AGOSTO 2018
Il 28 agosto a Pamparato (Cuneo) sarà ricordata la
tragica fine di Mafalda di Savoia, morta nel lager
nazista di Buchenwald
Il 28 agosto 1944 la Principessa Mafalda di Savoia morì
nel campo di concentramento di Buchenwald, a seguito
delle ferite riportate nel corso di un bombardamento di
aerei anglo-americani che avevano come obiettivo un
complesso industriale chimico poco distante dal lager.
La Principessa era rimasta sotto le macerie. Una volta
liberata fu immediatamente evidente che la ferita al
braccio sinistro era grave tanto che in assenza di cure,
manifestatasi la cancrena le fu amputato da un chirurgo
del campo di concentramento che non aveva esperienza di
questo tipo di interventi. Fu un intervento tardivo e
lungo che aggravò le condizioni della paziente,
debilitata anche per la copiosa perdita di sangue. Morì
senza aver ripreso conoscenza.
Nata a Roma il 19 novembre 1902, secondogenita di
Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, Mafalda
(“Muti” in famiglia) aveva sposato il 23 settembre 1925
il principe Filippo, landgravio d'Assia, dal quale aveva
avuto quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed
Elisabetta.
A fine agosto del 1943 la principessa aveva raggiunto a
Sofia la sorella Giovanna per i funerali del consorte,
Boris III, zar dei Bulgari, che sembra certo sia stato
avvelenato durante un incontro con Hitler.
Nei giorni della sua permanenza a Sofia gli
anglo-americani comunicarono la resa dell'Italia con
quattro giorni di anticipo rispetto alla data prevista
(8 anziché 12 settembre). Il 9 la Famiglia reale ed il
Governo si trasferirono in Puglia, a Brindisi, in un
contesto di difficoltà delle comunicazioni dovuto al
dilagare delle truppe tedesche che erano scese in Italia
numerose già all’indomani del 25 luglio, quando, dopo la
caduta del Fascismo, Hitler ritenne imminente la
decisione italiana di una pace separata con gli
angloamericani. La Principessa ebbe difficoltà a
rientrare in Italia. Il suo aereo
che doveva condurla a Bari atterrò a Pescara. Comunque
sarebbe corsa a Roma per mettere al sicuro i figli
minori (Maurizio era in Germania, come il padre Filippo,
sotto stretta sorveglianza di Hitler, che poi lo
“confinò”) ospitati in Vaticano con l’ausilio di
Monsignor Montini, Sostituto della Segreteria di Stato
incaricato da Papa Pio XII.
Messi in salvo i figli, la Principessa cadde nella
trappola che le aveva preparato il Colonnello delle SS
Kappler che l’aveva convinta a recarsi presso
l’Ambasciata di Germania con il pretesto che solo da lì
poteva parlare per telefono con il marito che Mafalda
non sapeva fosse stato “fermato” (il Principe Filippo
era un Generale dell’Esercito tedesco). Il 23 settembre
la Principessa fu arrestata e internata a Buchenwald su
ordine firmato personalmente da Himmler. In un primo
tempo la prigioniera fu registrata all’anagrafe del
Campo come Prinzessin Mafalda von Hessen, geborene
Prinzessin von Savoye, poi ordini perentori
stabilirono che dovesse assumere il nome di Frau von
Weber.
Come detto, morì in circostanze tragiche. La sua salma,
inumata nella fossa 262 del cimitero di Weimar era
indicata come quelle di Eine unbekannte Frau, una
donna sconosciuta. L’avevano riconosciuta marinai
italiani prigionieri di guerra con l’aiuto del monaco
cecoslovacco Herman Josepf Tyl che la sottrasse al forno
crematorio. Oggi le spoglie di Mafalda di Savoia
riposano nella tomba degli Assia a Cronberg, nel Taunus.
La vicenda della Principessa Mafalda è al centro di un
incontro al Municipio di Pamparato, in provincia di
Cuneo alle 17.30 di martedì 28 agosto. Intervengono
Francesco Cordero di Pamparato, la ricercatrice Maura
Aimar, Aldo Alessandro Mola, direttore della
Associazione di studi storici Giovanni Giolitti, e i
curatori delle biografie di Mafalda, Renato Barneschi
(ed. Bompiani) e Mariù Safier (ed. Bastogi), e Sergio
Soave, Presidente dell'Istituto storico della
Resistenza. Il dibattito sarà moderato da Claudio Bo,
Direttore del settimanale “Piazza Grande”.
A proposito dei migranti ospitati su nave Diciotti
Se 155 sembrano pochi
di Salvatore Sfrecola
Adesso che la vicenda dei naufraghi imbarcati su una
nave Diciotti, il pattugliatore della Guardia Costiera,
che li aveva salvati in mare, ha trovato una soluzione
generalmente accettata possiamo ripercorrere sine ira
ac studio, come dicevano i nostri antenati romani
che erano dei saggi, gli avvenimenti di questi ultimi
giorni, compresa l’iscrizione nel registro degli
indagati del Ministro dell’interno Matteo Salvini.
E perché i lettori comprendano in quale contesto si è
sviluppata la vicenda riandiamo al salvataggio dei
migranti in veste di naufraghi, a quanto sembra, in
acque maltesi nel più assoluto disinteresse del governo
dell’isola che già in altra occasione, con diverse
motivazioni, si è sottratto all’obbligo di soccorrere
chi in mare rischiava la vita, escludendo
categoricamente di poterli accogliere e assistere sul
proprio territorio. Solo in un caso di maltesi hanno
aperto le braccia.
Su nave Diciotti, dunque, i naufraghi sono stati
accolti, rifocillati e curati delle malattie che
portavano con sé, alcuni la scabbia, la polmonite e
qualche altro disturbo dovuto agli strapazzi del viaggio
dalle coste libiche. Giunti in Italia, a Catania, è
stato loro impedito di scendere a terra nonostante
fossero già in territorio italiano, come deve intendersi
una nave militare dello Stato. E qui è cominciata la
polemica alimentata dalle opposizioni alla ricerca di
visibilità, dell’ubi consistam, dopo i disastrosi
risultati elettorali che il Partito Democratico e
Liberi e Uguali hanno conosciuto il 4 marzo, con
accuse di violazione di disposizioni di legge, a
cominciare dalla Costituzione, in quanto sarebbero stati
addirittura oggetto di un sequestro di persona, arresto
illegale, abuso d’ufficio. Questo a leggere i giornali
ed a sentire le televisioni perché una indicazione
esatta del provvedimento che è stato adottato dal
Procuratore della Repubblica di Agrigento Patronaggio
e quindi della sua motivazione ancora oggi non
l’abbiamo.
Cominciamo dal divieto di sbarco che è parso un atto
illegittimo come se i migranti avessero un diritto di
scendere a terra cioè su una parte del territorio
nazionale diversa rispetto a quella costituita dalla
nave militare sulla quale erano imbarcati. In realtà i
motivi della permanenza sulla nave, ritenuti da taluno
illegittimi, possono aver avuto varie motivazioni, in
primo luogo di igiene, considerate le condizioni dei
migranti affetti da malattie contagiose, come la
scabbia, sicché poteva essere consigliata la permanenza
sulla nave per interventi sanitari d’urgenza prima di un
ricovero in ospedale. È la classica “quarantena”
(bandiera gialla) che ha sempre accompagnato le vicende
dei migranti e comunque di quanti su una nave ancorata
in un porto provenivano da territori infestati da
malattie contagiose. Questo, senza che sembri un’offesa
alle persone, accade anche nel trasporto di animali
quando si sa che provengono da aree geografiche
infestate da talune malattie, come la peste suina.
D’altra parte che ci fossero preoccupazioni di ordine
sanitario lo dimostra anche l’uso di mascherine, guanti
e copri scarpe usati dai marinai e da coloro i quali, a
cominciare dai politici accorsi per verificare le
condizioni dei migranti, sono saliti a bordo della nave
per constatare quali fossero le condizioni di salute di
quelle persone.
C’è poi il profilo dell’ordine pubblico che può aver
consigliato al Ministro dell’interno, che è autorità
competente in materia, ad impedire per un certo tempo lo
sbarco, in attesa della individuazione del luogo dove i
migranti potevano essere allocati.
