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SETTEMBRE 2017
Identità e cittadinanza
di
Salvatore Sfrecola
Il dibattito, in
Parlamento e nel Paese, è vivacissimo e assai spesso ha
assunto i toni di uno scontro sui valori fondanti della
democrazia, quelli che costituiscono in qualche modo
l’identità di uno Stato, come dimostra la levata di scudi di
tutte le forze liberali nei confronti della pesante
interferenza della CEI che, secondo notizia giornalistiche,
avrebbe fatto pressioni sul Governo per un’approvazione
della nuova legge sullo ius soli prima della fine dell’anno.
E ciò perché il disegno di legge n. 2092, all’esame del
Senato, recante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n.
91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, divide
profondamente, e non soltanto per motivi di merito.
C’è, infatti, in
primo luogo, un tema di legittimità del Parlamento chiamato
a decidere. Una questione di regole della democrazia
parlamentare, anzi della democrazia
tout court, che non può essere accantonato con un’alzata
di spalle come si continua a fare dal 2014, da quando, cioè,
con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte costituzionale ha
dichiarato in contrasto con la Carta fondamentale dello
Stato la legge elettorale sulla base della quale deputati e
senatori erano stati eletti nel 2013.
Il Parlamento
avrebbe dovuto chiudere le porte il giorno dopo. Sennonché,
per evitare la paralisi delle assemblee legislative, la
Consulta ne ha riconosciuto la sopravvivenza, tuttavia entro
limiti rigorosi, individuati nell’esercizio degli affari di
ordinaria amministrazione. Lo ha fatto richiamando due norme
costituzionali assolutamente chiare, l’art. 61, comma 2,
secondo il quale, in caso di nuove elezioni, “finché non
siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle
precedenti”, e l’art. 77, comma 2, il quale prevede che, in
caso il Governo adotti “provvedimenti provvisori con forza
di legge” (decreti legge), questi devono essere presentati
per la conversione “alle Camere che, anche se sciolte, sono
appositamente convocate e si riuniscono entro cinque
giorni”.
Una indicazione
inequivocabile, il Parlamento può fare poche cose, in primo
luogo la nuova legge elettorale per tornare a votare.
Sennonché, la maggioranza, con l’avallo del Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, che, in ragione del suo ruolo
“di controllo e di garanzia costituzionale”, ai sensi
dell’art. 87 della Costituzione, avrebbe dovuto presidiare
il rispetto della sentenza della Corte costituzionale, ha
continuato, come nulla fosse avvenuto, a fare leggi. Ha
approvato una riforma costituzionale bocciata dagli elettori
nel referendum del 4 dicembre 2016, ha approvato, a colpi di
mozioni di fiducia, una nuova legge elettorale, l’Italicum,
dichiarato incostituzionale dalla Consulta.
Non contenti gli
stessi partiti, incuranti delle regole e della volontà
espressa degli elettori, si apprestano a modificare in
fretta e furia, alla vigilia delle elezioni, la legge sulla
cittadinanza, una normativa la quale attiene ad uno degli
“elementi dello Stato”, come si esprimono i libri di diritto
pubblico nel ripartire la materia, e minacciano di ricorrere
ancora una volta al voto di fiducia, come se fosse una
riforma essenziale alla realizzazione del programma del
governo e non una questione propria del Parlamento. E questo
a prescindere dalla sentenza del 2014!
È così che,
attraverso la reiterazione incontrollata di comportamenti
assunti in violazione delle regole elementari che riguardano
il funzionamento delle istituzioni rappresentative, si mette
in gioco una democrazia.
Nel merito, poi,
va detto a chiare lettere che la disciplina della
cittadinanza non è una legge qualunque, perché l’essere
cittadino non è un fatto formale, burocratico, come si sente
dire, ma il riconoscimento dell’appartenenza ad un contesto
culturale, il che vuol dire a valori, in primo luogo a
quelli indicati nella Costituzione: principi fondamentali,
nei rapporti civili, economici e politici che fanno
dell’Italia un Paese nel quale lo Stato “riconosce e
garantisce i diritti inviolabili, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”
(art. 2), per cui tutti i cittadini “hanno pari dignità
sociale e sono uguali davanti alla legge” (art. 3), assicura
la libertà dei culti (art. 8), la libertà personale (art.
13), del domicilio (art. 14), della corrispondenza (art.
16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di
manifestazione del pensiero (art. 21) e via dicendo.
Diritti, ma anche doveri, di cui uno “sacro”, come “la
difesa della Patria” (art. 52), la fedeltà alla Costituzione
e alle leggi (art. 54). Una somma di “regole della
democrazia e della convivenza”, che identificano la storia e
l’essere di un popolo che, pertanto, è tale e si qualifica
come italiano. Quel popolo in nome del quale i giudici
amministrano la Giustizia (art. 101, Cost.). La cittadinanza
lo certifica, in Italia, come ovunque nel mondo. E se è
naturale che il figlio di cittadini sia egli stesso
cittadino ovunque nasca, chi non si trova in questa
condizione, se desidera diventare cittadino italiano, deve
chiederlo e dare dimostrazione di possedere i requisiti
previsti dalla legge. La cittadinanza, in sostanza, consegue
all’accertamento di una condizione che è innanzitutto
morale, che presuppone la condivisione di valori civili e
spirituali, quelli che individuano l’identità di un popolo
come si è formata nella sua storia lungo i secoli, le sue
tradizioni. Questo significa la Patria Italiana.
Nell’antica
Roma, accogliete nei confronti di tutti, la cittadinanza era
un privilegio. Poter dire
civis romanus sum
riempiva di orgoglio ed attestava la condivisione di
un’appartenenza ad un ordinamento e ad una storia. I romani
che avevano “nel loro archetipo l’idea dell’unità nella
diversità”, hanno praticato grande apertura sociale ed
integrazione nella quale la concessione della cittadinanza
“sta nel fatto di arricchire la comunità di persone degne di
farne parte” (Valditara). In coerenza con questi principi,
laddove la concessione della cittadinanza riguardasse gruppi
di stranieri “doveva fondarsi sul consenso dei cittadini”.
Cittadinanza concepita “nell’interesse di Roma”, per cui si
procede all’espulsione dello straniero ed alla revoca della
cittadinanza a chi avesse dimostrato di non meritarla.
Non a caso oggi
i difensori del cosiddetto
ius soli, che
secondo Costantino Mortati, al di fuori del caso degli stati
che “tendono ad aumentare anche artificiosamente il numero
dei cittadini … conduce a conseguenze aberranti”, sono gli
eredi di una tradizione politico ideologica che non ha
radici nella storia unitaria. Per dirla con Emilio Gentile,
lo storico, sono “italiani senza padri”.
