle posizioni dirigenziali nell’ambito dell’Agenzia delle entrate, e alla ripetuta elusione delle sentenze dei giudici amministrativi e perfino della Corte costituzionale messa in campo dall’Amministrazione anche attraverso tentativi di sanatorie legislative.

La vicenda prende le mosse dalla istituzione delle agenzie fiscali, quando, nelle more dei concorsi, alcuni funzionari furono incaricati dell’esercizio di funzioni dirigenziali. Inizialmente nominati per un triennio, poi ripetutamente prorogati con varie disposizioni legislative di comodo giustificate da asserite urgenti e indifferibili esigenze di funzionamento. In realtà si voleva mantenere un corpo di funzionari di provata fede nominati al di fuori di un ordinario concorso pubblico, come prescrive l’art. 97, comma 3, della Costituzione (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”), una regola tante volte richiamata dalla Consulta quante volte ignorata dalle Agenzie. L’intervento della Corte costituzionale nel 2015 (sentenza n. 37) è stato patrocinato da una ordinanza del Consiglio di Stato del 2013 che aveva sollevato questione di legittimità del decreto legge n. 16 del 2012 che, nel dettare norme  “in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, aveva autorizzato le agenzie fiscali ad espletare procedure concorsuali per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti prevedendo che, nelle more dell’espletamento di quelle procedure, le agenzie potessero “attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso”. Questi incarichi da attribuire con “apposita procedura selettiva” avrebbero consentito a funzionari, privi della relativa qualifica, di accedere senza aver superato un pubblico concorso, ad un ruolo diverso nell’ambito della propria amministrazione, così eludendo la regola costituzionale anche con un vulnus ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, poiché permettendo l’attribuzione di incarichi a funzionari privi della relativa qualifica, “consentirebbe la preposizione ad uffici amministrativi di soggetti privi dei requisiti necessari, determinando una diminuzione delle garanzie dei cittadini che confidano in un amministrazione competente, imparziale ed efficiente”.

La Corte costituzionale, pur rilevando che la norma “non conferisce in via definitiva incarichi dirigenziali a soggetti privi della relativa qualifica, bensì consente, in via asseritamente temporanea, la soluzione di tali incarichi da parte di funzionari, in attesa del completamento delle procedure concorsuali”, ha sottolineato come “l’aggiramento della regola del concorso pubblico per l’accesso alle posizioni dirigenziali in parola si rivela, sia alla luce delle circostanze di fatto, precedenti a successivi alla proposizione della questione di costituzionalità, nelle quali la disposizione impugnata si inserisce, sia all’esito di un più attento esame della fattispecie delineata dall’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012”. Concludendo che il protrarsi delle suddette proroghe di comodo “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”. Nella stessa occasione la Corte ha negato che l’attribuzione di tali incarichi rispondesse effettivamente ad urgenti e indifferibili esigenze di funzionamento ed ha contestualmente annullato tutte le disposizioni di comodo, rendendo di conseguenza nulli e quindi non più valutabili tutti gli incarichi attribuiti in base ad esse.

