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UnSognoItaliano.it

 

 

NOVEMBRE 2017

 

Se critichi i magistrati scatta l’applauso

di Salvatore Sfrecola

In ogni riunione politica se vuoi gli applausi a scena aperta devi parlare male di giudici e pubblici ministeri. E siccome nessuno è immune dal fascino adrenalinico del consenso sottolineato da una fragorosa battuta di mano, come sanno bene gli artisti, dai palchi della politica arrivano sovente bordate contro i magistrati, anzi il “partito dei magistrati”, detentori di un potere privo di ogni investitura popolare. Nel senso che né i giudici né i procuratori sono eletti dai cittadini. Altro argomento ricorrente, soprattutto quando a polemizzare sono esponenti della Lega Nord. Che vorrebbero giudici eletti dal popolo, con la conseguenza di vedere aspiranti magistrati non più “soggetti soltanto alla legge”, come si legge nell’art. 101 della Costituzione, ma all’elettore, se vogliono essere al prossimo giro rieletti. Un’infamia che si commenta da sola.

Al gusto dell’applauso facile non si è sottratto neppure Vittorio Sgarbi che con Giulio Tremonti gira l’Italia per far conoscere “Rinascimento” il libro che pubblicizza un movimento culturale che è anche un soggetto politico, intenzionato a presentarsi alle elezioni regionali e politiche. Così ieri sera, in un Auditorium della Conciliazione pieno più di quanto si potesse prevedere, l’Assemblea organizzativa del movimento ha ascoltato un profluvio di accuse alla magistratura secondo un copione già noto, che parte dalla affermazione che pubblici ministeri e giudici indagando su tangenti varie, hanno fatto fuori nei primi anni ’90, un’intera classe politica inquisendo o condannando esponenti illustri della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista Italiano, del Partito Liberale e del Partito Repubblicano, sfiorando appena il Partito Comunista. E così, quanti applaudivano ad ogni arresto di politici o godevano dinanzi al televisore al vedere la bava al lato della bocca di Arnaldo Forlani incalzato da un implacabile Antonio Di Pietro, oggi applaudono a Sgarbi che sull’ex P.M. ha riversato una serie incredibile di accuse. D’altra parte la mutevolezza dell’opinione pubblica è una condizione diffusa, diffusissima in Italia dove un popolo di fascisti si è scoperto “da sempre” antifascista, ma solo all’indomani del 25 luglio 1943 e alla destituzione di Benito Mussolini da parte del Re Vittorio Emanuele III.

Vediamo di mettere ordine nelle idee. Intanto era “storicamente certo” che quella stagione di condanne di esponenti politici e amministrativi di partiti aveva preso le mosse da accertati illeciti in forma di tangenti pagate da imprenditori che cercavano scorciatoie per ottenere un appalto che una gara non avrebbe loro consentito di conquistare. La via della scorciatoia aveva un pedaggio che si chiama tangente, in un sistema nel quale le imprese da sempre hanno dominato nella spartizione dei lavori utilizzando la tecnica dell’offerta economicamente più vantaggiosa per spartirsi il mercato. Più imprese partecipano alla gara, una fa l’offerta minore (più vantaggiosa) le altre sparano un prezzo che non le rende competitive. Naturalmente alla prossima gara s’invertono le parti. E quelle che restano fuori spesso sono compensate dall’aggiudicataria con subappalti o altre compartecipazioni.

Questo accade ovunque da sempre, con la complicità o meno dell’uccellino che all’orecchio di chi deve vincere suggerisce la cifra da proporre. Accade sempre, ancora oggi. Ma nei mitici anni ’90 era qualche uccellino di partito a suggerire la cifra da offrire per vincere. Un suggerimento ovviamente non gratuito perché in qualche modo dovevano essere sostenuti i “costi della politica”: per pagare gli apparati, le sezioni (affitto, segretario, luce e riscaldamento), le spese delle manifestazioni culturali, dei giornali e giornalini dei partiti e delle correnti, quelli, per intenderci, che nessuno legge, neppure quelli che vi scrivono. Per avere un’idea quasi tutti gli esponenti politici della Prima Repubblica, a leggere il loro curriculum sul sito della Camera o del Senato, anche quando privi di altra professionalità perché arruolati in politica fin da piccoli, si qualificano giornalisti. Nessuno di loro ha mai scritto sul Corriere della Sera, su Repubblica o Il Tempo, al più su Il Popolo o L’Unità, finché questi due giornali erano pagati da DC e PCI.