Ius soli, cui
ipocritamente si aggiunge l’aggettivo “temperato”, così come
lo ius culturae,
per dire che in alcuni casi può bastare la frequentazione di
un qualche ciclo scolastico.
Un periodo che Giovanni Sartori riteneva
del tutto insufficiente a formare un “nuovo italiano”, che
non crea automaticamente identificazione.
La legge vigente sulla cittadinanza è fondata
essenzialmente sul cosiddetto
ius sanguinis, nel
senso che è italiano chi nasce da almeno un genitore
italiano. Un criterio che, come ha scritto Fausto Cuocolo,
“mira a garantire una maggiore coesione all’elemento popolo,
il che rende questo criterio astrattamente preferibile”.
Soprattutto “quando vuole salvaguardarsi l’omogeneità
nazionale esistente”. Tuttavia un bambino nato sul
territorio italiano da genitori stranieri può chiedere la
cittadinanza al raggiungimento del diciottesimo anno, purché
sino a quel momento abbia risieduto nel Paese “legalmente e
ininterrottamente”. Una normativa senza dubbio ragionevole,
equilibrata. Si chiede la cittadinanza al raggiungimento
della maggiore età, consapevoli del senso di una scelta.
La proposta di modifiche all’esame del
Senato prevede una semplificazione dei criteri di
concessione della cittadinanza per i bambini, figli di
genitori stranieri, nati o cresciuti in Italia. Infatti un
bambino nato in Italia ne acquista la cittadinanza se uno
dei genitori vi risiede legalmente da almeno 5 anni “o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti
di lungo periodo”. Altra ipotesi. “Il minore straniero nato
in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del
dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa
vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio
nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso
istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o
percorsi di istruzione e formazione professionale triennale
o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica
professionale, acquista la cittadinanza italiana”. Dove è
evidente che il frequentare corsi “idonei al conseguimento”
non è la stessa cosa che “conseguire”. Norma che si presta
ad evidenti aggiramenti, considerata la facilità con la
quale si ottengono attestazioni compiacenti. Anche perché il
disegno di legge, quando ha voluto, ha previsto come
“necessaria la conclusione del corso” (di istruzione
primaria) o “il conseguimento di una qualifica
professionale” per lo straniero “che ha fatto ingresso nel
territorio nazionale prima del compimento della maggiore
età”.
Secondo le sinistre queste sono regole
“di civiltà”. Sennonché si tratta all’evidenza di una legge
“politica”, non nel senso nobile di una scelta destinata ad
assolvere alle esigenze primarie della
polis, ma di una
legge a scopi elettorali, di basso interesse elettorale. Lo
ha detto senza mezzi termini un osservatore qualificato come
Antonio Padellaro intervenendo ad
Otto e Mezzo, la
trasmissione de La7
condotta da Lilly Gruber: “è una questione elettorale”. “Una
legge – ha scritto su Il Messaggero Alessandro Campi, storico e politologo - che deriva
non da un imperativo etico universale al quale si può solo
obbedire, ma da una decisione politica frutto a sua volta di
una ben definita visione della società e della storia. Chi
la sostiene immagina un mondo nel quale le frontiere siano
destinate un giorno a scomparire. Ritiene che gli uomini
siano per definizione esseri nomadi e pendolari. Le
appartenenze, statuali o nazionali, a loro volta sono viste
come qualcosa di fittizio e convenzionale. Mentre la
cittadinanza è considerata solo come uno status
legale-formale che nulla può avere a che fare con legami in
senso lato familistici o naturali, o che siano basati su una
qualche forma di discendenza, anche solo di tipo
storico-culturale”.
Siamo di fronte evidentemente a due
contrapposte concezioni dello Stato e della società.
Ma non è tutto qui. Occorre, infatti,
valutare gli effetti della normativa che si vorrebbe
approvare anche alla luce di una situazione che non è di
normalità, ma di emergenza legata ai continui sbarchi sulle
nostre coste di clandestini e di profughi, un’ondata
migratoria mai vista, perché organizzata. Non profughi che a
gruppi di qualche decina fuggono dal loro paese a causa di
una guerra o di difficili condizioni economiche, come nel
caso di carestie, ma gruppi di centinaia e migliaia,
reclutati, trasportati via terra, alloggiati in attesa
dell’imbarco, d’intesa spesso con organizzazioni malavitose
alcune delle quali li attendono per farne schiavi nelle
campagne meridionali o per avviare le donne alla
prostituzione. Organizzazioni che ricattano i familiari
rimasti in patria. Una forma moderna di tratta degli
schiavi. Un tempo i mercanti di uomini razziavano con
violenza giovani soprattutto nei villaggi dell’Africa
atlantica, oggi li “convincono” a spendere tutte le risorse
della famiglia, migliaia di euro o dollari (ma dove li
avranno mai se con quelle somme si possono avviare
proficuamente attività produttive?) per finire nei ghetti,
nelle periferie delle grandi città o nelle campagne.
Ecco perché la proposta scalda gli animi.
Naturalmente abbonda sui
media il ricorso ad immagini ed a fatti strappalacrime
che vorrebbero sottolineare la scelta “di civiltà” sottesa
alla legge. Si dice, ad esempio, che nelle scuole siedono
nello stesso banco bimbi italiani e stranieri. Gli uni e gli
altri si sentono amici, studiano e giocano insieme, ma gli
stranieri percepiscono una discriminazione nei loro
confronti. Cosa non vera perché l’unico diritto che
distingue questi bimbi è il diritto di voto che comunque non
si può esercitare prima del 18° anno di età. E poi noi
facciamo di tutto per essere accoglienti. Abbiamo notizie di
scuole dove non si festeggia più il Natale o la Pasqua per
non dispiacere ai musulmani, per rispetto ai quali ai nostri
bambini in alcuni casi è stato proibito di portare il panino
con la mortadella per colazione.
Le Sinistre vogliono che diventino
italiani, che si integrino. Per verificare questa condizione
devono rispettare le nostre tradizioni, il Natale, la Pasqua
e la mortadella, non nel senso che debbano cantare “tu
scendi dalle stelle” o mangiare il panino, ma che
condividano il pluralismo delle idee come dei gusti
alimentari e li rispettino. E se a scuola si fa un minuto di
silenzio per ricordare le vittime di un attentato
terroristico si vorrebbe che gli studenti di fede islamica
che “ambiscono” a diventare cittadini di un Paese libero e
civile rispettino il senso di cordoglio espresso per vittime
innocenti, spesso loro coetanei.
Il rispetto per chi ospita è il primo
requisito da verificare per comprendere se è autentico il
desiderio di essere accolti.