Naturalmente come accaduto altre volte, in Italia non c’è niente di più definitivo di ciò che è precario, come desiderano i fortunati “incaricati” che, per la posizione assunta nell’ambito degli uffici sono in condizione di premere sull’amministrazione perché in qualche modo consolidi la loro posizione. Il ministro Padoan non si era dato carico di questa pronuncia della Corte costituzionale e aveva consentito alle agenzie di attribuire agli ex incaricati “Posizioni Organizzative Speciali” (POS) e nel corso del giudizio di impugnazione delle POS la fantasia burocratica ha prodotto le POT, “Posizioni Organizzative Transitorie”. Come in una sorta di resurrezione gli ex incaricati hanno ripreso di colpo le stesse funzioni con una nuova etichetta. Cosa che  -  scrive Giacchetti – “in uno stato normale avrebbe dovuto essere qualificato un artificio e un raggiro per eludere il dictum della Corte con il puerile escamotage di ridenominare in modo diverso (mantenendone invariato il contenuto) gli stessi incarichi dirigenziali in precedenza dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale”. “Artificio e raggiro”, una endiadi che in diritto identifica la fattispecie delittuosa della truffa. E adesso le “Posizioni Organizzative Speciali” diventano “Posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione” (POER), come previsto dall’art. 1, comma 93, della legge 205/2017 introducendo ancora una disciplina derogatoria per l’accesso alle qualifiche dirigenziali. Tra l’altro prevedendo - ad onta dell’enfasi sulla elevata responsabilità professionalità e specializzazione - la partecipazione dei funzionari privi di diploma di laurea giunti alla terza area con corsi di qualificazione e senza aver mai partecipato a concorsi per la carriera direttiva, ancora in violazione della pronuncia della Corte costituzionale, con la conseguenza che “è assurdo parlare di efficienza della macchina fiscale di lotta all’evasione – scrive la CONFEDIR DIRSTAT – considerato il perenne conflitto tra gli addetti ai lavori costretti ad assistere quotidianamente alle reiterate violazioni di leggi”.

Con questa iniziativa (14 novembre 2018) l’Agenzia delle entrate dimostra di tenere in nessuna considerazione la sentenza n. 8990 del 16 agosto 2018 con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione Seconda ter, pronunciando su un ricorso avverso il silenzio serbato dall’Agenzia delle entrate sulle richieste contenute in una diffida diretta a ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’Agenzia di provvedere a bandire il concorso pubblico a 403 posti dirigente, per soli esami, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 del decreto-legge numero 78 del 2015, ha affermato che l’Agenzia delle entrate è giuridicamente tenuta “all’espletamento della nuova procedura concorsuale” da prevedere “per soli esami”, escluso quel riferimento ai titoli che nell’ottica dell’amministrazione avrebbe dovuto premiare gli incaricati rispetto a coloro i quali accedono dall’esterno ed agli interni privi di incarichi di funzioni dirigenziali, così premiando coloro i quali sono stati incaricati delle posizioni organizzative variamente denominate, letteralmente inventate di volta in volta per aggirare la pronuncia della Corte costituzionale.

Nuovi ricorsi in vista, dunque, al cui esito i direttori dell’Agenzia non pagheranno mai di persona. A pagare sarà lo Stato soprattutto con l’inefficienza in un settore, quello dell’amministrazione tributaria, che avrebbe dovuto essere la principale cura di un Paese serio rispettoso delle leggi e dei diritti dei cittadini, di quelli a reddito fisso, dipendenti e pensionati, che sono coloro i quali pagano le imposte statali e le addizionali regionali, cioè reggono lo Stato, e vengono sistematicamente beffati qualunque sia il colore dei partiti al governo. Anzi, grazie ai Cinque Stelle si va verso una forma assistenziale che darà luogo a inevitabili abusi denominata “reddito di cittadinanza”, una presa in giro delle persone perbene perché i destinatari di quella erogazione nella maggior parte continueranno a lavorare in nero godendo anche del sussidio statale. Un capolavoro di ipocrisia e di incapacità di governare.

Battuti ripetutamente in sede giudiziaria le agenzie ed il governo hanno pensato di percorrere la via legislativa in attesa di qualche nuova pronuncia della Corte costituzionale.

Da queste vicende la CONFEDIR DIRSTAT, in persona del suo Segretario generale aggiunto, Dottor Pietro Paolo Boiano, ha tratto lo spunto per invitare il direttore dell’Agenzia delle entrate, Antonino Maggiore, un Generale della Guardia di Finanza dal quale ci si attendeva maggiore rispetto per la Costituzione, le leggi e la Corte constituzionale, a “chiudere definitivamente un circolo vizioso che dura ormai da troppo tempo ed ha fatto male sia alla massima Agenzia fiscale , come a tanti suoi collaboratori”. Aggiungendo che “nel marasma che regna negli uffici diventa poi proibitivo contrastare efficacemente il diffuso fenomeno della evasione fiscale che richiede un massiccio impiego di risorse umane e finanziarie”. Per concludere che “il nuovo corso, detto del cambiamento, si auspica che faccia del riassetto della dirigenza pubblica una questione di legalità. Basta precludere ogni varco di accesso a dirigenza diverso dal concorso e il problema è risolto”.

