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OTTOBRE 2017
Da Caporetto alla Vittoria
di Aldo A. Mola
Cent'anni dopo diciamo la verità: Caporetto non fu affatto
“Caporetto”, “la madre di tutte le disfatte”, la condanna
dell'Italia a sentirsi “bella e perduta”, da sempre e per
sempre. Chi lo scrisse e lo ripete è disinformato o in
malafede. Tanti manuali echeggianti il Sessantottismo
perenne, ripetono la litania di un'Italia perpetuamente
perdente: Custoza (1848 e 1866), Novara (1849), Lissa
(1866), Adua (1896), Sciara-Sciat e poi, appunto, la
ritirata dall'Isonzo al Piave (24 ottobre-8 novembre 1917)
e, s'intende, l'8 settembre 1943, la “fuga di Brindisi”,
ecc. ecc. Così l'Italia viene avvolta in lugubri panni
anziché nel tricolore.
Caporetto? Venne già scritto tutto nella famigerata “Inchiesta”
varata nel gennaio 1918, in piena guerra. Mentre l'Esercito
preparava la riscossa, una Commissione presieduta dal
generale di esercito Carlo Caneva (nel 1912 esonerato
dall'inconcludente comando della guerra contro l'impero
turco) mise alla gogna il Comandante Supremo, Luigi Cadorna,
quello della Seconda Armata, Luigi Capello, e molti generali
e ufficiali superiori, rimossi dagli incarichi e “messi a
disposizione”. Da mesi Cadorna rappresentava l'Italia a
Versailles. Godeva della massima stima a livello
internazionale (anche da parte dei condottieri nemici, che
lo attestarono nelle loro memorie) ma i politicanti nostrani
volevano azzannare l'osso. Morso dopo morso, sarebbero
arrivati al comandante della Terza Armata, Emanuele
Filiberto di Savoia duca d'Aosta, e al re stesso, Capo dello
Stato e garante dell'unità nazionale all'interno e
all'estero, in un mondo nel quale l'Italia aveva alleati ma
nessun amico. Il re, come mostrò nell'incontro di Peschiera
l'8 novembre 1917, tenne nervi saldi mentre tutto sembrava
crollare. Lo documentano le introduzioni alla ristampa
anastatica dell'Inchiesta su Caporetto,
pubblicata dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore
dell'Esercito col contributo della Fondazione Cassa di
Risparmio di Saluzzo e dell’Associazione di Studi sul
Saluzzese. Il re aveva una visione chiara delle sorti
dell'Italia: dopo il cattivo, arriva sempre il bel tempo.
Dopo la siccità arriverà la pioggia. Bisogna resistere, come
dopo Caporetto dissero orgogliosamente alla Camera Vittorio
Emanuele Orlando e Giovanni Giolitti, con il consenso del
socialista Filippo Turati (“anche per noi la patria è sul
Piave”) e dei cattolici, capitanati dal milanese Filippo
Meda, memori che “bastone tedesco Italia non doma”. Nei
giorni drammatici l'ormai anziano Leopoldo Franchetti,
patriota a 24 carati e senatore del regno, si uccise col
rimorso di aver voluto l'intervento. Anche il
socialriformista Leonida Bissolati fu sull'orlo dell'abisso.
Erano persone colte e responsabili. Contrariamente a quanto
si è detto e ancora si ripete in evocazioni ripetitive, a
reggere fu proprio la “macchina militare”, che attuò la
manovra da anni messa a punto da Cadorna e conclusa con la
battaglia di arresto del nemico “sulla Piave”, come egli
amava dire.
Caporetto non fu ha ritirata, non una “disfatta”. Fu una
battaglia perduta come ne ebbero tutti gli eserciti in
lotta. Con una profonda differenza, però. L'Italia era
entrata in guerra per una decisione discutibile e persino
deprecabile, sulla base dell'accordo (arrengement)
del 26 aprile 1915 con l'Intesa contro gli imperi centrali,
suoi alleati dal 1882. Il governo (Salandra-Sonnino) azzardò
l'intervento il 24 maggio nell'illusione che il conflitto
sarebbe terminato entro l'autunno stesso. Povera di risorse
per il suo sistema industriale e persino per
l'alimentazione, con domini coloniali remoti e indifendibili
(Tripolitania, Cirenaica, Eritrea, Somalia...), essa era
presa alla gola da alleati e avversari, chiusa tra
Gibilterra, Malta, Cipro e Suez, tutte “piazze” in mano
inglese. Per capirne le scelte bisogna guardare la carta
geo-storica dell'epoca. Da quando l'Italia scese in campo al
novembre 1918 i suoi nuovi alleati non compirono alcuna
azione navale contro la flotta astro-ungarica
nell'Adriatico. Decisero di aiutarla solo quando ne
temettero il crollo: a le loro divisioni arrivarono quando
gli italiani si erano già riorganizzati.
Per comprendere quanto accadde dopo Caporetto bisogna poi
osservare una carta del dopoguerra. Con una premessa, però:
la vittoria nacque dalla resistenza del “Paese Italia”,
dalla sua tenacia, dal ferreo comando di Armando Diaz
(niente affatto più “tenero” di Cadorna, come attesta
l'amministrazione della giustizia militare nel 1917-1918) e
per molti aspetti persino più aggressivo e con
determinazione più spietata, dagli Arditi ei corpi speciali
degli Alpini e via continuando, inclusa l'aviazione che tra
i molti eroi contò Francesco Baracca.
Chi guardi quella carta vede un fatto inoppugnabile. Esattamente
dodici mesi dopo Caporetto l'Esercito italiano passò
all'offensiva, travolse l'armata nemica e impose
l'armistizio all'impero asburgico con la clausola
strategica: la facoltà di attraversare in armi l'Austria per
aggredire la Germania da sud. Ma i tedeschi avevano tutte le
loro forze schierate sul fronte occidentale, contro i
franco-anglo-americani. Perciò chiesero l'armistizio a
confini inviolati. Il kaiser dovette riparare in Olanda. Il
Paese collassò tra ammutinamenti, insurrezioni, rivoluzioni:
il caos generò il mito del tradimento e l'ascesa del
nazional-socialismo, tenuto per le dande dal feldmaresciallo
Hindenburg, massonofago. Quella stessa carta mostra l'altra
evidenza: la Grande Guerra vide sparire l'impero russo,
dilaniato dalla guerra civile tra comunisti e armate
bianche, l'impero turco ottomano, il germanico e quello
d'Austria-Ungheria, il cui sovrano, Francesco Giuseppe,
mostrò cocciuta incapacità di trattative diplomatiche con
l'Italia, caldeggiate da Giolitti. Se le avesse riconosciuto
“compensi” in cambio della neutralità, come suggeriva il
plenipotenziario di Berlino, principe Bulow, avrebbe salvato
l'impero e risparmiato all'Europa la catastrofe della
“repubblicanizzazione”, accelerata dal 1917.
Nel dopoguerra unica monarchia “pesante” del continente rimase
quella d'Italia, del “re Soldato” che il 25 maggio 1915
trasferì i poteri a suo zio, Tomaso di Savoia, in veste di
Luogotenente, per seguire di persona le operazioni belliche
e mediare con pazienza e sagacia tra governo, Comando
Supremo e Alleati: quarantun mesi durante i quali si
susseguirono tre diversi presidenti del consiglio (Salandra,
Boselli, Orlando), decine di ministri e un centinaio e più
di sottosegretari. Il ministero meno stabile fu proprio
quello della Guerra, il più bisognoso di continuità.
Dall'avvento di Salandra vi si alternarono Domenico Grandi,
Vittorio Zupelli, Paolo Morrone, Gaetano Giardino, Vittorio
Alfieri e ancora Zupelli. Il 18 gennaio 1919 fu la volta di
Enrico Caviglia. Ma il peggio venne dopo: una mezza dozzina
di ministri in un paio d'anni. Il Paese che aveva vinto la
guerra perse la pace. La pubblicazione dell' “Inchiesta” su
Caporetto nell'agosto 1919 (in vista delle elezioni, a tutto
vantaggio di socialisti e clericali) fu la pugnalata dei
“politici” nella schiena dell'Esercito. Alimentò la rivolta
contro la “vittoria mutilata” e accelerò l'impresa di
d'Annunzio a Fiume. La polemica contro i “generali”
(anzitutto Cadorna) mirava a stendere un velo pietoso su un
dato oggettivo. Nella battaglia detta di Caporetto
l'esercito contò 30.000 morti (poco più di quelli avversari)
ma circa 300.000 prigionieri. Troppi. Il che spiega quel che
fu subito chiaro. Da molti l'avanzata austro-germanica venne
intesa arretramento quale fine della guerra: si arresero.
Rispetto ai caduti in divisa percentualmente furono più
numerose le vittime civili, brutalizzate dal nemico che in
troppi casi si condusse in modi bestiali, stuprando e
rubando nella certezza di dominio perpetuo: la vittoria
avrebbe coperto le tracce delle loro malefatte. Per capire
Caporetto occorre andare oltre la trita “lamentela” contro
Cadorna, Capello, ecc., e affrontare la storia di quella
guerra, di quella Europa. Nel 1914-1918 (né poi...) nessuno
fu “innocente”.
Cent'anni dopo la lezione dell'“evento” è duplice. In primo luogo
occorre documentare i fatti. L'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore della Difesa diretto dal col. Massimo Bettini ha
pubblicato l'“Inventario del fondo H-4, Commissione
d'Inchiesta - Caporetto” e l'Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell'Esercito conserva un'enorme quantità di carte
per chi voglia davvero capire e spiegare. In secondo luogo
la ormai secolare polemica su quella battaglia (non disastro
irreparabile, non catastrofe , non apocalisse...: sennò non
ci sarebbe stata Vittorio Veneto) invita ad aprire gli occhi
dinnanzi a quanti continuano a brandire le “sconfitte”
militari del passato remoto come clava nel confronto
politico attuale e drammatizzano esasperatamente la vita
quotidiana degli italiani inventando Caporetto climatiche e
di altro genere per distrarre l'opinione pubblica dalla loro
incapacità di amministrare, di far quadrare piccoli conti in
tempo di pace. È lo storico francese Hubert Heyriès
(vincitore del Premio Acqui Storia 2017) a ricordarci che
nel 1866 l'Italia vinse al tavolo delle trattative una
guerra non felice sul campo: gli scacchi militari (a Custoza
e a Lissa, non bilanciate dall'avanzata di Garibaldi
vittorioso a Bezzecca) furono capovolti dalla diplomazia nel
quadro europeo. Anziché di polemiche sterili gli italiani
hanno appunto bisogno di storia vera, di restaurare i
monumenti ai caduti e i sacrari militari, di tutelare i
confini e di ripetere “l'Italia innanzi tutto”: il messaggio
che quotidianamente arriva dal Quirinale, oggi come un
secolo fa, contro i seminatori di zizzania, spesso
unicamente ispirati da capriccio personale.
