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NOVEMBRE 2017
Se critichi i magistrati scatta l’applauso
di Salvatore Sfrecola
In ogni riunione
politica se vuoi gli applausi a scena aperta devi parlare
male di giudici e pubblici ministeri. E siccome nessuno è
immune dal fascino adrenalinico del consenso sottolineato da
una fragorosa battuta di mano, come sanno bene gli artisti,
dai palchi della politica arrivano sovente bordate contro i
magistrati, anzi il “partito dei magistrati”, detentori di
un potere privo di ogni investitura popolare. Nel senso che
né i giudici né i procuratori sono eletti dai cittadini.
Altro argomento ricorrente, soprattutto quando a polemizzare
sono esponenti della
Lega Nord. Che
vorrebbero giudici eletti dal popolo, con la conseguenza di
vedere aspiranti magistrati non più “soggetti soltanto alla
legge”, come si legge nell’art. 101 della Costituzione, ma
all’elettore, se vogliono essere al prossimo giro rieletti.
Un’infamia che si commenta da sola.
Al gusto
dell’applauso facile non si è sottratto neppure
Vittorio Sgarbi
che con Giulio
Tremonti gira l’Italia per far conoscere “Rinascimento”
il libro che pubblicizza un movimento culturale che è anche
un soggetto politico, intenzionato a presentarsi alle
elezioni regionali e politiche. Così ieri sera, in un
Auditorium della Conciliazione pieno più di quanto si
potesse prevedere, l’Assemblea organizzativa del movimento
ha ascoltato un profluvio di accuse alla magistratura
secondo un copione già noto, che parte dalla affermazione
che pubblici ministeri e giudici indagando su tangenti
varie, hanno fatto fuori nei primi anni ’90, un’intera
classe politica inquisendo o condannando esponenti illustri
della Democrazia Cristiana, del
Partito Socialista Italiano, del
Partito Liberale
e del Partito
Repubblicano, sfiorando appena il
Partito Comunista.
E così, quanti applaudivano ad ogni arresto di politici o
godevano dinanzi al televisore al vedere la bava al lato
della bocca di Arnaldo Forlani incalzato da un implacabile
Antonio Di Pietro, oggi applaudono a
Sgarbi che sull’ex P.M. ha riversato una serie incredibile di
accuse. D’altra parte la mutevolezza dell’opinione pubblica
è una condizione diffusa, diffusissima in Italia dove un
popolo di fascisti si è scoperto “da sempre” antifascista,
ma solo all’indomani del 25 luglio 1943 e alla destituzione
di Benito Mussolini
da parte del Re
Vittorio Emanuele III.
Vediamo di
mettere ordine nelle idee. Intanto era “storicamente certo”
che quella stagione di condanne di esponenti politici e
amministrativi di partiti aveva preso le mosse da accertati
illeciti in forma di tangenti pagate da imprenditori che
cercavano scorciatoie per ottenere un appalto che una gara
non avrebbe loro consentito di conquistare. La via della
scorciatoia aveva un pedaggio che si chiama tangente, in un
sistema nel quale le imprese da sempre hanno dominato nella
spartizione dei lavori utilizzando la tecnica dell’offerta
economicamente più vantaggiosa per spartirsi il mercato. Più
imprese partecipano alla gara, una fa l’offerta minore (più
vantaggiosa) le altre sparano un prezzo che non le rende
competitive. Naturalmente alla prossima gara s’invertono le
parti. E quelle che restano fuori spesso sono compensate
dall’aggiudicataria con subappalti o altre
compartecipazioni.
Questo accade
ovunque da sempre, con la complicità o meno dell’uccellino
che all’orecchio di chi deve vincere suggerisce la cifra da
proporre. Accade sempre, ancora oggi. Ma nei mitici anni ’90
era qualche uccellino di partito a suggerire la cifra da
offrire per vincere. Un suggerimento ovviamente non gratuito
perché in qualche modo dovevano essere sostenuti i “costi
della politica”: per pagare gli apparati, le sezioni
(affitto, segretario, luce e riscaldamento), le spese delle
manifestazioni culturali, dei giornali e giornalini dei
partiti e delle correnti, quelli, per intenderci, che
nessuno legge, neppure quelli che vi scrivono. Per avere
un’idea quasi tutti gli esponenti politici della Prima
Repubblica, a leggere il loro
curriculum sul
sito della Camera o del Senato, anche quando privi di altra
professionalità perché arruolati in politica fin da piccoli,
si qualificano giornalisti. Nessuno di loro ha mai scritto
sul Corriere della
Sera, su
Repubblica o Il Tempo, al più su Il Popolo
o L’Unità, finché
questi due giornali erano pagati da
DC e
PCI.
Una classe
politica corrotta, dunque, anche quando formalmente ispirata
a nobili ideali, come rappresentati nelle denominazioni di
cristiana, socialista, liberale e via discorrendo. Nessuna
giustificazione, dunque, e se qualcuno può sostenere che
dopo quei partiti c’è stato un degrado della politica è
proprio per loro responsabilità perché non avevano formato
una classe dirigente che non fosse dedita alla mazzetta e
non gestisse il potere per fini di parte, finiti i
De Gasperi ed i
Fanfani che nel dopoguerra avevano operato con responsabilità
favorendo quella ripresa economica nella quale, anche in
presenza di una classe imprenditoriale rapace, si è
innestata la corsa ad una corruzione diffusa,
“pulviscolare”, come ha scritto l’ex Presidente della Corte
dei conti Luigi Giampaolino, che ha fatto uscire dal mercato le imprese sane
per favorire, coperti dalla politica, imprenditori senza
scrupoli che ci hanno consegnato opere realizzate spesso con
gravissima trascuratezza delle prescrizioni contrattuali e
con significativi difetti tecnici che le hanno presto
condannate ad un degrado che è sotto gli occhi di tutti.
Complici, in questi casi, anche collaudatori scelti dai
partiti tra amici e amici degli amici. E, poi, le opere
incompiute, che spesso ci denuncia “striscia la notizia”,
non sono forse un danno alla comunità prodotto a seguito di
opere finanziate ma non entrate in esercizio.
La magistratura,
dunque, ha “fatto fuori” una classe politica di corrotti e
spesso di incapaci. Purtroppo non sostituiti da una classe
nuova, di onesti e capaci.
29 novembre 2017
La candidatura di Leonardo Gallitelli
già Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri
E Berlusconi mise in campo il Generalissimo
di Salvatore Sfrecola
E Berlusconi lanciò la
candidatura di
Leonardo Gallitelli a Presidente del Consiglio. Per
molti anni Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri il
Generalissimo, come lo definisce
La Verità, esce dal cilindro dell’ex Cavaliere in un momento
cruciale della fase iniziale della campagna elettorale,
quando Matteo Renzi
tenta di recuperare i consensi che ha perduto via via nel
corso delle elezioni successive alle europee, logorato
dall’esito del referendum del 4 dicembre 2016 e dalle
successive competizioni amministrative, quando nella rossa
Romagna ha votato solamente il 37 per cento degli elettori
ed in Sicilia il Partito Democratico è giunto solamente
terzo. Una graduatoria che inutilmente ha cercato di
ribaltare alla Leopolda.
La battaglia elettorale si riscalda e chi meglio di un Generale
famoso, si è chiesto
Berlusconi, per guidare un Centrodestra dove
La Lega, anche
nella versione “sudista” di
NoiConSalvini
sgomita e minaccia di superare
ForzaItalia con la
conseguenza che, in caso di vittoria,
Matteo Salvini pretenderebbe legittimamente di varcare il portone di
Palazzo Chigi. Magari con l’appoggio di
Rinascimento, la
lista di Sgarbi e
Tremonti che va
raccogliendo consensi in giro per l’Italia, a Sud con
Raffaele Fitto ed
a Nord con Enrico
Costa.