20 dicembre 2018

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

Giustizia europea

Tra le carte che si sono accumulate in questi ultimi tempi sulla mia scrivania, ho rinvenuto un articolo di particolare interesse, succinto ma di sicura efficacia, a firma di Carlo Nordio Un patto per l’Europa: la giustizia creativa, apparso su Il Messaggero del 25 luglio 2018, ancora oggi di indubbia attualità.

Viene, infatti, presa in considerazione una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sospeso lo sgombero di un campo Rom disposto dal Comune di Roma. Tale atto “si inserisce in quel filone di cosiddetta giustizia creativa…epilogo di un lungo processo di irrazionalismo modernista”.

Una decisione di tal fatta, scritta con l’ausilio della bacchetta del rabdomante, non può che orbitare al di fuori del pianeta Giustizia, in quanto inidonea a tutelare le posizioni giuridiche soggettive dei cittadini, sostanziandosi in ulteriore florilegio di cui l’Europa periodicamente ci gratifica.

Altro recente intervento, ma di diversa consistenza, della giustizia europea si rinviene nella pronuncia della Corte giustizia UE, grande sezione, 12 febbraio 2008, n. 2, secondo la quale nell’ambito di un procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva in virtù di una sentenza emessa da un giudice di ultima istanza che, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte, risulta basata su un’interpretazione erronea del diritto comunitario; tale diritto non richiede che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto comunitario nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno dal medesimo proposto contro tale decisione.

Inoltre, il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di effettività e di equivalenza.

 

Giustizia nazionale

Il Presidente del Consiglio di Stato, a conclusione della Relazione svolta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018, aveva richiamato, come aveva già fatto in quella dell’anno precedente, l’autorevole insegnamento del Prof. A.M. Sandulli secondo il quale “dove la giustizia dell’amministrazione non è completa e perfetta, la libertà e la democrazia non possono ancora considerarsi conquistate”.

Ma, a dire il vero, non sembra che fino ad oggi si siano verificati significativi passi in avanti verso tali traguardi.

A ben vedere, la Relazione di cui trattasi è lastricata abbondantemente di buone intenzioni che sembrano, però, destinate a rimanere allo stato di mere enunciazioni e non a tradursi in principi di concreta applicazione, quantomeno in tempi ragionevoli.

Tra queste, la tanto osannata nomofilachia, cioè a dire la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge, che trova purtroppo sistematiche smentite in non poche sentenze dove l’interpretazione delle norme positive riposa su discutibili arzigogoli alogici.

Invero, la crisi in cui oggi versa la nostra Giustizia di ogni ordine e grado è sotto gli occhi di tutti, come anche evidenzia il clamore mediatico che quotidianamente suscitano talune deleterie pronunce della magistratura.

Di qui la necessità impellente di porre rimedio, senz’altri indugi, ad una riforma globale dell’ordinamento giudiziario che si ponga al passo con i tempi, satisfattiva delle legittime aspettative dei fruitori della giustizia che, in caso contrario, rischia di rimanere definitivamente impantanata in un magma limaccioso dal quale, forse e senza forse, potrebbe essere definitivamente inghiottita.

 

Saccheggi di Roma

E’ di recente in libreria Storia di Roma in sette saccheggi (Bollati Boringhieri, Torino, 2018), di Matthew Kneale, storico inglese che vive da quindici anni a Roma.

Il volume “è una celebrazione del feroce coraggio, brio e vitalità del popolo romano”, nonché “una lettera d’amore appassionata per questa città unica al mondo”.

Scrive l’autore, nella pur breve prefazione, che tanto del passato di Roma è sopravvissuto nonostante la città abbia subito, nel corso dei secoli, alluvioni catastrofiche, incendi, terremoti, pestilenze e, soprattutto, rovinose occupazioni di eserciti nemici.

Il primo saccheggio ricordato nel volume risale al 387 a.C. ad opera dei Galli guidati da Brenno.