Non bisogna neppure trascurare che
l’accoglienza, che va ad onore della nostra civiltà, rischia
di essere confusa con debolezza sul piano del rispetto delle
regole, e di incentivare la prepotenza. È comunque un
segnale pericoloso per i mercanti di uomini dare
l’impressione che l’Italia abbia aperto le sue frontiere a
chiunque voglia entravi per diventarne cittadino. Senza
preoccuparsi della effettiva integrazione, come dimostra
l’esperienza dolorosa di altri stati, dal Regno Unito alla
Francia al Belgio nei quali le cronache ci dicono che la
cittadinanza legale non favorisce
ex se
l’integrazione sociale e culturale, cioè la condivisione di
una identità. Infatti in quei contesti i giovani figli di
immigrati, in particolare di fede islamica, maturano forme
di ribellione, spesso violenta, in ragione di un orgoglio
identitario che rinviene le proprie radici nelle comunità di
provenienza e nella religione, la cui purezza rinfacciano
all’Occidente decadente corrotto, che consente alle donne di
guidare l’automobile o di andare in bicicletta. Per non dire
del fatto che le occidentali mostrano i capelli, oggetto di
attrazione per gli uomini, le gambe, rese visibili da
vertiginose minigonne, e circolano per le strade con
generose scollature, che tanto piacciono ai maschi del
Continente, nel quale la Turchia, ad esempio, vorrebbe
entrare e ne è impedita dalla scarsa tutela dei diritti
assicurata ai cittadini.
Se non è una guerra di religione ci
somiglia molto. E senza dubbio è un confronto di culture
nelle quali rischia di soccombere quella più debole o che
appare tale.
Aperti, dunque, all’accoglienza, come
Roma ci ha insegnato, ma rigidi nel pretendere il rispetto
delle regole (che vale anche per gli italiani ovviamente) e
condivisione dei tratti fondamentali della nostra identità
se si vuole diventare cittadini italiani. A 18 anni, dando
dimostrazione di crederci.
19 settembre 2017
Ius soli sì – ius soli no
Una questione di identità
di Salvatore Sfrecola
“Intesa governo-Vaticano: “sì allo sius soli entro l’anno”, così
titola La Repubblica
di oggi in prima pagina. Le due parti avrebbero, dunque,
concordato di mandare avanti la riforma della legge sulla
cittadinanza. Ed io mi chiedo, al di là della singolarità della individuazione delle
parti di un accordo evidentemente diseguale dal momento che
governo è scritto con la "g" minuscola e Vaticano con la "V"
maiuscola, perché mai il Governo della Repubblica ritenga di
dover concordare con un'Autorità religiosa, sia pure
maggioritaria, le regole dell'appartenenza allo Stato, il
diritto di cittadinanza.
Siamo fuori dello stato di diritto dacché la materia
non appartiene certamente alla sfera religiosa, che riguarda
la cura delle anime alla luce della dottrina che ci è stata
rivelata nel Nuovo Testamento. E se Cristo ha detto “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello
che è di Dio”
(greco:
Ἀπόδοτε
οὖν
τὰ
Καίσαρος
Καίσαρι
καὶ
τὰ
τοῦ
Θεοῦ
τῷ
Θεῷ; latino: Reddite
quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo), quella celebre enunciazione
riportata nei vangeli
sinottici, in particolare da Matteo (22,21), Marco (12,17) e Luca (20,25)
delinea nettamente la distinzione dei ruoli, tra la Chiesa
che ha cura delle anime e lo Stato
che si occupa dell’organizzazione politica della società e
che stabilisce, in primo luogo, chi vi appartiene, chi può
essere cittadino, con tutti i diritti ed i doveri che ne
conseguono. “Dallo Stato non viene la salvezza- si legge
nell’avvertenza al celebre saggio di Oscar Cullman “Dio e
Cesare” - .. ma esso ha una funzione da svolgere nel disegno
divino di salvezza e il cristiano non può ignorarlo”.
Quella della cittadinanza non è materia religiosa. La
Chiesa, come tutte le chiese, si occupa della diffusione del
verbo e della salvezza delle anime non della loro
appartenenza ad una società civile per il semplice fatto che
quella religiosa è una società universale (non è forse
questo il significato della cattolicità della Chiesa?) cui
appartengono cittadini di vari paesi, i cui membri sono
uniti solamente dal fatto di credere in uno stesso Dio che
per i cattolici è quello della Bibbia, come per gli ebrei,
per i musulmani Allah, per altri Buddha, per altri ancora
sono Brahma Shiva e Vishnù.
È gravissima l’interferenza che il titolo di
Repubblica delinea
come la sudditanza del governo (necessariamente con la “g”
minuscola) in una materia che è propria del Parlamento e non
del Governo. Di un Parlamento – va ricordato ancora una
volta -, eletto sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale ed al quale residuano compiti limitati, in
sostanza riferiti alla ordinaria amministrazione, come hanno
scritto i giudici della Consulta nella sentenza n. 1 del
2014.
Abbiamo veramente perso la testa oltre che il senso
delle regole fondamentali dello Stato di diritto.
A rincarare la dose Marco Tarquinio, direttore di
Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale
Italiana, che, intervistato da
La Repubblica
esordisce dicendo “vorrei ascoltare un liberale, qualcuno
anche in Forsa Italia che abbia un po’ di coraggio, che si
spenda per la legge sullo ius soli. E poi vediamo chi ha la
statura sulla scena politica per farla approvare…”. E
aggiunge “La legge sullo ius soli andava fatta ieri, altro
che aspettare domani”.
Per il giornalista “si tratta di dare una mano agli italiani, a
coloro che lo sono ma non vengono compresi come tali”. Ecco,
dunque, che al centro della questione ci sarebbero italiani
che non lo sono giuridicamente. Ma Tarquinio non si fa la
domanda. Chi sono gli italiani? È sufficiente nascere in
Italia e magari parlare la lingua? O serve qualcos’altro,
sentirsi italiani? Non ho dubbi è necessario sentirsi
italiani. Per questa ragione la legge dello Stato oggi
vigente, la n. 91 del 5 febbraio 1992 (Nuove norme sulla
cittadinanza) prevede che, oltre a coloro che sono figli di
italiani i quali, pertanto, sono cittadini
iure sanguinis, la
cittadinanza può essere concessa “allo straniero che risiede
legalmente da almeno dieci anni nel territorio della
Repubblica” (art. 9, comma 1, lettera f). Con la
precisazione (art. 10) che “il decreto di concessione della
cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce
non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto
medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di
osservare la Costituzione e le leggi dello Stato”. La
cittadinanza, cioè l’appartenenza ad uno stato è, dunque,
regolata da principi che attengono alla identità di un
popolo, alla sua storia, alle sue tradizioni, per cui è
cittadino il primo luogo il figlio di cittadini o adottato
da cittadini o anche “il figlio di ignoti trovato nel
territorio della Repubblica, se non venga provato il
possesso di altra cittadinanza” (art. 2 comma 2). Una deroga
significativa che Tarquinio dovrebbe apprezzare. Ma forse
non lo sa o, più probabilmente, a lui non basta.