Una classe politica corrotta, dunque, anche quando formalmente ispirata a nobili ideali, come rappresentati nelle denominazioni di cristiana, socialista, liberale e via discorrendo. Nessuna giustificazione, dunque, e se qualcuno può sostenere che dopo quei partiti c’è stato un degrado della politica è proprio per loro responsabilità perché non avevano formato una classe dirigente che non fosse dedita alla mazzetta e non gestisse il potere per fini di parte, finiti i De Gasperi ed i Fanfani che nel dopoguerra avevano operato con responsabilità favorendo quella ripresa economica nella quale, anche in presenza di una classe imprenditoriale rapace, si è innestata la corsa ad una corruzione diffusa, “pulviscolare”, come ha scritto l’ex Presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino, che ha fatto uscire dal mercato le imprese sane per favorire, coperti dalla politica, imprenditori senza scrupoli che ci hanno consegnato opere realizzate spesso con gravissima trascuratezza delle prescrizioni contrattuali e con significativi difetti tecnici che le hanno presto condannate ad un degrado che è sotto gli occhi di tutti. Complici, in questi casi, anche collaudatori scelti dai partiti tra amici e amici degli amici. E, poi, le opere incompiute, che spesso ci denuncia “striscia la notizia”, non sono forse un danno alla comunità prodotto a seguito di opere finanziate ma non entrate in esercizio.

La magistratura, dunque, ha “fatto fuori” una classe politica di corrotti e spesso di incapaci. Purtroppo non sostituiti da una classe nuova, di onesti e capaci.

29 novembre 2017

 

La candidatura di Leonardo Gallitelli

già Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri

E Berlusconi mise in campo il Generalissimo

di Salvatore Sfrecola

 

E Berlusconi lanciò la candidatura di Leonardo Gallitelli a Presidente del Consiglio. Per molti anni Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri il Generalissimo, come lo definisce La Verità, esce dal cilindro dell’ex Cavaliere in un momento cruciale della fase iniziale della campagna elettorale, quando Matteo Renzi tenta di recuperare i consensi che ha perduto via via nel corso delle elezioni successive alle europee, logorato dall’esito del referendum del 4 dicembre 2016 e dalle successive competizioni amministrative, quando nella rossa Romagna ha votato solamente il 37 per cento degli elettori ed in Sicilia il Partito Democratico è giunto solamente terzo. Una graduatoria che inutilmente ha cercato di ribaltare alla Leopolda.

La battaglia elettorale si riscalda e chi meglio di un Generale famoso, si è chiesto Berlusconi, per guidare un Centrodestra dove La Lega, anche nella versione “sudista” di NoiConSalvini sgomita e minaccia di superare ForzaItalia con la conseguenza che, in caso di vittoria, Matteo Salvini pretenderebbe legittimamente di varcare il portone di Palazzo Chigi. Magari con l’appoggio di Rinascimento, la lista di Sgarbi e Tremonti che va raccogliendo consensi in giro per l’Italia, a Sud con Raffaele Fitto ed a Nord con Enrico Costa.

L’idea è anche quella di rispondere alla richiesta di sicurezza che proviene dalla gente, preoccupata per l’immigrazione incontrollata che rende praticamente immuni da ogni responsabilità uomini provenienti da ogni parte del mondo, non identificati al loro ingresso in Italia e, pertanto, non facilmente perseguibili per i delitti compiuti. In particolare per le aggressioni, delle quali si sente dire soprattutto a Nord, a cose e a persone, situazioni che dominano la percezione di insicurezza di molti italiani.

Mentre si ha la diffusa impressione che per motivi politici e di difficoltà delle Forze di Polizia l’ordine pubblico non sia garantito come si vorrebbe la candidatura del Generale Gallitelli, uomo di esperienza provata, per molti anni al vertice dell’Arma che riscuote da sempre la stima degli italiani, è indubbiamente una iniziativa che richiama l’attenzione sul partito di Berlusconi. Il quale nello stesso tempo marca la distanza dall’alleato Salvini del quale apprezza senz’altro l’impegno politico che ha portato la Lega a conquistare ampi consensi ma del quale teme l’effetto sui moderati, i quali potrebbero non gradire alcune performance dell’esuberante leader dalla ruspa facile.

L’evoluzione della campagna elettorale ci dirà che il nome di Gallitelli è stato lanciato nel dibattito politico come un ballon d’essais o è una proposta effettiva. Intanto un effetto lo ha indubbiamente avuto, quello di rilanciare in grande stile il tema della sicurezza, che Berlusconi da fine interprete dei sentimenti degli italiani ha percepito, anche per effetto dell’incremento dei voti della Lega. E conferma quello che il leader di Forza Italia va ripetendo da qualche tempo in ordine alla ipotesi di un governo di 20 ministri nel quale, accanto a dei tecnici, ci siano anche ben 12 esponenti della “società civile”. Guidati da un tecnico, come va definito Gallitelli.