(da Il Giornale del
Piemonte e della Liguria, 22 ottobre 2017)
Caporetto, la disfatta che riscattò l’Italia
Il 24 ottobre 1917 il nostro esercito subì una
sconfitta di enormi proporzioni, tuttora al centro delle
polemiche tra gli storici.
Un evento da ricordare per le molte ombre ma
anche per le luci che risvegliarono orgoglio nazionale e
senso di appartenenza
di Salvatore Sfrecola
Alla vigilia di quel tragico 24 ottobre 1917 nessuno aveva
previsto un attacco nell’area di Caporetto, la cittadina,
oggi in Slovenia (Kobarid),
nell’alta valle dell’Isonzo, sulla riva destra del fiume,
tra Tolmino e Plezzo, dove si combatté fino al 27 novembre.
In quei giorni le truppe italiane dovettero abbandonare
migliaia di chilometri quadrati, il Friuli e parte del
Veneto. A rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò
di abbandonare. Una sconfitta grave, definita anche “rotta”,
“disfatta” o “catastrofe”, con uno strascico di polemiche
che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia.
L’attacco non l’aveva previsto
Luigi Cadorna, il Comandante Generale,
“molto scettico” sulla ipotesi di partecipazione germanica
all’offensiva nemica che si immaginava in preparazione ma
che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata solo in
primavera, come disse al Colonnello Angelo Gatti, che ne riferisce nel suo prezioso
Diario di Guerra:
“passiamo così l’inverno”.
Eppure i segnali di una imminente offensiva austro-tedesca
c’erano stati, provenienti da varie fonti (non solo dai
disertori che potevano apparire inviati ad arte), ignorati
dai servizi di informazione. Li avevano percepiti sia il
Generale
Luigi Capello che Re Vittorio
Emanuele e ne avevano informato
Cadorna. Fu
sottovalutato anche il significato dell’iniziale
cannoneggiamento la mattina del 21, tiri isolati ma con
obiettivi precisi, come osservò il Re che ritenne fossero
destinati a saggiare la nostra capacità di reazione,
preludio del bombardamento che sarebbe iniziato alle 2 del
24 ottobre, inizialmente con i gas. Durò cinque ore, “con
grandissima intensità”, scrive
Gatti. Eppure non ne fu compresa la finalità. “Nulla di importante”
commentò il Generale
Pietro Badoglio. I suoi cannoni, oltre 400, rimasero
silenti. E gli fu sempre rimproverato. Uno dei tanti errori
di percezione delle intenzioni degli austro-tedeschi i quali
percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. Il fuoco
delle batterie nemiche aveva creato una breccia che permise
il passaggio degli alpini del Wüttemberg guidati da un
giovane tenente destinato ad una prestigiosa carriera
militare, Erwin
Rommel, futura “Volpe del deserto”.
Lo sbandamento fu generale. Nella confusione s’immaginava
fosse necessario arretrate sempre di più, dall’Isonzo al
Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio o, se non
fosse bastato, al Po. Una soluzione che avrebbe consegnato
al nemico Venezia e Milano, un autentico disastro per la
coalizione. Dalla pianura padana sarebbe stata minacciata
anche la Francia.
Intanto nel Paese montano le polemiche, le accuse di
tradimento e disfattismo, soprattutto contro socialisti e
cattolici. Gli alleati, che s’incontrarono a Rapallo il 6
novembre in un clima di sfiducia nei confronti dell’Italia,
chiedono la testa di
Cadorna. Ne riferisce Gatti
che dà conto dell’umiliazione subita. Infatti francesi e
inglesi “si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri.
Orlando,
Sonnino,
Alfieri e Porro attesero
così, alla porta come servitori, che gli altri decidessero”.
Vittorio Emanuele
Orlando era il Presidente del Consiglio,
Sidney Sonnino il
Ministro degli esteri,
Vittorio Alfieri
il Ministro della guerra e
Carlo Porro il
Sottocapo di Stato maggiore. Dovettero limitarsi ad
ascoltare le decisioni assunte. E se fu riconosciuto “che la
difesa dell’Italia era anche interesse alleato”, con apporto
di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi diventeranno
6 e 5), il primo ministro inglese
Lloyd George impose come condizione “assoluta” la creazione di un
Consiglio interalleato composto dai 3 presidenti dei
consigli dei ministri.
In questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il
nostro Esercito il Re, “l’unico a non perdere la testa”,
come ha sottolineato RAI Storia, mai tenera nei suoi
confronti, volle si resistesse sul Piave. A Peschiera sul
Garda, l’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i
generali che si erano incontrati a Rapallo, presenti
Paul Painlevé, Primo Ministro di Francia, i Generali
Ferdinand Foch e
Henry Hugue Wilson e Lloyd
George (che ce ne ha lasciato la cronaca), il Re,
parlando in inglese e francese, si guadagnò “il rispetto di
tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto
della situazione, realisticamente”.
Lloyd George “ne rimase impressionato” (M. Silvestri, Caporetto, - Una
battaglia e un enigma). Il suo ruolo fu determinante nel
richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che
cancellò dal proclama, che
Orlando gli aveva
preparato, l’incipit
enfatico che non era nel suo stile (“Una immensa sciagura ha
straziato il mio cuore di italiano e di Re”). Invece esordì:
“Italiani, siate un esercito solo!”
Da allora “Caporetto”, nel linguaggio comune, evoca un fatto
negativo gravissimo, una sconfitta senza rimedi, la
“disfatta per antonomasia”, scrive
Stefano Lucchini
in un libro, “A Caporetto abbiamo vinto?”, che ricostruisce,
“attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la
drammatica successione dei fatti e il loro impatto
sull’opinione pubblica”. Eppure, dopo le polemiche di quei
giorni e all’indomani della vittoria, si volle in qualche
modo archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione
dell’“Italia di Vittorio Veneto”. Ne è prova l’attribuzione
del grado di “Maresciallo d’Italia” contemporaneamente al
generale sconfitto,
Luigi Cadorna, ed al vincitore,
Armando Diaz.
E se è vero che “a Caporetto non
abbiamo vinto” è altrettanto vero che quella battaglia ha
segnato una svolta fondamentale, che ha posto le basi della
ripresa delle operazioni militari e della vittoria.
Immediato fu il risveglio delle migliori energie, della
politica, delle Forze Armate e dell’intero popolo italiano.
Fu “uno scatto di orgoglio nazionale” (P.
Milza, Storia d’Italia). Cambiarono molte cose. Tutto quello che doveva
cambiare da tempo. Dai rapporti tra il Governo ed i vertici
dell’Esercito che, con il nuovo Comandante generale,
Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e
credibile nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei
governi e degli Stati Maggiori alleati.
Le cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e
dei prigionieri, la vastità delle terre perdute e il numero
dei profughi, furono essenzialmente militari, come fu
evidente di lì a breve anche dalle prime risultanze della
Commissione d’inchiesta. Cause individuate nella
inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati
a concezioni superate, come l’attacco all’arma bianca.
L’aveva codificato il Comandante generale
Cadorna: attacco
frontale ed intervento aggirante della cavalleria,
nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di
questa Arma dopo che l’invenzione della mitragliatrice aveva
reso improponibili le cariche di lancieri e dragoni che con
tanto onore avevano combattuto nelle guerre dell’800. Non
che i comandanti degli altri eserciti fossero più “moderni”.
Esclusi i tedeschi, che avevano maturato la consapevolezza
delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano subito
perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili
assalti a posizioni fortificate, come quelli al famoso
“formicaio” nel film “Orizzonti di gloria” di
Stanley Kubrick,
magistralmente interpretato da
Kirk Douglas, un
valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.
Giocarono un ruolo essenziale negli eventi tragici di
Caporetto non solamente la mancata previsione dell’attacco e
di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata
confusione nella catena di comando, la disorganizzazione di
molti settori dell’esercito, la sottovalutazione del
previsto dispiegamento di divisioni tedesche tratte dal
fronte russo. Le comandava un valoroso generale prussiano
Otto von Below,
reduce da molte vittorie e con provata capacità strategica.
Con un piano di guerra originale che rompe con la dottrina e
le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e che farà
meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglo-francesi, sul
fronte di Arras-LaFère, nelle Fiandre. Con lui generali di
prim’ordine, con carriere brillanti, come
Albert von Berrer,
Herman von Stein
e Konrad Krafft von
Dellmesingen, che di quegli eventi ci ha lasciato una
descrizione particolarmente accreditata tra gli storici.
Il resto è noto. Si contarono 35.000 tra morti e feriti, 300.000 prigionieri,
400.000 sbandati; la perdita di un’ingente quantità di armi,
cannoni, mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni,
automezzi e strutture dell’apparato logistico. Senza contare
il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di
profughi, l’abbandono della case, delle aziende, degli
animali. Solamente la III Armata comandata da
Emanuele Filiberto
Duca d’Aosta si
sganciò con ordine dal nemico. Fu così pronta alla
controffensiva di primavera tanto da meritare, nel
bollettino della Vittoria, il 4 novembre 1918, l’aggettivo
di “invitta”.
(da La Verità
del 20 ottobre 2017, pagina 19)
Riprendiamoci il Mare
Nostrum
di Aldo A. Mola
Ottone II di Sassonia, “Imperator Romanorum”, spese la vita per
liberare l'Italia dagli islamici. Li cacciò da Taranto, ma
fu sconfitto a Capo Cotrone (982). Salvò la vita a stento.
Quasi non ne parla James Bryce nel poderoso volume “Il Sacro
Romano Impero” (un “classico” cresciuto lungo mezzo secolo
di studi, tra il 1860 e il 1904), curato da Paolo
Mazzeranghi per D'Ettoris Editori. Eppure tanta parte della
storia d'Europa è lì: nella lotta millenaria tra Carlomagno
e Maometto, come scrisse Henri Pirenne.