Nel 408 d.C. fu la volta dei Visigoti al comando di Alarico e, come già precedentemente avvenuto, Roma fu salva dopo aver pagato un pesante riscatto.

Nel 546, a seguito di un tradimento, Roma cadeva vittima degli Ostrogoti guidati da Totila.

Nel 1084 Roma subiva il saccheggio dei Normanni di Roberto il Guiscardo e, nel 1527, quello tremendo dei Lanzichenecchi che provocò terrore, morte e distruzioni nell’Urbe.

Correva l’anno 1848 e la sera del 24 novembre il Papa Pio IX nottetempo fuggiva da Roma riparando a Gaeta e il 9 febbraio 1849 veniva proclamata la Repubblica romana.

Conseguentemente, le truppe francesi, regnante Luigi Napoleone, alla guida del generale Oudinot, entravano a Roma. Cadeva così la Repubblica romana ed il Papa, nell’aprile 1850, faceva ritorno nello Stato Pontificio.

Venuta meno la protezione della guarnigione francese, il 20 settembre 1870 entravano a Roma le truppe del Regno d’Italia e, a seguito del plebiscito, ne fu sancita l’annessione all’Italia per divenirne, di lì a poco, capitale.

Il volume si chiude con l’occupazione di Roma dell’esercito nazista del 10 settembre 1943, con richiami di numerosi avvenimenti, anche dolorosi, degni di particolare rilievo.

L’opera, frutto di accurate ricerche, si legge con piacere anche per l’agile stile narrativo e i puntuali richiami alla vita quotidiana dei vari territori martoriati dai devastanti saccheggi.

14 dicembre 2018

 

Salvini riparte da Roma per conquistare il Sud

di Salvatore Sfrecola

La piazza osannante il “Capitano”, quella piazza del Popolo, storica agorà delle grandi manifestazioni della politica ed oggi della Lega che Matteo Salvini ha fortemente voluto nazionale ed inclusiva dei vari ambienti del centrodestra sarà ancora oggetto di commenti dei giornali e delle televisioni. E si dirà delle bandiere tricolori sventolate al sole di una tipica giornata del dicembre romano. Tante bandiere, prima mai viste nelle manifestazioni della Lega. E si dirà del discorso del leader, sovranista, ma che cita San Giovanni Paolo II e l’europeista Alcide De Gasperi, un po’ democristiano, per soddisfare i moderati, ma anche prodigo di richiami ad una delle triadi tradizionali nella cultura della destra, “Dio Patria e Famiglia”, che apre a tutte le anime, la cattolica tradizionalista innanzitutto, ma anche la liberale cavourriana, si potrebbe dire, erede dei Risorgimento sabaudo. E infatti tra i vessilli tricolore uno recava al centro la “bianca croce di Savoia”, per dirla con Giosuè Carducci.

Da Roma, da quella piazza stracolma, Salvini parte a conquistare l’intera Nazione, anche laddove la Lega ha una presenza recente eppure capace, il 4 marzo, di sfiorare il risultato in molti collegi nei quali spesso solo poche migliaia se non centinaia di voti hanno impedito la prevalenza del candidato del Carroccio. Voti che non sarà difficile recuperare adesso che al Governo il vicepresidente e Ministro dell’interno ha fatto riscoprire la presenza dello Stato alla borghesia delle arti e delle professioni che da tempo al Sud richiede ordine e sicurezza per poter affermare intelligenze e volontà che tanto spesso è costretta ad esercitare al Nord quando non all’estero.