A questo punto qualche breve riflessione s’impone. I tecnici, anche quando di grande valore, non sempre hanno fatto bene in politica. Anche di Mario Monti si è detto che la sua esperienza e la sua contiguità professionale con alcuni “poteri forti”, che avrebbe potuto favorire la sua azione di governo, in realtà non ha prodotto gli effetti positivi che ci si attendeva. Anche se va detto che il tempo che ha avuto a disposizione non è stato molto ed ha dovuto tamponare a destra e a manca una serie di falle di natura finanziaria che minacciavano l’economia del Paese.

Devo dire, peraltro, che in generale i tecnici non sempre hanno una visione politica adeguata alle esigenze, quella percezione che va al di là del contingente, del bilancio di esercizio, per dirla in termini contabili, e di quelli immediatamente successivi. La politica è la scienza del possibile in rapporto alle esigenze autentiche della comunità e delle prospettive nelle quali si pone nel tempo, nei decenni a venire. Si pensi solamente alle esigenze delle famiglie, dell’industria e dei commerci che sono funzionali all’occupazione e, quindi, ai consumi, alla scuola, che deve formare negli anni cittadini e professionisti, al sistema di tutela delle infrastrutture e dell’assetto idrogeologico di un Paese ad alto rischio sismico e non solo, perché qui esondano fiumi e laghi, franano tratti di monti e colline.

Per andare a cercare una visione prospettica delle esigenze di un popolo, anche di quelle che concretamente questa generazione non percepisce, si deve tornare indietro negli anni, lungo una storia nella quale pochi sono i politici che possiamo definire statisti, da contare sulle dita di una mano, senza impegnarle tutte. E si chiamano Camillo Benso di Cavour, Giovanni Giolitti, Alcide De Gasperi e Amintore Fanfani. L’ultimo è morto anni fa e non ha lasciato eredi.

28 novembre 2017

 

 

Per aiutare i disabili rendiamo deducibili i salari delle badanti

di Salvatore Sfrecola

 

Nelle polemiche sull’immigrazione, a quanti chiedono regole certe e numeri compatibili con le condizioni sociali e di lavoro del nostro Paese, si sente spesso richiamare il ruolo delle badanti “che pensano alle nostre mamme e alle nostre nonne”. Giusto, verissimo, ne abbiamo tutti consapevolezza e ne sentiamo l’importanza in una società che invecchia grazie alle migliori condizioni di vita e di assistenza sanitaria. Badanti, donne e uomini provenienti da lontano, molto spesso pagati in nero perché la legislazione tributaria non consente la deducibilità dei relativi oneri se non in misura assolutamente inadeguata rispetto all’ammontare delle spese che le persone sostengono per questi ausili personali indispensabili: la paga, le spese di mantenimento ed i relativi contributi previdenziali. Il Testo unico delle imposte sui redditi consente, infatti, di dedurre dal reddito complessivo (art. 10, comma 1, lettera b) le spese “necessarie nei casi di grave o permanente invalidità o menomazione, sostenute dai soggetti indicati nell’articolo 3 della legge 5/2/1992, n. 104”. Si tratta di persone che presentano “una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva”, con la precisazione (comma 3) che, “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”.

Letta così sembra una deduzione totale o, quanto meno, significativa degli oneri concretamente sostenuti della persona handicappata o dalla sua famiglia. Niente affatto, perché andando a leggere l’art. 15, comma 1, si scopre che “dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 19% dei seguenti oneri sostenuti dal contribuente” che al comma 1-septies così sono specificati: “le spese, per un importo non superiore a € 2.100, sostenute per gli addetti all’assistenza personale nei casi di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana, se il reddito complessivo non supera € 40.000”. Il 19% di € 2.100 è pari ad € 399! Una presa in giro.

Quanto agli “oneri versati per gli addetti ai servizi domestici e all’assistenza personale o familiare” (i contributi INPS per la badante) sono deducibili “fino all’importo di € 1.549,37” (comma 2 del citato articolo 10).