Ora, nell'Europa dei trenta denari, Filippo VI di Borbone, Re di
Spagna, mostra il ruolo della monarchia costituzionale: il
richiamo, pacato e fermo, all'unità nazionale. Come gli
altri grandi Paesi europei, la Spagna ha una storia
complessa. In gran parte soggiogata dagli islamici dal 711
d.Cr., eliminò l'Emiro di Granada solo nel 1492, l'anno
dell'approdo di Cristoforo Colombo in “America”. La
“riconquista” cristiana richiese otto secoli. Invece di
liberarsi dall'invasore a ovest, la chiesa di Roma, dopo
secoli di scandalosa depravazione, promosse spedizioni in
Terrasanta, dirottò la Quarta crociata contro l'impero di
Bisanzio anziché volgerla alla liberazione dei Luoghi Santi
e concorse alla creazione di potentati precari in terre
lontane.
Finalmente libera dai “mori”, la Spagna creò l'impero coloniale
più ampio e durevole della storia universale, dai Caraibi
alle Filippine, dal Messico alla Terra del Fuoco. Durò tre
secoli. Quello inglese, tanto decantato, è vissuto meno di
cento anni. Da inizio Cinquecento Carlo I d'Asburgo, sacro
romano imperatore e re di Spagna, aggiunse alle Fiandre e
alla “Germania” l'egemonia sull'Italia, da Milano alla
Sicilia. I suoi eredi, Filippo V di Borbone e via
continuando, ebbero le alterne fortune delle monarchie in
un'Europa che contava due soli Stati “nazionali”, la Francia
e la Spagna, caratterizzati da una lingua e da una
confessione religiosa prevalente, la cattolica. Neppure
questi due paesi erano veramente compatti. Lo si vide in
Francia nel 1792-93 quando la Vandea insorse contro la
repubblica di Robespierre. Quella guerra fratricida
franco-francese superò in orrori ogni altra guerra civile.
Il resto dell'Europa era fatto di conglomerati sotto giogo
imperiale (gli Asburgo di Vienna, il Sultano di Istanbul,
che dominava l'intera penisola balcanica, Bulgaria e Romania
con metodi brutali) o di staterelli caleidoscopici, come in
“Germania” e in Italia.
Nella Spagna odierna la monarchia costituzionale garantisce il
massimo di unità possibile tra regioni diverse come
Andalusia e Asturie, Aragona e Galizia, Bilbao e
Valencia..., esattamente come fa la corona britannica in
Gran Bretagna, divisa non solo tra inglesi, scozzesi e
irlandesi, ma tra le varie “genti” dell'Inghilterra. Lo
stesso vale per il piccolo Belgio, inventato nel 1830 come
“Stato cuscinetto” comprensivo di litigiosi valloni e
fiamminghi.
Filippo VI di Borbone svolge in Spagna il ruolo di Macron in
Francia, successore di Napoleone I e di Luigi XIV (perciò ha
ricevuto Trump a Versailles e a les Invalides) e di
Elisabetta II a Londra. Il depositario costituzionale della
sovranità non ha neppure bisogno di “parlare”: “parlano” per
lui il paesaggio, i monumenti, la vita quotidiana dei
cittadini, la miriade di simboli che esprimono il senso di
appartenenza a una Comunità, che va oltre ogni
particolarismo.
In Spagna la friabile minoranza di una regione periferica e in sé
niente affatto compatta, qual è la “Catalogna”, da decenni
esaspera il provincialismo, chiede rumorosamente il ritorno
a un passato remoto che potrebbe parere fiabesco (o
farsesco) se non prospettasse risvolti antistorici e
tragici. Unico antidoto alla deflagrazione dei regionalismi
estremistici in quel grande e composito Paese è appunto la
monarchia costituzionale, richiamo perenne all'unità nella
complessità. Lo aveva compreso bene in Italia il mazziniano
e garibaldino Giosue Carducci quando dichiarò che l'Italia
aveva bisogno vitale di una Forma unitaria, proprio perché
arrivava da secoli di frantumazione, tra dominazioni
straniere, microstati e repubbliche declinanti, da Genova a
Lucca e alla stessa assopita Venezia.
Come ha scritto Domenico Fisichella (Premio Acqui Storia alla
carriera: gli viene consegnato il prossimo 21 ottobre
all'“Ariston” della Città termale) la nascita dell'Italia
unita ha davvero i requisiti di un “miracolo”. Nel 1859-1860
Vittorio Emanuele II di Savoia, perciò ricordato “Padre
della Patria” al Pantheon, riuscì a fondere insieme i
principi della legittimità, della nazionalità e
dell'equilibrio internazionale dello Stato che dette forma
alla “itala gente da le molte vite”.
L'eredità della monarchia costituzionale, che arriva dallo
Statuto di Carlo Alberto, re di Sardegna (4 marzo 1848), non
è affatto terminata con il cambio della forma
costituzionale. Essa vive nella Costituzione della
repubblica. Il Presidente è “Capo dello Stato e rappresenta
l'unità nazionale (…) Promulga le leggi ed emana i decreti
aventi valore di legge (…) Accredita e riceve i
rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati
internazionali (…) Ha il comando delle Forze Armate,
presiede il Consiglio supremo di difesa (…) dichiara lo
stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il
Consiglio superiore della magistratura. Può concedere la
grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze...”
(art. 87), “non è responsabile degli atti compiuti
nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto
tradimento o per attentato alla Costituzione”. La Carta in
vigore dal 1° gennaio 1948 ha tradotto in repubblicano lo
Statuto albertino, come ripetuto da Tito Lucrezio Rizzo in
“Parla il Capo dello Stato” (Gangemi). Il Presidente è il
Principe costituzionale, custode e vindice della coscienza
del Paese. Questa, va detto sin che siamo in tempo, si
staglia al di sopra di chi vorrebbe appiccare fuochi di
divisione, come è avvenuto con la stolida invezione della
“Giornata della memoria per le vittime meridionali del'Unità
d'Italia”, deliberata dal Consiglio regionale della Puglia e
stigmatizzata dall'Associazione mazziniana italiana,
presieduta da Mario Di Napoli, con parole condivisibili da
qualunque cittadino fedele ai destini del Paese, inclusi i
fautori della monarchia costituzionale.
A quanti (non facciamo nomi di agitatori in caccia di popolarità,
né di chi se ne fa megafono) innalzano nel Mezzogiorno lo
stinto vessillo dell'anti-unitarismo va ricordato che Napoli
e Palermo furono regni distinti e ripetutamente contrapposti
in lotte sanguinose anche quando divennero “Due Sicilie”
(per umiliazione di Napoli), mentre le Calabrie e le Puglie
(al plurale come le Marche) erano realtà al loro interno
profondamente diverse. Prima dell'unificazione nazionale non
esistevano strade costiere da Reggio di Calabria a Salerno,
né litoranee in Basilicata e sulla costa ionico-adriatica,
né carrozzabili interne né, meno ancora, ferrovie. I popoli
delle terre già appartenute a Ferdinando di Borbone (IV di
Napoli, I delle Due Sicilie) e a suo nipote Ferdinando II
cominciarono a conoscersi e ad avere una visione organica
dei loro problemi (a cominciare dalla politica estera e
dalla difesa) solo dopo l'unificazione nazionale. Perciò tra
i fautori del regno d'Italia furono in prima linea
meridionali come l'irpino Francesco De Sanctis, docente alla
Nunziatella di Napoli, autore dell'appassionato “Discorso ai
giovani (ripubblicato da Giuseppe Catenacci) e della vivida
storia della letteratura italiana, il lucano Giustino
Fortunato, Silvio e Beltrando Spaventa, Pasquale Stanislao
Mancini e una moltitudine di patrioti che i Borbone
suppliziarono, incarcerarono, costrinsero all'esilio. Quei
“meridionali” furono anche profeti dell'Italia europea e
dell'Europa delle nazioni. Basti, fra i molti, il nome di
Gaetano Martino, il ministro degli Esteri che fu artefice
precipuo del Trattato di Roma dal quale nel 1957 nacque il
Mercato Comune Europeo, non abbastanza ricordato in questo
smemorato 2017. Fu il siciliano Francesco Crispi a
pronunciare nel 1864 alla Camera le parole famose, “la
monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”: un motto
che l'Italia liberale ed europeista odierna (memore di
averne usato la Costituzione di Cadice del 1812) può
prestare alla Spagna di Filippo VI di Borbone, anche per
ribadire il profondo legame tra i due Paesi, impegnati in
prima linea nella difesa del Mare Nostrum, consapevoli di
quanto poi sia lunga e dolorosa la “reconquista”. Lo sa bene
proprio il Mezzogiorno d' Italia, ove si logorò sino a
morirne il sacro romano imperatore Ottone II di Sassonia,
marito della bizantina Teofano, in lotta contro gli invasori
islamici. Sognava un Mediterraneo cristiano, la “Renovatio
Imperii Romanorum”, proclamata da suo figlio, Ottone III. Un
millennio fa. E ora? La frantumazione degli Stati per
capricci localistici accelererebbe la disfatta dell'Europa
dei trenta denari. L'euro non basta a fare storia. La fecero
i sacri romani imperatori, dai Sassoni a Federico II
Staufen, che dal Mezzogiorno d'Italia scrutarono con occhi
azzurri l'orizzonte della civiltà greco-romana e lo
rivendicarono italo-europeo. I monarchi costituzionali e i
presidenti di repubblica fondati sul consenso dei cittadini
ne sono i continuatori.
(da Il Giornale del
Piemonte e della Liguria, 15 ottobre 2017)
Tra menzogne e frustrazioni la contestazione dell’unità d’Italia. Con
invito a Pino Aprile ad una più accurata lettura delle fonti
di Salvatore Sfrecola
“I fatti distinti dalle opinioni” è una regola del giornalismo,
che s’insegna al praticante quale elemento cardine della
deontologia professionale. È anche la regola degli storici,
i quali non solo devono tenere distinti i fatti dalle
interpretazioni che ne danno, che non possono prescindere
dal contesto nel quale si sono svolti. Sarebbe sbagliato,
per fare un esempio, criticare la società romana perché
ammetteva la schiavitù, soprattutto di soggetti prelevati da
eserciti vinti in battaglia o da popolazioni soggiogate.