Conquistata Roma Matteo Salvini ha compreso che da questa città deve partire per affermarsi nelle regioni meridionali. Roma, infatti, non è soltanto la capitale d’Italia, il centro della politica parlamentare e governativa. Il suo humus è quello di una comunità variegata nella provenienza territoriale. Molti dei romani di oggi sono di origine meridionale, hanno avuto in passato ragionevoli dubbi che la Lega sapesse parlare con la voce della Nazione, al di là di certi “egoismi” della parte più economicamente sviluppata del Paese. Ed oggi che Salvini scopre e consolida la sua visione nazionale della storia e della politica sono pronti a schierarsi e, quindi, a rassicurare parenti e amici delle regioni di origine che la Lega non è più solo del Nord, ma è italiana e nazionale e si apre alla comprensione delle problematiche antiche e recenti di aree del paese che hanno grandi potenzialità e straordinarie prospettive di sviluppo economico e sociale, fin qui mortificate da politiche miopi, locali e nazionali. E attendono che la Lega sia capace di schierare personalità romane originarie del Sud in posizioni di responsabilità. Personalità tratte dai ministeri, dai grandi enti pubblici, dalle grandi università, tra cui “La Sapienza”, la più affollata d’Europa, dagli ordini professionali e dalle magistrature superiori, Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti.

Ma è tutto da costruire. Al di là delle buone intenzioni a Roma la Lega non ha ancora una sede nazionale né personalità delle istituzioni sono scese in campo il 4 marzo né sono state cooptate negli incarichi di governo e nelle nomine in enti e istituzioni dove siedono rappresentanti dei ministeri.

La sfida che attende Salvini e quanti vicino a lui lo consigliano e lo supportano nelle scelte passa, dunque, da alcune decisioni di carattere organizzativo e programmatico che finora si è più sentito che visto, spesso stoppate dalla incapacità di taluni di comprendere e, forse, anche dal timore che nuove capacità messe in campo potessero oscurare i padani duri e puri della prima ora. Quanto volte, avendo detto a chi gli proponeva una iniziativa politica o organizzativa “falla tu”, poi Salvini ha dovuto constatare che a quella indicazione non è stato dato seguito per insipienza o gelosia. Defaillance che un partito nazionale non si può permettere se vuole vincere dovunque, soprattutto al Sud dove l’incapacità del M5S è ormai percepita in tutta la sua portata di velleitaria aspettativa di un riscatto sociale che deve necessariamente passare da una decisa presa di coscienza di capacità personali e professionali obnubilate da una mentalità assistenzialista che la borghesia meridionale da sempre respinge e che adesso, avendo un riferimento politico certo, intende superare per restituire prospettive di sviluppo ad aree del Paese per troppo tempo mortificate da politiche miopi, locali e nazionali.

10 dicembre 2018

 

Attila, re della…  Gestapo

Quel che non leggerete sulla spoetizzante prima di Attila alla Scala

di Dora Liguori

Una delle ossessioni ricorrenti nei registi, definiamoli d’avanguardia, è quella di spostare i tempi dell’azione teatrale di un’opera che, affidata alle loro cure, viene, dai tempi previsti da quei “deficienti” degli autori, scaraventata in altre improbabili epoche. E di queste trasposizioni, un posto d’onore è riservato al periodo nazi-fascista. La moda, circa regie di tal fatta, viene da lontano o meglio proviene dai “terribili” pronipoti di Wagner: Wieland e Wolfang che, appunto, nel rinato teatro di Bayreuth del dopoguerra, misero in scena un “Ring” tutt’altro che filologico. Anche allora lo scandalo non fu da poco e, quel che è peggio, nemmeno pochi furono gli imitatori di Wieland, salvo un piccolo particolare: quasi nessuno di costoro era in possesso della genialità del discendente di Wagner, capace di mettere in scena, senza orrori, una minimalista rappresentazione della Tetralogia… e non solo di quella. Il pensiero, o chiamiamolo gradimento, del celeberrimo nonno, per ovvi motivi, non ci è mai pervenuto.

Tornando ai tanti emuli di Wieland, solo per citare alcuni casi, fra più eclatanti, siamo stati costretti ad assistere a una Sonnambula che, insanguinata, vive un aborto in scena mentre canta “Ah, non credea mirarti”; una Norma, sacerdotessa non più dei druidi ma palestinese, che miete il sacro “vischio” nel deserto; una Giovanna d’Arco, afflitta e perseguitata dalle incestuose turbe sessuali del padre e un povero Alfredo della “Traviata” che canta la romanza “Dei miei bollenti spiriti” mentre stende, col mattarello, la pasta per le tagliatelle. Al proposito, lo spettatore, avrà pensato che più che “i bollenti spiriti” di Alfredo, ad essere bollente avrebbe dovuto essere l’acqua per calare la pasta.