Fatti due conti si comprende come lo Stato non abbia alcuna considerazione per le persone affette da gravi menomazioni, come indicate nell’art. 3 della legge 104/1992. Infatti gli oneri per la badante con regolare contratto di lavoro sono consistenti e tali da incidere, come scrive Francesco Tesauro a proposito della ragione delle deduzioni, “sulla capacità contributiva” del soggetto d’imposta: la remunerazione, senza considerare vitto e alloggio, non è inferiore a 1000 euro, cui si aggiungono i contributi da versare all’INPS ad ogni quadrimestre per oltre 700 euro. E siccome la badante ha diritto al riposo settimanale, la domenica ed un pomeriggio libero, il “badato” deve attrezzarsi con altra persona che l’assista in quelle ore per una somma che non è mai inferiore a 6-700 euro, cui si aggiungono i contributi intorno a 400 euro. È facile tirare le somme: parliamo di oltre 15 mila euro cui vanno aggiunte oltre 10 mila euro per la sostituta della badante. In queste somme sono comprese le ferie ma non la sostituta della badante in vacanza per un altro migliaio di euro. In tutto intorno a 25 mila euro esclusi gli oneri per vitto e alloggio. E tenuto conto che parliamo di redditi inferiori a 40 mila euro. Per cui se ne va più della metà.

Sono cifre che attestano di una grave ingiustizia sociale. Perché oneri di questo genere impongono alle famiglie significativi sacrifici, rinunce, alienazioni di beni per far fronte alle spese. E quando è una persona di famiglia che si dà carico dell’invalido chi assume questo impegno deve rinunciare in tutto o in parte al proprio lavoro.

Un tema di giustizia sociale, dunque, che è anche un problema di giustizia fiscale, perché nelle attuali condizioni il mancato aiuto del fisco incentiva il lavoro “nero”, con evasione, in primo luogo, degli oneri contributivi, alla faccia di coloro i quali sostengono che gli immigrati, quindi anche le badanti, pagheranno le nostre pensioni. Ma se non pagano tasse e per loro non sono versati contributi? Non riceveranno la pensione e certamente non pagheranno le nostre.

Un problema non di poco conto che, in un Paese nel quale l’Agenzia delle entrate certifica molte decine di miliardi annui di imposte evase, non è tollerabile. Ed accende un faro su altre situazioni: quella del classico idraulico che non rilascia ricevuta, come il falegname che ripara la porta o il fabbro che sostituisce la serratura o lavora alla ringhiera del balcone. Ricevute che nessuno chiede perché non saprebbe che farne. Quante volte ci siamo sentiti rivolgere la domanda “con ricevuta o senza, perché se vuole la ricevuta devo aggiungere l’IVA”? E 90 su 100 si paga senza ricevuta per pagare meno. Perché inevitabilmente aumenta anche lo stesso costo della prestazione. È il problema del nostro sistema fiscale che, diversamente da altri, più civili, consente limitate deduzioni e detrazioni con effetto disincentivante del rispetto delle regole e con conseguente incentivo all’evasione.

Il fisco dovrebbe considerare che colui il quale si serve di un badante è un datore di lavoro il cui reddito è ridotto da spese non voluttuarie o facoltative ma necessitate dall’esigenza di essere assistito nelle attività fondamentali della vita. Contestualmente riducendo gli oneri che la comunità sosterrebbe se la persona dovesse essere assistita in una struttura pubblica. Pertanto è del tutto evidente che anche questo tipo di “datore di lavoro” dovrebbe poter dedurre, in sede di dichiarazione dei redditi, la somma corrisposta al lavoratore e gli oneri previdenziali. D’altra parte le somme corrisposte per le esigenze della badante sono trasferite al lavoratore, con l’effetto di essere oggetto di una doppia tassazione, prima quale reddito del “badato”, poi del “badante”.

Consentire l’integrale deduzione delle spese di assistenza, oltre ad essere giusto di per sé farebbe emergere quel consistente sommerso che l’impossibilità di una deduzione naturalmente alimenta. Come nel caso delle collaborazioni domestiche per le quali, anche quando con regolare contratto di lavoro, spesso sono indicate prestazioni in misura nettamente inferiore a quella effettiva. Per pagare meno contributi.

Giustizia, dunque, ma anche chiarezza, fondamentale in uno stato di diritto. E se vogliamo richiamare uno slogan comune a tutte le parti politiche, è evidente che se pagano tutti, tutti pagano di meno.