Sembra, dunque, un po’ frettolosa la conclusione cui
sarebbe pervenuto il Procuratore della Repubblica di
Agrigento la cui competenza, a quel che si dice,
deriverebbe dal fatto che i migranti sarebbero stati
raccolti vicino a Pantelleria e non nelle acque di
Malta. Mi chiedo, tuttavia, se il reato ipotizzato è
quello del sequestro di persona o di abuso per il
mancato trasferimento a terra, è evidente che l’illecito
sarebbe stato consumato a Catania.
L’impressione che si ha è, come detto, quella di una
conclusione frettolosa, dovuta probabilmente
all’incalzare delle polemiche, al susseguirsi delle
denunce, alla volontà di far vedere che, di fronte ad
una situazione dipinta come fortemente in contrasto con
i diritti fondamentali delle persone, la magistratura
non tardava ad intervenire rispetto ad una aspettativa
di quella parte dell’opinione pubblica convinta di
essere di fronte ad un illecito grave e, come è stato
sostenuto da parti politiche interessate a denigrare il
governo, capace di offuscare l’immagine di civiltà dello
Stato e del popolo italiano dinanzi alla comunità
internazionale se non all’Europa, la quale ha dimostrato
assoluto disinteresse per le esigenze di difesa della
frontiera meridionale marittima che è in gran parte
rappresentata dalle coste italiane.
Devo dire che l’impressione che traggo dall’intera
vicenda è quella che la scelta del Ministro
dell’interno, sicuramente necessaria, non sia stata
rappresentata all’opinione pubblica e, da ultimo, anche
all’Autorità Giudiziaria nei suoi tratti di legalità a
tutela dell’interesse pubblico nelle sue varie
declinazioni igieniche e di sicurezza. Questioni di
carattere amministrativo con le quali spesso i
magistrati ordinari hanno scarsa dimestichezza.
Non posso concludere queste brevi riflessioni senza
prospettarne una ulteriore, quella che è sbagliato
ritenere che il problema, riguardando poco più di 150
persone, fosse piccola cosa del contesto
dell’immigrazione clandestina, costituita da centinaia
di migliaia di persone presenti da anni in Italia, che
preoccupa in grande maggioranza gli italiani. Infatti
siamo di fronte ad un episodio che va inserito nel
sistema del contrasto alla immigrazione indiscriminata
il cui rilievo, dal punto di vista dell’ordine pubblico
e della sicurezza delle persone, va al di là molto al di
là del numero dei migranti che di volta in volta si
presentano alle nostre frontiere, in quanto trattasi di
persone le quali non hanno una occupazione che li
impegni e che in qualche modo integri la loro presenza
nel tessuto economico del Paese, ma che sono dedite al
vagabondaggio e all’accattonaggio, e, nelle ipotesi più
preoccupanti, allo spaccio di droga, alla prostituzione,
in forme varie dominate dalla criminalità. Non c’è chi
non veda con preoccupazione come le città si stiano
riempendo di giorno in giorno di questuanti, alcuni dei
quali operano in condizioni di evidente costrizione,
come le donne che inginocchiate in preghiera con la
testa a terra attendono qualche spicciolo. Queste
condizioni che si ripetono nelle strade di Roma, ad
esempio, denotano una presenza criminale, un
condizionamento, un racket per cui non ci vuole
Sherlock Holmes per capire che c’è
una vasta rete criminale che domina queste attività
sfruttando queste povere persone. Sì che chi tollera
queste situazioni è complice degli sfruttatori. E quindi
fa bene il Ministro Salvini a combattere questa
battaglia di identificazione di chi ha diritto di
entrare in Italia perché fugge dalla guerra o da
condizioni di pericolo personali e chi desidera,
legittimamente, migliorare la propria condizione di vita
ma non ha uguali diritti.
Tuttavia i dubbi su molte situazioni sono tanti, basti
pensare che non è credibile che giovani uomini fuggano
dalla guerra e quindi da situazioni di pericolo attuali
lasciando a casa le donne e bambini dei quali dovrebbero
in primo luogo preoccuparsi.
Gli italiani, lo verifica ogni indagine, condividono le
iniziative del Ministro dell’interno. E sono contrariati
dall’intervento della magistratura sbrigativamente
etichettata come “di sinistra”. In realtà un Procuratore
della Repubblica che riceve denunce deve fare le sue
indagini. È bene, dunque, che le scelte del Governo, che
sono in primo luogo di natura politica, pertanto di
competenza delle valutazioni del Parlamento, siano anche
giuridicamente inattaccabili con riferimento alle leggi
ed alle regole di diritto, interno ed internazionale che
riguardano questa materia, il rapporto con lo straniero
che si presenta ai nostri confini senza documenti di
riconoscimento o comunque senza che abbia titolo di
lavoro o di studio o turistico per restare in Italia.
Forse qualche ripasso delle regole del diritto lo
dovrebbero fare i collaboratori del Ministro per non
esporlo a critiche e rischi inutili sul piano politico e
giudiziario.
(da www.italianioggi.com)
Le colpe di uno Stato incapace di controllare
La tragedia di Genova insegna che le responsabilità del
concessionario non assolvono chi ha operato per far
perdere efficienza e prestigio alla pubblica
amministrazione: pesa anche ka cattiva politica che non
dà direttive e non sa scegliere i collaboratori
di Salvatore Sfrecola
Ci voleva la tragedia di Genova, ultima in ordine di
tempo tra i crolli di ponti e viadotti, le frane e le
esondazioni che periodicamente costituiscono l’emergenza
di questo Paese, che spende per tali eventi più, molto
più di quanto avrebbe dovuto impegnare per la
prevenzione ed i controlli, perché qualcuno si soffermi
sulla realtà dell’amministrazione pubblica ormai
inadeguata, da rifondare. Non che manchino eccellenze e
strutture adeguate in ogni settore, ma è evidente che
l’Amministrazione nel suo complesso è molto lontana da
quella che l’Italia aveva conosciuto in passato. Basta
riandare un po’ alla storia per rilevare come siano
venuti meno professionalità e presidi che un tempo erano
il fiore all’occhiello dello Stato e degli enti,
territoriali e istituzionali.
Per non sembrare un laudator temporis acti
riprendo quanto ha scritto pochi giorni fa, il 18
agosto, su Facebook il Prof. Guido Melis, noto
storico delle istituzioni il quale ha ricordato che
“c’era una volta il Genio civile. Dopo l’unità,
nell’Ottocento, fece letteralmente l’Italia, costruendo
strade, ponti, edifici pubblici. Li progettava, li
realizzava, li manuteneva. Aveva il corpo di ingegneri
civili più prestigioso d’Italia. Poi lo Stato si
espanse. Le opere si fecero più numerose e costose.
Allora si fece ricorso alle imprese private. Si
stipularono contratti d’appalto. Il Genio civile,
amministrazione dello Stato, adesso per lo più vigilava.
Il verbo vigilare è un verbo ambiguo. Allora significava
conoscere i progetti delle imprese, seguirne
l’esecuzione, controllarne nel tempo la manutenzione.
L’occhio dello Stato funzionava. Corpi scelti di
ispettori, dotati di elevate capacità tecniche, vedevano
e provvedevano. Era così con Giolitti e fu così col
fascismo. Un ingegnere del Genio in provincia era
un’autorità. E così il capo dell’ufficio tecnico
erariale, l’intendente di finanza, il prefetto. Ogni
autorità nel suo settore agiva con ampi poteri di
vigilanza. Nel secondo dopoguerra questo sistema saltò”.
La citazione è lunga ma essenziale e dice con
l’autorevolezza del cattedratico cose che ho sempre
detto e scritto io sulla base dell’esperienza maturata
nella magistratura contabile, nel controllo e nella
giurisdizione di responsabilità, un osservatorio
prezioso delle amministrazioni statali, regionali e
degli enti locali.
