APRILE 2018
“Conversazione sulla Monarchia” di Alessandro Sacchi e
Adriano Monti Buzzetti Colella, edizioni di Historica
di Salvatore Sfrecola
“Ha senso
scrivere della Monarchia oggi? Proprio nel 2018?”. Se lo
chiede nella prefazione al libro, ed è una domanda retorica,
Amedeo di Savoia. E la risposta è SÌ.
“Sì, perché
questa bella intervista di Adriano Monti Buzzetti ad
Alessandro Sacchi ha il coraggio di andare controcorrente,
perché osa sfidare i “dogmi” della cultura dominante.
Sì, perché – ai giovani che sono il nostro domani – dice che quei
valori irrisi, vilipesi, respinti, non sono affatto superati
per la semplice ragione che sono permanenti, sono parte
integrante della coscienza dell’uomo.
Sì, perché spiega che senza autorità non c’è libertà, senza
disciplina non c’è ordine, senza merito non c’è giustizia,
senza solidarietà non c’è coesione sociale.
Sì perché la Monarchia è il legame, il vincolo, il simbolo dei
valori fondanti della società più giusta che si vuole
costruire.
Sì, perché la Monarchia, affondando le sue radici nella storia e
nella memoria, può rappresentare la guida verso l’avvenire.
Sì, perché la Monarchia è un principio, è il principio da cui
dobbiamo ripartire”.
Sintesi efficace,
questa offerta dal Principe sabaudo, delle ragioni
dell’attualità della istituzione monarchica autorevolmente
attestata dagli ordinamenti di molti stati europei, tra i
più sviluppati ed i più virtuosi. Laddove il Sovrano incarna
la Nazione, con la sua storia, e la continuità dello stato,
dal Regno Unito alla Danimarca, dalla Spagna, che difende la
sua unità contro attentati separatisti, alla Norvegia, al
Belgio, nel quale la presenza del Re consente di mantenere
in limiti politicamente fisiologici l’antico contrasto tra
fiamminghi e valloni. E, poi, la Svezia, l’Olanda, paesi
civilissimi partecipi dell’Unione Europea senza perdere il
senso della sovranità nazionale e della identità di quei
popoli.
Seduti al
Gambrinus,
il Gran Caffè la cui storia inizia con l’Unità di Italia e
diventa in breve tempo il salotto del bel mondo napoletano,
“Fornitore della Real Casa”,
Alessandro Sacchi, Avvocato cassazionista, dal 2010 Presidente
dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), conversa
con Adriano Monti Buzzetti Colella, giornalista RAI e
conduttore TV. È così che prende forma questo agile volume
ricco di spunti storici e di riflessioni politiche utili per
disegnare un futuro possibile e sperato per restituire
all’Italia e agli italiani la dignità del ruolo che compete
alla storia di questo straordinario popolo nel contesto
europeo e mondiale. Per uscire dal disagio attuale della
vita politica italiana, delle istituzioni e della società
civile definita la “morta gora della nazione, intesa come
identità prima ancora che come “complesso di persone che
hanno comunanza d’origine”, tanto per citare la Treccani”. E
così il dialogo tra il giornalista e il politico si sviluppa
proprio sulla base di quella sete istintiva di valori
identitari che caratterizza tutte le generazioni e le
culture in qualche modo “orfane” dei loro “miti fondativi”.
Ed è il tema del momento, dacché è facile constatare come
questo Paese abbia perduto il senso dell’identità,
dell’appartenenza, ancor più evidente nell’anno centenario
della grande guerra 1915 1918 che, per quanti hanno a cuore
il valore dell’unità d’Italia, è soprattutto la quarta
guerra d’indipendenza, quella che ha portato i confini della
Patria oltre Trento e Trieste. In una stagione nella quale
Corte costituzionale e Consiglio di Stato hanno dovuto
ricordare ad una istituzione universitaria, la quale aveva
previsto corsi esclusivamente in lingua inglese, che non si
può prescindere nell’insegnamento dall’italiano perché la
lingua identifica un popolo, la sua storia, l’essenza del
suo essere proiettato verso l’avvenire. Tutto questo mentre
si odono pericolose, ricorrenti pulsioni antiunitarie nella
contestazione, non ragionata e non basata su documenti veri
dei limiti, inevitabili e da ogni persona di onestà
intellettuale riconosciuti, di alcune fasi della
integrazione delle regioni meridionali nel nuovo Stato
unitario che ha avuto origine il 17 marzo 1861.