(da La Verità del 25 novembre 2017, pagina 11)

 

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

***

Su Caporetto si è scritto molto. Libri ed articoli hanno illustrato con ricchezza di particolari documenti, grafici, schieramento e composizione delle truppe. Ma c’ è qualcosa di più e su questo tema parlerà

domenica 26 Novembre, ore 10.30

l’ Ambasciatore d’ Italia

Dr. Roberto Falaschi: “Caporetto in una diversa prospettiva”

Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,

via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)

raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed autobus, “ 910” ,” 223” e “ 52”

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Ingresso libero

 

 

Legalità tradita

Le scuole occupate sono un danno

Che va fatto pagare alle famiglie

di Salvatore Sfrecola

 

Se non fosse stato per il video hard diffuso tramite WhatsApp sulle performances sessuali di due studenti del liceo Virgilio di Roma a destare l’attenzione pruriginosa del pubblico giornalistico e televisivo, nessuno avrebbe rilevato che quell’antico e prestigioso istituto romano, del quale si è detto spesso per la bravura di professori e presidi, era stato occupato. E in “regime” di occupazione era avvenuto il fatto boccaccesco. Così, mentre giornali e televisioni ospitano sociologi e pedagogisti per dire di quel che muove certi comportamenti, che non sono evidentemente nuovi se non nella compiaciuta esibizione alla presenza di estranei e nella diffusione delle immagini attraverso i social, a dire dello svilimento dei sentimenti e del sesso, nessuno parla dell’occupazione, anch’esso fatto non nuovo e, come di consueto, tollerato. Perché in quella scuola che, a seguito dell’occupazione è diventata una “piazza aperta”, come l’ha qualificata un professore intervistato da TG Cronache de La7, nessuno ha cercato di ristabilire il rispetto della legge. Neppure la Polizia “che sa ma non interviene”. Dichiarazioni rese mentre la telecamera indugiava impietosamente su un portone imbrattato fino all’inverosimile, come le pareti laterali.

Sennonché, a dirla tutta ed a collocarla nel contesto giuridico cui appartiene, l’occupazione costituisce un illecito dai molteplici profili, penali e di danno erariale, perché interrompe l’esercizio di una funzione pubblica ed impedisce la libera fruizione del servizio scuola per quanti intendessero seguire comunque le lezioni. Sottrae un bene dello Stato destinato all’esercizio di una attività, l’insegnamento, che grava sul bilancio pubblico, cioè sulle tasche di tutti, anche dei genitori degli occupanti.

È evidente che gli studenti possono disertare le aule, quel che un tempo si diceva marinare la scuola. Ci saranno conseguenze sul piano disciplinare? È previsto, quando l’assenza ingiustificata si protrae per un certo periodo rispetto alla durata legale dell’anno scolastico, che vi siano delle conseguenze sul piano dell’esito finale.

L’occupazione, come intuitivo, è contraria a regole elementari. Al di là dei danni che essa può provocare, come l’esperienza insegna, all’edificio scolastico ed ai suoi arredi, e con l’utilizzazione impropria di strutture informatiche e con aggravio dei costi di gestione delle utenze, l’occupazione costituisce essa stessa quello che si definisce un “pregiudizio erariale”, cioè un danno al bilancio pubblico.

Chi ne è responsabile sul piano giuridico? La questione è delicata. Si può ritenere illecita la mancata, ingiustificata partecipazione alle lezioni? È possibile ritenere che, diversamente da quanto avviene nel lavoro dipendente, dove lo sciopero è un diritto fondamentale con il quale vengono rivendicate migliori condizioni di lavoro, economiche e di status dei lavoratori, gli studenti non possano protestare e rivendicare anch’essi un diverso modo di insegnare e materie da inserire nel programma degli studi?

In teoria questo non dovrebbe essere consentito in quanto è lo Stato che decide cosa e come insegnare, sulla base di valutazioni che spettano a chi insegna e non a chi deve imparare in quanto non sa. Perché solo lo Stato è in condizioni di apprezzare le esigenze del mondo della cultura e del lavoro e solamente allo Stato spetta individuare gli obiettivi di formazione delle future classi professionali ai vari livelli.

Ma se vogliamo lasciare al dibattito politico il confronto sui termini nei quali può determinarsi la protesta studentesca ed ammettiamo che lo studente possa disertare le lezioni senza pregiudizi per l’esito dell’anno scolastico, non di meno resta il tema della imputabilità dei danni prodotti nel corso dell’occupazione della scuola. Che sono di due tipi: quelli provocati dagli studenti ai locali, agli arredi e alle utenze dei quali devono rispondere innanzitutto le famiglie degli occupanti. I Presidi devono chiedere loro i danni. Non farlo fa gravare su di essi una diversa responsabilità, di natura “erariale”, di competenza della Corte dei conti. Infatti non pretendere il risarcimento di un danno ingiusto costituisce un comportamento illecito per un pubblico funzionario. Una responsabilità che si aggiunge a quella per l’interruzione del servizio scuola nel quale saranno coinvolti anche i responsabili delle Forze di Polizia (il Questore). I Presidi per non aver messo in atto tutte le misure per impedire l’occupazione dei locali, il secondo per non essere intervenuto a liberarli per consentire la prosecuzione dei corsi. Senza arrivare al caso del Preside che a Roma, qualche anno fa, di fronte ad un’assemblea studentesca decisa a proclamare lo “sciopero” e ad occupare i locali, ha consegnato agli studenti le chiavi del portone d’ingresso e se ne è andato a casa.