Aggiungo quanto ho appreso leggendo ed osservando
nell’esercizio di collaborazioni con alcuni ministri, in
specie ai lavori pubblici, ai trasporti e alla marina
mercantile, funzioni oggi confluite in un unico
ministero “delle infrastrutture”. Ho trovato ovunque
funzionari di elevata professionalità e di alto senso
dello Stato ma anche molte scartine, persone incapaci di
aggiornarsi, di studiare e di assumersi delle
responsabilità. Ho trovato spesso pratiche ferme da
anni. Nei primi anni ’90, in chiusura di un convegno a
Perugia, promosso dalla Regione dell’Umbria sul tema
della gestione del patrimonio, l’allora Ministro delle
finanze, Vincenzo Visco, facendo riferimento ad
un mio intervento sul tema della responsabilità del
pubblici funzionari per danno all’Erario, disse che
molti suoi funzionari si sarebbero fatti tagliare le
mani piuttosto che firmare e assumersi una
responsabilità. Replicai che avevo visto sotto processo
soltanto incapaci o disonesti. Ma quella del Ministro
era comunque una parte della realtà, comunque una
convinzione ampiamente condivisa tra i burocrati,
certamente tra i meno preparati. L’altra parte va
individuata nella cattiva politica, quella che non è
capace di dare direttive alla struttura e di scegliere i
collaboratori. La politica che ha riempito i ministeri,
in forza dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165, di incaricati di funzioni
dirigenziali provenienti dall’area politica del
ministro, persone spesso senza arte né parte, arroganti
quanto incapaci, soprattutto di dirigere e coordinare i
propri collaboratori. La norma dice di incarichi da
conferire “a persone di particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria , da
pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di
lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese quelle che
conferiscono gli incarichi…”. Letta così sembra una cosa
importante. Ma il linguaggio ampolloso nasconde una
realtà diversa, quella che ha consentito di riempire gli
uffici di affiliati ai partiti, tratti da centri studi e
da sezioni dove sono parcheggiati i portaborse. E, ancor
più grave è stato l’incarico di funzioni dirigenziali a
dipendenti pubblici che non sono riusciti a vincere un
concorso da dirigente. L’effetto, mortificante per i
funzionari di carriera, quelli che un tempo si
chiamavano “direttivi”, oggi indicati con alcune sigle
3F, tanto per confondere le idee. Così mortificati (è
stata affossata anche l’ipotesi di una Vice dirigenza,
quella che nel privato si chiama dei quadri) i
funzionari vincitori di concorso spesso incrociano le
braccia. Trattati male quanto alla retribuzione, non
valorizzati per la loro professionalità fanno il minimo
sindacale. Nel 2001 a Palazzo Chigi c’era Giuliano
Amato ed alla Funzione pubblica Franco Bassanini
che quell’incarico aveva ricoperto anche nel precedente
Governo di Massimo D’Alema. Naturalmente ne hanno
approfittato tutti i governi, a cominciare da
Berlusconi e Renzi, che
hanno nominato a destra e a manca persone fidate che,
quando modeste, hanno concorso ad un ulteriore degrado
dell’Amministrazione, quello che sconta le inefficienze
che lamentiamo ancora una volta a Genova.
In queste condizioni la Pubblica Amministrazione
italiana ha perduto le capacità operative e progettuali
che ha ricordato il Prof. Melis ed anche quelle
di vigilanza e controllo che sarebbe stato necessario
potenziare progressivamente a mano a mano che si
procedeva nelle privatizzazioni, perché il passaggio di
attività imprenditoriali a privati, come la gestione
della rete autostradale, avrebbe dovuto essere
accompagnata da uno sviluppo delle capacità di
monitoraggio delle gestioni, sia dal punto di vista
giuridico ed economico che da quello tecnico, ai
fini della verifica degli adempimenti indicati negli
atti concessori.
È evidente che, perse le capacità tecniche che in
passato avevano distinto il Ministero dei lavori
pubblici, la cultura del vigilare si è sviluppata
secondo modelli di verifica formale successiva, sulle
carte anziché sul posto, sur place, come fa la
Corte dei conti europea, attuando una sorta di controllo
fideistico avente ad oggetto le attestazioni del
concessionario. Insomma facciamo a fidarci.
Una annotazione finale. Perduta la cultura scientifica
che aveva caratterizzato il vecchio Genio Civile, anche
gli ingegneri sono diventati dei burocrati dediti
solamente al controllo delle carte, in una condizione,
quindi, che non consente loro di interloquire da pari a
pari con i concessionari i quali affidano le loro
relazioni ad illustri cattedratici. “Lei pensa che io
potrei contestare quanto scrive il mio professore,
quello che mi ha insegnato all’università?”, mi sono
sentito dire più volte ad ogni contestazione quando la
vigilanza ed i controlli non apparivano sufficientemente
approfonditi. Come a Genova, dove sarà presto chiaro che
le evidenti responsabilità del concessionario non
potranno assolvere lo Stato che, si scoprirà, avrebbe
dovuto controllare e non accettare ciecamente le
relazioni tecniche dell’appaltatore, anche quando
sottoscritte dal maestro dell’ingegnere di turno.
Con un’amministrazione priva di corpi tecnici adeguati
alle esigenze è facile per politici sensibili alle
sirene dell’imprenditoria nazionale e locale aderire
alle richieste dei concessionari desiderosi di avere
mano libera nella prospettiva di maggiori guadagni. Di
queste scelte si accusa oggi il Governo Berlusconi.
Siamo nel 2008, ma è anche vero che ripetutamente il
Senatore Lucio Malan, di Forza
Italia, ha interrogato invano i Ministri delle
infrastrutture responsabili della proroga delle
concessioni, segnalando l’evidente contrasto di quelle
decisioni con le regole europee della concorrenza.
(da La Verità del 23 agosto 2018)
Da Cavour a Toninelli
La polemica sulla TAV e il destino dell’Italia nel
Mediterraneo, tra ferrovie e porti
di Salvatore Sfrecola
Sottotraccia fino a qualche giorno fa, la polemica sulla
TAV, la linea di alta velocità Torino – Lione, è esplosa
creando più di qualche problema per il governo nel quale
convivono due posizioni nettamente distinte, quella
della Lega, che ritiene la nuova ferrovia utile e
comunque condivisa dalle popolazioni della Valle di Susa
dove il Carroccio ha fatto il pieno nei collegi
uninominali, e il Movimento 5 Stelle
che la ritiene inutile e costosa. Il Ministro delle
infrastrutture Danilo Toninelli è andato giù
pesante. “La mangiatoia è finita”, è stato il suo
commento alle parole di Antonio Tajani,
Presidente del Parlamento europeo e Vice Presidente di
Forza Italia, che durante una visita al cantiere ha
sottolineato l’utilità dell’opera che, tra l’altro,
realizza una tratta di un “corridoio europeo” e pertanto
cofinanziato dalla Commissione. Nettamente favorevole
all’opera anche il Presidente della Regione Piemonte,
Sergio Chiamparino, che ha accompagnato Tajani
in Val di Susa.
Il gravissimo sgarbo istituzionale di Toninelli
fa intendere che la polemica non si ferma qui, anche
perché il Ministro ha contro, oltre l’alleato di
governo, Silvio Berlusconi e
Matteo Renzi che hanno tutto l’interesse a
rappresentare un M5S che si oppone
ad iniziative di sviluppo con evidenti ricadute
occupazionali.
Non è la prima volta che si polemizza sui trafori delle
Alpi occidentali. Un secolo e mezzo fa a far discutere
furono il traforo del Moncenisio e poi del Frejus. Nel
Parlamento subalpino, in un clima surriscaldato nel
quale taluno denunciava l’inutilità dell’opera, rispose
a tutti Camillo Benso di Cavour spiegando che con
quel “buco nella montagna”, come si era espresso un
parlamentare che escludeva un interesse dei piemontesi,
serviva a collegare rapidamente Torino a Parigi e di lì
a Bruxelles per far circolare i prodotti del Regno di
Sardegna e favorire lo sviluppo dell’economia. Grande
opera che nel corso della realizzazione è stata seguita
da politici e tecnici di valore, i ministri dei Lavori
Pubblici, Pietro Paleocapa, ingegnere e, poi,
Luigi Federico Menabrea, anch’egli ingegnere, già
Capo del genio militare. Per chi ne avesse voglia è
possibile ascoltare la ricostruzione del dibattito a
Palazzo Carignano, sede del Parlamento subalpino.
Sentirà parole simili a quelle di oggi con la sola
differenza del livello degli interventi. Per tutti
quello di Cavour che da tempo si occupava di
trasporti che riteneva essenziali per lo sviluppo del
piccolo Regno e nella prospettiva dell’Italia intera.