Convinti che
l’unità sia un valore non storico non sentimentale, un
valore autentico che fa di una massa di uomini e di donne un
popolo, quel popolo in nome del quale i giudici in Italia
pronunciano le loro sentenze, si dipana il colloquio fra il
giornalista, scrittore raffinato e colto, e l’avvocato
napoletano, gioviale e carismatico, acclamato Presidente
dell’U.M.I nel 2010, succedendo a Sergio Boschiero che aveva
tenuto alta la fiaccola della Monarchia lungo gli anni
difficili del 68, identificato come periodo storico che ha
squassato profondamente l’animo e lo spirito politico delle
generazioni del dopoguerra. Sacchi è stato chiamato alla
Presidenza dell’Associazione, che è politica ma non
partitica, per scrivere una nuova pagina del monarchismo in
un confronto attivo con le istituzioni repubblicane per
rappresentare ad essi ed al popolo italiano una alternativa.
E già con la partecipazione attiva alla campagna
referendaria del 2016, battendosi per il NO, Sacchi ha
dimostrato di voler cambiare e innovare nello spirito e
nella prassi dell’azione dei monarchici italiani nella
difesa della democrazia parlamentare con la quale è nato lo
Stato unitario, contro le semplificazioni spacciate per
innovazioni ma nella realtà finalizzate alla gestione
autoritaria de potere. Difende il Parlamento bicamerale ma
entra in polemica innanzitutto con l’articolo 139 della
Costituzione il base al quale “la forma repubblicana non può
essere oggetto di revisione costituzionale”. Una limitazione
che costituisce una lesione gravissima della democrazia che
ha alla base la sovranità del popolo. Sacchi ricorda, al
riguardo, che alla stesura della Costituzione nel 1946-1947,
hanno concorso molti consultori di fede monarchica che
identifica anche nei circa 70 che non approvarono la
Costituzione del suo complesso. Uomini di pensiero, da Luigi
Einaudi a Benedetto Croce, portatori dei valori dello Stato
risorgimentale, liberale e democratico, i quali hanno
concorso con la loro fede nella libertà a scrivere le norme
sui diritti, memori di una tradizione costituzionale, quella
dello Statuto Albertino del quale Piero Calamandrei,
repubblicanissimo, diceva in Assemblea Costituente il 4
marzo 1947, parlando dello stile e della chiarezza che deve
caratterizzare una costituzione, “guardate come era semplice
e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un
secolo”.
Monti Buzzetti
richiama le condizioni attuali dell’Italia, alle prese con
mille problemi, dal debito pubblico alla disoccupazione
giovanile e gli chiede perché mai il nostro Paese “dovrebbe
sobbarcarsi anche l’onere di un bouleversment così
radicale?” Aggiungendo “cosa ti fa ritenere che ne valga
davvero la pena?”.