E qui s’innesca anche una responsabilità del governo di “natura politica”, insindacabile in sede giudiziaria, in quanto l’autorità politica potrebbe decidere di non intervenire per motivi di ordine pubblico.

Ma una cosa è certa. Se si attivasse la regola elementare della responsabilità civile per danno, quella per cui “chi rompe paga”, e una volta tanto i genitori degli studenti fossero chiamati a risarcire i danni provocati all’immobile e agli arredi dai loro figli “birichini”, probabilmente le occupazioni non si farebbero più o potrebbero svolgersi con astensione dalle lezioni le quali potrebbero essere tenute ugualmente per quanti volessero parteciparvi.

E questo diventerebbe un Paese normale.

(da La Verità, 22 novembre 2017, pagina 10)

 

NUOVE SINTESI

trimestrale di cultura e politica

Direttore Responsabile Michele D’Elia

con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria

1915 - 1918

PROFILO DELLA GRANDE GUERRA

DEGLI ITALIANI

La battaglia di Gorizia,

 sesta battaglia dell’Isonzo

4-17 agosto 1916

Sabato 25 novembre 2017

Istituto Zaccaria, Aula Magna - ore 15.00

Via della Commenda, 5 – Milano, MM 1

P R O G R A M M A

Presentazione del Convegno

Saluti istituzionali

RELAZIONI

La fronte orientale alpina e le sue fortificazioni,

Lamberto Laureti, già Docente all’Università di Pavia

La presa di Gorizia, Michele D’Elia, Direttore di Nuove Sintesi, Milano

Il fronte orientale nel 1915, Gianluca Pastori, Università Cattolica, Milano

I nostri corrispondenti di guerra, Giorgio Guaiti, giornalista e scrittore, Milano

Guerra e ideologia della guerra nell’antichità, Cinzia Bearzot, Università Cattolica, Milano

I costi della guerra e la loro proiezione nel dopoguerra, Salvatore Sfrecola, Presidente dell’Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione, Roma

I poeti inglesi e la Grande Guerra, Daniela Savini, Docente di Lingua e Letteratura Inglese, Liceo Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano

L’attività degli Artisti nel contesto interventista, Salvatore Paolo Genovese, Docente di Disegno e Storia dell’Arte, Liceo Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano

La sociologia italiana dai suoi inizi sino alla fine della guerra ,  Roberto Cipriani, Emerito di Sociologia, Università Roma Tre

Dibattito

Conclusioni: Michele D’Elia

Coordina i lavori

Paolo Foschini, giornalista del Corriere della Sera

PER INFORMAZIONI: 02.68.08.13 – michele.inhostem@gmail.com

 

Convegno a Padova

Quando a Peschiera, fu riscattata Caporetto

 

Gran serata al Circolo Interforze di Padova l’11 scorso. Sala piena, attenzione massima, vivissimo apprezzamento per i relatori intervenuti all’Incontro sul Convegno di Peschiera 1917, presieduto da Re Vittorio Emanuele III, organizzato dal Circolo Cavalletto e dalla Rivista OpinioniNuoveNotizie.

È stato così adeguatamente ricordato nel Centenario un avvenimento che ha avuto un ruolo cruciale dopo lo scacco di Caporetto e che, con la decisione, fortemente voluta dal Sovrano di effettuare la difesa al Piave, aprì la strada al successo delle armi italiane, a Vittorio Veneto.

Relazioni hanno tenuto il Prof. Domenico Fisichella, già Vice Presidente del Senato e Ministro per i Beni Culturali e Ambientali (Caporetto: un profilo storico-politico), il Prof. Frédéric Le Moal, storico, dell’Institut Catholique di Parigi al quale si deve una pregevole biografia del Re (Vittorio Emanuele III e la Grande Guerra), il Prof. Marco Mondini, storico, dell’Università di Padova (Il mito della colpa. Cadorna e Caporetto come rivelazione morale degli italiani), il Prof. Ciro Romano, storico, dell’Università Federico II di Napoli (Da Caporetto a Peschiera: un percorso storico archivistico) che ha anche rappresentato al Convegno l’Istituto delle Guardie d’Onore al Pantheon del quale è Ispettore nazionale.