Come insegnava l’esperienza di Roma che si è distinta
per la costruzione di importanti infrastrutture viarie,
le strade che collegavano l’Urbe alle aree della
penisola nelle quali si estendeva via via l’influenza
romana, necessarie a fini militari, indispensabili per i
commerci. Poi i porti, dove attraccavano le possenti
“onerarie”, le navi da carico sulle rotte del
Mediterraneo verso l’Africa e il Medio Oriente. I
moderni hanno aggiunto treni ed aerei sempre più veloci.
Perché il tempo ha un costo e concorre a determinare il
prezzo di vendita dei prodotti e le ragioni del successo
delle imprese.
Cavour
ne era consapevole fin dai primi anni ‘40 dell’800,
quando cominciò a considerare l’Italia unitariamente dal
punto di vista economico e nella prospettiva
dell’unificazione politica. Nel 1846 scrisse di ferrovie
e porti, quando ancora il Bel Paese si articolava
in sette stati. Aveva
viaggiato molto per curare gli interessi della famiglia,
finanziari e commerciali, e per studio. Ginevra, Parigi,
Londra, dove conobbe Nassau William
Senior, che aveva tenuto la prima cattedra di
economia ad Oxford. Con lui e con Gustave de Beaumont
e Alexis de Toqueville maturò riflessioni sulla
diffusione della cultura e sulle politiche economiche e
sociali. Visitò ogni tipo di fabbrica, in Inghilterra,
nel Galles e in Scozia. Fu a Birmingham, Liverpool,
Manchester. Viaggiò in ferrovia tra queste due ultime
città, cinquanta chilometri percorsi in un’ora e mezza.
Con entusiasmo. È qui che nasce il Cavour
“ferroviere”. Porterà quelle esperienze in
Piemonte da ministro e Presidente del Consiglio.
S’impegnerà nel potenziamento delle infrastrutture del
trasporto, compresi i famosi canali che da lui prendono
il nome, e delle ferrovie. Queste,
si potrebbe così
riassumere il pensiero di Cavour, unificheranno l’Italia
e la renderanno prospera. Anche perché, disponendo di
importanti porti, con una rete ferroviaria completa
l’Italia avrebbe goduto di “un considerevole commercio
di transito”.
Ed è il 1° maggio 1846 quando la parigina Revue
Nouvelle pubblica uno scritto di Cavour di
una straordinaria attualità ad oltre centosettant’anni
di distanza e dimostra l’intuito dell’uomo e la
sensibilità del politico. Il titolo “Le ferrovie in
Italia” è un commento all’opera di
Ilarione Petitti di Roreto, che Cavour sviluppa sul
piano economico e politico-economico nella prospettiva
del movimento nazionale italiano.
Cavour aveva 36 anni e da tempo aveva iniziato ad
impegnarsi in politica, sia pure ancora senza incarichi
di governo. Un uomo geniale, uno statista europeo, ben
presto ammirato anche da chi gli era ostile. Come
Clemente Lotario di Metternich, il potentissimo
Cancelliere austriaco, che dirà: “In
Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo
politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il
conte di Cavour”.
E nazionale ed europea è la visione che Cavour ha delle
ferrovie “destinate a rendere grandi servigi all’Italia.
In effetti, se sono vantaggiose per i paesi
manifatturieri, non sono meno utili a quelli in cui
fiorisce una ricca agricoltura”. E spiega: “le derrate
prodotte dall’agricoltura e le materie che impiega per
mantenere le sue forze produttive, come i concimi e gli
ammendamenti inorganici, sono altrettanto ingombranti
che le materie prime e i prodotti dell’industria
manifatturiera. Per i trasporti agricoli i canali
sarebbero da preferire alle ferrovie; ma laddove non
esistono canali, soprattutto nei luoghi in cui la loro
realizzazione presenta enormi difficoltà, sia a causa di
circostanze naturali, sia ancora perché è conveniente
utilizzare l’acqua di cui si può disporre per
l’irrigazione delle terre e per la formazione dei
canali, si può affermare che le ferrovie daranno
all’agricoltura vantaggi di cui è difficile esagerare
l’importanza”.
Le ferrovie, dunque, che giovano moltissimo al sistema
industriale che si va sviluppando in quegli anni.
Infatti “l’istituzione di un sistema completo di
ferrovie, facilitando le comunicazioni, diminuendo i
costi di trasporto e soprattutto sollecitando l’attività
e l’energia degli animi intraprendenti, di cui il paese
abbonda, contribuirà potentemente al rapido sviluppo
dell’industria in Italia”.
Ancora fiducia negli italiani, in una visione moderna
proiettata al di là dei confini per una Italia che non
dovrà mai più essere considerata soltanto
un’“espressione geografica”. Ricordiamo, Cavour
scrive nel 1846. Ed ecco che le ferrovie “rendendo
pronte, economiche e sicure le vie di comunicazione
interna, facendo sparire in qualche modo la barriera
delle Alpi che la separano dal resto d’Europa e che sono
così difficili da valicare per una parte dell’anno,
nessun dubbio che l’afflusso di stranieri che vengono
ogni anno per visitare l’Italia aumenterà in maniera
prodigiosa… I profitti che l’Italia trae dal proprio
sole, dal suo cielo privo di nubi, dalle sue ricchezze
artistiche, dai ricordi che il passato le ha lasciato,
cresceranno certamente in una proporzione
considerevole”. È evidente che pensa anche, se non
soprattutto, al centro sud.
Studiava, si potrebbe dire, da ministro dell’economia.
Ed anche del turismo.
Non solo di ferrovie si occupa, ma anche dei nostri
porti, da Genova a Trieste, da Napoli ad Ancona,
collegati da ferrovie che potranno attraversare le Alpi:
“i porti italiani saranno in grado di condividere con
quelli dell’Oceano e del mare del Nord,
l’approvvigionamento dell’Europa centrale in derrate
esotiche”.
Cavour
guarda al Sud per cui, “se le linee napoletane si
estenderanno sino al fondo del regno, l’Italia sarà
chiamata a nuovi alti destini commerciali. La sua
posizione al centro del Mediterraneo, o, come un immenso
promontorio sembra destinata a collegare l’Europa
all’Africa, la trasformerà incontestabilmente, quando il
vapore la attraverserà in tutta la sua lunghezza, il
cammino più breve e più comodo dall’Oriente
all’Occidente”.
Si resta a bocca aperta dinanzi a questa visione moderna
e proiettata verso il futuro. Resta solo l’amarezza che
oggi in Italia, ad oltre 170 anni, da quella analisi le
ferrovie italiane non siano riuscite ancora ad unificare
l’Italia, perché, se Cristo si è fermato ad Eboli,
l’Alta velocità si fermata a Salerno, e Matera, Capitale
europea della cultura 2019, ha una stazione ferroviaria,
costruita da anni, alla quale mancano i binari. Mentre
la Sicilia, regione a statuto “più che speciale”,
conosce tempi assurdi nei collegamenti da Messina o
Catania a Palermo e l’Italia nel Mediterraneo, invece di
essere protesa verso il Medio Oriente, è sì la porta
meridionale dell’Europa, ma solamente una porta
d’ingresso di immigranti che non possiamo accogliere,
mentre Cavour intravedeva un ruolo attivo verso
l’India e la Cina, “ancora una fonte abbondante di nuovi
profitti”.
18 agosto 2018
Utilità sociale e crescita professionale
Le leva obbligatoria è idea realistica
La Trenta ha torto; il servizio militare non riguarda i
soli combattenti. Con la proposta di Salvini un apparato
di ingegneri, medici, veterinari, periti e genieri
potrebbe essere d’efficiente supporto alle esigenze
statali
di Salvatore Sfrecola
Per il Ministro della difesa, Elisabetta Trenta,
quella di Matteo Salvini, che propone di
reintrodurre la leva obbligatoria, è “un’idea
romantica”, non più attuale. Invece, ad essere
limitativa è l’idea delle Forze Armate che ha la Signora
di via XX Settembre, peraltro in aperta adesione alla
concezione diffusa nei vertici militari, da sempre:
quella che i militari siano esclusivamente combattenti.