Per Sacchi
l’Italia è cambiata rispetto al 1946 “e sono cambiati gli
italiani: è consentita una mobilità ed è permesso uno
scambio di opinioni inimmaginabili, anche grazie ad
Internet, soltanto fino a pochi anni fa. Gli italiani
viaggiano e confrontano e nella comparazione con figure come
i giovanissimi sovrani di Belgio, Spagna e Olanda, ma anche
nelle rasserenanti figure al vertice di Gran Bretagna o
Danimarca, la partita dura poco…”. E viene in mente il
giovane erede al trono di Danimarca che accompagna i figli a
scuola in bicicletta, mentre i politici di casa nostra che
non si muovono se non con l’auto blu e percorrono le strade
di Roma a sirena spiegata quasi non volessero avere contatti
con la gente né percepirne i problemi, proprio a cominciare
da quelli del traffico che pesano sulla vita quotidiana di
lavoratori e studenti, dei padri e delle madri di famiglia
impegnati ad accompagnare a scuola i figli prima di recarsi
al lavoro. Uno stridente contrasto tra la normalità dei
membri di una famiglia reale e la ricerca dello status
simbol di una classe politica modesta formata da persone
molte delle quali sono giunte ad assumere posizioni di
responsabilità senza esperienze pregresse, politiche,
professionali e umane, quelle che, si è detto scherzando,
fanno sì che il politico non sappia rispondere alla domanda
“quanto costa un litro di latte?” perché mai lo aveva
personalmente comprato.
Vi è una
importante considerazione che fa Alessandro Sacchi dopo aver
parlato di Francia e Spagna e del senso alto della unità,
quel sentimento che sulle rive della Senna “antepone il
concetto di Patria a qualunque ne sia la sua espressione
istituzionale. La Francia viene prima di tutto, con i suoi
Re, le sue rivoluzioni, Napoleone e Marianna”. E sottolinea
come “in Italia, dopo il 2 giugno 1946, vi è stata una
demolizione sistematica dei valori fondanti, che affondavano
le radici dell’epopea risorgimentale, consegnando l’opinione
pubblica alle tentazioni separatiste di certa politica
settentrionale o a conati revanscisti di certo revisionismo
borbonico. Senza passato e senza futuro, le une e gli
altri”. Perfettamente in linea con Indro Montanelli,
giornalista e storico raffinato, il quale nell’avvertenza
che apre il suo volume “L’Italia della Repubblica", da poco
tornato nelle librerie e nelle edicole, in abbinamento al
Corriere della Sera, scrive che “di coloro che avevano
votato Repubblica… pochissimi si erano resi conto che, con
la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico
tradizionale mastice della sua unità… scomparso anche
quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne
facevano temere la decomposizione”.
Ed a proposito di
pulsioni antiunitarie irresponsabilmente coltivate da alcune
forze politiche, soprattutto meridionali, Sacchi denuncia
“il mito, costruito ad arte ad opera di disinformatori, o
peggio, di falsari … alimentato da chi preferisce cullarsi
nel rimpianto delle false occasioni perdute. In realtà la
più alta percentuale di analfabetismo e la totale assenza di
qualunque garanzia costituzionale, ponevano le Due Sicilie
alla pari di un qualunque potentato africano. Né giova
ricordare che Napoli fosse definita a quell’epoca una delle
più belle città del mondo. Per capire come andassero le cose
bisogna leggere i memoriali di quelli che c’è, spesso
stranieri come il primo ministro britannico William
Gladstone, che definì Napoli (in realtà “il regno
borbonico”, n.d.A.) “La negazione di Dio elevata a sistema
governativo”. O testimonianze di patrioti, come Luigi
Settembrini, che conobbe il carcere duro per reati che oggi
definiremmo “di opinione” e che farebbero inorridire se oggi
fossero puniti.
La verità è che i
Borbone, come le altre dinastie preunitarie “avevano già
perso l’appuntamento con la Storia nel 1848 quando, per
effetto dei moti rivoluzionari che avevano infiammato
l’Europa, tutti i Sovrani si affrettarono a concedere gli
statuti ma tutti, non appena ne ebbero la forza o ne
intravidero l’opportunità li revocarono. I Savoia no”. La
prova dell’assenza di libertà di opinione, di riunione, di
associazione, di religione e data dalle migliori menti delle
Due Sicilie che “furono costrette all’esilio dall’ottuso
governo duosiciliano o conobbero il carcere e qualche volta
il patibolo”.