L’idea è anche quella di rispondere alla richiesta di sicurezza
che proviene dalla gente, preoccupata per l’immigrazione
incontrollata che rende praticamente immuni da ogni
responsabilità uomini provenienti da ogni parte del mondo,
non identificati al loro ingresso in Italia e, pertanto, non
facilmente perseguibili per i delitti compiuti. In
particolare per le aggressioni, delle quali si sente dire
soprattutto a Nord, a cose e a persone, situazioni che
dominano la percezione di insicurezza di molti italiani.
Mentre si ha la diffusa impressione che per motivi politici e di
difficoltà delle Forze di Polizia l’ordine pubblico non sia
garantito come si vorrebbe la candidatura del Generale
Gallitelli, uomo
di esperienza provata, per molti anni al vertice dell’Arma
che riscuote da sempre la stima degli italiani, è
indubbiamente una iniziativa che richiama l’attenzione sul
partito di Berlusconi.
Il quale nello stesso tempo marca la distanza dall’alleato
Salvini del quale apprezza senz’altro l’impegno politico che ha
portato la Lega a
conquistare ampi consensi ma del quale teme l’effetto sui
moderati, i quali potrebbero non gradire alcune
performance
dell’esuberante leader dalla ruspa facile.
L’evoluzione della campagna elettorale ci dirà che il nome di
Gallitelli è stato lanciato nel dibattito politico come
un ballon d’essais
o è una proposta effettiva. Intanto un effetto lo ha
indubbiamente avuto, quello di rilanciare in grande stile il
tema della sicurezza, che
Berlusconi da
fine interprete dei sentimenti degli italiani ha percepito,
anche per effetto dell’incremento dei voti della
Lega. E conferma
quello che il leader di
Forza Italia va
ripetendo da qualche tempo in ordine alla ipotesi di un
governo di 20 ministri nel quale, accanto a dei tecnici, ci
siano anche ben 12 esponenti della “società civile”. Guidati
da un tecnico, come va definito
Gallitelli.
A questo punto qualche breve riflessione s’impone. I tecnici,
anche quando di grande valore, non sempre hanno fatto bene
in politica. Anche di
Mario Monti si è detto che la sua esperienza e la sua
contiguità professionale con alcuni “poteri forti”, che
avrebbe potuto favorire la sua azione di governo, in realtà
non ha prodotto gli effetti positivi che ci si attendeva.
Anche se va detto che il tempo che ha avuto a disposizione
non è stato molto ed ha dovuto tamponare a destra e a manca
una serie di falle di natura finanziaria che minacciavano
l’economia del Paese.
Devo dire, peraltro, che in generale i tecnici non sempre hanno
una visione politica adeguata alle esigenze, quella
percezione che va al di là del contingente, del bilancio di
esercizio, per dirla in termini contabili, e di quelli
immediatamente successivi. La politica è la scienza del
possibile in rapporto alle esigenze autentiche della
comunità e delle prospettive nelle quali si pone nel tempo,
nei decenni a venire. Si pensi solamente alle esigenze delle
famiglie, dell’industria e dei commerci che sono funzionali
all’occupazione e, quindi, ai consumi, alla scuola, che deve
formare negli anni cittadini e professionisti, al sistema di
tutela delle infrastrutture e dell’assetto idrogeologico di
un Paese ad alto rischio sismico e non solo, perché qui
esondano fiumi e laghi, franano tratti di monti e colline.
Per andare a cercare una visione prospettica delle esigenze di un
popolo, anche di quelle che concretamente questa generazione
non percepisce, si deve tornare indietro negli anni, lungo
una storia nella quale pochi sono i politici che possiamo
definire statisti, da contare sulle dita di una mano, senza
impegnarle tutte. E si chiamano
Camillo Benso di
Cavour, Giovanni
Giolitti, Alcide
De Gasperi e
Amintore Fanfani. L’ultimo è morto anni fa e non ha
lasciato eredi.
28 novembre 2017
Per aiutare i disabili rendiamo deducibili i salari delle badanti
di
Salvatore Sfrecola
Nelle polemiche sull’immigrazione, a
quanti chiedono regole certe e numeri compatibili con le
condizioni sociali e di lavoro del nostro Paese, si sente
spesso richiamare il ruolo delle badanti “che pensano alle
nostre mamme e alle nostre nonne”. Giusto, verissimo, ne
abbiamo tutti consapevolezza e ne sentiamo l’importanza in
una società che invecchia grazie alle migliori condizioni di
vita e di assistenza sanitaria. Badanti, donne e uomini
provenienti da lontano, molto spesso pagati in nero perché
la legislazione tributaria non consente la deducibilità dei
relativi oneri se non in misura assolutamente inadeguata
rispetto all’ammontare delle spese che le persone sostengono
per questi ausili personali indispensabili: la paga, le
spese di mantenimento ed i relativi contributi
previdenziali. Il Testo unico delle imposte sui redditi
consente, infatti, di dedurre dal reddito complessivo (art.
10, comma 1, lettera b) le spese “necessarie nei casi di
grave o permanente invalidità o menomazione, sostenute dai
soggetti indicati nell’articolo 3 della legge 5/2/1992, n.
104”. Si tratta di persone che
presentano “una minorazione fisica, psichica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva”, con la precisazione (comma 3)
che, “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia
ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da
rendere necessario un intervento assistenziale permanente,
continuativo e globale nella sfera individuale o in quella
di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”.
Letta così sembra una deduzione totale o, quanto meno,
significativa degli oneri concretamente sostenuti della
persona handicappata o dalla sua famiglia. Niente affatto,
perché andando a leggere l’art. 15, comma 1, si scopre che
“dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 19% dei
seguenti oneri sostenuti dal contribuente” che al comma
1-septies così sono specificati: “le spese, per un importo
non superiore a € 2.100, sostenute per gli addetti
all’assistenza personale nei casi di non autosufficienza nel
compimento degli atti della vita quotidiana, se il reddito
complessivo non supera € 40.000”. Il 19% di € 2.100 è pari
ad € 399! Una presa in giro.
Quanto agli “oneri versati per gli addetti ai servizi
domestici e all’assistenza personale o familiare” (i
contributi INPS per la badante) sono deducibili “fino
all’importo di € 1.549,37” (comma 2 del citato articolo 10).
Fatti due conti si comprende come lo Stato non abbia alcuna
considerazione per le persone affette da gravi menomazioni,
come indicate nell’art. 3 della legge 104/1992. Infatti gli
oneri per la badante con regolare contratto di lavoro sono
consistenti e tali da incidere, come scrive Francesco
Tesauro a proposito della ragione delle deduzioni, “sulla
capacità contributiva” del soggetto d’imposta: la
remunerazione, senza considerare vitto e alloggio, non è
inferiore a 1000 euro, cui si aggiungono i contributi da
versare all’INPS ad ogni quadrimestre per oltre 700 euro. E
siccome la badante ha diritto al riposo settimanale, la
domenica ed un pomeriggio libero, il “badato” deve
attrezzarsi con altra persona che l’assista in quelle ore
per una somma che non è mai inferiore a 6-700 euro, cui si
aggiungono i contributi intorno a 400 euro. È facile tirare
le somme: parliamo di oltre 15 mila euro cui vanno aggiunte
oltre 10 mila euro per la sostituta della badante. In queste
somme sono comprese le ferie ma non la sostituta della
badante in vacanza per un altro migliaio di euro. In tutto
intorno a 25 mila euro esclusi gli oneri per vitto e
alloggio. E tenuto conto che parliamo di redditi inferiori a
40 mila euro. Per cui se ne va più della metà.