Non è stato così, ad esempio, nell’esperienza del più
potente esercito di tutti i tempi, quello della Roma
repubblicana e imperiale, che disponeva di un imponente
apparato servente della truppa combattente, genieri,
medici, veterinari, addetti alla cura delle armi e delle
uniformi. Sì perché l’esercito romano, diversamente dai
combattenti di tutti gli eserciti del tempo aveva una
grande organizzazione che è l’esempio, come scrive
Massimo Severo Giannini, uno dei nostri più grandi
amministrativisti, di una efficiente struttura
burocratica, capace di sovvenire in ogni tempo ed in
ogni luogo alle esigenze dei combattenti. Basti pensare
al sistema della leva che ha assicurato all’Urbe, sotto
il martellare delle milizie del generale cartaginese
Annibale Barca, di ricostituire in poche settimane
legioni efficienti e bene organizzate ad ogni sconfitta
pur in una condizione di estrema difficoltà. Era quella
una grande organizzazione che consentiva ai consoli
delle legioni ai margini dell’impero in funzione di
controllo del territorio di utilizzare il tempo
costruendo acquedotti, fognature, terme, che troviamo
ovunque erano giunti i combattenti di Roma.
Ma venendo ai tempi nostri è certamente più attuale la
proposta di Salvini, mentre appare vecchia l’idea
che delle Forze Armate ha il ministro Trenta
quella che ho sempre ritenuto fosse un’“occasione
mancata” per il nostro apparato difensivo. Il ministro
della Difesa giustamente richiama l’esigenza che i
combattenti siano professionisti, come in tutti gli
eserciti moderni. Ma l’esercito non è fatto solo di
combattenti, come si è detto di Roma, ma ha altre
importanti specialità. Prima tra tutte il Genio che,
infatti, interviene rapidamente in occasione di calamità
naturali e di altre emergenze con straordinaria
efficienza, quella propria di un apparato militare
organizzato gerarchicamente. Quei reparti hanno a
disposizione specialisti, ingegneri, geometri, periti
tecnici, e strumenti tecnici moderni, dalle scavatrici
alle gru, e possono sovvenire rapidamente alle esigenze
dei militari e della popolazione civile aprendo una
strada ostruita da una frana, costruendo un ponte che
consenta di ripristinare la viabilità resa impraticabile
da qualche evento naturale. È stato sempre così.
Tuttavia l’utilizzazione sistematica del Genio militare
è stata sempre vista con diffidenza dai vertici militari
che ritengono non solo prioritaria ma esclusiva la
funzione combattente, così consentendo il business
delle imprese che operano costosi interventi per la
Protezione Civile. Quest’anno le piogge hanno, speriamo,
limitato gli incendi, ma è certo che la cura dei boschi
per evitare l’accumularsi di rami e fogliame secco,
quello che costituisce un innesco naturale degli
incendi, è assolutamente trascurata, anzi inesistente.
Quanto costa a carico del bilancio pubblico spegnere gli
incendi che sarebbe stato possibile prevenire attraverso
la bonifica del sottobosco?
C’è, poi, il capitolo della vigilanza nei musei e nelle
zone archeologiche. Non è una attività equiparabile a
quella dei combattenti ma è la custodia del patrimonio
più prezioso che abbiamo, quello che insieme al
paesaggio fa dell’Italia il bel Paese, la ragione
prima del nostro turismo, come ha ricordato più volte,
ancora di recente, il Senatore Gian Marco Centinaio,
ministro delle politiche agricole, forestali e del
turismo, appunto. Il Genio militare è stato nella storia
d’Italia una risorsa preziosa, come ho ricordato più
volte a proposito della costruzione delle infrastrutture
ferroviarie che secondo Cavour avrebbero
unificato l’Italia richiamando il ruolo di Luigi
Federico Menabrea, ingegnere, Capo del Genio
militare, Ministro dei lavori pubblici e Presidente del
Consiglio.
I nostri militari “di leva” potrebbero essere impiegati,
altresì, nel sistema informatico degli apparati
militari, in modo da essere anche pronti ad intervenire
in funzione ausiliaria o di controllo di quella diffusa
rete di apparati che ormai gestisce tutte le attività
complesse, dagli acquedotti alla distribuzione
dell’energia elettrica. Né può essere esclusa l’utilità
di giovani negli uffici delle amministrazioni e degli
enti, magari “prestati” in alcuni periodi per far fronte
alle emergenze feriali. Nel settore sanitario, ad
esempio, che denuncia gravi carenze in alcuni momenti
nei quali la gente prega di non ammalarsi, nel fine
settimana e d’estate. Sarebbe anche un modo per
impiegare medici e paramedici, incrementare la loro
esperienza e specializzazione.
E siccome parliamo di sanità forse a qualcuno sfugge il
ruolo fondamentale che svolgeva la leva obbligatoria
attraverso lo screening della popolazione
maschile (oggi anche di quella femminile) ai fini alla
prevenzione delle malattie. Ci sono, poi, i “vivai”, se
così possiamo chiamarli, delle Forze Armate nelle
attività sportive, che si arricchirebbero di un più
ampio concorso di giovani.
Insomma la leva obbligatoria, in una versione moderna ed
intelligente assicurerebbe servizi importanti al Paese e
alle comunità e costituirebbe una scuola di vita e
professionale come un tempo era quando il giovane
imparava un mestiere o si perfezionava in una
professione. Un’idea buona, a me pare, che sposa quel
tanto di romantico che, ci dicevano i nostri nonni,
aveva fatto l’Italia unendo in un unico impegno sul
fronte siciliani e piemontesi, veneti e pugliesi, con le
esigenze moderne di sostegno alle tante attività che lo
Stato e gli enti locali altrimenti non riescono a
soddisfare.
(da La Verità, 14 agosto 2018)
Dietro l’attacco alle pensioni, invidia sociale e
distrazione di massa
di Salvatore Sfrecola
Non ripeterò la definizione di “magliaro” con la quale
Vittorio Feltri ha qualificato
Luigi Di Maio sceso in guerra contro i pensionati
“d’oro”, come li qualifica lui per aizzare quell’invidia
sociale che da sempre caratterizza chi ricerca il facile
consenso delle folle diseredate, soprattutto al Sud, in
quelle regioni dove il degrado della politica, le
ingiustizie sociali, le discriminazioni personali e
territoriali da tempo costituiscono una polveriera
preoccupante.
È la politica del “no”, all’alta velocità in Val di
Susa, al gasdotto in Puglia, alle pensioni più elevate
fatte passare per ingiuste. E tali sarebbero forse se
fossero erogate senza un corrispondente versamento di
contributi. Infatti così sembrava inizialmente. Un
ricalcolo rispetto ai contributi effettivamente
corrisposti in corso di lavoro. Poi, qualcuno che sa far
di conto deve aver spiegato al ministro del lavoro, che
mai ha lavorato, che avrebbe recuperato poco, ed ecco
spuntare altre proposte basate su un drastico taglio
“lineare”, un tot per cento, in modo da
recuperare qualche milioncino in più. Di Maio,
che è inesperto ma non sciocco sa che una tale
decurtazione non passerebbe indenne al vaglio della
magistratura ma va avanti lo stesso, pronto a dire
“l’abbiamo fatto ma i poteri forti ce lo hanno
impedito”, più o meno così. Un altro nemico verso il
quale indirizzare il giusto risentimento dei diseredati.
I quali dovrebbero attendersi ben altro aiuto che quello
proveniente da un “esproprio proletario”, illegittimo.
Perché se vuole aiutare i suoi concittadini disoccupati
e tutti gli italiani in cerca di lavoro il ministro “del
lavoro”, che è anche titolare delle “attività
produttive” dovrebbe farsi promotore di politiche che
creino lavoro, la condizione necessaria perché aumentino
i consumi e, con essi, le esigenze del produttori, i
quali vi fanno fronte con nuove assunzioni.
Invece ricorre ad una operazione di quelle che
appartengono al genere “distrazione di massa” cui spesso
la politica ricorre per nascondere la propria incapacità
a fare. Ad esempio i grandi investimenti pubblici e
privati in una Italia che manca di infrastrutture,
quelle di carattere idraulico forestale, ferroviarie,
viarie e portuali. Forse il giovane ministro non sa che
i porti italiani che, per la loro collocazione
geografica, sarebbero la porta del Sud Europa verso
l’Oriente (lo aveva lucidamente intuito Camillo Benso
di Cavour oltre 170 anni fa), non hanno le
caratteristiche per questo ruolo. Per cui si preferisce
scaricare i container a Rotterdam in poche ore anziché a
Genova in alcuni giorni.