Le legislazione vigente, in sostanza, è aperta a varie situazioni
ritenute meritevoli di riconoscimento. Non stupisce che
Tarquinio non percepisca il tema della “identità nazionale”.
Evidentemente appartiene a quella corrente di cattolici che
non ha mai “sentito” lo stato unitario, non ne ha condiviso
i valori di libertà. E magari è ancora adirato con Vittorio
Emanuele II, Cavour e Garibaldi per aver attentato allo
Stato della Chiesa e portato la capitale a Roma, a quella
realtà antistorica per cui Mastro Titta, in nome del Papa
Re, calava la mannaia
sul collo dei liberali e dei patrioti che volevano liberare
l’Italia dallo straniero, di farne uno stato, stanchi di
sentirsi “calpesti/ derisi perché non siam popolo/ perché
siam divisi”. Quello Stato inefficiente e corrotto che tanto
ha danneggiato la Chiesa, gettando un’ombra sulle
istituzioni religiose e del laicato cattolico meritevoli
della massima considerazione sul piano sociale (da rileggere
“L’opposizione cattolica” di Giovanni Spadolini).
Tarquinio non si sente evidentemente parte di quel mondo
cattolico cui appartenevano quanti, nelle guerre del
Risorgimento e poi nella Prima Guerra Mondiale (quarta
guerra d’indipendenza per l’annessione di Trento e Trieste)
hanno combattuto per l’Italia unita. E racconta dello
ius culturae, una
furbesca variazione sul tema che fa passare per consapevoli
della identità italiana quanti frequentino un ciclo
scolastico (si badi bene non che lo concludano con un
diploma) senza spiegare perché questo non potrebbe avvenire
come oggi al compimento del diciottesimo anno con la
consapevolezza di essere veramente parte di una comunità di
storia e di cultura.
A Tarquinio non insegna niente che in Francia o in Belgio o nel
Regno Unito gli attentatori che tanto sangue hanno sparso
siano cittadini di seconda o di terza generazione. Che non
si integrano perché rimasti legati alle tradizioni dei loro
padri e della terra dalla quale provengono. Sentimenti
nobili, se non si trasformano molto di frequente, come è
successo finora, in odio per l’Occidente decadente e
corrotto, dove – udite udite! – alle donne sono riconosciuti
gli stessi diritti degli uomini, una società debole, imbelle
tanto da credere che un ciclo scolastico senza controlli
faccia un cittadino consapevole della storia
e delle tradizioni per le quali ci sentiamo italiani.
18 settembre 2017
L’Italia esiste ancora come Paese libero e sovrano?
di Michele D’Elia*
All’inizio di settembre ho letto sulla stampa (Il
Quotidiano di Lecce) che la società… ha ottenuto il
permesso ministeriale di trivellare al largo del Capo di
Santa Maria di Leuca, per cercare giacimenti di petrolio,
che con ogni probabilità, non troverà. Ma il danno è
comunque arrecato ad uno dei luoghi più intatti e suggestivi
della Penisola.
Non si può dire no agli Stati Uniti.
Mi vengono in mente il caso Regeni, il massacro di Nicolò Ciatti,
ad opera di Rassoul Bissoultanov e compagni, a Lloret de Mar
(Barcellona) senza che nessuno intervenisse; Martina Rossi,
ufficialmente suicida, il 3 agosto 2011 a Palma di Maiorca;
le tredici studentesse dell’Erasmus, 20 maro 2016, morte a
Valencia in un incidente causato dall’autista del pullman,
che si era addormentato mentre guidava, sua ammissione:
nessuna indagine, nessun colpevole, addirittura
l’Assicurazione non volle pagare nulla.
L’ultimo in ordine di tempo è il caso di Gianluca Di Gioia,
avvelenato e rapinato, ora in coma farmacologico al Bangkok
Hospital di Udon Tani, in Thailandia. Per farlo rientrare in
Italia occorre una somma ingente; sino ad oggi sono stati
raccolti 105 mila euro (Il Messaggero del 3 settembre 2017).
In tutte queste e in altre vicende analoghe c’è un convitato di
pietra: lo Stato italiano, la Nazione Italia.
Non una parola, una presa di posizione, una protesta anche minima
e se c’è stata non ce ne siamo accorti, anzi non se n’è
accorto nessuno.
Le spiegazioni possono essere soltanto due: il nostro governo ed
i politici in generale hanno paura anche di fiatare, per
chissà per quale motivo: interessi superiori alla vita di
una o più persone; o puro e semplice menefreghismo: fino a
quando non capita a me…affari come apertamente dichiarato
dalle nostre Autorità politiche, l’Egitto è “nostro partner
economico”.
La conclusione è una sola: se colpisci un italiano all’estero non
succede niente; ergo,
su può fare.
Xilella
Sarò forse “complottista”, ma per me ce l’hanno messa apposta per
distruggere le nostre migliori colture: ulivi e adesso anche
i mandorli; e tra poco vedrete, qualche altra pianta; purché
sia in Italia ed in Puglia.
Nessuno si chiede come mai non progrediscano gli studi per
debellare questo flagello, né come vengano usati i milioni
di euro all’uopo stanziati.
Nessuno si chiede mai perché tanta facilità nell’ordinare tagli
ed espianti da parte di Bruxelles né il perché della supina
acquiescenza dei nostri governi, verso burocrati che
decidono tutto a tavolino e che, forse, in vita loro non
hanno mai visto un ulivo od un mandorlo.
Ma soprattutto se è vero che questo insetto non vola, come può
aver attraversato il mondo, per arrivare qua dal Sudamerica?
Certamente qualcuno lo sa.
Torre Suda (LE) 18 settembre 2017
*
Direttore di “Nuove Sintesi”
Quale Lega dopo Pontida?
Salvini guaderà il Rubicone?
di Salvatore Sfrecola
Grande è l’attesa del mondo politico per l’incontro di Pontida,
tradizionale adunata della Lega, occasione di riflessioni e
di cambiamenti lungo una storia che con Matteo Salvini si è
rinnovata nella prospettiva di assumere una connotazione non
più localistica ma nazionale, già percepita dalla gente che
ha assicurato al partito consensi molto superiori a quelli
dai quali è partita la sua segreteria. Tanto che si è detto
anche di un cambio di nome, escludendo la parola Nord
aggiungendo a Lega aggettivi che diano conto del nuovo
corso, quindi “nazionale”, “italica, “italiana”, come la
fantasia ed i ricordi storici suggeriscono.