Sono cifre che attestano di una grave ingiustizia sociale.
Perché oneri di questo genere impongono alle famiglie
significativi sacrifici, rinunce, alienazioni di beni per
far fronte alle spese. E quando è una persona di famiglia
che si dà carico dell’invalido chi assume questo impegno
deve rinunciare in tutto o in parte al proprio lavoro.
Un tema di giustizia sociale, dunque, che è anche un
problema di giustizia fiscale, perché nelle attuali
condizioni il mancato aiuto del fisco incentiva il lavoro
“nero”, con evasione, in primo luogo, degli oneri
contributivi, alla faccia di coloro i quali sostengono che
gli immigrati, quindi anche le badanti, pagheranno le nostre
pensioni. Ma se non pagano tasse e per loro non sono versati
contributi? Non riceveranno la pensione e certamente non
pagheranno le nostre.
Un problema non di poco conto che, in un Paese nel quale
l’Agenzia delle entrate certifica molte decine di miliardi
annui di imposte evase, non è tollerabile. Ed accende un
faro su altre situazioni: quella del classico idraulico che
non rilascia ricevuta, come il falegname che ripara la porta
o il fabbro che sostituisce la serratura o lavora alla
ringhiera del balcone. Ricevute che nessuno chiede perché
non saprebbe che farne. Quante volte ci siamo sentiti
rivolgere la domanda “con ricevuta o senza, perché se vuole
la ricevuta devo aggiungere l’IVA”? E 90 su 100 si paga
senza ricevuta per pagare meno. Perché inevitabilmente
aumenta anche lo stesso costo della prestazione. È il
problema del nostro sistema fiscale che, diversamente da
altri, più civili, consente limitate deduzioni e detrazioni
con effetto disincentivante del rispetto delle regole e con
conseguente incentivo all’evasione.
Il fisco dovrebbe considerare che colui il quale si serve di
un badante è un datore di lavoro il cui reddito è ridotto da
spese non voluttuarie o facoltative ma necessitate
dall’esigenza di essere assistito nelle attività
fondamentali della vita. Contestualmente riducendo gli oneri
che la comunità sosterrebbe se la persona dovesse essere
assistita in una struttura pubblica. Pertanto è del tutto
evidente che anche questo tipo di “datore di lavoro”
dovrebbe poter dedurre, in sede di dichiarazione dei
redditi, la somma corrisposta al lavoratore e gli oneri
previdenziali. D’altra parte le somme corrisposte per le
esigenze della badante sono trasferite al lavoratore, con
l’effetto di essere oggetto di una doppia tassazione, prima
quale reddito del “badato”, poi del “badante”.
Consentire l’integrale deduzione delle spese di assistenza,
oltre ad essere giusto di per sé farebbe emergere quel
consistente sommerso che l’impossibilità di una deduzione
naturalmente alimenta. Come nel caso delle collaborazioni
domestiche per le quali, anche quando con regolare contratto
di lavoro, spesso sono indicate prestazioni in misura
nettamente inferiore a quella effettiva. Per pagare meno
contributi.
Giustizia, dunque, ma anche chiarezza, fondamentale in uno
stato di diritto. E se vogliamo richiamare uno
slogan comune a tutte le parti politiche, è evidente che se pagano
tutti, tutti pagano di meno.
(da La Verità del
25 novembre 2017, pagina 11)
CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
***
Su Caporetto si è scritto molto. Libri ed articoli hanno
illustrato con ricchezza di particolari documenti, grafici,
schieramento e composizione delle truppe. Ma c’ è qualcosa
di più e su questo tema parlerà
domenica 26 Novembre, ore 10.30
l’ Ambasciatore d’ Italia
Dr. Roberto Falaschi: “Caporetto in una diversa prospettiva”
Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso
con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus,
“ 910” ,” 223” e “ 52”
***
Ingresso libero
Legalità tradita
Le scuole occupate
sono un danno
Che va fatto pagare
alle famiglie
di
Salvatore Sfrecola
Se non fosse
stato per il video hard diffuso tramite WhatsApp sulle
performances sessuali di due studenti del liceo Virgilio di
Roma a destare l’attenzione pruriginosa del pubblico
giornalistico e televisivo, nessuno avrebbe rilevato che
quell’antico e prestigioso istituto romano, del quale si è
detto spesso per la bravura di professori e presidi, era
stato occupato. E in “regime” di occupazione era avvenuto il
fatto boccaccesco. Così, mentre giornali e televisioni
ospitano sociologi e pedagogisti per dire di quel che muove
certi comportamenti, che non sono evidentemente nuovi se non
nella compiaciuta esibizione alla presenza di estranei e
nella diffusione delle immagini attraverso i
social, a dire dello svilimento dei sentimenti e del sesso, nessuno
parla dell’occupazione, anch’esso fatto non nuovo e, come di
consueto, tollerato. Perché in quella scuola che, a seguito
dell’occupazione è diventata una “piazza aperta”, come l’ha
qualificata un professore intervistato da TG Cronache de
La7, nessuno ha cercato di ristabilire il rispetto della
legge. Neppure la Polizia “che sa ma non interviene”.
Dichiarazioni rese mentre la telecamera indugiava
impietosamente su un portone imbrattato fino
all’inverosimile, come le pareti laterali.
Sennonché, a
dirla tutta ed a collocarla nel contesto giuridico cui
appartiene, l’occupazione costituisce un illecito dai
molteplici profili, penali e di danno erariale, perché
interrompe l’esercizio di una funzione pubblica ed impedisce
la libera fruizione del servizio scuola per quanti
intendessero seguire comunque le lezioni. Sottrae un bene
dello Stato destinato all’esercizio di una attività,
l’insegnamento, che grava sul bilancio pubblico, cioè sulle
tasche di tutti, anche dei genitori degli occupanti.
È evidente che
gli studenti possono disertare le aule, quel che un tempo si
diceva marinare la
scuola. Ci saranno conseguenze sul piano disciplinare? È
previsto, quando l’assenza ingiustificata si protrae per un
certo periodo rispetto alla durata legale dell’anno
scolastico, che vi siano delle conseguenze sul piano
dell’esito finale.
L’occupazione,
come intuitivo, è contraria a regole elementari. Al di là
dei danni che essa può provocare, come l’esperienza insegna,
all’edificio scolastico ed ai suoi arredi, e con
l’utilizzazione impropria di strutture informatiche e con
aggravio dei costi di gestione delle utenze, l’occupazione
costituisce essa stessa quello che si definisce un
“pregiudizio erariale”, cioè un danno al bilancio pubblico.
Chi ne è
responsabile sul piano giuridico? La questione è delicata.
Si può ritenere illecita la mancata, ingiustificata
partecipazione alle lezioni? È possibile ritenere che,
diversamente da quanto avviene nel lavoro dipendente, dove
lo sciopero è un diritto fondamentale con il quale vengono
rivendicate migliori condizioni di lavoro, economiche e di
status dei
lavoratori, gli studenti non possano protestare e
rivendicare anch’essi un diverso modo di insegnare e materie
da inserire nel programma degli studi?