Sarebbe sbagliato perché quella società, come le altre
contemporanee, non conosceva il valore della persona umana,
esaltata solamente dal Cristianesimo, e, pertanto, riteneva
normale considerare gli schiavi come soggetti alla proprietà
di chi l’avesse acquisita con la forza o con il denaro.
Sono riflessioni che vengono in mente nel leggere la polemica che
monta dappertutto in Italia, al Nord come al Sud, sia pure
in forme diverse. Al Nord i veneti rivendicano la loro
“lingua” e contestano i plebisciti che hanno annesso al
Regno d’Italia quelle terre un tempo soggette ad una
dominazione straniera, l’Impero austro-ungarico. È tanto
forte e antico questo sentimento che, in occasione della
guerra del 1866, quella che avrebbe portato il Veneto nel
Regno i contadini veneti si facevano pagare dai soldati
italiani l’acqua. Avete capito bene, non il vino, che pure
avrebbero dovuto offrire a chi rischiava la pelle per
liberarli da giogo straniero, sia pure in una realtà di buon
governo com’era l’imperial Regio Governo, come si diceva
allora. Non basta la buona gestione della cosa pubblica se
uno ha il senso dell’appartenenza, la consapevolezza
dell’identità che non può essere limitata al borgo, alla
provincia allargata ma più ampia, considerata la tradizione
unitaria dell’Italia che risaliva all’impero romano.
Tuttavia deve essere forte questo attaccamento al buon governo se
il Presidente della Regione Veneto, come i colleghi di tutta
Italia autodefinitosi “Governatore” (l’eterno nostro
provincialismo!) dice che, con il
referendum
sull’autonomia che si terrà il 22 ottobre, non darà più un
soldo a Roma per trasferirlo alla Sicilia, regione, come è
noto a statuto speciale, anzi specialissimo come spesso si
dice, anteriore alla Costituzione della Repubblica.
Non c’è dubbio, dunque che ci sia del malessere, al Nord come al
Sud, se la Sicilia con l’ampia autonomia della quale gode
deve essere assistita con denaro proveniente dalle tasche
dei veneti e non solo, pur passando per Roma, ed è,
nonostante incameri le entrate statali, in condizioni
drammatiche, quanto ai conti della Regione ed alle
condizioni di vita della popolazione, se non altro dal punto
di vista delle infrastrutture viarie, ferroviarie,
acquedottistiche e via discorrendo. Cioè delle strutture
pubbliche che segnano il grado di benessere di una comunità.
Ed anche di civiltà, perché l’acqua non è un lusso ma la
condizione della vita, le strade e le ferrovie condizionano
lo sviluppo economico della regione.
Come la Sicilia non stanno molto meglio le altre regioni
meridionali. E Se Cristo si è fermato ad Eboli, l’alta
velocità si è fermata a Salerno, appena sotto Napoli che del
Regno delle Due Sicilie era la capitale. La Salerno Reggio
Calabria è in corso di realizzazione da decenni. Matera,
capitale europea della cultura per il 2019, dispone da anni
di una stazione senza binari. Ed è certo che quando si
decidessero a stenderli la stazione sarà certamente da
ristrutturare e molto probabilmente da adeguare a normative
di sicurezza di derivazione europea che saranno intervenute
nel frattempo.
Viaggiando per le meravigliose regioni del Sud, dalla Puglia alla
Basilicata alla Calabria grande è la rabbia di chi ama
l’Italia e, pertanto, ogni angolo di questo stupendo Paese,
nel vedere opere pubbliche incompiute o non adeguate, oltre
alla già segnalata carenza delle infrastrutture viarie e
ferroviarie. Da Roma a Bari la
Freccia Bianca impiega più di quanto occorre per andare da Roma a
Torino. Per tacere delle linee ad un solo binario sulle
quali sappiamo dalla cronaca che può accadere, com’è
accaduto, che siano stati in molti a lasciarci la pelle
nello scontro frontale tra due treni. Nel 2017 è
inconcepibile.
Inadeguata, assolutamente inadeguata quasi dappertutto è
l’accoglienza alberghiera e la valorizzazione del patrimonio
storico artistico e archeologico, qualcosa di stupendo tra
l’altro inserito in contesti ambientali di rara bellezza. Il
Bel Paese del
resto lo è dalle Alpi al Lilibeo e in questo un apporto
essenziale viene dalle regioni centro meridionali alle quali
Dio ha assicurato condizioni ambientali straordinarie. Lo
diceva già all’inizio del 1800, esattamente nel 1846,
Camillo Benso Conte di Cavour che vorrei leggesse Pino
Aprile, il giornalista inventatosi storico, il quale
insiste, come altri, che poco hanno letto e molto scrivono e
dicono. Nell’ultimo fascicolo (settembre – ottobre) di
Storia in rete,
www.storiainrete.com
a pagina 36 dove scrive che Cavour “parlava solo di
annessioni” evidentemente estrapolando qua e là, ma
rigorosamente senza citare dove e quando lo ha letto.
Per cui è agevole rispondere sul punto con documenti di data
certa di cui ho scritto su
www.logos-rivista.it
del mese corrente. Il titolo “Quando Cavour
immaginava di proiettare l’Italia in Europa e nel mondo,
attraverso strade, ferrovie e linee di navigazione” in una
visione unitaria dell’Italia ancora suddivisa in staterelli
alcuni dei quali retti da dinastie straniere a ricordare che
nei secoli eravamo stati “calpesti derisi perché non siam
popolo perché siam divisi”. Dinastie straniere messe sul
trono da eserciti francesi, spagnoli, austriaci per
garantire il permanere del controllo di territori
strategici. Dinastie spesso subentrate a incapaci signorotti
locali che, per fare dispetto al vicino, chiamavano in aiuto
re e regine che governavano oltralpe. Dinastie spesso
distintesi con straordinaria ferocia nei confronti dei moti
liberali che tra fine ‘700 e primi anni dell’800 hanno
rivendicato costituzioni e libertà di pensiero e di stampa.
E qui Aprile dovrebbe sapere che i Borbone si sono distinti
nella repressione dei liberali impiccando e fucilando. E
dovrebbe anche sapere che quel regime che non fu azzardato
definire “la negazione di Dio eretta a sistema di governo” (Gladstone)
conosceva abbondantemente il brigantaggio assolutamente
endemico tanto che alcune aree erano da evitare
accuratamente se non si voleva incappare nel taglieggiamento
delle bande. Ricordo che il nonno di un magistrato amico,
Giudice di Cassazione nel Regno, vivendo a Bari raggiungeva
la capitale col vapore circunnavigando lo stivale.
Ma torniamo a Cavour ed alle questioni italiane che
Aprile evidentemente non ha approfondito o che non ritiene
di dover approfondire, altrimenti dovrebbe cambiare
opinione.
Negli anni giovanili il Conte aveva molto viaggiato e
apprezzato, soprattutto in Inghilterra, l’introduzione delle
macchine nelle industrie e nelle attività manifatturiere.
Inoltre aveva percepito l’apporto che avrebbero dato le
ferrovie nello sviluppo dei commerci attraverso il trasporto
delle merci e delle persone. Rimase colpito dalla velocità
(per l’epoca) del treno tra
Liverpool e Manchester: cinquanta chilometri percorsi in
un’ora e mezza. Con entusiasmo. È qui che nasce il Cavour
“ferroviere”, come ha scritto Adriano Viarengo nel suo bel
saggio del 2010 sullo statista piemontese.
Porterà quelle
esperienze in Piemonte da ministro e Presidente del
Consiglio attraverso la riforma dell’amministrazione,
convinto della necessità che essa debba rendere servizi
efficienti ai cittadini ed agli imprenditori volonterosi ed
audaci. S’impegnerà nel potenziamento delle infrastrutture
del trasporto, compresi i famosi canali che da lui prendono
il nome, e delle ferrovie. Queste,
si potrebbe così riassumere il pensiero di Cavour,
unificheranno l'Italia e la renderanno prospera. Anche
perché, disponendo di importanti porti, con una rete
ferroviaria completa l’Italia avrebbe goduto di “un
considerevole commercio di transito”.
L’Italia,
dunque. “Non era allora frequente un discorso unitario
italiano neppure a proposito dell’economia della penisola”,
scrive Giuseppe Galasso in apertura del volume
“Autobiografia, lettere, diari e scritti di Cavour”. Una
prefazione che significativamente intitola “Il pensiero
italiano di Cavour”, a smentire quanti ritengono che il
Conte avesse una visione Piemontecentrica: “L’Italia
considerata come un solo paese”, ne scrisse a proposito
Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare
sul mondo economico e sull’Italia in particolare,
nell’“Antologia Italiana” del 31 marzo 1847.
1847, una data,
un periodo storico da tenere a mente. Cavour opera in
Piemonte ma ha una visione complessiva dell’Italia, della
sua storia, delle sue potenzialità. In lui il Risorgimento
non sarà solamente la fortunata testata di un giornale che
avrà grande influenza in quegli anni nel dibattito sulla
libertà politica ed economica. È effettivamente l’idea di
una sorta di “nuovo Rinascimento”, nella prospettiva di un
recupero del genio e della fantasia degli italiani, che “un
tempo erano stati all’avanguardia della civiltà europea”,
come Denis Mack Smith sintetizza il pensiero del Conte nella
nota biografia che gli ha dedicato, una volta affrancati dal
giogo delle potenze straniere che nel corso dei secoli hanno
asservito ai loro interessi importanti aree del Paese
attraverso dinastie chiuse nel loro
particulare,
assolutamente prive di una visione unitaria dell’Italia.
1847! Ma già un
anno prima, il 1° maggio 1846, sulla parigina
Revue Nouvelle
Cavour aveva scritto, in francese, un articolo che appare di
una straordinaria attualità ad oltre centosettant’anni di
distanza e dimostra lo straordinario intuito dell’uomo, la
sua capacità di acquisire ed elaborare quanto vedeva
realizzato altrove, specialmente per effetto del progresso
tecnologico. “Le ferrovie in Italia”, un commento all’opera
di Ilarione Petitti di Roreto, pubblicata un anno prima, che
Cavour sviluppa sul piano economico e politico-economico
nella prospettiva del movimento nazionale italiano. Ed è
sintomatico che uno storico come Galasso, napoletano,
conoscitore della storia del meridione, introduca la
presentazione del pensiero di Cavour, in un volume di oltre
700 pagine ricco di scritti che spaziano dall’economia alla
storia alla politica, con un richiamo proprio all’articolo
sulle ferrovie e sul loro ruolo nello sviluppo e
nell’unificazione, in un’ottica totalizzante nella quale
ogni problema affrontato è costantemente aggettivato come
“nostro”, cioè italiano.