Ma è pronta la Lega a questo passaggio al di là della volontà di
Matteo Salvini che va assumendo, come gli è unanimemente
riconosciuto, un profilo di leader nazionale di un partito
che intende ricevere consensi in tutta Italia, considerate
le diverse culture e storie che caratterizzano questo Paese?
Certo la Lega “delle autonomie” sembra fatta apposta per
cogliere quella straordinaria ricchezza di pensiero e di
tradizioni che caratterizza l’Italia, dalle Alpi al Lilibeo,
che poggia sul pensiero e sull’opera dei grandi che hanno
riempito le biblioteche delle città e dei borghi, che hanno
arricchito di dipinti e sculture le chiese ed i palazzi del
potere e della cultura, che hanno disegnato nel corso dei
secoli strade e piazze e giardini e parchi noti in tutto il
mondo, ciò che spinge uomini di cultura e persone più
modeste a visitare il
bel Paese. Che è anche uno straordinario museo a cielo
aperto dove la natura ha dato il meglio di se.
Il passo di Salvini è lento ma sicuro, come quello dei montanari,
che mirano alla vetta. Non tutto e non tutti sono con lui.
Ci sono i tiepidi e quelli che di più non possono dare
perché portatori di una esperienza politica limitata,
perché, al di là dell’incarico parlamentare o consiliare,
non operano nella società con mestieri e professioni e,
pertanto, non percepiscono le aspettative di chi le
esercita, non ne colgono le ansie e le preoccupazioni. E poi
c’è un profilo territoriale ancora predominante. La Lega
espone, anche a livello di gruppi parlamentari e nelle
assise televisive sempre uomini e donne del nord. La più a
Sud è la Bergonzoni, combattiva leghista bolognese, già
candidato sindaco nel capoluogo emiliano. Ci sono, è vero,
esponenti della Lega in Umbria ed anche nel Lazio, come
l’attivissima Saltamartini. Ma il passaggio ad un profilo
nazionale esige altro. Roma, ad esempio, capitale d’Italia
richiede di più, molto di più, anche una specifica
attenzione al pubblico perché è qui che si fanno le leggi e
si amministra l’amministrazione, scusate il bisticcio,
quella che dà la misura dell’efficienza dello Stato e della
capacità della politica di essere in sintonia con la gente.
Anche le leggi si fanno spesso con i “romani”, siano i
dirigenti delle pubbliche amministrazioni, siano i
magistrati amministrativi e contabili (Consiglieri di Stato
e della Corte dei conti), Avvocati dello Stato e docenti
delle università della Capitale, da sempre consiglieri del
potere.
È a Roma che maturano le scelte, è Roma che può mediare con il
Sud variegato e vivace, sofferente perché non percepisce la
presenza dello Stato, un disagio che fa ritrarre molti nel
proprio particulare, al punto da risvegliare antistoriche e inattuali
critiche al processo unitario che portò nel 1861 alla
creazione dello Stato nazionale. Altrimenti che senso
avrebbe certa polemica che intende richiamare in tono
polemico nei confronti di Cavour, Garibaldi e Mazzini
l’esperienza del Regno delle due Sicilie facendo la conta
dei morti ai tempi del brigantaggio, dimenticando che c’era
anche prima dell’unità e c’è anche oggi solo che ha forme
diverse ed ha cambiato nome, si chiama Mafia Camorra, Sacra
Corona Unita, e ’Ndragheta? Avendo dinanzi agli occhi
l’esempio di una Sicilia, la regione che avendo, tra tutte,
il massimo possibile di autonomia non ha ancora una rete
stradale e ferroviaria degna di questo nome che possa
assicurare la mobilità delle persone e delle merci in un
contesto ambientale che potrebbe dare ricchezza ai suoi
figli? Tra arte e natura la Sicilia, come si è un
meraviglioso continente.
In questa Italia difficile, nella quale la gente è talmente
disgustata dalla politica che il
Movimento 5 Stelle
miete consensi anche quando non amministra come gli elettori
si sarebbero aspettati, come a Roma dove mancano non solo i
risultati, che certamente richiedono qualche tempo, ma anche
segnali di un cambiamento generalmente atteso, la Lega è al
di là del guado, di un ideale Rubicone che è necessario
passare se si vuole conquistare l’Italia, se si vuol mettere
mano ad una nuova stagione della politica, quella che Giulio
Tremonti va indicando come il nuovo
Rinascimento, in
ciò con Vittorio Sgarbi.
Alea iacta est!
Ripeterà Salvini la celebre frase di Giulio Cesare, che comunque
sembra l’abbia detta in greco, per lanciare le sue legioni
verso la Capitale e le province del Sud generoso e
fantasioso che tanto potrebbe dare alla politica e
all’economia e, con esse, all’immagine dell’Italia in Europa
e nel mondo? Cominciando dal Mediterraneo che è il luogo del
confronto delle civiltà laddove Roma ha saputo, nel rispetto
delle diverse culture e storie, farne un mare romano,
nostrum, nel senso
più nobile della parola, di dialogo e di integrazione nel
segno della identità. Un tema che deve essere caro agli
italiani perché identità significa dare un contenuto
all’essere italiano, che non significa soltanto parlare la
bella lingua, purtroppo trascurata nella scuola e nei mezzi
di informazione, ma avere consapevolezza di una storia
unica, straordinaria, di pensiero e azione, che fanno degli
italiani qualcosa di diverso da tutti gli altri. Senza voler
escludere nessuno ma nella consapevolezza che il confronto,
l’integrazione, cui spesso si fa riferimento anche con
riguardo agli immigrati, esige la consapevolezza di chi
siamo. Altrimenti non c’è integrazione ma sudditanza a
culture straniere con le quali si può convivere ma delle
quali non possiamo essere succubi. Quindi come io rispetto
culti e luoghi di culto diversi dai miei esigo altrettanto
rispetto per le mie usanze, per il mio pensiero, per
occasioni civili e religiose che festeggio, per i miei gusti
alimentari.
Al di qua del Rubicone c’è, dunque, aspettativa e speranza.
Matteo Salvini la incarni e se ne faccia portatore con i
suoi uomini migliori, che deve reclutare, con saggezza e
accortezza, anche al di qua di quel fiume.
16 settembre 2017
Istria, Fiume e Dalmazia – La tragedia degli esuli
di Domenico Giglio
Definire
Waldimaro Fiorentino uno scrittore prolifico e poligrafo è
una realtà, perché, oltre ad aver firmato dodicimila
articoli sui più vari argomenti, i suoi lavori più
impegnativi spaziano dagli scienziati italiani, opera
monumentale, patrocinata dalla Società Italiana per il
Progresso delle Scienze, al mondo della musica e
dell’operetta italiana, ai problemi religiosi della “Rerum
Novarum”, a problemi storici e politici da De Gasperi, al
rapporto di Casa Savoia con l’Alto Adige, al federalismo e
decentramento, alla questione istituzionale vista dal punto
di vista monarchico, agli italiani in Egitto, alla genesi
della prima guerra mondiale ed ora agli esuli dell’Istria,
Fiume e Dalmazia.