Hanno partecipato anche l’Associazione Combattenti e Reduci e l’Assoarma, che hanno concorso nell’organizzazione dell’incontro, presenti con delegazioni e i loro rappresentanti patavini. Tra i presenti il Conte Giustiniani, i Generali Angileri e Zacchi, le delegazioni della Guardie d’Onore di Chioggia, di Padova, della Provincia della zona nord, sud, ed ovest, dei Colli Euganei. Molti provenienti da fuori provincia e da fuori regione. Presenti anche3 numerosi collaboratori di Opinioni Nuove con il direttore, dott. Patrizia Rossetti.

Ai partecipanti è giunto anche un messaggio di saluto del Principe Emanuele Filiberto di Savoia, letto dal Prof. Sandro Gherro.

Nell’occasione sono stati anche resi noti i prossimi incontri organizzati dal Circolo Cavalletto e dalla Rivista OpinioniNuoveNotizie:

Rovigno – in Istria il 22 Novembre prossimo, dove il prof. Sandro Gherro, che ne ha curato l’edizione, presentderà, su invito della Locale Comunità degli Italiani, i due volumi degli “Scritti minori” di William Klinger, il nostro collaboratore, studioso fiumano, assassinato tre anni fa a New York in circostanze non ancora chiarite.

20 Gennaio, ospiti del Circolo Interforze di Padova, Convegno dibattito sul “Plebiscito 1866 “, più che mai attuale, in risposta alle “istigazioni” indipendentiste attuali.

Interverranno la dott. Angela Maria Alberton, dell’Istituto per la storia del Risorgimento, autrice di una recente pubblicazione in tema: “La Volontà dei Veneti e il plebiscito 1866” ed il dott. Giulio de Rénoche (Alberto Cavalletto e il plebiscito del 1866).

A fine gennaio è prevista la presentazione de la Terza Armata del 4° Quaderno di OpinioniNuoveNotizie, della collaboratrice del giornale Lisa Bregantin sul tema “Vivere e morire per l’Italia”.

17 novembre 2017

 

 

CIRCOLO DI EDUCAZIONE E CULTURA POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale

 della Capitale”

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Nel quarantesimo anniversario della morte del grande invalido,

mutilato della Quarta Guerra d’Indipendenza,

Carlo Delcroix

Domenica 19 Novembre, ore 10.30

 

Prof. Pier Franco Quaglieni

Vice Presidente del Centro Pannunzio

ricorderà

“Carlo Delcroix : un patriota che amò disperatamente l’Italia”

Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,

via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)

 

 

 

Catastrofe della scuola pubblica

come rimediare?

di Aldo A. Mola

 

La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, voialtri invece ne fate una spelonca di briganti!”. Lo scrissero gli Evangelisti Matteo (21, 13), Marco e Luca, con identiche parole. Matteo aggiunse: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che siete simili a sepolcri imbiancati: sono belli all'apparenza, ma dentro sono pieni di ossa di morti e d'ogni immondezza… di ipocrisia e di iniquità”. È il ritratto di tante scuole italiane, da decenni alla deriva. L'ultima seria legge sulla scuola è quella varata nel 1923 da Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione nel governo di coalizione nazionale in carica dal 31 ottobre 1922, sulla traccia di quella approntata da Benedetto Croce due anni prima col governo Giolitti. Scuola è disciplina: studio, preparazione e applicazione, come la Scuola dell'Esercito all'Arsenale di Torino, comandata del gen. Claudio Berto. Scuola è educazione dalla ferinità all'umanità, attraverso lungo tirocinio. È palestra (ginnasio): il dominio di sé si raggiunge con impegno e sacrificio.

Nel 1944-1946 furono i “vincitori/liberatori” a imporre in Italia la “nuova scuola”. Ordinarono persino l'epurazione dei manuali, ma non poterono sostituire con i loro “sergenti” presidi e docenti che continuarono la loro “missione”. Il Sessantottismo perpetuo ha poi portato allo sfascio attuale, documentato dal bulletto che tira il cestino dei rifiuti contro la professoressa inerte e rassegnata in un Istituto intitolato a Galileo Galilei, genio perseguitato dalla curia pontificia. Presidi (oggi avvolti nella mantelletta di “dirigenti”, nocchieri di sedi centrali, staccate e periferiche autocefaliche), docenti (alla mercé di allievi e genitori spesso spaesati e spaiati) e personale amministrativo (dalle palpebre quotidianamente abbassate su circolari inapplicabili) celebrano le esequie della Scuola pubblica, ancora per alcuni mesi nelle mani di un ministro immeritevole di menzione.