Ancora qualche
riferimento storico alle condizioni sociali del Sud,
economiche e sanitarie, per ricordare un episodio di
famiglia sull’accoglienza che ebbe Garibaldi a Napoli quando
un regno si sfaldò nel giro di poche settimane e si sofferma
su alcune risibili ricostruzioni di eventi del brigantaggio
o gli altri come quello del carcere di Fenestrelle, cui i
neoborbonici ricorrono di frequente, demolito dalla puntuale
e documentata ricostruzione di Alessandro Barbero nel libro
“I prigionieri dei Savoia”.
La conversazione
si dipana lungo gli eventi che nel corso del Risorgimento
hanno visto fiorire da ogni angolo d’Italia iniziative di
uomini di pensiero e di azione le quali hanno generato un
moto inarrestabile in favore dell’unità d’Italia non appena
il Re di Sardegna Carlo Alberto, rispondendo alla chiamata
dai milanesi in rivolta contro l’Austria, passò il confine
al comando delle truppe alle quali aveva consegnato la
bandiera tricolore alla quale aveva aggiunto, nel bianco, lo
stemma della Casa di Savoia. Una scelta, quella del Sovrano
che non verrà mai meno e che farà del Piemonte il punto di
riferimento dei patrioti di tutta Italia, anche di quanti si
erano mossi per richiedere l’unificazione in forma di
repubblica. Come Mazzini che nel settembre 1859 scrive a Re
Vittorio Emanuele II “vi chiamo a porvi a capo d’una
rivoluzione nazionale. Vi chiamo ad una iniziativa che può
divenire una iniziativa europea”. Concludendo “io,
repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per
serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia
giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria:
preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la
quale osaste e vinceste”.
Il dialogo tra
Sacchi e Monti Buzzetti ripercorre soprattutto la storia del
Sud, quella che il Presidente dell’U.M.I., napoletano, sente
più vicina e della quale orgogliosamente rivendica la scelta
unitaria contro talune deliranti artefatte narrazionI
neoborboniche, quelle che nel linguaggio
giornalistico-politico si chiamano fake news
arricchite da documenti che spesso si riferiscono a fatti
diversi da quelli che si vorrebbero esporre. “Insomma dei
falsi e fatti anche male. Del resto - aggiunge Sacchi -
affermare, come si è fatto, che dopo il 1860 nel sud Italia
vi furono ad opera dei “piemontesi” un milione di deportati,
con una popolazione di nove milioni di persone, è molto più
che risibile: è patetico”. Aggiungo che questo tentativo di
riscrivere la storia, che ovviamente è sempre possibile e,
in taluni casi, necessario, non deve essere strumento di
negazione della identità di un popolo la cui ricchezza si
fonda sulla varietà delle esperienze politiche, culturali,
artistiche che, in un ambiente naturale straordinario, che
tutte insieme fanno dell’Italia il “bel paese ove il sì
suona”. Anche se poi non suonava dappertutto perché nelle
aree del mezzogiorno che si vorrebbero felici l’uso della
lingua italiana era limitato ad alcune classi sociali e, in
questo ambito, alle persone colte che si rapportavano con
l’Europa nel linguaggio che Alessandro Manzoni aveva
consegnato ai lettori dei suoi Promessi Sposi,
riservando alle conversazioni domestiche il dialetto,
prezioso retaggio delle poesie e delle storie locali.
Nulla a che fare
con i neoborbonici alla ricerca di un riscatto che non ha
ragion d’essere perché nessuno al governo del Regno d’Italia
volle umiliare le popolazioni già appartenenti al disciolto
Regno delle Due Sicilie. I cui sudditi, nelle classi
borghesi, apprezzarono l’ordine e l’organizzazione del Regno
d’Italia, tutti tranne coloro che erano abituati al
brigantaggio, alla malavita organizzata, tollerata ed usata
dalla piccola nobiltà che si vantava di essere tale in virtù
di spada e toga, mentre non era altro che una cortigiana,
spagnolesca espressione servile.