In teoria questo
non dovrebbe essere consentito in quanto è lo Stato che
decide cosa e come insegnare, sulla base di valutazioni che
spettano a chi insegna e non a chi deve imparare in quanto
non sa. Perché solo lo Stato è in condizioni di apprezzare
le esigenze del mondo della cultura e del lavoro e solamente
allo Stato spetta individuare gli obiettivi di formazione
delle future classi professionali ai vari livelli.
Ma se vogliamo
lasciare al dibattito politico il confronto sui termini nei
quali può determinarsi la protesta studentesca ed ammettiamo
che lo studente possa disertare le lezioni senza pregiudizi
per l’esito dell’anno scolastico, non di meno resta il tema
della imputabilità dei danni prodotti nel corso
dell’occupazione della scuola. Che sono di due tipi: quelli
provocati dagli studenti ai locali, agli arredi e alle
utenze dei quali devono rispondere innanzitutto le famiglie
degli occupanti. I Presidi devono chiedere loro i danni. Non
farlo fa gravare su di essi una diversa responsabilità, di
natura “erariale”, di competenza della Corte dei conti.
Infatti non pretendere il risarcimento di un danno ingiusto
costituisce un comportamento illecito per un pubblico
funzionario. Una responsabilità che si aggiunge a quella per
l’interruzione del servizio scuola nel quale saranno
coinvolti anche i responsabili delle Forze di Polizia (il
Questore). I Presidi per non aver messo in atto tutte le
misure per impedire l’occupazione dei locali, il secondo per
non essere intervenuto a liberarli per consentire la
prosecuzione dei corsi. Senza arrivare al caso del Preside
che a Roma, qualche anno fa, di fronte ad un’assemblea
studentesca decisa a proclamare lo “sciopero” e ad occupare
i locali, ha consegnato agli studenti le chiavi del portone
d’ingresso e se ne è andato a casa.
E qui s’innesca
anche una responsabilità del governo di “natura politica”,
insindacabile in sede giudiziaria, in quanto l’autorità
politica potrebbe decidere di non intervenire per motivi di
ordine pubblico.
Ma una cosa è
certa. Se si attivasse la regola elementare della
responsabilità civile per danno, quella per cui “chi rompe
paga”, e una volta tanto i genitori degli studenti fossero
chiamati a risarcire i danni provocati all’immobile e agli
arredi dai loro figli “birichini”, probabilmente le
occupazioni non si farebbero più o potrebbero svolgersi con
astensione dalle lezioni le quali potrebbero essere tenute
ugualmente per quanti volessero parteciparvi.
E questo
diventerebbe un Paese normale.
(da
La Verità, 22 novembre 2017, pagina 10)
NUOVE SINTESI
trimestrale di cultura e politica
Direttore Responsabile Michele D’Elia
con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria
1915 - 1918
PROFILO DELLA GRANDE GUERRA
DEGLI ITALIANI
La battaglia di Gorizia,
sesta battaglia dell’Isonzo
4-17 agosto 1916
Sabato 25 novembre 2017
Istituto Zaccaria, Aula Magna - ore 15.00
Via della Commenda, 5 – Milano, MM 1
P R O G R A M M A
Presentazione del Convegno
Saluti istituzionali
RELAZIONI
La fronte orientale alpina e le sue fortificazioni,
Lamberto Laureti, già Docente all’Università di Pavia
La presa di Gorizia, Michele D’Elia, Direttore di Nuove Sintesi, Milano
Il fronte orientale nel 1915,
Gianluca Pastori, Università Cattolica, Milano
I nostri corrispondenti di guerra,
Giorgio Guaiti, giornalista e scrittore, Milano
Guerra e ideologia della guerra nell’antichità,
Cinzia Bearzot, Università Cattolica, Milano
I costi della guerra e la loro proiezione nel dopoguerra,
Salvatore Sfrecola, Presidente dell’Associazione Italiana
Giuristi di Amministrazione, Roma
I poeti inglesi e la Grande Guerra,
Daniela Savini, Docente di Lingua e Letteratura Inglese, Liceo
Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano
L’attività degli Artisti nel contesto interventista,
Salvatore Paolo Genovese, Docente di Disegno e Storia
dell’Arte, Liceo Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano
La sociologia italiana dai suoi inizi sino alla fine della guerra
,
Roberto Cipriani, Emerito di Sociologia, Università Roma Tre
Dibattito
Conclusioni:
Michele D’Elia
Coordina i lavori
Paolo Foschini, giornalista del Corriere della Sera
Convegno a Padova
Quando a Peschiera, fu riscattata Caporetto
Gran
serata al Circolo Interforze di Padova l’11 scorso. Sala
piena, attenzione massima, vivissimo apprezzamento per i relatori intervenuti all’Incontro sul Convegno di
Peschiera 1917, presieduto da Re Vittorio Emanuele III,
organizzato dal
Circolo Cavalletto e
dalla Rivista
OpinioniNuoveNotizie.
È
stato così adeguatamente ricordato nel Centenario un
avvenimento che ha avuto un ruolo cruciale dopo lo scacco di
Caporetto e che, con la decisione, fortemente voluta dal
Sovrano di effettuare la difesa al Piave, aprì la strada al
successo delle armi italiane, a Vittorio Veneto.
Relazioni hanno tenuto il Prof. Domenico Fisichella,
già Vice Presidente del Senato e Ministro per i Beni
Culturali e Ambientali (Caporetto:
un profilo storico-politico), il Prof. Frédéric Le Moal,
storico, dell’Institut Catholique di Parigi al quale si
deve una pregevole biografia del Re (Vittorio
Emanuele III e la Grande Guerra), il Prof. Marco
Mondini, storico, dell’Università di Padova (Il
mito della colpa. Cadorna e Caporetto come rivelazione
morale degli italiani), il Prof. Ciro Romano, storico,
dell’Università Federico II di Napoli (Da
Caporetto a Peschiera: un percorso storico archivistico)
che ha anche rappresentato al Convegno l’Istituto delle
Guardie d’Onore al Pantheon del quale è Ispettore nazionale.
Hanno
partecipato anche l’Associazione Combattenti e Reduci e
l’Assoarma, che hanno concorso nell’organizzazione
dell’incontro, presenti con delegazioni e i loro
rappresentanti patavini. Tra i presenti il Conte
Giustiniani, i Generali Angileri e Zacchi, le delegazioni
della Guardie d’Onore di Chioggia, di Padova, della
Provincia della
zona nord, sud, ed ovest, dei Colli Euganei. Molti
provenienti da fuori provincia e da fuori regione. Presenti
anche3 numerosi collaboratori di Opinioni Nuove con il
direttore, dott. Patrizia Rossetti.
Ai
partecipanti è giunto anche un messaggio di saluto del
Principe Emanuele Filiberto di Savoia, letto dal Prof.
Sandro Gherro.
Nell’occasione sono stati anche resi noti i prossimi
incontri organizzati dal
Circolo Cavalletto e dalla Rivista OpinioniNuoveNotizie:
Rovigno – in Istria il 22 Novembre
prossimo, dove il prof. Sandro Gherro, che ne ha curato
l’edizione, presentderà, su invito della Locale Comunità degli Italiani, i due volumi degli
“Scritti minori” di William
Klinger, il nostro collaboratore,
studioso fiumano, assassinato tre anni fa a New
York in circostanze non ancora chiarite.
20 Gennaio, ospiti del Circolo Interforze
di Padova, Convegno dibattito sul
“Plebiscito 1866 “, più che mai attuale, in risposta alle
“istigazioni” indipendentiste attuali.
Interverranno la dott. Angela
Maria Alberton, dell’Istituto per
la
storia del Risorgimento, autrice di una recente
pubblicazione in tema: “La Volontà dei Veneti e il
plebiscito 1866” ed il dott.