Cari amici, quanto descrittovi è solo una ridottissima panoramica di un museo degli orrori che non smette di offendere le opere d’arte (ché tale è un’opera lirica), così come offende un pubblico, costretto, per non privarsi di ascoltare bellissima musica dal vivo, a chiudere gli occhi, per magari riservarsi, dopo, la magra consolazione di fischiare, come Dio comanda. E i fischi sono puntualmente intervenuti alla fine dell’Attila nei confronti della regia di Livermore; minimizzati, in ossequio alla consuetudine, dai soliti “plauditores” del teatro.

Come accennato anche Davide Livermore appartiene alla schiera dei registi convinti che, spendendo il proprio genio a “svecchiare” l’ambientazione di un’opera teatrale, nel caso presente un’opera di quel “sorpassato” di un Verdi, gli si faccia un gran favore. Pertanto, a cura del Livermore, l’epoca del verdiano Attila, dai primi del V secolo, è stata trasposta alla metà degli anni quaranta del secolo scorso, fine della seconda guerra mondiale, più o meno caduta di Berlino, con ambientazione nazista. Non è questa una gratuita supposizione poiché le divise militari, usate dal regista, richiamavano quelle dell’esercito tedesco con qualche citazione di divise italiane, ovviamente fasciste, tanto per ricordare l’Asse. In virtù di ciò Attila (lo splendido basso russo Ildar Abdrazakov ), divenuto, da re degli unni, a improbabile capo forse della Gestapo, dava di sé l’immagine di un uomo alquanto confuso, ché tale doveva essere, dopo che, sul fondo, il regista, invece di far proiettare la distrutta Aquileia, rimandava le grigie immagini di una città, richiamante la Berlino del dopo i bombardamenti. Come dire che Attila, appunto confuso, aveva bombardato se stesso e la sua gente. Senza contare la trovata della regia che, visto che si trovava con le citazioni, metteva in scena un ahimé attualissimo ponte di Genova che si spezzava e si ricongiungeva… “ad libitum!”. Insomma una specie della chiusa del Canale di Suez o se preferiamo del Tamigi. Ma vedi la fantasia!

Citare poi i particolari scenici fuori luogo, sarebbe come sparare sulla “Croce rossa”, dagli esorbitanti fucili di assatanati soldati sempre pronti a sparare, alla fisarmonica al posto delle citate, da Attila, arpe, senza contare la inutile visione dei soliti maschietti svestiti, palesi reminiscenze di film raccontanti le abitudini sessuali dei capi della Gestapo. Ma per favore, basta ironizzare su questo… rispettiamo la sessualità di tutti, soprattutto quando certe citazioni non aggiungono niente di necessario allo spettacolo.

Altra povera disadattata in scena era Odabella, il soprano spagnolo Saioa Hernandez che, pettinata e vestita, tanto per non sbagliare, alla Edda Mussolini, volendo dare un’interpretazione dell’indomita guerriera italiana, si aggirava per il palcoscenico, tanto furiosa da divenire, non per sua colpa, alquanto isterica. Vocalmente parlando, la Hernandez, emette suoni troppo traballanti e spesso striduli; infatti, quando il vibrato è naturale e contenuto esso è bellissimo; se invece è esagerato, oltre a divenire spiacevole è anche la spia di una voce che, nata per altro repertorio, è stata innaturalmente forzata. Pertanto la Hernandez ha una bella voce ma, essendo un soprano lirico e non un soprano drammatico d’agilità, risulta forzata per il ruolo vocale di Odabella… senza contare che di soprani del genere, anzi di molto meglio, è piena l’Italia.

Misteri delle agenzie e delle scelte fatte in collaborazione con i vari responsabili dei teatri… mi piacerebbe conoscere il cachet percepito dalla cantante, possibilmente quello reale e non quello forse, assolutamente forse, figurante sulla carta.