Cavour aveva 36
anni, essendo nato a Torino il 10 agosto 1810, e da tempo
aveva iniziato ad impegnarsi in politica, sia pure,
all’epoca, ancora senza incarichi di governo, quelli nei
quali emergerà il suo straordinario intuito riformatore
delle istituzioni e dell’economia del Piemonte. Un uomo
geniale, uno statista europeo, ben presto ammirato anche da
chi gli era ostile. Come Clemente Lotario di Metternich, il
potentissimo Cancelliere austriaco, che dirà: “In
Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico,
ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour”.
E nazionale ed europea è la visione che Cavour ha delle
ferrovie “destinate a rendere grandi servigi all’Italia. In
effetti, se sono vantaggiose per i paesi manifatturieri, non
sono meno utili a quelli in cui fiorisce una ricca
agricoltura”. E spiega: “le derrate prodotte
dall’agricoltura e le materie che impiega per mantenere le
sue forze produttive, come i concimi e gli ammendamenti
inorganici, sono altrettanto ingombranti che le materie
prime e i prodotti dell’industria manifatturiera. Per i
trasporti agricoli i canali sarebbero da preferire alle
ferrovie; ma laddove non esistono canali, soprattutto nei
luoghi in cui la loro realizzazione presenta enormi
difficoltà, sia a causa di circostanze naturali, sia ancora
perché è conveniente utilizzare l’acqua di cui si può
disporre per l’irrigazione delle terre e per la formazione
dei canali, si può affermare che le ferrovie daranno
all’agricoltura vantaggi di cui è difficile esagerare
l’importanza”.
Chiarissima la visione di Cavour anche sotto il profilo
dell’assetto idraulico e della sua connessione con
l’agricoltura, che oggi purtroppo abbiamo dimenticato. Con
gli acquedotti che perdono quasi il 50% della loro portata e
con la riduzione degli invasi, che un tempo alimentavano le
condotte forzate per le turbine delle aziende di produzione
di energia elettrica, un paese ricco di acque come l’Italia,
con qualche grado in più di calore d’estate si è trovato a
boccheggiare, con perdite notevoli, com’è accaduto questo
agosto, proprio nel settore agricolo. Per non dire
dell’immagine negativa che si è letta sui giornali di tutto
il mondo: “a Roma razionata l’acqua”, con i turisti incerti
se visitarla.
L’acqua è bene prezioso, per i romani l’aqua profluens
era ricompresa tra le res communes omnium,
raccoglierla e distribuirla alle persone e alle imprese è
espressione di civiltà. E chi la spreca merita una sanzione.
Sempre ovunque durissima. Nel Celeste Impero, la
decapitazione!
Ma torniamo alle ferrovie. Che ovviamente giovano moltissimo
al sistema industriale che si va sviluppando in quegli anni.
Infatti “l’istituzione di un sistema completo di ferrovie,
facilitando le comunicazioni, diminuendo i costi di
trasporto e soprattutto sollecitando l’attività e l’energia
degli animi intraprendenti, di cui il paese abbonda,
contribuirà potentemente al rapido sviluppo dell’industria
in Italia”.
Ancora fiducia negli italiani, in una visione moderna
proiettata al di là dei confini per una Italia che non dovrà
mai più essere considerata soltanto un’“espressione
geografica”. Ricordiamo, Cavour scrive nel 1846. Ed ecco che
le ferrovie “rendendo pronte, economiche e sicure le vie di
comunicazione interna, facendo sparire in qualche modo la
barriera delle Alpi che la separano dal resto d’Europa e che
sono così difficili da valicare per una parte dell’anno,
nessun dubbio che l’afflusso di stranieri che vengono ogni
anno per visitare l’Italia aumenterà in maniera prodigiosa.
Quando il viaggio da Torino, Milano, Firenze, Roma e Napoli
richiederà meno tempo e minor fatica di un giro in un lago
svizzero, è difficile calcolare il numero di persone che
verranno a cercare in queste contrade, piene di attrattive,
un’aria più salubre e più pura per la loro salute malferma,
ricordi per la loro intelligenza o anche solo semplici
distrazioni dalla noia che sviluppano le brume del Nord. I
profitti che l’Italia trae dal proprio sole, dal suo cielo
privo di nubi, dalle sue ricchezze artistiche, dai ricordi
che il passato le ha lasciato, cresceranno certamente in una
proporzione considerevole”. È evidente che pensa anche, se
non soprattutto, al centro Sud, dove il sole abbonda in
tutti i mesi dell’anno.
Studiava, si potrebbe dire, da ministro dell’economia. Ed
anche del turismo.
Nella visione di Cavour un’attenzione particolare è
riservata ai nostri porti, da Genova a Trieste, da Napoli ad
Ancona, collegati da ferrovie che potranno attraversare le
Alpi: “i porti italiani saranno in grado di condividere con
quelli dell’Oceano e del mare del Nord, l’approvvigionamento
dell’Europa centrale in derrate esotiche”.
Cavour guarda anche a sud per cui, “se le linee napoletane
si estenderanno sino al fondo del regno, l’Italia sarà
chiamata a nuovi alti destini commerciali. La sua posizione
al centro del Mediterraneo, o, come un immenso promontorio
sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa, la
trasformerà incontestabilmente, quando il vapore la
attraverserà in tutta la sua lunghezza, il cammino più breve
e più comodo dall’Oriente all’Occidente”.
Capito Pino Aprile?
Com’è, dunque, che l’Italia meridionale, nonostante queste
potenzialità, dall’ambiente stupendo, al mare, che spesso
troviamo a poca distanza dalle montagne, come in Calabria,
non decolla? Siamo sicuri che è “colpa” dei piemontesi
allora e di Roma oggi? Che i tanti ministri meridionali, da
Francesco Crispi e Gaetano Martino, a Ciriaco De Mita siano
stati tutti venduti al Nord? E siccome i meridionali sono
mediamente più vivaci e fantasiosi dei connazionali da
Firenze in su tanto che ovunque vadano, in Italia e nel
mondo, si distinguono per capacità di lavoro e inventiva,
non sarà che al Sud la classe politica è selezionata sulla
base di condizionamenti mafiosi, tanto per semplificare, e
che gli interessi criminali non si riesce a tenerli fuori
della gestione delle risorse pubbliche, quelle che
dovrebbero assicurare strade, ferrovie, acquedotti,
fognature? Se nella costruzione della strada dei due mari,
che collega il Tirreno allo Ionio, in Calabria si dovette
ricorrere al coprifuoco notturno ad evitare che le
attrezzature delle imprese che lavoravano fossero fatte
saltare con la dinamite perché non volevano pagare il pizzo
è sempre colpa dei piemontesi e di Roma?
Non intendo dire che errori non ne siano stati fatti
all’indomani della costituzione del Regno d’Italia e che la
repressione del brigantaggio, endemico in quelle regioni,
come la storia ci dice, assume una connotazione nuova in
quanto arruola disertori, contadini che rivendicavano le
terre che lavoravano, soggetti pagati dai Borbone in esilio
a Roma, sia stata condotta con metodi militari anziché di
polizia. Anche se va detto che i Borbone avevano provocato
quella ribellione contro i poteri dello Stato nel vano
tentativo di riprendere un trono del quale erano stati
privati non dai piemontesi ma dalle popolazioni e dalla
storia. Era il metodo dell’epoca. Ed è chiaro che un
esercito di popolo schiera inevitabilmente anche qualche
delinquente che può commettere dei reati che noi uomini
delle istituzioni riteniamo inconcepibili per un servitore
dello Stato. Del resto a Milano Bava Beccaris sparò col
cannone sulla folla dei dimostranti per una protesta
economica. Oggi ci fa ribrezzo. All’epoca si faceva così.
Come Napoleone che a Tolone sparò sulla folla riempiendo le
bocche dei cannoni con ogni genere di ferraglia per fare più
male a più persone. Fu lodato, divenne Primo Console e poi
Imperatore dei francesi.
La storia è cosa seria, come ha insegnato Erodoto. L’appello
di Aprile a pagina 41 del suo articolo su Storia in Rete
è espressione di quel diffuso cerchiobottismo tipico di chi
è consapevole di essersi spinto oltre e comincia subire
l’effetto di chi gli ricorda, di giorno in giorno, il
governo crudele e ingiusto dei Borbone che aveva una
parvenza di dignità solo a Napoli e che a Palermo era odiato
dal popolo come dalla nobiltà e dal clero, come dimostra il
fatto che i poco più di Mille di Garibaldi sono diventati
presto migliaia, anzi decine di migliaia. Ed ecco l’appello
aprilante: “ripuliamo le nostre città dall’orgia sabauda che
le snatura e recuperiamo le nostre tracce cancellate, ma
lasciandone anche di quelle altre, sbagliate solo perché
esagerate”.
Anche nelle pagine precedenti ce l’aveva con i Savoia i
quali, per non dire altro, si recavano negli ospedali a
visitare i degenti, mentre i Borbone fuggivano da Napoli ad
ogni rigurgito di colera, l’infezione endemica che anche
oggi ricompare di tanto in tanto. Come fuggivano dalla
Capitale quando il popolo non ne poteva più e li cacciava.
Tornavano di lì a poco regolarmente protetti dalle baionette
di qualche potenza straniera della quale erano vassalli. E
procedevano ad impiccagioni e fucilazioni.
I Savoia hanno regnato e non governato. Perché prendersela
con loro e non con i Presidenti del Consiglio ed i Ministri
che dal 1861 hanno governato l’Italia, molti nati e vissuti
nel Meridione. Incapaci o disonesti? Attendiamo da Aprile
una riflessione onesta sul punto. O non è forse che
nell’acredine con la quale mette di fatto in discussione
l’unità d’Italia richiamando uno straordinario passato
economico che non c’è stato, come ha ricordato ancora di
recente un grande storico meridionale Giuseppe Galasso,
anziché puntare sul potenziale meraviglioso presente che
potrebbe dare ricchezza alle popolazioni meridionali
attraverso lo sviluppo dell’agricoltura, della industria di
trasformazione dei prodotti che la terra assicura e del
turismo, da rendere fruibile attraverso strutture
alberghiere adeguate, strade, ferrovie e la valorizzazione
di musei ed aree archeologiche da visitare attraverso
percorsi virtuosi studiati da tour operator.