Giulio de Rénoche (Alberto Cavalletto e il
plebiscito del 1866).
A fine gennaio
è prevista la
presentazione de la
Terza Armata del 4°
Quaderno di OpinioniNuoveNotizie, della collaboratrice del giornale Lisa Bregantin sul tema
“Vivere e morire per l’Italia”.
17
novembre 2017
CIRCOLO DI EDUCAZIONE E
CULTURA POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale
della Capitale”
***
Nel quarantesimo
anniversario della morte del grande invalido,
mutilato della Quarta
Guerra d’Indipendenza,
Carlo Delcroix
Domenica 19 Novembre, ore
10.30
Prof. Pier Franco
Quaglieni
Vice Presidente del
Centro Pannunzio
ricorderà
“Carlo Delcroix : un
patriota che amò disperatamente l’Italia”
Sala Roma, presso
“Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16
(ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)
Catastrofe della scuola pubblica
come rimediare?
di Aldo A. Mola
“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, voialtri invece ne
fate una spelonca di briganti!”. Lo scrissero gli
Evangelisti Matteo (21, 13), Marco e Luca, con identiche
parole. Matteo aggiunse: “Guai a voi scribi e farisei
ipocriti, che siete simili a sepolcri imbiancati: sono belli
all'apparenza, ma dentro sono pieni di ossa di morti e
d'ogni immondezza… di ipocrisia e di iniquità”. È il
ritratto di tante scuole italiane, da decenni alla deriva.
L'ultima seria legge sulla scuola è quella varata nel 1923
da Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione nel
governo di coalizione nazionale in carica dal 31 ottobre
1922, sulla traccia di quella approntata da Benedetto Croce
due anni prima col governo Giolitti. Scuola è disciplina:
studio, preparazione e applicazione, come la Scuola
dell'Esercito all'Arsenale di Torino, comandata del gen.
Claudio Berto. Scuola è educazione dalla ferinità
all'umanità, attraverso lungo tirocinio. È palestra
(ginnasio): il dominio di sé si raggiunge con impegno e
sacrificio.
Nel
1944-1946 furono i “vincitori/liberatori” a imporre in
Italia la “nuova scuola”. Ordinarono persino l'epurazione
dei manuali, ma non poterono sostituire con i loro
“sergenti” presidi e docenti che continuarono la loro
“missione”. Il Sessantottismo perpetuo ha poi portato allo
sfascio attuale, documentato dal bulletto che tira il
cestino dei rifiuti contro la professoressa inerte e
rassegnata in un Istituto intitolato a Galileo Galilei,
genio perseguitato dalla curia pontificia. Presidi (oggi
avvolti nella mantelletta di “dirigenti”, nocchieri di sedi
centrali, staccate e periferiche autocefaliche), docenti
(alla mercé di allievi e genitori spesso spaesati e spaiati)
e personale amministrativo (dalle palpebre quotidianamente
abbassate su circolari inapplicabili) celebrano le esequie
della Scuola pubblica, ancora per alcuni mesi nelle mani di
un ministro immeritevole di menzione.
Dalla
buffa zazzera e dallo sguardo più spiritato che ispirato,
codesta ministro ha l'attenuante: decenni di invenzioni
devianti. Per primo si esibì Giuseppe Bottai, con la “Carta
della Scuola”, tanto celebrata dai “fascisti di sinistra”
poi transitati in partiti accomunati dal mito dei soviet, di
Mao e, perché no?, del socialnazionalismo fatto proprio dal
“socialismo reale”. “Fascista critico”, già Bottai mescolò
la cura degli orti scolastici alla traduzione dal greco e
alla comprensione di un sistema filosofico, come oggi accade
con la fatua alternanza scuola/lavoro: due fantasmi
evanescenti mentre la disoccupazione giovanile non si
schioda dal 36% e i “ni-ni” aumentano.
Lo
sfascio fu accelerato dai famigerati decreti presidenziali
che nel 1974 istituirono i Consigli scolastici elettivi
provinciali, distrettuali e di istituto, dalle elementari
alle superiori, in nome di una parità spacciata per
democrazia. La Scuola non è né può essere “paritaria” né
“democratica”. È trasmissione di cognizioni da chi sa a chi
non conosce. È educazione del discepolo da parte del
maestro. È responsabilità del maggiore verso il minore. Quei
consessi furono la fiera delle vanità. A caccia di chissà
quale popolarità e in vista di non si sa quali mete,
genitori rampanti organizzarono liste elettorali e
stamparono manifesti con le loro faccette per raccattare
preferenze. Altrettanto fecero i figli, mentre il personale
amministrativo-tecnico-ausiliare (Ata: segretari, assistenti
di laboratorio, bidelli) si contese il “posto” riservatogli
dalla legge.
Quell'orgia di scambisti fu sterile, perché le scuole tanto
ricevevano dallo Stato, tanto potevano spendere. Per di più
quei decreti abolirono le benemerite Casse scolastiche che
da un secolo avevano fatto beneficenza vera, con tatto e
discrezione, aiutando chi davvero ne aveva bisogno: ciò che
non fa la Repubblica, che dal suo carrozzone carnevalizio
lancia soldi/bonus come coriandoli o caramelle invecchiate.
Il
resto è sotto gli occhi. Gli esami di maturità hanno
cambiato norme e volto varie volte in pochi anni. Così come
sono non servono a nulla. I “test” per la verifica del
sapere scolastico nazionale sono un rito come le candelore.
L'insieme della pubblica istruzione è un caleidoscopio di
istituti che si barcamenano, scuole in abbandono, classi
allo stato brado, accampate in edifici ancora solidi se
sottratti tempo addietro a monache e a frati, in caserme
dismesse o di anteguerra. Quelli di costruzione recente
spesso paiono usciti da menti obnubilate che o non sono mai
state a scuola o non ne hanno mai capito le necessità
fondamentali. Aule per conferenze e palestre nella
generalità dei complessi scolastici rimangono aspirazione
insoddisfatta.
Così
stando le cose, la scuola pubblica muore. Essa nacque con
l'unificazione nazionale, con ministri quali Pasquale
Villari, Quintino Sella, Michele Coppino, Francesco De
Sanctis, Ferdinando Martini..., quasi tutti massoni con
buona pace dell'altra riva del Tevere che continua a vedere
la Massoneria come “lobby”, quasi i papi non abbiamo mai
maneggiato potere, denaro e altro. Per restituire la Scuola
alla sua identità originaria occorrono tre rimedi: un
ministro serio (una persona colta e competente, come furono
Vittorio Emanuele Orlando e il fossanese Balbino
Giuliano...) in un governo durevole e dal progetto politico
e civile altrettanto serio; il ripristino della sovranità
educativa dei collegi docenti presieduti da persone colte e
competenti, responsabili della formazione scientifica nella
libertà; l'adeguamento delle retribuzioni del personale
scolastico al valore della sua missione., mentre oggi più
che misere sono offensive. Chi forma il cittadino va
remunerato più di chi ne cura gli acciacchi fisici. I
malanni del corpo passano, con la guarigione o con la morte.
Quelli della personalità di adolescenti e di giovani durano
e creano danni irreparabili, come mostra il fanatismo
oscurantista di tutti i culti. Per curarli va letta “La
Porta Magica di Roma, simbolo dell'Alchimia occidentale”
(ed. Olschki) di Mino Gabriele, eccellente candidato al
Premio Acqui Storia 2017.