Mancano le ferrovie proprio nel Sud che ha dato tanti
voti al Movimento 5 Stelle perché
è a tutti noto che se “Cristo si è fermato ad Eboli”,
come titola un famoso libro di Carlo Levi, l’alta
velocità si è fermata a Salerno. E Di Maio, che ha fatto
il liceo classico e deve aver studiato un po’ di storia
romana, ricorderà certamente che la Repubblica e
l’Impero hanno costruito prima di tutto le
infrastrutture viarie che ancora oggi tracciano i
collegamenti in tutta Italia e poi quelle civili, gli
acquedotti e le fognature. La civiltà di un popolo.
Un grande progetto per l’Italia, necessario per crescita
e sviluppo? Niente da fare. Meglio rapinare i
pensionati, ignorando che finora hanno retto il sistema
sociale, aiutando figli e nipoti, sollecitando anche i
consumi. Pensionati che hanno lavorato decenni
consentendo a questo Paese di tenere il passo con gli
altri paesi d’Europa.
Infine, c’è una riflessione da fare. Le antiche civiltà
hanno sempre rispettato gli anziani. Erano i saggi,
sedevano nel più alto consesso legislativo, il Senato,
indicavano ai giovani, sulla base della loro esperienza,
le vie della politica economica e sociale. Ed i giovani
li guardavano con ammirazione convinti, con passare
degli anni, di godere essi stessi della considerazione
che avevano riservato a padri e nonni. A volte li
contestavano nel giusto desiderio di migliorare. Ma
cambiare non significa negare il passato che anche gli
anziani comprendono debba essere superato. Infatti, non
sono mai mancate tensioni sociali, come insegna ancora
una volta la storia. Le guerre civili a Roma, la rivolta
dei Gracchi, ma poi tutto si ricomponeva.
L’attuale momento è difficile. La Lega
sostanzialmente sta a guardare. Impegnata con
Matteo Salvini a fare quello che gli italiani
volevano, garantire maggiore sicurezza nelle città e nei
borghi e difendere le frontiere marittime. Un suo
parlamentare, tuttavia, ha firmato con un
grillino una proposta di legge che
mira e falcidiare le pensioni. Attenzione, perché
seguire l’onda dell’invidia sociale è pericoloso. Si
inizia da quella che appare la scelta più facile e più
giusta (anche se giuridicamente ingiusta) per poi
dilagare in ogni settore. La storia è ricca di questi
episodi. E la Lega “nazionale”, che ha lasciato
il verde per l’azzurro, rischia molto, essendosi
presentata come espressione di un moderatismo attivo,
quello che esprime la classe media produttiva del Paese.
Dopo le brevi vacanze estive si vedrà quale sviluppo
avranno le iniziative del giovanotto di Pomigliano
d’Arco. Impari dalle vicende del giovanotto di Rignano
sull’Arno, il quale, incapace di dare una risposta alle
esigenze del Paese, ha perso una elezione dietro
l’altra.
(da www.italianioggi.it)
Reddito di cittadinanza e flat tax, si, no, forse
di Salvatore Sfrecola
Di “Reddito di cittadinanza” e flat tax, piatti
forti del programma dei partiti di governo si è
cominciato a parlare concretamente a Palazzo Chigi nei
giorni scorsi. In un vertice tra il Presidente del
Consiglio, Giuseppe Conte, i Vicepresidenti
Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e il Ministro
dell’economia e delle finanze, Giovanni Tria,
presente anche il Sottosegretario alla Presidenza
Giancarlo Giorgetti che è stato l’unico a
commentare. Si può fare. La strada è tracciata, ha
detto, anche se “in salita” in vista della “legge di
bilancio”, quella che un tempo era la legge
finanziaria e poi di stabilità,
dove si trovano i soldi, le risorse per far fronte alle
maggiori spese (reddito di cittadinanza) o alle minori
entrate dovute alle riduzioni fiscali promesse (flat
tax).
Si farà tutto e subito? Impossibile. L’onere previsto
secondo alcuni calcoli non smentiti è di alcune decine
di miliardi. Per cui tra il sì e il no, di chi è
convinto che né l’una né l’altra riforma si possa fare,
c’è un più realistico “forse” che vuol dire gradualità.
Un inizio indispensabile per soddisfare le aspettative
dell’elettorato che sostiene Movimento 5 Stelle e
Lega, e uno sviluppo nel tempo, con prudenza, per
non creare allarmismi sui mercati da sempre attenti
all’equilibrio dei conti pubblici.
Che la strada per le riforme sia “in salita”, per
riprendere l’espressione usata da Giorgetti che
di conti pubblici se ne intende, essendo stato
Presidente della Commissione bilancio della Camera,
laddove si valutano le coperture delle leggi che
prevedono una nuova o maggiore spesa o una riduzione di
entrate, lo sui deduce anche dalla relazione al
Parlamento con la quale la Corte dei conti ha riferito
sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio
finanziario 2017. È un documento di pochi giorni fa,
eloquente in particolare in materia di entrate,
riferimento fondamentale di ogni politica che si muova
mantenendo gli equilibri di bilancio. Le entrate non
crescono, scrive la Corte, e non diminuisce neppure
l’evasione fiscale che fa mancare alle casse pubbliche
la bella cifra di oltre 100 miliardi di euro annui, più
di quanto servirebbe per far fronte agli oneri derivanti
dalle due riforme, la maggiore spesa (reddito di
cittadinanza) e la minore entrata fiscale a seguito di
una generalizzata riduzione del carico tributario su
cittadini ed imprese. Infatti, i livelli dell’evasione
fiscale, scrivono i magistrati contabili - in media, nel
triennio 2012-2014, il gap complessivo è stato pari a
circa 107,7 miliardi, di cui 97 miliardi di mancate
entrate tributarie e 10,7 miliardi di mancate entrate
contributive - “restano sostanzialmente costanti da un
anno all’altro e particolarmente elevati rispetto a
quelli esistenti nei principali paesi europei”. Per dire
che il fenomeno patologico, non ignoto ad altri paesi,
è, tuttavia, in quelle dimensioni soprattutto italiano.
Grave in particolare perché la lotta all’evasione è
assolutamente inadeguata rispetto all’esigenza, “che
dovrebbe indurre strategie articolate basate su vari
livelli di intervento per favorire e facilitare
l’adempimento spontaneo e contrastare i comportamenti
pervicacemente scorretti con adeguati controlli ed
incisive misure sanzionatorie e di riscossione”. Anche
per l’evasione dell’IVA la Commissione Europea ha
segnalato che l’Italia è ai primi posti e la Corte lo
ricorda. E segnala che il contrasto all’evasione
dovrebbe articolarsi “in un insieme di strumenti tra
loro coordinati e coerenti, quali quelli normativi,
quelli tecnologici e quelli più specificamente
amministrativi” escludendo quegli “andamenti
contraddittori, nocivi all’efficacia del sistema”.
Infatti l’evasione non è solo un problema di controlli,
perché in primo luogo dovrebbero essere messi in campo
meccanismi diretti a “facilitare l’adempimento
spontaneo” del dovere tributario. Come per dire che, in
ogni caso, non è sufficiente denunciare la mancanza di
personale (-11,8%), che tra l’altro ha giustificato la
creazione di meccanismi di assegnazione di posizioni di
ruolo ripetutamente disposte senza selezioni che
rispettino la norma costituzionale (art. 97, comma 3) la
quale impone che “agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso”. Norma
sistematicamente aggirata, come ricordato dalla Consulta
con la sentenza n. 37 del 2015, nonostante la quale non
si cambia. Anzi si persevera nell’errore sicché oggi si
prevede una “procedura selettiva” riservata agli interni
per conferire posizioni organizzative di elevata
responsabilità (POER), quelle che nel privato sono
assegnate ai “quadri” (nel pubblico invano definita
“vice dirigenza”). Una selezione costituita da una Prova
scritta “di carattere pratico su aspetti collegati
all’attività lavorativa” e in un “colloquio di
approfondimento sulla motivazione, le competenze e la
storia professionale del funzionario”. Insomma i
candidati diranno di sé e perché vogliono fare carriera.