Lasciamo stare quel che divide per ritrovare in quel che ci
unisce il futuro di questo meraviglioso Paese. E soprattutto
evitiamo, attraverso il richiamo di un passato nella
migliore delle ipotesi mediocre, quella che non è altro che
una frustrazione del presente, di fare il gioco della
concorrenza. Consapevoli che il disagio del turista,
turlupinato per un servizio inferiore al valore di quanto
pagato e per ogni altro incidente di percorso, anche sotto
il profilo della sicurezza, viene enfatizzato dai nostri
concorrenti, dalle televisioni e dai giornali di tutto il
mondo. Una cosa che nella società dell’immagine continuiamo
troppo spesso a trascurare.
14 ottobre 2017
È l’uomo della profezia di San Pio da Pietrelcina?
I cinquant’anni di Aimone di Savoia duca d’Aosta,
un manager pretendente al trono d’Italia
di
Salvatore Sfrecola
La maggior parte dei monarchici italiani, soprattutto dei ragazzi del Fronte
Monarchico Giovanile (F.M.G.), che fa capo all’Unione
Monarchica Italiana (U.M.I.), lo vorrebbe Re d’Italia. E in
effetti nei confronti di Aimone di Savoia, figlio di Amedeo
e di Claudia d’Orleans, che oggi compie 50 anni, essendo
nato a Firenze il 13 ottobre 1967, milita una profezia non
di poco conto. L’avrebbe fatta San Pio da Pietrelcina molti
anni fa a Maria Josè, allora Principessa di Piemonte. Era
andata a trovarlo a San Giovanni Rotondo nell’atmosfera
ricca di tensioni alla vigilia dello scoppio della Seconda
Guerra Mondiale. Il frate santo aveva preannunciato la
caduta della Monarchia. Ma aveva anche previsto che un Re
all’Italia l’avrebbe dato, negli anni a venire, un principe
di un altro ramo di Casa Savoia.
E così è stato facile per i monarchici dell’U.M.I., l’Associazione
presieduta da un giovane e brillante avvocato napoletano,
Alessandro Sacchi, identificare in Aimone di Savoia Aosta
l’uomo della profezia dell’umile cappuccino che infiamma i
cuori e le menti di milioni di cattolici in Italia e nel
mondo.
La famiglia Aosta, i Duchi di Aosta come
comunemente vengono identificati, è, infatti, un ramo della
Casa di Savoia che discende da Amedeo di Savoia terzogenito
di Vittorio Emanuele II, il primo Re d’Italia. Amedeo sarà
Re di Spagna nel 1871, abdicherà nel 1873 e riprenderà il
titolo ducale. Gli Aosta si sono distinti nel tempo
attraverso il multiforme impegno di straordinarie
personalità, da Emanuele Filiberto Comandante della III^
Armata, qualificata “invitta” nel
Bollettino della
Vittoria del 4 novembre 1918, a Luigi Amedeo, Duca degli
Abruzzi, due volte circumnavigatore del globo, scalatore
ardito (Monte Sant'Elia, Ruwenzori, K2), partecipante alla
spedizione verso il Polo Nord, colonizzatore della Somalia,
ad Amedeo eroico difensore dell’Amba Alagi, ad Aimone, Re di
Croazia con il nome di Tomislavo II, padre di Amedeo e
pertanto nonno del giovane Aimone.
Come molti principi moderni non impegnati in un ruolo istituzionale Aimone
lavora in una grande realtà industriale, la Pirelli, in
qualità di Amministratore Delegato della filiale russa ed ha
sede a Mosca. Laureato in economia alla Bocconi Aimone è
stato, come il padre Amedeo, allievo del Collegio Navale
Francesco Morosini
di Venezia. Ha frequentato i
corsi
dell’accademia navale e, da Ufficiale di Stato maggiore, è
stato imbarcato su nave
Maestrale, una
fregata della nostra Marina Militare impegnata nelle
operazioni della Guerra del Golfo.
Dopo la laurea ed un periodo di specializzazione presso la J.P. Morgan &
Co., ha lavorato nel settore marketing del Gruppo Rinascente
e del Gruppo Merloni. Nel 1994 si è trasferito in Russia, a
Mosca per lavorare con la
Tripcovich Trading
Company. Nel 2000 è stato assunto dal gruppo Pirelli
nell’ambito del quale ha ricoperto la carica di direttore
generale responsabile per il mercato della Russia e di tutti
i paesi dell'ex Unione Sovietica. Nel 2006 è stato
vicepresidente dell'Associazione delle imprese italiane in
Russia, la Gim-Unimpresa, socio aggregato di Confindustria.
Dal 1º luglio 2012 Amministratore Delegato della
Pirelli Tyre Nordic,
responsabile per tutti i mercati dei paesi scandinavi, e,
dal 1º settembre 2013, è responsabile per Pirelli Tyre della
regione Russia e paesi nordici.
Imparentato con le famiglie reali di Grecia, Danimarca, Bulgaria, Romania,
Regno Unito, Spagna, Francia e Russia, Aimone, che parla
correttamente inglese, francese, spagnolo e russo, è sposato
dal 2008 con Olga di Grecia, secondogenita del principe
Michele. Ha tre figli, Umberto (Parigi 7 marzo 2009),
principe di Piemonte, Amedeo (Parigi, 24 maggio 2011), duca
degli Abruzzi, Isabella (Parigi, 14 dicembre 2012).
I monarchici italiani sperano nella profezia di San Pio e
guardano con fiducia il bassorilievo dello scultore Cesarino
Vincenti nella cripta dove fino a qualche tempo fa riposava
il corpo del cappuccino Santo. L’opera
raffigura la Sacra Famiglia attorniata da un gruppo di
persone: vi compaiono la Madonna
con Gesù Bambino in grembo e San Giuseppe. Dinanzi alla
Sacra Famiglia è Padre Pio che regge tra le braccia un
agnello. Compare poi un gruppo di giovinetti e una ragazzina
inginocchiati. Tutti sono rappresentati negli abiti
tradizionali, eccetto
lo stesso Padre Pio,
con il saio francescano, ed uno dei ragazzi
ritratto in abito moderno da cerimonia. Ha
le sembianze di
Aimone di Savoia ed indossa il collare dell’Annunziata che
Re Umberto II gli aveva conferito quando il giovane
aveva 15 anni. Titolo dell’opera: “Bellezza e regalità ti
stanno d’intorno”.
Per Alessandro Sacchi e per quanti aderiscono all’Unione
Monarchica Italiana non c’è dubbio che l’uomo del
bassorilievo sia Aimone di Savoia Aosta, il principe manager
che vorrebbero incoronare Re d’Italia per rinverdire
l’albero dell’antica dinastia, dopo i Savoia Carignano, da
Carlo Alberto ad Umberto II, il Re sfortunato che ha salvato
l’Italia dopo un referendum dall’esito più che dubbio,
accettato perché “un Re è di tutti e non regna con il 51 per
cento”, come mi ricorda Sacchi con un sorriso tra mestizia e
speranza, che incontro all’ingresso del Palazzo di Giustizia
di piazza Cavour, a Roma, la toga sul braccio per difendere
in Cassazione.
13 ottobre 2017
Presentato domani sera a Palazzo Ferrajoli
“Rinascimento”, un libro di Vittorio Sgarbi e Giulio
Tremonti, un manifesto culturale che è anche un programma
politico
di
Salvatore Sfrecola
È, per scelta
dei suoi autori, un manifesto culturale e politico ad un
tempo dal titolo che non lascia dubbi. “Rinascimento”, di
Vittorio Sgarbi e
Giulio Tremonti,
presentato a Roma, a Palazzo Ferrajoli, per iniziativa dell’Unione Nazionale Arte Musica e Spettacolo (UNAMS) e dell’Associazione
Giuristi di Amministrazione, si apre con la
constatazione che “viviamo nella perfetta inconsapevolezza
di cosa sia la nostra civiltà artistica”, come si legge
nella introduzione. E se i partiti che sono stati
espressione di cultura politica, quando si sono affidati al
pensiero di Gobetti,
Gramsci o
De Gasperi, oggi hanno perduto quei “valori di identificazione, di
riconoscimento… rimane un solo valore: la cultura”. Da qui
Sgarbi e Tremonti
intendono partire, da una idea che nasce dalla constatazione
che al mondo esistono potenze militari e potenze economiche
ed una grande “potenza culturale”, l’Italia. Il cui valore è
superiore a quella di qualunque industria, anche perché ha
potenzialità in gran parte inesplorate dalla classe politica
ed imprenditoriale. Potenzialità che possono dar vita ad un
nuovo Rinascimento se pubblico e privato, in sinergia,
riusciranno a trasformare una realtà culturale indiscutibile
in un volano di sviluppo per l’economia del nostro Paese che
unisce arte e cultura in un contesto paesaggistico
straordinario.
“Il nostro è un
patrimonio di valori di civiltà – si legge nel piego della
copertina – che si può tradurre in valore patrimoniale, e
gli esempi non mancano. Solo valorizzandolo l’Italia può
tornare a dispiegare, con Dante, “le ali al folle volo””.
Con questa frase prende avvio la seconda parte del libro,
quella con la quale
Giulio Tremonti apre a considerazioni più politiche che
prendono le mosse dal nostro Rinascimento che fu “un fiotto
di vita: sole e luce, libertà a follia, fortuna e virtù,
rottura ed armonia, estetica e tecnica, recupero del sapere
antico e scoperte nuove, mondo classico e mondo naturale,
vita attiva e non solo contemplativa.. inquietudine
spirituale e mito del rinnovo”. Insomma, sulla base di
questo passato che vive nel presente, “quello che serve oggi
è un sogno: qualcosa di più, di diverso e più grande”. Ma
occorre una visione che vada oltre l’atmosfera cupa che
caratterizza il nostro Paese “per l’effetto dei troppi
conflitti, poca speranza e molta stupidità”.
Gli esempi sono
nella percezione di tutti. A cominciare dalla ipertrofia
legislativa che ad onta del monito di
Tacito (“plurime leges corruptissima respublica”) continua ad imperversare
sui cittadini e le imprese.