Riprendo la
“conversazione” di Sacchi e Monti Buzzetti per non
aggiungere troppe mie personali annotazioni al ricco e
stimolante testo, anche se le divagazioni sono state
sollecitate proprio dalla lettura che, tra storia e
politica, intende trarre dal passato elementi di
approfondimento in funzione del presente e del futuro. Al
quale i monarchici guidati dal Presidente Sacchi guardano
con speranza e fiducia confortati dall’esperienza positiva
delle monarchie europee e, forse, anche dalla crisi politica
e sociale dell’Italia di oggi nella quale i commentatori
sono alla ricerca delle distinzioni tra prima, seconda,
terza e, forse, quarta repubblica puntualmente scandite da
eventi non commendevoli, il più delle volte di carattere
giudiziario o di crisi finanziarie, economiche e sociali mai
previste e comunque sempre inadeguatamente affrontate.
Monti Buzzetti
provoca il suo interlocutore. “Riassumendo, dunque: i Savoia
meglio dei Borboni. Ma meglio dei Savoia – questo il
ragionamento di tanti – c’è la Repubblica, ultima in ordine
di tempo”. E aggiunge. “l’obiezione tipica dell’uomo della
strada ad aspirazioni come la tua è “che facciamo, torniamo
indietro?” Naturalmente Sacchi si attendeva l’osservazione.
E, mentre prepara gli argomenti per rispondere alla
provocazione, comincia con un detto popolare diffuso ovunque
in Italia “è una repubblica”, che la saggezza popolare
attribuisce a situazioni confuse. Lo diceva anche mia nonna.
Sacchi prosegue
richiamando l’art. 139 della Costituzione che esclude la
modificabilità della forma repubblicana dello Stato. Lo
ritiene un “senso di colpa costituzionale”, un “muro
ideologico innalzato nel 1946/48 dai costituenti per
blindare un risultato referendario discutibile e tuttora
discusso”. Ritiene quella scelta “un’insopportabile
compressione della sovranità popolare, tutelata dall’art. 1
della stessa Carta”, laddove si legge che “la sovranità
appartiene al popolo”.
Sull’art. 139
l’U.M.I. ha ingaggiato una dura battaglia chiedendo ai
partiti la disponibilità ad affrontare il tema della sua
soppressione. E siccome molti accettano di parlarne in
privato ma non in pubblico Sacchi ha invitato i monarchici,
in occasione delle elezioni del 4 marzo, ad astenersi dal
voto nei confronti di quei partiti. Decisione “politica”,
non sfuggendo al Presidente dell’U.M.I. che la Costituzione
considera il voto un “dovere” anche se la sua omissione non
è, come un tempo, sanzionata.
Torniamo al
“perché sì” della Monarchia che Sacchi affronta sulla base
di uno stimolo di Monti Buzzetti il quale assume che
l’opzione monarchica potrebbe essere percepita oggi “come
qualcosa di elitario, una conventio ad excludendum”.
È facile per Sacchi ribattere che i capi di stato in
repubblica sono sempre espressione dei partiti, spesso
impegnati nelle competizioni elettorali in prima persona,
quindi naturalmente “di parte”, una posizione suggerita da
una legittima ambizione che non c’è per i regnanti e per gli
eredi al trono che li rende indipendenti, capaci di
interpretare gli interessi del popolo con il distacco dato
dalla carica che non deve soddisfare le aspettative di amici
e sodali né realizzare le ambizioni politiche e ideologiche
che naturalmente sono destinate a dividere. Non lo dice
Sacchi ma io, da giurista, sono stato molto contrariato
dalla gestione di Giorgio Napolitano, un personaggio che si
è rivelato fazioso e lontano da quel ruolo di custode della
Costituzione, tra l’altro facendosi garante di una proposta
di riforma della Carta fondamentale ad iniziativa di un
Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale. Di più, ha partecipato attivamente alla
campagna referendaria sostenendo che se avesse prevalso il
“NO” sarebbe stata rinnegata la sua eredità politica. Gli
italiani hanno capito ed hanno votato in massa NO. Un uomo
“di parte”, dunque, posto al vertice dello Stato.