Diversamente le famiglie hanno il diritto/dovere di
provvedere in proprio alla scolarizzazione dei figli,
trattenendo però dalle tasse quanto allo scopo debbono
spendere per scuole private: un mondo,codesto, sempre
all'anno zero, anche e soprattutto per la colpevole ignavia
della borghesia di recente fortuna, doviziosa per caso,
inconsapevole e incapace di un progetto culturale di lungo
periodo.
È
significativo che nella competizione elettorale in corso in
Sicilia il tema dell'istruzione sia pressoché ignorato.
Accadrà altrettanto alle elezioni politiche nazionali? Nel
frattempo gl'insegnanti vengono mortificati dagli allievi,
da genitori incoscienti e da quella parte di scalcinata
opinione pubblica che si gonfia le gote con chiacchiere su
democrazia e onestà. È la stessa che condannò a morte
Socrate, perché rinfacciava agli ateniesi di non capire che
la classe politica, i “governanti”, deve essere il meglio
della “città”: non espressione di pulsioni tumultose, della
“balda gioventù”, di giocose e oscure “piattaforme”, ma
anziani fatti saggi dalla vita, dallo studio, dalle armi.
Sarà
benemerito chi caccerà i mercanti dal Tempio della Pubblica
istruzione, come fece Gesù appena entrato in Gerusalemme, e
lo restituirà ai suoi sacerdoti: la Scuola ai docenti. Se lo
Stato latita, lo facciano i cittadini, moltiplicando le
scuole private.
(da
Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 5 novembre 2017)
Piero Cenci, “Quando
i giudici non indossavano lo spezzato”, Futura Edizioni,
Perugia, 2017, pp. 207, € 14,00
di
Salvatore Sfrecola
Si legge tutto
d’un fiato questo “diario” di Piero Cenci che ci fa
conoscere, attraverso le sue esperienze di magistrato che
via via assume funzioni sempre più rilevanti sul piano
professionale, una personalità ancorata a valori civili e
spirituali che emergono con straordinaria efficacia di
pagina in pagina, anche quando annota episodi con sottile
ironia, a volte con il rimpianto di non aver potuto fare
quanto avrebbe desiderato, ostacolato da leggi e o da prassi
giudiziarie. Sullo sfondo la quotidianità, l’amore per la
sua famiglia, l’affetto per la diletta Marilena, moglie e
madre dei suoi figli, la “fortuna” della sua vita.
Aveva scelto di
indossare la toga del giudice, l’attività che un tempo con
enfasi certamente sincera era definita “sacerdozio civile”,
come ricorda Giulio Andreotti nella prefazione ad un libro
di Giovanni De Matteo (Vita
a rischio di un magistrato), Procuratore della
Repubblica a Roma, ai tempi del rapimento e dell’uccisione
di Aldo Moro, essendo educato, con la parola e con
l’esempio, dal padre, carabiniere, al senso dello Stato, al
rispetto della legge “con la L maiuscola, senza sofismi e
senza furberie”. E grande era stata, dunque, l’emozione al
suo ingresso in magistratura che rievoca con semplicità e
rara efficacia.
Queste pagine
dovrebbero leggerle tutti i magistrati all’ingresso in
carriera, perché riflettano sul compito
specialissimo che loro è affidato, di
applicare le leggi alle quali “soltanto” sono soggetti, come
specifica l’art. 101 della Costituzione. Un avverbio che ha
una forza straordinaria per affermare, ad un tempo,
l’indipendenza di chi è chiamato a punire i delitti e
definire il diritto nelle controversie tra privati e
l’autonomia della Magistratura, segno distintivo di un
regime politico, la misura di uno stato “di diritto”,
come ci ha insegnato
Montesquieu. Il quale ha anche spiegato che i giudizi devono
essere fissi, “a tal punto da non essere altro che un testo
preciso della legge. Se fossero l’opinione particolare del
giudice, si vivrebbe nella società senza conoscere con
precisione quali impegni vi si contraggono”, quali sono i
diritti e i doveri dei cittadini, quali comportamenti vanno
tenuti e quali omessi. Altrimenti, verrebbero meno la
certezza del diritto e la prevedibilità della sanzione. Per
garantire la pacifica convivenza all’interno della comunità,
ne cives ad arma ruant,
come dicevano i romani, i quali hanno insegnato e continuano
ad insegnare al mondo intero che il diritto è la regola
della pacifica convivenza e la Giustizia il riconoscere a
ciascuno il proprio, come ha scritto Ulpiano (Libro 2,
regularum): Iustitia est
constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.
Piero Cenci aveva scelto di fare il
magistrato nella consapevolezza che sarebbe andato incontro
ad una vita
“inevitabilmente
connotata da sacrifici, solitudine, sofferenza e necessario
isolamento sociale”, come avrebbe sentito dire nel fervorino
del Presidente della Corte d’Appello che
lo aveva ricevuto, insieme ai nuovi uditori, nello studio
austero che occupava nel Palazzo che un tempo era stato il
prestigioso Convento dei Barnabiti, al centro di Perugia,
tra reperti medievali e mobili ottocenteschi. Quarant’anni
dopo, in questo diario, Cenci avrebbe scritto che l’autore
di quella che gli era parsa una
“interminabile
litania” tutto sommato “aveva ragione”. I sacrifici li aveva
fatti e accettati. Del resto, per dirla con Giovanni
Falcone, un uomo o è
un uomo o non lo è.
Si era presentato a quell’appuntamento in
un rigoroso e austero completo
Principe di Galles, avendo dovuto a malincuore
rinunciare all’elegante spezzato
del quale andava
fiero, da cui il titolo del libro. Il Presidente del
Tribunale aveva sentenziato, con fare garbato ma fermo, che
lo “spezzato” non si addiceva al decoro di un magistrato.
Quel completo lo avrebbe accompagnato nel corso del suo
uditorato.
Il libro
ripercorre, quasi giorno dopo giorno, le molteplici attività
alle quali Piero Cenci è stato assegnato nel corso della sua
carriera, le emozioni del giovane uditore, la palestra della
Camera di consiglio, dove s’impara “il
mestiere…nell’angosciosa ricerca della verità”, il peso dei
carichi di lavoro esorbitanti, i fascicoli “più rognosi e
vetusti”, rifilati ai giovani “freschi di studi e bravi”.
Una consuetudine da sempre, ovunque.
Poi le
soddisfazioni del pretore, il “più giovane d’Italia”, come
aveva scritto Il Resto del Carlino all’atto del suo insediamento. Il Pretore,
quella figura antica e possente che nella realtà locale
rappresentava un riferimento forte per il cittadino, vicina
e autorevole perché il capo di quell’ufficio conosceva
persone e cose, soprattutto nelle piccole realtà. Il
Pretore, soppresso dall’improvvida riforma del processo del
1998 da un Parlamento “disinformato quanto ideologizzato”,
da quel Legislatore che “sarebbe opportuno che qualche volta
esca dal palazzo e si confronti con la realtà”. Quel Pretore
che “incarnava la giustizia, mediava e risolveva i
contrasti, espletava in delega funzioni del Tribunale e
della Procura della Repubblica”. La sua eliminazione
travolgeva con sé il carcere mandamentale, “un istituto
utile per decongestionare le case circondariali e contenere
il piccolo delinquente in una realtà il più delle volte
autenticamente risocializzante”. Un passaggio che sottolinea
la grande umanità di Piero Cenci che sarebbe stata esaltata
nel successivo ruolo, difficile e delicato, presso il
Tribunale dei minorenni.