Il volume così
intitolato “Istria, Fiume e Dalmazia – La tragedia degli
esuli” ( Edizioni Catinaccio – Bolzano – maggio 2017 – Euro
15,00), uscito da pochi mesi e che ha avuto importanti e
positive recensioni sui quotidiani trentini ed altoatesini,
è una precisa documentazione storica dal 1800 ad oggi della
vita e delle azioni che gli italiani di queste terre hanno
compiuto per riaffermare la loro italianità sotto il governo
asburgico, e poi, dopo il purtroppo breve periodo del loro
ricongiungimento al Regno d’Italia, nel triste e tragico
dopoguerra della seconda guerra mondiale sotto la ben
peggiore oppressione comunista titina, terminato con la
partenza e l’abbandono della terra natia e dei beni, da
parte della grande maggioranza della popolazione di lingua,
cultura e tradizione italica. Esuli che non sempre furono
accolti in Italia, specie all’inizio, con sentimenti
fraterni particolarmente da parte dei comunisti, per i quali
la solidarietà ideologica con la Jugoslavia, era superiore
alla solidarietà nazionale.
Secondo il suo
stile e metodo Waldimaro Fiorentino, approfondisce date e
nominativi di persone nate in quelle terre, frutto di una
non certo facile ricerca storico anagrafica, che rendono il
suo testo difficilmente oppugnabile e discutibile . Ed a
date e nominativi, di coloro, numerosi, che si distinsero in
tutti i campi e che ben operarono per l’italianità, nomi che
in molti casi lasceranno sorpresi i lettori, si aggiungono
cifre e statistiche altrettanto precise per cui libri come
questo sono come pietre miliari della storia di terre dove
Venezia aveva impresso il suo stampo d’italianità, che dopo
la sua caduta, venne ripreso in quel più vasto movimento
nazionale che fu il Risorgimento ,con l’unità raggiunta, sia
pure parziale, nel 1861 con la proclamazione del Regno
d’Italia. Ed al Regno d’Italia da tale data al 1915, inizio
della IV Guerra d’Indipendenza, guardarono, sperarono e
dettero anche un contributo di sangue, gli italiani di
queste terre .Quindi Irredentismo e senso nazionale che
suscitarono la reazione politica, poliziesca, e
snazionalizzatrice dell’impero austro-ungarico, a vantaggio
di slavi e croati, così ben documentata ed approfondita da
Fiorentino, di cui è doveroso ricordare le sue ragionate
convinzioni monarchiche sabaude che lo portarono,
giovanissimo, ad iscriversi al Movimento Giovanile del
Partito Nazionale Monarchico ed il suo impegno successivo
che lo ha visto per decenni rappresentante monarchico nel
Consiglio Comunale di Bolzano.
13 settembre 2017
Il
falso mito della marcia su Roma*
del Prof. Aldo A. Mola
La disputa sulla “Marcia su Roma” programmata da Forza Nuova per
il prossimo 28 ottobre salirà ancora di tono, anche per le
improvvide dichiarazioni del sindaco della Capitale,
Virginia Raggi, che intima: “Non può e non deve ripetersi”,
quasi “il duce” fosse alle porte. L'occasione è propizia per
sfatare un “mito” abusato. Chiariamo subito che la
famosissima “marcia” non avvenne il 28 ottobre 1922 e che,
se per tale si intende l'assalto armato alla Città Eterna,
essa non ebbe mai luogo. Solo il 31 ottobre, invero, circa
25.000 “militi”, stanchi e per niente soddisfatti, sfilarono
per il centro di Roma e furono subito spediti a casa. Il
governo Mussolini era già insediato e non ne aveva alcun
bisogno. I mestatori, però, continuano a rinfocolare una
leggenda che fece comodo a fascisti e ad antifascisti: a
beneficio dei professionisti della “guerra civile” e a
scapito della verità storica.
In un Paese bisognoso di “normalità”, narriamo i fatti, con
ordine. Il 24 ottobre Mussolini aprì al teatro San Carlo di
Napoli il secondo Congresso del partito Nazionale Fascista.
Il precedente (Roma, novembre 1921) aveva segnato il
passaggio dal movimento al partito. A presiederlo era stato
il generale Luigi Capello, massone, all'epoca “in bonis” con
il Duce e molto apprezzato dalla Milizia. Passato poi
all'opposizione, il 4 novembre 1925 Capello fu incastrato
nell' “attentato Zaniboni” alla vita di Mussolini e
condannato senza prove convincenti a trent'anni di carcere,
tre dei quali in isolamento.
Quel 24 ottobre 1922 da un palco del Teatro di Napoli si affacciò
anche Benedetto Croce. Da storico, amava “vedere”. Applaudì
persino. Mussolini aveva tre obiettivi: accelerare la crisi
del governo presieduto da Luigi Facta ed entrare
nell'esecutivo con alcuni ministri prima che iniziasse il
declino del suo sempre caotico partito, con un piede nello
squadrismo e uno sulla soglia di un potere. Aveva messo le
mani avanti nel discorso di Udine (20 settembre) in cui
aveva precisato che il fascismo, per allora, non poneva in
discussione la monarchia. Il secondo scopo era tagliare la
strada a Gabriele d'Annunzio che stava progettando con Facta
un raduno patriottico all'Altare della Patria per il 4
novembre, festa della Vittoria. Sapeva bene, infine, che,
forte di appena 37 deputati su 543 e di squadristi “a
noleggio”, il tempo giocava contro di lui. Come si
entusiasmano, così gli italiani presto si stufano. A
Cesarino Rossi Mussolini confidò che il suo vero timore era
il ritorno di Giolitti al governo: in tal caso, egli disse,
“siamo fottuti” (sic!). Lo Statista aveva sgomberato a
cannonate d'Annunzio da Fiume; altrettanto avrebbe fatto con
i fascisti se avessero tentato l'assalto alle Istituzioni.
Il Parlamento non si radunava dal 7 agosto, quando aveva concesso
la fiducia al secondo governo presieduto da Facta, nel quale
erano entrati due ministri di polso: PaolinoTaddei
all'Interno e Marcello Soleri alla Guerra. Abituato a
fiutare il pericolo (era anche rabdomante, secondo Angelo
Gatti), Vittorio Emanuele III incalzò invano il primo
ministro a convocare le Camere.