“L’uomo solo sul
trono”, scrive Sacchi, “non è precisamente “l’uomo solo al
comando””. Ed è facile per lui riferirsi alle “grandi
Monarchie democratiche, costituzionali e parlamentari
europee”, esempi di libertà e di buon governo. Come le
troviamo ai primi posti dei paesi più virtuosi nella
graduatoria sulla percezione della corruzione curata da
Transparecy International. Mentre l’Italia affianca Cuba
ed il Botswana, laddove il rispetto delle regole giuridiche
ed etiche lascia molto a desiderare.
Seguono passi di
storia patria che hanno fatto scrivere a Domenico
Fisichella, scienziato della politica tra i più studiati e
seguiti, quell’“Elogio della Monarchia” che costituisce un
riferimento certo, avallato da una riflessione non politica
ma scientifica, o di scienza della politica, una sorta di
decalogo della filosofia monarchica. Che è anche alla base
della attuale riflessione sulla identità nazionale messa in
forse dalla trascuratezza della Italia repubblicana per i
valori unitari e per la sovranità dello Stato.
Sovranità e
identità nel contesto del mondo globalizzato sono valori
imprescindibili che consentono ad una Nazione di
confrontarsi con gli altri partners, in particolare in
Europa per non dimenticare neppure il valore della nostra
storia, della cultura e dell’arte, realtà preziose per le
quali l’Italia è famosa ovunque, al di qua e al di là degli
oceani. Una storia che la repubblica non ha saputo
rivendicare se in visita al Parlamento Europeo Sacchi ha
potuto constatare che “tutto è scritto in francese,
tedesco, fiammingo: nulla ricorda l’Italia”, nonostante il
nostro Paese sia uno dei soci fondatori della Comunità, poi
dell’Unione. Ce n’è abbastanza per capire dove Alessandro
Sacchi e l’Unione Monarchica intendono andare, per
rivendicare l’identità nazionale, la storia patria, valori
del passato che si proiettano inevitabilmente nel futuro.
Nella pubblicità televisiva del libro di Montanelli che
abbiamo ricordato nelle pagine precedenti è riproposto un
brano di una intervista al grande giornalista per il quale
un popolo che non ha “ieri” non ha neppure un “domani”. E il
domani per i monarchici dell’U.M.I. è “la Monarchia,
costituzionale e parlamentare, con Amedeo di Savoia Re
d’Italia, e dopo di lui Aimone, e dopo di lui suo figlio
Umberto”.
25 aprile 2018
Equivoci dell’inesperienza
Programma di Governo e governabilità
di Salvatore Sfrecola
Il leader del
Movimento 5 Stelle continua a ripetere che intende stipulare
“con chi ci sta” un contratto di governo “alla tedesca”.
Espressione che certamente avrà colpito l’immaginazione
degli ascoltatori, soprattutto degli elettori “grillini”,
come si usa dire. Che uomo colto e informato il nostro Di
Maio, avranno pensato, conosce perfino quello che accade in
Germania, anzi cosa è accaduto tra i partiti che a Berlino
hanno dato vita ad un governo di coalizione dopo sei mesi di
intenso dibattito, necessario perché CDU e SPD, gli ex
democristiani e gli ex socialdemocratici, si erano sparati
ad alzo zero nel corso di una campagna elettorale che non
aveva risparmiato critiche feroci reciproche. Anche se
avevano governato insieme nei precedenti cinque anni.