Per amor del Cielo, qui dichiaro e giuro che le mie sono solo supposizioni o se preferite… “pensieri molesti”!

Tornando alla serata, gli altri due principali interpreti: il tenore Fabio Sartori, Floresto e il baritono Geoge Petean, Ezio, hanno dato un’ ottima resa vocale, in specie il tenore. Purtroppo nella resa psicologica dei personaggi, che già non erano gran cosa nell’opera di Verdi, messi nelle mani di Livermore, sono diventati due patetiche marionette. Per quanto invece attiene alla direzione di Riccardo Chailly, inutile dire che essa è sempre ottima e appunto rassicurante. Chiudendo gli occhi… l’incanto di Verdi, soprattutto nella straziante introduzione, c’è per intero. Quando, poi, apriamo gli occhi, operisticamente parlando: Il ciel ci assista.

La serata, commentata da una giuliva Carlucci, si avvaleva del “parere”, non di accreditati esponenti della critica ufficiale ma di esponenti del “pop”. Corre il dubbio che i critici di professione si fossero tutti, per pudore, negati alle telecamere, così come altrettanto pericoloso avrebbe potuto essere intervistare uno spettatore, non catechizzato. Infatti c’era il rischio che, costui, interpellato sul gradimento allo spettacolo (visti anche i costi del biglietto) potesse mandare, come si dice a Milano… tutti a ca…. etc. etc.

Comunque, volendo essere onesti, qualcosa di filologico, Livermore l’ha salvato, dicasi: la rappresentazione della tela di Raffaello sull’incontro di papa Leone Magno e Attila, nonché il cavallo, con il quale Attila è entrato in scena. E’ probabile che il regista, dopo “studi approfonditi”, abbia appurato che Attila andava a cavallo e che si dia il caso che il nobile animale esista ancora.

Vorrei umilmente avanzare una proposta sul prossimo Attila che metteranno in scena, con o senza lo strapagato Livermore: volendo essere davvero “à la page”, perché il prossimo Attila non lo facciamo scendere da Marte, con tanto di astronave e con una Odabella che, addestrata dagli Isdraeliani (i più all’avanguardia in fatto di strumenti bellici), vada a disintegrare l’invasore con un laser o quant’altro?

No, meglio non diffondere l’idea… potrebbe essere presa sul serio!

P.S. Mi sono più volte chiesta: perché deturpare una scultura o un quadro (a parte le mutande messe e poi fortunatamente tolte, ad alcuni personaggi del “Giudizio universale” di Michelangelo) rappresenta un reato, mentre deturpare un’ opera musicale, ché spesso di questo trattasi, non solo non costituisce colpa ma è iniziativa tanto lodevole da essere anche lautamente pagata? Qualcuno, magari il Parlamento, visto il dilagare dell’infausta operazione e le conseguenze diseducative (soprattutto quando le manomissioni sono eclatanti), vorrà mai procedere a richiamare registi e relativi sovrintendenti autori dei misfatti, per chiedere loro conto e ragione del denaro pubblico così mal impiegato? E non mi si parli di libertà dell’Arte, poiché il vero artista, sino a prova contraria, è l’autore della musica e non gli autori della messa in scena.

È davvero troppo chiedere un minimo di rispetto?

Per quanto mi riguarda, dopo tante infauste serate, coronate dall’ obbrobrioso ultimo Rigoletto, vorrei fare in mille pezzi il mio abbonamento al Teatro dell’opera di Roma; di egual parere sono tanti altri nauseati abbonati. Allora mi chiedo: signori, non della corte ma dei teatri: se il pubblico, arrabbiato, v’abbandona, il risultato non sarà quello di dover lasciare anche voi le comode poltrone?

Considerata l’eventualità… quasi quasi il gioco varrebbe la candela! Chiudiamo, dunque, i teatri e mandiamo ad occuparsi d’agricoltura tanti attuali geni.

Si, ma l’agricoltura che male ha fatto per essere anch’essa distrutta? Mah!

9 dicembre 2018 

 

 

 

 

 


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