Il 18 ottobre i quadrumviri del fascismo (il generale Emilio De
Bono, Italo Balbo, oratore della loggia Gerolamo Savonarola
di Ferrara, Cesare Maria De Vecchi, monarchico
indefettibile, e Michele Bianchi, repubblicano) si
radunarono a Bordighera. I primi tre resero omaggio alla
Regina Madre, Margherita di Savoia, che non nascondeva
simpatie per un governo “di ordine”. Lo stesso giorno gli
industriali di Milano (esasperati da scioperi e non
dimentichi dell' “occupazione delle fabbriche” del settembre
1920) ebbero un incontro rassicurante con esponenti del PNF.
Poiché Mussolini minacciava di lanciare le squadre
all'assalto della capitale per imporre il cambio di governo,
Soleri impartì al generale Emanuele Pugliese, comandante
della divisione militare di Roma, l'attivazione delle misure
predisposte da un mese.
Il 24 ottobre Facta rassicurò il re: “Credo ormai tramontato
progetto marcia su Roma”. Si destò alle 0.10 del 27 quando
telegrafò al sovrano che le squadre avevano iniziato la
mobilitazione in alcune città dell'Italia settentrionale (da
Cremona, sotto la guida di Roberto Farinacci, “il più
fascista”, ad Alessandria) e in Toscana, ove l'ordine
pubblico venne ferreamente mantenuto dal generale cuneese
Ernesto De Marchi.
Al prolisso telegramma di Facta il re rispose ruvidamente con due
parole. Partì da San Rossore e arrivò alla Stazione Termini
alle 19.40. Fu ricevuto da Facta. Nel frattempo il governo
aveva deliberato le dimissioni, quindi era in carica solo
per l 'ordinaria amministrazione. La città di Roma era
tranquillissima. L'esercito effettuò blocchi ferroviari a
Civitavecchia, Orte e Velletri, togliendo i binari e
mettendo carrozze di traverso. Aveva sconfitto l
'Austria-Ungheria, completa di alleati germanici. Non temeva
i “marciatori su Roma”.
La mattina del 28 due liberal-nazionalisti (Aldo Rossini e
Giuseppe Bevione) svegliarono Facta di buon ora. Il governo
si radunò senza un ordine del giorno e decise di sedere in
permanenza. Alle 6.30 Taddei trasmise al capogabinetto Efrem
Ferraris il testo della proclamazione dello stato d'assedio
in tutte le province a decorrere dalle 12 e l'ordine ai
prefetti e ai comandanti militari di “arrestare
immediatamente, senza eccezioni, capi e promotori del
movimento insurrezionale contro i poteri dello Stato”.
Voleva dire la legge marziale in tutto il regno.
A vegliare furono Vittorio Emanuele III ,e il suo primo aiutante
di campo, il generale Arturo Cittadini. Verso le 9 Facta
andò dal re con il decreto dello stato d'assedio, già
diramato. Vittorio Emanuele lo mise in un cassetto e gliene
impose la revoca. Senza la sua firma valeva zero. Facta fece
quanto ordinato. Sconcertati dalla clamorosa auto-smentita
del governo, molti prefetti chiesero conferma in cifra.
Il re si sarebbe valso volentieri di Giolitti, che però stava
festeggiando l'80° compleanno a Cavour, in Piemonte, e non
fu in grado di raggiungere Roma. Lo stesso avvenne per il
cattolico milanese Filippo Meda altro possibile presidente
del Consiglio. Tramontata la candidatura di Antonio
Salandra, non gli rimase che rimettersi al consiglio di
tutte le personalità consultate: incaricare Mussolini.
Accompagnato forse da Raoul Palermi, sovrano della Gran
Loggia d'Ialia, il messaggero riservato del duce, Ernesto
Civelli, assicurò che i fascisti non costituivano alcun
pericolo per la monarchia. Ottenuto il preincarico, la sera
del 29 ottobre Mussolini partì da Milano in vagone-letto. A
Civitavecchia sostò forzatamente. Nel cambio di treno e nel
breve viaggio seguente gli venne spiegato dai nazionalisti
romani che doveva depennare dalla lista dei ministri Luigi
Enaudi, liberale liberista, e il socialista Gino Baldesi.
Ricevuto dal re a fine mattina del 30, nel tardo pomeriggio
presentò l'elenco dei ministri. Convocati per telefono o
telegrafo, l'indomani questi si presentarono per giurare. Lo
fece anche Mussolini, che, presente il re, prese le consegne
da Facta. Poi corse al ministero dell'Interno e agli Esteri,
ove scelse come capogabintto Giacomo Barone, massone.
E le squadre? Ne ha scritto Roberto Vivarelli, Premio Acqui
Storia alla carriera, nell'esemplare “Storia delle origini
del fascismo” (il Mulino). Partite il venerdì per “marciare”
il sabato, festeggiare la domenica e trovarsi a casa il
lunedì mattino, armate di bastoni, pugnali, rivoltelle,
qualche fucile, ormai da giorni erano a corto di “munizioni
da bocca”. Pioveva; faceva freddo. Solo a governo nominato,
nella notte tra il 30 e il 31 poterono avvicinarsi alla
città. Nel quartiere di San Lorenzo si registrarono scontri
tra neri e tossi, e vittime, come da anni in varie città
piccole e grandi.
La sfilata partì da Piazza del Popolo arrivò all'Altare della
Patria (ove erano schiarati i deputati nazionalisti), salì
al Quirinale, dal cui balcone si affacciarono il re e i
ministri della Guerra e della Marina,Armando Diaz e Paolo
Thaon di Revel, e raggiunse Termini. Di lì gli squadristi
vennero mandati a casa con 45 treni speciali. Nella seduta
inaugurale del Consiglio dei ministri, l'1 novembre,
Mussolini assicurò che in 24 ore Roma sarebbe stata
tranquilla. Così fu.
Ad aprire la parata del 31 (e non 28) ottobre, il sindaco di Roma
mandò la banda musicale della città. I fascisti sfilarono
nell'indifferenza della popolazione. Era un martedì. Il 5
novembre, reso omaggio al Milite Ignoto, il re partì per San
Rossore.
L'Italia si avviava alla normalità. Nessuno poteva immaginare
quanto sarebbe accaduto dieci, quindici, vent'anni dopo.
Niente di quanto avviene, infatti, è già scritto. Sono gli
uomini a fare, bene o male, giorno dopo giorno. Tante
“storie” raccontano gli eventi partendo dalla fine anziché
seguendo i fatti uno dopo l'altro. Scrivono profezie del
passato, non la storia.