Cos’è il
contratto “alla tedesca”, dunque? È come l’accordo di
governo “all’italiana”, un documento nel quale i partiti che
si apprestano a formare il governo mettono “nero su bianco”,
come ripete Di Maio, i punti programmatici che intendono
realizzare. Naturalmente, essendosi confrontati nel corso
della campagna elettorale con toni accesi con riferimento
alle rispettive piattaforme programmatiche quel “contratto”,
cioè quell’accordo, individua ipotesi che entrambi ritengono
necessarie per governare insieme, certamente rinunciando
ognuno a qualcosa. Altrimenti sarebbe uno di quei contratti
che in diritto si chiamano “per adesione”, come nel caso
delle assicurazioni. “Prendere o lasciare” in politica non è
possibile. Nessun partito accetta di sottoscrivere il
programma di un’altra forza politica. Mai, meno che mai al
termine di una campagna elettorale in cui le
contrapposizioni sono state dure, assistite da vivaci
espressioni polemiche, spesso al limite dell’insulto.
Alla luce di
queste considerazioni, che ogni cittadino elettore ben
comprende, non è possibile condividere la tesi di Di Maio,
apprezzabile solamente da chi è digiuno di politica ma anche
privo di buon senso. Perché in aggiunta al riferimento al
contratto Di Maio precisa che fra chi lo stipula non si
realizza un’alleanza. Qui non si può scherzare con le parole
e con i concetti. Coloro che stipulano un contratto politico
in vista della formazione di un governo sono alleati. Ed a
nessuna persona di buon senso di fronte ad un accordo tra
partiti che “ci mettono la faccia”, come si usa dire, con
ministri e sottosegretari, verrebbe in mente di ritenere che
quei partiti non siano legati da un’alleanza, sia pure
temporanea, sia pure riferita ad un minimun da fare
insieme.
Sfugge, inoltre,
a Di Maio, in questa sua visione del “contratto” che il
governo nel suo insieme ed i singoli ministri, al di là dei
temi fondamentali che identificano l’oggetto dell’accordo,
ogni giorno producono centinaia di provvedimenti di vario
genere, regolamenti ministeriali di attuazione delle leggi,
decreti di approvazione di contratti, nomine di dirigenti e
di rappresentanti delle rispettive amministrazioni in enti
ed organismi vari.
Questi
provvedimenti presuppongono un idem sentire
complessivo rispetto all’attività di governo. In assenza,
qualunque sia il governo che si può al momento immaginare
con al centro il Movimento 5 Stelle che ha portato in
Parlamento brava gente spesso senza alcuna esperienza e
cultura giuridica è inevitabile un conflitto permanente
difficilmente contenibile da parte dei Presidenti dei Gruppi
parlamentari.
Insomma, per
governare occorre una cultura di governo, cioè la capacità
di gestire la somma delle attività che i ministeri, a Roma e
nelle regioni, producono, che non sono riconducibili ad uno
schema semplificato. Neppure se il contratto fosse fatto di
alcune centinaia di pagine, come si sente dire del contratto
“alla tedesca”. L’Amministrazione italiana è titolare di una
miriade di funzioni che possono essere ricondotte solamente
sotto un ombrello di saggia cultura giuridica e politica.
20 aprile 2018
In un Movimento dove è prevalso il voto di protesta
Di Maio alla ricerca di una maggioranza
di Salvatore Sfrecola
Capisco di Maio che, di fronte all’ipotesi di un governo
Movimento Cinque Stelle – Centrodestra, che molti, numeri
alla mano, immaginano come la più praticabile, rivendica il
suo ruolo di capo del partito più votato il 4 marzo. Sicché
Matteo Salvini in qualche modo rimane a guardare, pur avendo
fin dall’inizio mostrato la più ampia disponibilità a
trovare un accordo programmatico, sempre ricordando che il
maggior numero di voti è andato alla coalizione di
Centrodestra e che in essa la Lega è partito più votato.