E già partono i ricorsi ai TAR, che si aggiungono a
quelli di cui dà conto il sito dell’Agenzia delle
entrate, dove si contestano illegittimità varie, a
cominciare dalla mancata utilizzazione di graduatorie di
precedenti concorsi che sono state fatte scadere, ed
alle posizioni organizzative (POS) conferite “per grazia
del principe” ed attualmente all’attenzione della Corte
costituzionale, la quale inevitabilmente tornerà a
pronunciarsi per la illegittimità di procedure selettive
che non sono concorsi.
Preoccupa il Governo ed il Ministro Tria
soprattutto che le entrate dello Stato non crescano, che
denuncino “una sostanziale stabilità”, come scrive la
Corte: oltre 582 miliardi (solo il 3% più del 2016),
l’84% dei quali è costituito dalle entrate tributarie
(+0,5% rispetto al 2016). Uno zero virgola certamente
apprezzabile, perché sconta gli effetti della riduzione
del carico tributario su alcuni contribuenti (riduzione
dell’aliquota Ires dal 27 al 24%, modifica delle
detrazioni sui redditi da pensione, modifiche alla
detassazione dei premi di produttività). Tuttavia, va
considerato che “il fenomeno delle imposte dichiarate e
non versate – prosegue la relazione - si riconnette ad
un altro aspetto peculiare nel funzionamento del sistema
fiscale italiano, quello delle rateazioni dei debiti
d’imposta, che costituisce ormai un nuovo canale di
erogazione del credito, pur in assenza di garanzie e di
valutazioni prognostiche sulle future capacità dei
debitori, con l’effetto non infrequente di differire nel
tempo la presa d’atto di insolvenze ampiamente
prevedibili”. Come dimostra il contenzioso tributario
nel quale l’Avvocatura erariale di trova a rincorrere
spesso soggetti ormai falliti e, pertanto, insolvibili.
E qui va ricordata un’altra denuncia della Corte dei
conti, la mancata realizzazione dell’anagrafe dei grandi
evasori. Un’omissione politicamente grave, con aspetti
non irrilevanti di danno erariale.
Nel contempo crescono le imposte indirette: +1,9%
rispetto al 2016, a conferma di una tendenza che dal
2013 ha visto incrementare il gettito del 9,7 per cento.
E c’è chi considera l’aumento delle aliquote IVA una
ipotesi possibile per coprire, almeno in parte, le nuove
spese.
(da www.italianioggi.com)
Asterischi Storico Politici
di Domenico Giglio
La Cassa Depositi e Prestiti
In questo periodo di nomine da parte del Governo Conte
si è molto parlato di questa Cassa, sottolineando la sua
importanza crescente, per l’imponenza dei suoi capitali,
per la sua partecipazione azionaria in settori
fondamentali della nostra economia e per gli aiuti anche
agli enti locali e ad aziende di dimensioni modeste. Si
è ricordata la sua lunga storia e la sua nascita che
risale al….….1850 (scriviamolo anche in lettere:
milleottocentocinquanta). In tale data non esisteva
ancora il Regno d’Italia, ma vi era uno stato di modeste
proporzioni, ma unico, nella penisola italiana, con
Costituzione e Parlamento, il Regno di Sardegna che
legiferava in tutti i settori per modernizzare le sue
strutture e rinvigorire la sua economia, proseguendo una
tradizione che ancora prima del 1848 aveva visto
l’istituzione nel campo militare dei Reali Carabinieri e
del Corpo dei Bersaglieri ed in quello civile del
Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, ai quali
appunto si aggiunse la Cassa. La validità di tutti
questi Istituti e di altre istituzioni è provata e
confermata dalla loro esistenza e vitalità nell’attuale
diverso regime istituzionale che spesso ne dimentica gli
autori, ma non può modificarne la data di nascita.
Il Risparmio Postale
Nella Cassa di cui sopra, una componente fondamentale
delle sue entrate è costituita dal risparmio postale
che, come ha scritto recentemente Ferruccio de Bartoli,
è “passione antica ed attuale degli italiani…perché
rappresenta il polmone finanziario del paese”(L’Economia
– Corsera- 28/7/2018). Ora anche il risparmio che
affluisce mediante le Poste è storia antica che possiamo
far risalire al 1876, quando le Regie Poste, che dopo la
proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, avevano
portato i 1632 sportelli esistenti, di cui solo 236 si
trovavano nell’ex Regno delle Due Sicilie, a ben 2666
nel 1871, aumentati particolarmente nel Meridione,
ampliando l’offerta di servizi a vaglia ed a pacchi,
ritennero di aprire in 607 sportelli la raccolta di
denaro, agendo come vere e proprie casse di risparmio. E
questo particolarmente in zone sprovviste di sportelli
bancari ad ulteriore testimonianza del progresso civile
ed economico, che in mezzo a grandi difficoltà causate
anche dall’atteggiamento aprioristicamente negativo nei
confronti della raggiunta Unità, da parte di nostalgici
dell’assolutismo e del temporalismo, il giovane Stato
portava avanti.
Vitalizi
La retroattività è sempre un “modus operandi” contrario
ai principi liberali, ed in Italia ne facemmo le prime
esperienze negative nella legislazione ciellenistica del
secondo dopoguerra, per cui anche la recente decisione
del Presidente della Camera dei Deputati di decurtare
quanto fino ad oggi erogato, secondo precedenti norme,
agli ex parlamentari ha lasciato molti perplessi, ed
allora cercando indietro nel tempo vi è stato un evento
che sarebbe opportuno ricordare. Nel 1852, nel
Parlamento Subalpino, sempre in quel Regno di Sardegna
già citato, il Conte di Cavour, ancora non Presidente
del Consiglio, ma solamente Ministro nel governo
d’Azeglio, prendendo la parola nella seduta del 14
gennaio, per una legge sulle “Spese ecclesiastiche” così
argomentava: “…le pensioni religiose, le quali sono un
debito contratto dal governo francese (napoleonico)
quando sopprimeva i conventi. Se non fosse questo un
debito legale, sarebbe un debito di umanità….debito
questo che non sarà grave per lungo tempo, giacché ogni
anno va decrescendo in una notevole proporzione….(
e),non è difficile prevedere il tempo in cui, senza
misure violente, …scomparirà interamente dal bilancio”.
Parole nobilissime di un vero grande liberale.
Parlamento di ieri e di oggi
Questo ricordo di Cavour, oltre dimostrare il livello
intellettuale e morale del Parlamento di allora, fa
riflettere anche su una decadenza di quello odierno a
cominciare dal doveroso abbigliamento che si usava e che
si era mantenuto nelle epoche successive, mentre il
presidente attuale, vedi fotografia pubblicata nel
“Corriere della Sera” del 3 agosto alla pagina 8,
presiede l’assemblea senza la cravatta, che ancor oggi
viene richiesta per presenziare o partecipare a
determinate cerimonie, cravatta regolarmente presente
nell’abbigliamento del commesso !
5 agosto 2018
Paolo Mieli (RAI Storia) getta il sasso e nasconde la
mano
(a proposito di una lettera dell’Ing. Domenico Giglio
su “i 40 vagoni del Re”)
di Salvatore Sfrecola
Paolo Mieli,
giornalista con la passione per la storia, tanto che è
gran parte delle trasmissioni televisive che se ne
occupano, in particolare di “RAI Storia” nelle sue varie
articolazioni, con riferimento ai più diversi periodi
storici, in una trasmissione sull’8 settembre 1943 ha
detto che il Re Vittorio Emanuele III, dopo
quella data, avrebbe trasferito da Roma beni personali
contenuti in 40 vagoni ferroviari.
La “notizia” altrimenti non disponibile, a quanto se ne
sa, ha destato l’attenzione dell’Ing. Domenico Giglio,
Presidente del Circolo REX e collaboratore di
Un Sogno Italiano oltre che di
varie riviste storiche, il quale ha scritto a Mieli
in data 24 giugno una mail rimasta senza risposta,
nonostante una successiva sollecitazione il 30 giugno,
per chiedere chiarimenti su un fatto di cui prima non si
era sentito parlare.
Paolo Mieli,
giornalista di vaglia, due volte direttore de il
Corriere della Sera e di RSC libri, è persona
culturalmente schierata a sinistra, ma gli va dato atto
di aver costantemente dimostrato nei dibattiti
televisivi una non diffusa attenzione alla varietà delle
idee che emergono nei confronti tra gli studiosi e gli
esperti che partecipano alle varie trasmissioni. Ho dato
sempre volentieri atto a Mieli di questo suo
comportamento per cui molto mi stupisce questo suo
silenzio, anche se fosse originato da imbarazzo per una
notizia buttata lì sul finire della trasmissione,
certamente stupefacente sulla quale dirò di seguito i
miei dubbi.