Tremonti ha
diligentemente contato le pagine della Gazzetta Ufficiale
nel 2016; sono 40.508, pari a 12 chilometri lineari. Un
sistema normativo che ha invertito un principio proprio
degli ordinamenti democratici nei quali la regola è la
libertà, l’eccezione il divieto. Dunque meno libertà, più
lacci e lacciuoli in un labirinto di regole spesso
incomprensibili che comunque denotano sfiducia dello Stato
nei confronti dei cittadini i quali lo ripagano con uguale
moneta, allontanandosi dalle istituzioni e dal voto.
In questi
termini il manifesto culturale diviene politico nel senso
migliore del termine che fissa le sue tappe nella
prospettiva di un
“nuovo Risorgimento” che metta in campo le forze
migliori del Paese sulla base di un programma, delineato nel
tredicesimo capitolo del libro che significativamente fa
riferimento ad uno successivo “da scrivere insieme”. Sulla
base di tappe di un percorso virtuoso, a cominciare dalla
rimozione dalla nostra Costituzione dei “vincoli europei”.
Come in Germania che ammette le regole europee solo se
compatibili con i principi costituzionali interni di
sovranità e democrazia. Ne deve conseguire l’affermazione
della “eccezione italiana”.
Tremonti spiega
che questa eccezione è stata ritenuta compatibile con i
“Principi fondativi” e con i
“Trattati europei” nel caso del Regno Unito, prima che
optasse per la Brexit.
Non sarà facile,
ammette, ma se l’Europa ha fin qui dimostrato di essere
debole con i forti e forte con i deboli, noi dobbiamo essere
“forti, ma se del caso anche astuti”. Lavorando sui dettagli
delle decisioni e facendo valere il nostro “voto-veto”.
L’obiettivo è la
rimozione unilaterale automatica del
Bail-in, della
Bolkenstein,
ancora lacci e lacciuoli, dalle motivazioni spesso
incomprensibili, anzi “demenziali e negative”, come scrive
Tremonti che fa derivare dalla loro cancellazione “un
effetto non marginale a favore del Sud” per il quale, come
era previsto nel Trattato di Roma, “si può e si deve
reintrodurre un regime finanziario e fiscale speciale. Un
regime che oggi sarebbe ideale per l’attrazione
internazionale dei capitali. Come avviene per l’Irlanda”.
Tremonti non guarda solamente all’Europa perché torni ad essere
un’opportunità e non un motivo di disagio che scatena
pulsioni ostili. E chiede alla politica una “tregua
legislativa” per interrompere quell’orgia
di norme che impacciano cittadini e imprese e la stessa
azione delle autorità pubbliche nella realizzazione degli
obiettivi contenuti nel programma definito nell’indirizzo
politico che scaturisce dalle consultazioni elettorali. “Nel
deliro dell’attuale cialtroneria politica si è infatti perso
di vista l’elementare principio per cui la ricchezza, per
essere detassata o distribuita, deve essere prima prodotta e
non invece, come ora, soffocata sul nascere! È inutile
deliberare e finanziare investimenti – spiega
Tremonti - se poi
è la mano pubblica che, ferrea nelle sue regole, li blocca
per anni e anni”. Quando le regole che, ovviamente, ci
devono essere, sono sbagliate o inapplicabili.
In questo
contesto il programma “politico” si occupa anche dei flussi
migratori alla luce di attente riflessioni che giungono ad
una conclusione logica e ampiamente condivisa: “non solo
“aiutiamoli a casa loro”, ma anche
“lasciamoli a casa
loro””. Per cui di fronte alla richiesta di
ius soli questo
“va attribuito in funzione di presupposti specifici
costituiti caso per caso dall’accettazione sostanziale e
convinta degli elementi che costituiscono la nostra
identità nazionale”.
Per finire,
debito e patrimonio, temi sui quali, nel dettaglio,
Sgarbi e
Tremonti hanno
idee puntuali sulla tassazione, sulla spesa pubblica e sulla
circolazione del denaro contante. Ed altre proposte sulle
quali riflettere “per un programma serio e non fieristico,
come tanti altri purtroppo stanno facendo nella logica del
tutto tutto, niente niente”.
10 ottobre 2017
Primero la legalidad
Il Re Felipe richiama le regole dello Stato di diritto e l’unità del
Regno
di Salvatore Sfrecola
Infine il Re Felipe VI,
che nei giorni scorsi aveva mantenuto sulla vicenda del
referendum catalano un riserbo che aveva suscitato commenti
diversi, molti dei quali critici, ha parlato alla Nazione.
Perché, si chiedevano politici e commentatori in Spagna e
all’estero, come gli intervenuti allo “speciale” del Tg7
diretto da Enrico
Mentana la sera del referendum catalano, il Re di Spagna
non interviene in un momento difficile per le istituzioni,
di fronte ad una iniziativa apertamente secessionista in
Catalogna, eversiva del sistema statale? Avrebbe dovuto richiamare le regole
dello stato di diritto, come ha fatto il Presidente del
Consiglio Mariano
Rajoy, e condannare il referendum come eversivo
dell’ordine costituzionale? Avrebbe potuto, ma sarebbe stato
un intervento tardivo e forse fonte di ulteriori polemiche
di fronte all’evidente inadeguatezza della classe politica
spagnola, a Madrid come a Barcellona, che non ha saputo
percepire l’esigenza di attuare una più ampia autonomia,
soprattutto finanziaria, della Catalogna nel contesto
dell’ordinamento dello stato.
Che la regione più ricca del Paese, da sempre animata da spirito
indipendentista, avesse organizzato un referendum illegale,
non previsto dalla Costituzione in un contesto apertamente
eversivo del sistema statale si sapeva da tempo e da tempo
si erano levate voci a Madrid di condanna, sul piano
politico e giuridico, con intervento anche della Corte
costituzionale.
Va detto subito che domenica sono venuti al pettine nodi antichi
che saggezza politica, a Madrid come a Barcellona, avrebbe
consigliato di sciogliere attraverso una trattativa senza
preconcetti sui limiti dell’autonomia riconoscibile alla
Catalogna all’interno dello Stato unitario, come già è
avvenuto per i paesi baschi, senza che si arrivasse alla
prova di forza dell’indizione di un referendum
incostituzionale che avrebbe inevitabilmente costretto
governo centrale e magistratura ad intervenire per far
cessare una situazione di illegalità che, se tollerata,
avrebbe leso gravemente l’immagine del Governo e del
Sovrano, custode della unità della Spagna.
Di fronte alla pervicace volontà dei partiti che reggono la
maggioranza del governo catalano di andare comunque avanti,
pronti a proclamare l’indipendenza dal Regno, il governo
avrebbe potuto seguire due strade: far finta di niente
dicendo che quel referendum illegale non avrebbe portato
conseguenze sul piano giuridico ed attendere gli sviluppi
della situazione, oppure, com’è avvenuto, dichiarare che non
poteva ammettere un tentativo eversivo dello stato di
diritto, espressione ripetuta più volte dal Presidente del
Consiglio Mariano
Rajoy nel suo discorso di domenica sera al termine delle
operazioni elettorali e dal Re
Felipe ieri sera.
Si è scelta questa seconda strada non priva di rischi
possibili per gli effetti sull’immagine del governo che usa
la forza contro i manifestanti e quanti volevano esercitare
un presunto diritto di voto, nonostante fosse prevedibile
che nel confronto tra attivisti del partito secessionista e
la forza pubblica ci sarebbero stati feriti e contusi che è
evidente che sono stati voluti soprattutto dai partiti
catalani con evidenze che hanno fatto il giro delle
televisioni in tutto il mondo. Come nel caso dell’anziana
con il volto sanguinante. Con un conto dei feriti e dei
contusi, oltre 800 per i separatisti, 80 per la polizia, che
annovera tra questi anche gli agenti intervenuti sul posto,
un’immagine che alcuni enfatizzeranno per molto tempo, anche
per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dai
problemi veri, che sono quelli di una autonomia che è giusto
la Catalogna rivendichi ed ottenga nei termini di altre
regioni spagnole, dal contesto giuridico che, purtroppo,
interessa soltanto chi ha alto il senso dello stato. Le
regole della democrazia.
Resta la ferita del tentativo eversivo, perché di questo si
tratta, portato avanti da quella che è evidentemente una
minoranza chiassosa ed estremista che annovera frange della
sinistra ancora veterocomunista, che ha messo in scena un
referendum farsa dove si poteva votare ovunque. Il
corrispondente de La7 da Barcellona stamattina, intervenendo
ad Omnibus ha
detto che si è votato anche più volte, con schede
autocompilate, che il voto veniva espresso in pubblico,
facendo quindi venir meno quella segretezza che è garanzia
della correttezza di una consultazione. In queste condizioni
è evidente che chi avesse voluto votare “no” avrebbe avuto
molte difficoltà nel dare un voto palese. Un referendum
farsa, dunque, un brutto precedente, trattandosi di una
importante regione spagnola, un senso di smarrimento di quel
principio di legalità che è alla base di qualunque
ordinamento civile e democratico.
“Primero la legalidad”, mi dicevano un tempo i miei amici
spagnoli quando richiamavano le regole della organizzazione
dei poteri e della verifica dei comportamenti degli
amministratori pubblici. Lo ha ricordato ripetutamente
domenica il Presidente del Consiglio
Rajoy, lo ha richiamato ieri sera il Re
Felipe. Fuori della legalità non c’è possibilità di pacifica
convivenza da nessuna parte. Lo sappiamo bene noi italiani
che abbiamo un Parlamento che, eletto sulla base di una
legge dichiarata incostituzionale, avrebbe dovuto limitare
la sua attività al minimo indispensabile per tornare quanto
prima al voto. Non è stato così, auspice il Capo dello
Stato, Giorgio
Napolitano, che quella sentenza della Corte
costituzionale avrebbe dovuto presidiare è stato possibile a
quelle Camere approvare addirittura una legge di revisione
della Costituzione sonoramente bocciata dai cittadini, una
riforma della legge elettorale bocciata dalla Consulta e
tante altre leggi in gran parte finite sotto la lente
d’ingrandimento delle magistrature e molte rinviate al
giudice delle leggi per vizi di costituzionalità. Infine si
pensa addirittura di modificare la legge sulla cittadinanza
gabellando la proposta per una norma di civiltà senza
riflettere che quella legge, ovunque nel mondo, è la regola
che individua gli appartenenti ad una comuni tà.