Il fatto è che Di Maio deve governare una base non facile e
non omogenea, comunque sempre più irrigidita nel rifiuto di
alleanze, in particolare con Forza Italia e con il suo
leader, Silvio Berlusconi al quale i “grillini” rimproverano
problemi giudiziari e l’attuale incandidabilità. Di Maio,
tuttavia, sa anche che l’elettorato che gli ha dato quei
rilevanti consensi il 4 marzo non è ideologicamente
omogeneo. Anzi è molto frastagliato, in buona parte
costituito da soggetti che, nell’apporre la croce sul
simbolo del M5S, hanno innanzitutto voluto esprimere una
protesta profonda, diffusa nell’opinione pubblica italiana,
nei confronti della classe politica al governo, negli ultimi
anni ed anche prima. È una percentuale ampia del voto quella
protestataria, un voto per sua natura mobile perché non
sorretto da un credo politico basato su ideali condivisi.
Anche il voto di chi in precedenza aveva scelto partiti di
sinistra non trasforma l’elettore, giustamente deluso dalla
politica del Partito Democratico, in un fan stabile del
movimento, come dimostra il successo delle destre e, in
particolare, della Lega in regioni tradizionalmente “rosse”,
come l’Emilia-Romagna, la Toscana, le Marche e l’Umbria,
dove il partito di Salvini mira a conquistare Terni,
tradizionale roccaforte del Partito Democratico. E al
prossimo giro la Regione.
È dunque difficile per Di Maio reggere questo composito
elettorato, soprattutto nella consapevolezza che sarà assai
arduo realizzare in tempi brevi quello che ha promesso.
Perché se è possibile in una legislatura di durata
accontentare gli elettori gradualmente, la risposta della
base, in caso di elezioni anticipate, potrebbe rivelare
sorprese spiacevoli, considerata la crescente attenzione che
i ceti popolari riversano sulla Lega il cui consenso non è
solo di protesta, perché costruito su un manifesto politico
che molto si basa sulla rivendicazione di ragioni
identitarie, su quel “sovranismo” che si oppone alla
globalizzazione ed all’influenza dei tecnocrati di Bruxelles
e di cui ha scritto di recente Giuseppe Valditara (“Sovranismo”
Una speranza per la democrazia”
(editore Book time, 149 pagine). Ordinario
di diritto romano a Torino, Valditara è molto ascoltato in
via Bellerio per aver messo a disposizione di Matteo Salvini
le riflessioni degli studiosi che fanno parte del Comitato
scientifico di Logos (www.logos-rivista.it)
la rivista che, di mese in mese, approfondisce temi politici
ed economici, insomma il programma del governo a base Lega.
Non c’è dubbio, dunque, che per Di Maio la scelta più saggia
sarebbe quella di fare con Salvini un percorso comune per
consentire al M5S, al ritorno alle urne, di fare un balzo in
avanti e conquistare quel che resta di una sinistra divisa e
senza apparente speranza di ripresa, come ovunque in Europa.
Tuttavia capisco che a quel passaggio, da tutti immaginato
come necessario dopo il voto per l’elezione dei vertici
delle Camere, Di Maio deve giungere gradualmente,
sviluppando nel corso delle consultazioni al Quirinale,
certezze su un programma minimo condiviso con la Lega e il
Centrodestra che non eluda le domande che provengono dalla
base ma le renda compatibili con altri momenti riformatori,
dalla Pubblica Amministrazione alle pensioni, alla
giustizia, alla scuola, in un contesto nel quale le imposte
ridotte liberino risorse per i consumi ed il risparmio.
È dunque un passaggio delicato quello con il quale Di Maio è
alle prese, consapevole che già dai primi giorni delle
consultazioni si misurerà la sua capacità politica, la sua
lungimiranza di leader che ha suscitato importanti
aspettative. Ne deve uscire con un risultato concreto che
sia l’incipit di una grande riforma, non essendo questo il
tempo di testimonianze improduttive di effetti sul Governo
ed il Parlamento.
1 aprile 2018