Ecco la lettera dell’Ing. Giglio:
“Egregio dr. Mieli, nel finale della trasmissione
storica dedicata all’8 settembre 1943 Lei ha detto che
il Re Vittorio Emanuele III aveva inviato un carico di
....... con destinazione ..... contenuto in 40 vagoni
merci . La notizia così generica mi ha stupefatto ! Un
fatto simile non può essere avvenuto senza lasciare
tracce. Ho pensato alla collezione di monete di oltre
100-000 (centomila) pezzi, quella che successivamente,
all’atto della abdicazione, il Re avrebbe donato al
popolo italiano, ma non credo che il suo trasporto
necessitasse di 40 vagoni, quelli di “Cavalli 8 - uomini
40”! vorrei conoscere dove trovare traccia più completa.
Distinti saluti
dr. ing. Domenico Giglio”
È, quella di Giglio, una richiesta di
chiarimenti, certamente legittima che richiede una
risposta doverosa da parte del Direttore Mieli,
considerata la rilevanza del fatto ed i dubbi che
obiettivamente la “notizia” desta. 40 vagoni ferroviari
costituiscono una spedizione straordinaria e
quantitativamente di estremo rilievo. Non sono un
esperto di trasporto merci ma immagino che in 40 vagoni
entri un numero rilevante di beni, una quantità enorme.
Forse che era stato svuotato il Quirinale? Non
scherziamo! E, poi, come poteva rimanere riservata una
operazione di queste dimensioni in un contesto
territoriale nel quale l’occupazione tedesca la faceva
da padrona, soprattutto se la destinazione del convoglio
fosse stata l’Italia settentrionale.
In un contesto storico nel quale Re
Vittorio Emanuele III costituisce da ottant’anni il
bersaglio preferito di quanti vogliono dimostrare ogni
estraneità al ventennio fascista, sia nella fase di
avvento del Governo di Benito Mussolini sia in
quella successiva aperta dall’Aventino dei partiti
antifascisti il cui effetto è stato quello di togliere
dalla mani del Re ogni strumento costituzionale di
intervento, una notizia del genere sarebbe stata
certamente enfatizzata. Non se ne è avuta traccia. E poi
40 vagoni, suvvia!
Insomma, prosegue la campagna di denigrazione del Re per
evitare che gli italiani, rileggendo la storia
sine ira ac studio, come dicevano
i nostri progenitori, scoprano che di fronte all’inedia
e alla incapacità dei partiti dal 1919 al 1922 di
governare la crisi del dopoguerra e dopo di gestire
l’opposizione costituzionale, solo la presenza del Re ha
consentito, nonostante la continua erosione dei poteri
statutari, di evitare che l’Italia facesse la fine della
Germania, dove il potere assoluto del Partito Nazista e
di Adolfo Hitler ha impedito la
fine anticipata di una guerra inutile voluta dal
Fascismo contro la storia e gli interessi del nostro
Paese.
3 agosto 2018
Lo Stato nemico
Tra file e code per un balzello da 1,55 euro
Il fisco si accanisce sui cittadini obbligandoli a
pagare in banca l’irrisorio tributo, necessario per fare
ricorso alla Corte dei conti. Tutto questo mentre
l’Agenzia delle entrate si dimostra distratta
sull’evasione e copre le nomine dei dirigenti aggirando
i concorsi
di Salvatore Sfrecola
Il fisco, lo sanno tutti, tranne gli evasori, è esoso,
molto. Grava sui cittadini con imposte e tasse, alcune
risalenti nel tempo, come l’addizionale alle accise sui
carburanti introdotte per coprire le spese dell’impresa
di Etiopia. Normalmente si pagano tutte insieme, con la
conseguenza che il contribuente non riesce ad
individuare le singole voci del tributo (nell’esempio,
quando fa il pieno alla pompa). Ma c’è un caso, con il
quale mi sono imbattuto nei giorni scorsi, che è un
esempio di un’imposta che il fisco non sa riscuotere
senza creare un disagio per il cittadino, tanto più
grave in quanto trattasi di una somma modesta: 1,55
euro. Sì 1 euro e 55, che si deve corrispondere all’atto
dell’iscrizione di un ricorso o un appello alla Corte
dei conti (codice ente VAE, sub codice 04) a titolo
d’imposta di bollo (codice tributo 456T). La somma è
modesta, irrisoria, ma il fastidio che s’impone al
contribuente è tanto. Infatti per 1 euro e 55 occorre
utilizzare il modello F 23 che si paga in banca,
direttamente non tramite la banca on-line, come
ho potuto constatare presso Unicredit. Come, invece, può
farsi per il modello F 24 per somme molto più rilevanti.
Insomma, si tratta di un tributo di importo irrisorio
per il pagamento del quale è stata scelta una modalità
assurda nell’anno di grazia 2018 che impone ad un
avvocato o ad un collaboratore di studio di recarsi in
banca dedicando a questa operazione non meno di due ore.
È un esempio di uno scollamento dell’amministrazione
finanziaria dalla realtà, considerato che quell’euro e
55 potrebbe essere corrisposto con una marca da bollo o
inserito nelle spese processuali. E questo mentre
l’Agenzia delle entrate dimostra assoluta inadeguatezza
rispetto all’esigenza dell’accertamento puntuale del
debito d’imposta a carico dei contribuenti che in nessun
paese civile e moderno denuncia un’evasione da capogiro
per molte decine di migliaia di miliardi di euro annui,
con la conseguenza di gravare sui cittadini onesti,
quelli che regolarmente pagano le imposte, per somme che
potrebbero essere agevolmente ridotte se l’evasione
fiscale fosse contenuta nei limiti fisiologici che tutti
gli stati occidentali conoscono. Invece le agenzie
fiscali, tutte, vengono agli onori della cronaca, si fa
per dire, perché da anni posti di responsabilità sono
coperti in via provvisoria con nomine disposte dal
vertice dell’Agenzia. Ciò che ha impegnato ed ancora
impegna Tribunali Amministrativi Regionali, Consiglio di
Stato e Corte costituzionale nel vano tentativo di
richiamare il Ministero dell’economia e delle finanze al
rispetto dell’art. 97, comma 3, della Costituzione
secondo il quale “agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso”. Anche in
caso di passaggio di livello. Norma sistematicamente
aggirata, come ricordato dalla Consulta con la sentenza
n. 37 del 2015, nonostante la quale non si cambia. Anzi
si persevera nell’errore prevedendo una “procedura
selettiva” riservata agli interni per conferire
posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER),
quelle che nel privato sono assegnate ai “quadri” (nel
pubblico invano definita “vice dirigenza”). Una
selezione costituita da una Prova scritta “di carattere
pratico su aspetti collegati all’attività lavorativa” e
in un “colloquio di approfondimento sulla motivazione,
le competenze e la storia professionale del
funzionario”. Insomma i candidati diranno di sé e perché
vogliono fare carriera. E già partono i ricorsi ai TAR,
che si aggiungono a quelli di cui dà conto il sito
dell’Agenzia delle entrate, dove si contestano
illegittimità varie, a cominciare dalla mancata
utilizzazione di graduatorie di precedenti concorsi che
sono state fatte scadere, ed alle posizioni
organizzative (POS) conferite “per grazia del principe”
ed attualmente all’attenzione della Corte
costituzionale, la quale inevitabilmente tornerà a
pronunciarsi per la illegittimità di procedure selettive
che non sono concorsi.
Così, mentre l’Agenzia delle entrate, diretta dal
renziano Ernesto Maria Ruffini, che tutti
attendevano fosse sostituito dal nuovo governo, si
diletta di selezioni “intra moenia” l’evasione fiscale
la fa da padrona per l’assoluta inadeguatezza di una
struttura che un tempo (quando non era agenzia)
costituiva il fiore all’occhiello dell’Amministrazione
delle finanze i cui funzionari venivano selezionati
sulla base di tre prove scritte e di un colloquio.
Agenzia che ovviamente non trova il tempo di regolare la
riscossione di un minuscolo tributo di euro 1,55, da
pagare direttamente in banca.
(da La Verità del 1° agosto 2018)