Invidiamo un po’ questo Capo dello Stato spagnolo che richiama
alla legalità, al rispetto della Costituzione e si fa
garante dell’unità del Paese nella varietà delle sue storie
e delle sue tradizioni. Ricordando anche che
l’“indipendenza” di una regione non è affare solo di coloro
che la abitano ma dell’intero Paese. E si è fatto garante
dell’unità
auspicando il
superamento della crisi nel rispetto della legge e nella
prospettiva di un nuovo patto costituzionale che potrà
essere l’occasione per la ripresa di un dialogo che
certamente troverà ampi consensi in tutta la Spagna. Lo ha
fatto perché il ruolo di un Re è quello di garantire l’unità
dello stato nel rispetto della Costituzione ma anche della
sua storia che, come accade in molte realtà statali, è fatta
di storie e tradizioni diverse che proprio una monarchia
costituzionale può valorizzare perché siano una ricchezza
comune anziché la ragione di divisioni. Il Belgio si
mantiene unito, nonostante gli antichi dissidi fra
fiamminghi e valloni, proprio per la prudente azione del Re.
L’Italia ha una storia simile, anzi molto più articolata, di
esperienze che lungo i secoli hanno fatto grande questo
nostro Paese attraverso la cultura, l’arte, la scienza, Un
Paese nel quale le singole realtà regionali sono una
ricchezza per tutti non solamente in termini ideali ma anche
economici, come insegna il turismo culturale.
Quel che sembra
sfuggire ai catalani, infatti, è che la loro ricchezza,
fatta di industrie, commerci e turismo non è estranea
all’appartenenza alla Nazione spagnola. La Catalogna, come
altre regioni del Paese, ha subito, è vero, gli effetti
negativi dell’austerità imposta dalle condizioni generali
dell’economia spagnola e dalle indicazioni provenienti
dall’Unione europea ma essere Spagna comunque ha giovato
anche a Barcellona, a Madrid come a Bruxelles. Un po’ di
saggezza avrebbe dovuto consigliare l’individuazione di un
regime di autonomia che salvasse contemporaneamente l’unità
del Paese e la tutela degli interessi locali, come è stato
fatto per i baschi. Invece è prevalso l’indirizzo degli
intransigenti che hanno soffiato sul fuoco alimentando
fiamme che sarebbe stato necessario spegnere prima che
giungessero a bruciare molte delle carte a disposizione per
superare la crisi nella legalità.
Nell’occasione
molti hanno ricordato le parole, poche ma significative,
della Regina Elisabetta alla vigilia del referendum
sull’indipendenza della Scozia nel 2014. Una consultazione,
è bene ricordare, legittimamente indetta. E fu facile alla
Sovrana invitare all’unità con poche parole, in una
conversazione privata alla presenza della stampa, all’uscita
della Cappella del castello di Balmoral, quando si augurò
che la gente “pensasse con molta attenzione al suo futuro”.
Perché gli interessi di una parte non sono mai autonomi
rispetto a quelli dell’intero Paese. Dove la monarchia
unisce e, si è letto, contribuisce al PIL per un punto,
perché dà il senso della continuità dello stato, della sua
storia e, così, contribuisce anche al turismo interno e
internazionale.
Infine, è stato
facile ieri ed oggi, nei commenti sulla vicenda spagnola,
richiamare i referendum consultivi di Lombardia e Veneto,
pienamente legittimi ai sensi dell’art. 116, comma 2, Cost.,
con i quali si chiede più autonomia nella gestione delle
risorse. Purché nessuno trascuri che l’unità ha un valore, a
volte impercepibile o non percepito. In un Paese il quale,
come la Spagna, ma certamente più della Spagna, ha una
storia ricca di individualità locali, di provincia in
provincia, di borgo in borgo, di città in città. A Nord come
a Sud le individualità e le storie sono una ricchezza per
l’intera Nazione, come ha ricordato Matteo Salvini,
impegnato ad esprimere il senso dell’unità al di là di
alcune frettolose semplificazioni ancora vive in alcuni
ambienti della base leghista.
4 ottobre 2017
Nei commenti alle vicende di Catalogna
Pericolosa
confusione di idee tra unità e secessione, guardando a
Barcellona
di Salvatore Sfrecola
Non è un bello
spettacolo quello che le televisioni trasmettono da
Barcellona, dove è in atto una vicenda che si doveva ad ogni
costo evitare. L’autonomia della Catalogna avrebbe dovuto
essere oggetto di una disciplina analoga a quella di cui
godono i paesi baschi ad evitare che si giungesse ad una
iniziativa separatista, certamente dolorosa per una buona
parte dei catalani e degli spagnoli.
Infatti il
referendum, non previsto dalla Costituzione del Regno e,
pertanto, illegittimo, ha costretto governo e magistratura
ad assumere un atteggiamento che, nel rispetto della legge,
ha comportato l’uso della forza che è destinato a lasciare
una ferita non facile da rimarginare.
Fino al momento
in cui scrivo le televisioni ci dicono di qualche ferito non
grave. Ma è certo che qualcuno tra quanti hanno tirato la
corda, soprattutto a Barcellona, desidererebbe che ci
scappasse il morto per alzare il tono della polemica e dello
scontro con il governo centrale.
Anche le
prospettive dell’indipendenza, i vantaggi per la ricca
Catalogna, sbandierati dai separatisti, sono un elemento
importante del dibattito interno alla Spagna e danno luogo a
diverse letture non tutte favorevoli ad una crescita
dell’economia catalana, fuori dall’Europa e, quindi, fuori
dall’euro. C’è chi ha fatto l’esempio della ricca California
che mai penserebbe di staccarsi dagli Stati Uniti d’America.
L’unità, infatti, è un valore ed ha un valore, anche
economico.
Sull’onda delle
polemiche sulle vicende di oggi a Barcellona i nostri
politici si sono esibiti in commenti vari, taluni dei quali
mostrano una pericolosa deriva secessionista forse fin qui
strumentalmente occultata. O, meglio, un sottofondo
psicologico che va al di là delle istanze federaliste di
taluni ambienti politici del Nord, soprattutto del Nord Est,
evidenti nei commenti nei quali si parla di
“autodeterminazione dei popoli”, di “diritto al voto”, di
“violenza del governo centrale”. Espressioni che potrebbero
sembrare in aperto contrasto con la dimensione “nazionale”
per la quale si batte Matteo Salvini, impegnato da Nord a
Sud a parlare di nazione. È un tema delicato che desta
preoccupazioni se si pensa che in Veneto, ad esempio, si
rivendica l’insegnamento del dialetto, si contestano i
plebisciti con i quali nel 1867 i veneti accettarono
l’annessione al Regno d’Italia. O al Sud, dove si fanno
sentire nostalgie borboniche le quali, contro ogni evidenza
storica, documentata dalle fonti, negano perfino l’apporto
dei reparti dell’ex esercito del Regno delle Due Sicilie,
inquadrati nell’esercito italiano, nella lotta al
brigantaggio. Un fenomeno che quei militari conoscevano
benissimo perché presente in Italia meridionale ben prima
che Giuseppe Garibaldi sbarcasse a Marsala e, conquistata
rapidamente la Sicilia da sempre antiborbonica, risalisse
lungo lo stivale per giungere a Napoli e consegnare a Teano
le terre dell’ex Regno a Vittorio Emanuele II.
Ed io mi chiedo
quale senso abbiano oggi, nel 2017, la contestazione dei
plebisciti o le nostalgie del Sud che era entrato nel nuovo
Regno a testa alta portando nei governi ministri nati al di
sotto del Volturno. Nessun senso se non quello di indebolire
il già precario spirito nazionale che dovrebbe essere posto
a fondamento di quel “Rinascimento” del quale parlano
Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti nel loro libro, che così
s’intitola, con il quale intendono risvegliare negli
italiani il senso dell’appartenenza, l’orgoglio di una
storia straordinaria fatta di cultura, scienza, arte.
Dimenticando quella sudditanza con la quale nel corso dei
secoli modesti governanti hanno chiamato a supporto delle
loro avidità di potere eserciti stranieri i quali hanno
occupato regioni d’Italia considerandole colonie da
sfruttare, imponendo dinastie straniere, estranee alla
nostra storia ed alla nostra cultura. Dinastie che solamente
nel corso del 1800, per iniziativa di un vasto movimento di
patrioti, soprattutto giovani, è stato possibile scrollarci
di dosso sotto la guida di uomini illuminati. Primo tra
tutti il Conte di Cavour, un uomo geniale, uno statista
europeo, ammirato anche da chi gli era ostile, come Clemente
Lotario di Metternich, il potentissimo Cancelliere
austriaco: “In
Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico,
ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour”.
Quel tempo, il Risorgimento, non a caso Tremonti parla di
“nuovo Risorgimento”, fu veramente un miracolo”, come ha
scritto Domenico Fisichella nel titolo di un suo bel libro,
se Giuseppe Mazzini, il campione dei repubblicani, scrive a
Vittorio Emanuele II dimostrando di saper accantonare i suoi
ideali perché l’Italia fosse unita. “Io repubblicano –
scrive Mazzini al Re nel 1859 – e presto a tornare a morire
in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della
mia giovinezza, sclamerò nondimeno con i miei fratelli di
patria: preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione
per la quale osaste e vinceste”.
Questo spirito nazionale e unitario, che Cavour coltivava
dalla giovinezza in scritti da molti ignorati o dimenticati
(ne parlava apertamente nel 1846-1847), il momento più alto
della politica nazionale ci ha permesso di dimenticare che
per secoli siamo stati “calpesti, derisi/ perché non siam
popolo/ perché siam divisi”, vogliamo forse dimenticarlo
oggi che nell’Europa servono ideali nazionali forti, il
concorso di energie consapevoli delle singole identità?
Oggi in Italia
prevalgono i partiti che al Risorgimento non hanno concorso,
il Partito Democratico, come in precedenza il
Partito Comunista e la stessa
Democrazia Cristiana, che ha sempre dimostrato scarso
sentimento nazionale, come oggi i suoi epigoni che
vorrebbero uno ius
soli incompatibile con la tutela della identità, che
essi non sentono, non capiscono.
Andiamo alle
elezioni in un clima di confusione pericolosa che potrebbe
determinare, con una legge elettorale proporzionale,
l’assoluta ingovernabilità del Paese con tutti pericoli che
ne possono derivare. Rinunciare allo spirito identitario ed
al sentimento nazionale, per chi ambisce al potere potrebbe
essere un errore fatale.
1 ottobre 2017
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