In questo senso
il Pretore era anche un osservatorio prezioso della vita
locale e Cenci ce lo ricorda tra episodi esilaranti e
grotteschi, e ci fa intendere come un magistrato di grande
preparazione professionale, se assistito da una profonda
umanità, possa, come lui ha fatto, riuscire a trattare i
rapporti spesso difficili tra le persone cercando di
favorire ragionevoli ricomposizioni al di là di contrasti
economici o caratteriali. Come quando si occupò di divorzi,
cercando di superare difficoltà psicologiche spesso ancorate
a ragioni le più varie, nel tentativo di portare pace tra le
coppie. Ciò che era possibile in una piccola sede, meno in
un grande tribunale, non tanto per il numero delle cause
iscritte a ruolo quanto per l’anonimato che nelle grandi
città circonda le persone che il giudice non conosce. E
s’imbatte anche nei divorzi “programmati”, quelli tra un
vecchietto, spesso tratto da un ospizio nel quale era stato
parcheggiato, e la giovane, di solito proveniente dall’Est
europeo. Non si erano mai conosciuti, e non solamente in
senso biblico ovviamente, altro che in tribunale nel corso
di un’udienza necessariamente breve perché ogni tentativo di
conciliazione non era prevedibile.
Poi il tirocinio
presso la Procura della Repubblica, costellato di episodi
che il lettore apprezzerà anche per il garbo e l’ironia con
il quale vengono narrati, come nel caso di una presunta
violenza carnale che, nella narrazione della “vittima”,
sarebbe avvenuta di giorno, in pieno centro, e fin qui nulla
di strano. Ma confusa nella descrizione dell’aggressione, da
parte di un uomo che, mentre con una mano le tappava la
bocca, con l’altra le serrava i polsi, e con un’altra le
sollevava la gonna. Fu evidente che, mancando la prova che
il presunto stupratore fosse figlio della Dea Kalì, la
vicenda apparve subito poco verosimile, pur tenendo conto
della concitazione del racconto e l’orrore del fatto in sé.
E poi c’è Piero
Cenci nella sua esperienza di magistrato presso il tribunale
dei minorenni, Procuratore della Repubblica e poi
Presidente, testimone di sofferenze grandissime, delle
famiglie, dei giovani, non di rado vittime di abusi,
violenze e sopraffazioni, e il suo sentirsi impegnato a
trovare per tutti una condizione di vita possibile, aperta
al futuro, a prospettive di soddisfazione di soggetti spesso
ai margini della società, ai quali desiderava restituire
l’umanità smarrita, non solo per i minori in stato di
abbandono. Il dolore delle adozioni internazionali, la
difficoltà di decidere quando intervenivano fattori diversi,
in presenza di donne africane o sudamericane dai rapporti
difficili con il “compagno” italiano, a quelle spesso dedite
alla prostituzione, un “lavoro” difficilmente conciliabile
con la cura degli adempimenti materni.
C’è anche lo
spazio per le vicende emerse nell’ambito di famiglie
musulmane, di madri segregate, considerate oggetti in una
cultura millenaria lontana dalla nostra, dai valori della
società che attraverso il diritto romano e l’insegnamento
cristiano ha messo al centro la persona.
Anche il
capitolo dei rapporti con i colleghi, con le loro diversità
caratteriali sono di grande interesse. Cenci mette in
risalto soprattutto l’ironia, in particolare dei partenopei,
impegnati spesso a sdrammatizzare, perché il dolore sotteso
ad alcune cause non si trasformasse nei giudici in una
ansiosa partecipazione, al di là del desiderio di applicare
la legge nel modo più consono per gli interessi generali e
delle persone. Nel contesto professionale c’è spazio per
l’attenzione riservata al confronto delle idee e delle
prassi operative maturato anche nei corsi di aggiornamento
organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura e nei
convegni di studio ai quali ha partecipato.
Ho conosciuto
Piero Cenci nei primi anni 90 quando il mio ufficio di
Procuratore Regionale della Corte dei conti per l’Umbria
aveva sede nello stesso immobile, pur in una diversa ala,
che ospitava anche il Tribunale dei minorenni. Eravamo
accomunati dagli orari, spesso prolungati fino a serata
inoltrata. Nel corso della giornata a volte approfittavamo
di una pausa caffè, tra una udienza ed un interrogatorio (da
noi si chiama audizione), per confrontare le nostre diverse
esperienze e per scambiarci qualche impressione sui concerti
del Conservatorio di Perugia, nell’aula magna dell’Istituto
o al Teatro Morlacchi, dei quali eravamo assidui
frequentatori. Favoriva la nostra amicizia anche questo
idem sentire per
la musica, da entrambi ritenuta espressione altissima di
un’arte straordinaria capace come poche di arricchire
l’umanità delle persone e di rasserenarle sulle note di
Mozart e Beethoven e dei grandi compositori italiani, da
Verdi a Puccini, a Rossini. Ce li presentava il maestro
Giuliano Silveri, Direttore del Conservatorio, attraverso le
pregevolissime
performance dei suoi giovani allievi e dei più esperti
docenti. In quelle occasioni lo accompagnava Marilena.
Conobbi anche i suoi figli, soprattutto Daniele che ne
avrebbe ereditato la toga, un’emozione straordinaria che ci
accomuna, perché anch’io ho indossato per anni la toga di
mio padre, magistrato della Corte dei conti.
In questo libro
è Piero Cenci, con la sua umanità, il suo carattere di uomo
sobrio, come appare dalla prosa, dal gusto per l’aneddoto,
per ricordare ma anche per far riflettere tutti sul ruolo,
difficile e impegnativo di chi ha scelto la professione del
giudice con tutte le difficoltà proprie delle decisioni che
è chiamato ad adottare. Perché a quell’uomo che pronuncia
“in nome del Popolo Italiano” si chiede di essere
indipendente ma anche di apparire tale, come lo vogliono i
cittadini. Incurante di una certa impopolarità che
naturalmente accompagna chi commina sanzioni e dirime
diritti, per l’ovvia considerazione che colui che le subisce
o chi non si vede riconosciuta una posizione giuridica che
riteneva di poter pretendere, quasi mai “ci sta”.
Di Piero Cenci
si potrebbe ripetere con le parole di San Paolo (Seconda
lettera a Timoteo, 4,7)
Bonum certamen
certavi, cursum consummavi, fidem servavi.
8 novembre 2017
P.S. Il libro è stato presentato ieri pomeriggio in una gremitissima
Sala dei Notari nel corso di un evento patrocinato dal
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dal Comune di
Perugia, da me, quale autore di una delle prefazioni,
insieme a Monsignor Fausto Sciurpa, Presidente del Capitolo
della Cattedrale di Perugia, al Prof. Luigi Ferrajoli,
Emerito di Filosofia del diritto presso l’Università di Roma
Tre, all’avv. Maria Giovanna Ruo, Presidente di CamMiNo,
Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia ed i Minorenni ed
all’Editore Fabio Versiglioni. Saluti sono stati portati ai
convenuti dall’Avv. Andrea Romizzi, Sindaco di Perugia, da
S.E il Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia
e dall’avv. Gianluca Calvieri, Presidente dell’Ordine degli
Avvocati.
Ha concluso il
dottor Daniele Cenci, Consigliere della Corte di Cassazione,
figlio del Presidente Cenci.
L’Italia verrà presa
sul serio
solo continuando a
restare unita
Le richieste
autonomiste sono giuste,
ma se ci dividiamo
diventeremo l’anello debole d’Europa
di
Salvatore Sfrecola
L’anello
“debole” dell’Europa rischia di diventare debolissimo.