Il sindaco Raggi, se vuole, può affidare a una banda musicale il
compito di sdrammatizzare qualunque prossima sfilata in una
città che, come l'intero Paese, ha ben altre priorità che la
rievocazione di un evento storico. La “leggenda” della
“marcia su Roma” fece comodo ai fascisti, che vantarono una
vittoria in realtà ottenuta “a tavolino” (il PNF oltre a
Mussolini ebbe tre ministri in un governo di coalizione
nazionale comprendente nazionalisti, cattolici, demosociali
e il giolittiano torinese Teofilo Rossi di Montelera); ma
quel falso mito giovò anche agli antifascisti che si
dipinsero vittime della proterva aggressione di centomila
squadristi armati sino ai denti. L' Italia ha bisogno di
storia vera, non di fiabe, né di polemiche strumentali.
*Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria, domenica
10 settembre
Dopo gli scontri a Roma, in Piazza
Indipendenza
Assuefatti
all’illegalità
di
Salvatore Sfrecola
Il Funzionario di Polizia che nel corso dello sgombero di
coloro che occupavano abusivamente l’immobile di via
Curtatone, all’angolo di Piazza Indipendenza, ha detto ai
suoi collaboratori “se tirano le pietre spezzategli le
braccia” è stato rimosso dall’incarico che rivestiva e
trasferito ad altro Commissariato.
Comprendo le motivazioni della Questura di Roma in un
contesto di polemiche, prima che sulla frase, sullo
sgombero. Non sta certamente bene che un funzionario dello
Stato usi quella frase che, peraltro, avrebbe detto chiunque
di noi fosse stato destinatario del lancio di un oggetto
idoneo a ferire. E forse lo abbiamo detto in qualche
occasione.
L’opinione pubblica, che queste situazioni comprende e che è
sempre più preoccupata della crescente impunità che circonda
delinquenti e clandestini non ha certamente apprezzato che
il funzionario della Polizia sia stato punito e che, invece,
nessuna sanzione abbia subito chi quella frase ha provocato,
lanciando oggetti atti a ferire e perfino una bombola di
gas, come risulta dai filmati diffusi via internet, anche su
Facebook.
La polemica continua, dunque, sulle modalità dello sgombero. A noi interessa riflettere sul
fatto che siano trascorsi ben quattro anni prima di liberare
un palazzo occupato illegalmente, ed i giardini
prospicienti, in Piazza dell’Indipendenza, a Roma, lì dove
siede il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di
autogoverno dei giudici e dei pubblici ministeri ai quali lo
Stato affida il rispetto delle leggi. Al centro della Città,
a cento metri dalla Stazione Termini, quella che chiamiamo
spesso “il biglietto da visita” della Città che, non
dimentichiamo, è la Capitale d’Italia.
Così, prima di
capire se l’opposizione degli occupanti allo sgombero, con
le modalità violente che le televisioni hanno documentato,
integri un reato ben più importante della “resistenza a
pubblico ufficiale” (art. 337, c.p.) e se qualcuno degli
operatori di polizia abbia usato maniere forti non
necessarie, va detto che l’occupazione di un immobile
consentita o tollerata per così tanto tempo è uno scandalo,
un fatto inammissibile in uno stato di diritto.
Inammissibile per definizione, perché nel lungo tempo
dell’inattività delle autorità competenti, si è ingenerata
la convinzione che ciò sia tollerato. Un esempio negativo,
che ne trascina altri perché non c’è nulla di peggio della
diffusa convinzione che la legge può essere impunemente
violata. E siccome in questo Paese le regole non rispettate
sono tante, senza che il più delle volte intervenga una
sanzione, si diffonde da tempo un senso di illegalità che
mina profondamente la pacifica convivenza.
Naturalmente la
lesione della legalità non è prodotta soltanto dalla
occupazione abusiva di immobili pubblici e privati da parte
di italiani, di cittadini dell’Unione Europea o di extra
comunitari, una pratica, peraltro, diffusa in tutta Italia,
perché a violare impunemente le regole e senza sanzione è la
stessa amministrazione dello Stato e degli enti locali, come
hanno dimostrato i crolli seguiti ad un terremoto, come
quello che nel mese di agosto ha interessato alcune località
dell’isola di Ischia, di lieve entità (4.0) che gli esperti
hanno dichiarato unanimemente non avrebbe fatto danno alcuno
se fossero state rispettate le regole di progettazione e
realizzazione, compreso l’uso di materiali idonei, previste
dalle leggi in vigore. E, aggiungiamo, fossero stati
eseguiti i controlli di legge sui progetti e sulla loro
realizzazione (collaudi).
E poiché si
parla di Ischia, ci dobbiamo chiedere perché, in un’area di
diffuso abusivismo, è stata in tutti i modi ostacolata la
costruzione della casermetta del Corpo Forestale dello
Stato, da dove gli uomini in grigioverde (oggi inseriti
nell’Arma dei Carabinieri) avrebbero potuto vigilare sul
rispetto delle molteplici norme che disciplinano le distanze
delle costruzioni dal mare e la tutela dei boschi, una
ricchezza per l’isola, per la sua economia turistica, per i
suoi abitanti. Ma non per tutti evidentemente, perché
sicuramente alcuni perseguono interessi personali illeciti,
in dispregio delle regole.
Il rispetto
della legge e, in caso di violazione, l’applicazione di una
sanzione, è dunque la cartina di tornasole della civiltà di
un popolo, di una comunità preoccupata dell’oggi e ancor più
del domani. L’Italia purtroppo, che qualcuno continua a
chiamare “Patria del diritto”, evidentemente ricordando che
a Roma le regole si rispettavano e si facevano rispettare, è
un Paese a diffusa illegalità, come dimostra la corruzione,
che un Presidente della Corte dei conti
Luigi Giampaolino
definì “pulviscolare”, per sottolineare la sua diffusione
fin dalle pratiche più minute delle pubbliche
amministrazioni, dove c’è sempre chi vuol guadagnare
ricevendo indebitamente denaro o altra utilità, come si
legge nell’articolo 318 del codice penale.
È una situazione
intollerabile, che relega l’Italia nella graduatoria stilata
da
Transparency
International in una posizione che è motivo di
disonore per tutte le persone perbene, le quali auspicano
veramente una svolta che necessariamente deve passare
attraverso una riforma delle procedure che assicuri celerità
e trasparenza in modo da non dare spazio a chi vuole lucrare
sulla farraginosità della burocrazia italiana a fini
personali. E in questo senso non c’è che da sperare nel
futuro, perché il governo di
Matteo Renzi come
quello di Paolo
Gentiloni non sono stati capaci di una svolta che
andasse al di là degli slogan ripetuti ossessivamente forse
per autoconvincersi di aver fatto qualcosa di buono per gli
italiani i quali continuano a non percepire novità nella
legalità.
4 settembre 2017
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