L’Italia, cui spesso è associato quell’aggettivo per
indicare soprattutto la scarsa incisività della politica
nazionale nel contesto europeo e l’insufficienza del PIL,
appare ancor più precaria, alla vigilia di elezioni che
potrebbero aprire una stagione di incertezze per la
difficoltà di produrre una maggioranza forte e coesa. Si
rafforzano le ipotesi di accordi strumentali alla conquista
del potere con finalità di tutela di interessi non
esplicitati agli elettori. “Inciuci”, nella migliore delle
ipotesi, anche per evitare una stagione “alla spagnola”, con
ripetute consultazioni alla ricerca di una maggioranza
sempre sfiorata, per cui il governo di
Mariano Rajoy si
regge sull’astensione del Partito socialista. Di maggioranze
impossibili si sente dire nel contesto tripolare in cui
centrodestra, PD e M5S nei sondaggi sostanzialmente
condividono percentuali simili.
Ma questa è
anche la stagione dell’insufficienza di identità nazionale,
componente essenziale della forza morale e politica di un
popolo che si sente tale proprio perché nazione. Anche nella
patria dei mille campanili, che richiamano storie diverse
dal Nord al Sud ed all’interno di quelle aree. Se si pensa
ai “convenuti dal monte e dal piano…
cittadini di venti
città” che si ritrovarono a Pontida per schierarsi in difesa
della autonomia dei loro Comuni contro
Federico I, il
Barbarossa, all’esperienza dei comuni toscani o alle “città
libere” della Puglia. Mentre altrove, dinastie locali non
guardavano oltre l’orizzonte pur di mantenere il potere si
facevano vassalle di potenze straniere, dalla Francia
all’Austria alla Spagna, nella assoluta indifferenza dei
popoli. Per cui il noto adagio “Franza o Spagna purché se
magna”.
Eppure, ad oltre
150 anni dall’unità, insorgono a minarne le fondamenta ed il
futuro polemiche localistiche, dalla contestazione dei
plebisciti che decretarono le annessioni al Regno d’Italia,
al riconteggio dei “sì” all’annessione, dimenticando che il
senso della Patria seguiva il pensiero di pochi
intellettuali. Tra i primi i cattolici, da
Vincenzo Gioberti
ad Antonio Rosmini,
e i laici come il genovese
Giuseppe Mazzini,
il lombardo Carlo
Cattaneo e il siciliano
Francesco Ferrara
esule in Piemonte. E poi
Camillo Benso
Conte di Cavour,
Massimo d’Azeglio,
Luigi Carlo Farini,
dalmata, un elenco infinito di cuori e di intelligenze che
da ogni parte d’Italia, come il “grido di dolore” che
percepiva Vittorio
Emanuele II, si levarono a propugnare l’unità.
Cosa non ha
funzionato se c’è chi rivendica la propria storia, la
propria cultura, le proprie tradizioni? Fa bene a farlo:
questa è la nostra ricchezza. Ma perché demonizzare l’unità
cambiando i nomi a strade e piazze, eliminando statue? Per
alimentare divisioni che minano la coesione e l’immagine del
Paese e la capacità di essere patria comune dalle Alpi al
Lilibeo nell’Europa che tante patrie vuole rappresentare
consapevole delle comuni radici che la
Convenzione europea,
chiamata a scrivere la prima Costituzione, non ha voluto
incastonare nel preambolo, e definire “cristiane”.
Nonostante la consapevolezza diffusa che quelle radici, nate
sulle sponde del mar Egeo alimentate dal diritto di Roma,
hanno permeato l’Europa.
Cosa non ha
funzionato? Certo tanto, molto in una Repubblica che nella
Carta “riconosce e promuove le autonomie locali” ma non
riesce a dare corpo al principio di responsabilità che
esalta la politica nelle periferie operose, senza che venga
meno la solidarietà per le aree svantaggiate in forme
assistenzialistiche. Autonomia, dunque, e responsabilità
verso la comunità locale e nazionale. In forza di un nuovo
modo di governare, di un nuovo patto tra gli italiani. Ed
allora ecco che
Vittorio Sgarbi e
Giulio Tremonti parlano di nuovo risorgimento, e
Matteo Salvini scende al Sud per una Lega che vuol
essere “nazionale” porti ovunque le esperienze virtuose
delle aree più ricche del Paese. Un nuovo risorgimento
perché siamo in tanti a sentire fastidio nella definizione
di “anello debole” e non risorsa preziosa dell’Europa
attribuita all’Italia, che vorremmo porta aperta
sull’Oriente come avevano immaginato uomini di pensiero ed
azione, da Federico II, che alle soglie del Medio Evo immaginò rapporti
diplomatici e commerciali con quei mondi ma con assoluta
fermezza nella difesa dell’identità, a
Cavour che volle
unificare l’Italia per renderla prospera e protesa verso
l’Europa e l’Oriente.
(da
La Verità dell’1 novembre 2017, pagina 15)
CIRCOLO DI EDUCAZIONE
E CULTURA POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
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Inaugurazione 70° ciclo conferenze 2017-2018
Domenica 5 Novembre, ore 10.30
Sen. Prof. Domenico Fisichella
relatore sul tema
“Europa, Italia, sovranità”
Sala Italia, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso
con ascensore)
Su Caporetto gli storici si dividono
da 100 anni
La battaglia cosiddetta di Caporetto è stata oggetto nel corso
del tempo di interpretazioni diverse. Ed ancora oggi non si
rinvengono valutazioni univoche dei fatti e degli antefatti,
intendendo con questa parola la conduzione della guerra nel
corso dei mesi e degli anni precedenti. Una guerra “nuova”,
combattuta con strategie e tattiche diverse rispetto a
quelle del Risorgimento e soprattutto con armi nuove. Basti
pensare all’uso della mitragliatrice che ha modificato in
misura significativa il modo di combattere, come dimostra il
famoso film di Stanley Kubrick “Orizzonti di gloria”. Ma
come sapevamo dalla guerra di secessione americana di oltre
cinquant’anni prima.
Tra le tante questioni oggetto di riflessioni la cultura militare
dei nostri generali e la mancanza di coordinamento, peraltro
già vista in altre battaglie e in altre guerre. Da evitare,
in ogni caso, la difesa ad oltranza per “amore della Patria”
di comportanti a dir poco inadeguati e la denigrazione delle
forze armate e dei suoi comandanti consueta a certi ambienti
“politici”, riversati anche in opere di carattere storico.
Sbagliano gli uni, sbagliano gli altri.
Personalmente ritengo che sia sempre necessario sottoporre a
rigorosa verifica fatti controversi perché se ci sono stati
errori non si ripetano. Perché è sempre necessario
approfondire i fatti per correggere eventuali disfunzioni,
soprattutto quando riguardano aspetti del funzionamento
delle istituzioni, come quelle che presiedono alla sicurezza
nazionale e alla tutela degli interessi di una Nazione. I
grandi stati hanno sempre fatto così. Sugli eventi di
Caporetto ci fu una specifica commissione d’inchiesta come
sulle spese militari che rivelò, come aveva denunciato
Giovanni Giolitti, corruzione e sprechi. Ho intitolato un
mio articolo “Non solo eroi ma anche corrotti e corruttori”.
Niente di nuovo, dunque, sotto il sole. Allora e dopo.
Pubblico, pertanto, volentieri lo scritto del Professore Aldo M.
Mola, editoriale de Il
Giornale del Piemonte e della Liguria, di oggi 22
ottobre 2017, un contributo che sicuramente i nostri lettori
avranno modo di apprezzare.
Salvatore Sfrecola
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