Dalla buffa zazzera e dallo sguardo più spiritato che ispirato, codesta ministro ha l'attenuante: decenni di invenzioni devianti. Per primo si esibì Giuseppe Bottai, con la “Carta della Scuola”, tanto celebrata dai “fascisti di sinistra” poi transitati in partiti accomunati dal mito dei soviet, di Mao e, perché no?, del socialnazionalismo fatto proprio dal “socialismo reale”. “Fascista critico”, già Bottai mescolò la cura degli orti scolastici alla traduzione dal greco e alla comprensione di un sistema filosofico, come oggi accade con la fatua alternanza scuola/lavoro: due fantasmi evanescenti mentre la disoccupazione giovanile non si schioda dal 36% e i “ni-ni” aumentano.

Lo sfascio fu accelerato dai famigerati decreti presidenziali che nel 1974 istituirono i Consigli scolastici elettivi provinciali, distrettuali e di istituto, dalle elementari alle superiori, in nome di una parità spacciata per democrazia. La Scuola non è né può essere “paritaria” né “democratica”. È trasmissione di cognizioni da chi sa a chi non conosce. È educazione del discepolo da parte del maestro. È responsabilità del maggiore verso il minore. Quei consessi furono la fiera delle vanità. A caccia di chissà quale popolarità e in vista di non si sa quali mete, genitori rampanti organizzarono liste elettorali e stamparono manifesti con le loro faccette per raccattare preferenze. Altrettanto fecero i figli, mentre il personale amministrativo-tecnico-ausiliare (Ata: segretari, assistenti di laboratorio, bidelli) si contese il “posto” riservatogli dalla legge.

Quell'orgia di scambisti fu sterile, perché le scuole tanto ricevevano dallo Stato, tanto potevano spendere. Per di più quei decreti abolirono le benemerite Casse scolastiche che da un secolo avevano fatto beneficenza vera, con tatto e discrezione, aiutando chi davvero ne aveva bisogno: ciò che non fa la Repubblica, che dal suo carrozzone carnevalizio lancia soldi/bonus come coriandoli o caramelle invecchiate.

Il resto è sotto gli occhi. Gli esami di maturità hanno cambiato norme e volto varie volte in pochi anni. Così come sono non servono a nulla. I “test” per la verifica del sapere scolastico nazionale sono un rito come le candelore. L'insieme della pubblica istruzione è un caleidoscopio di istituti che si barcamenano, scuole in abbandono, classi allo stato brado, accampate in edifici ancora solidi se sottratti tempo addietro a monache e a frati, in caserme dismesse o di anteguerra. Quelli di costruzione recente spesso paiono usciti da menti obnubilate che o non sono mai state a scuola o non ne hanno mai capito le necessità fondamentali. Aule per conferenze e palestre nella generalità dei complessi scolastici rimangono aspirazione insoddisfatta.

Così stando le cose, la scuola pubblica muore. Essa nacque con l'unificazione nazionale, con ministri quali Pasquale Villari, Quintino Sella, Michele Coppino, Francesco De Sanctis, Ferdinando Martini..., quasi tutti massoni con buona pace dell'altra riva del Tevere che continua a vedere la Massoneria come “lobby”, quasi i papi non abbiamo mai maneggiato potere, denaro e altro. Per restituire la Scuola alla sua identità originaria occorrono tre rimedi: un ministro serio (una persona colta e competente, come furono Vittorio Emanuele Orlando e il fossanese Balbino Giuliano...) in un governo durevole e dal progetto politico e civile altrettanto serio; il ripristino della sovranità educativa dei collegi docenti presieduti da persone colte e competenti, responsabili della formazione scientifica nella libertà; l'adeguamento delle retribuzioni del personale scolastico al valore della sua missione., mentre oggi più che misere sono offensive. Chi forma il cittadino va remunerato più di chi ne cura gli acciacchi fisici. I malanni del corpo passano, con la guarigione o con la morte. Quelli della personalità di adolescenti e di giovani durano e creano danni irreparabili, come mostra il fanatismo oscurantista di tutti i culti. Per curarli va letta “La Porta Magica di Roma, simbolo dell'Alchimia occidentale” (ed. Olschki) di Mino Gabriele, eccellente candidato al Premio Acqui Storia 2017.

Diversamente le famiglie hanno il diritto/dovere di provvedere in proprio alla scolarizzazione dei figli, trattenendo però dalle tasse quanto allo scopo debbono spendere per scuole private: un mondo,codesto, sempre all'anno zero, anche e soprattutto per la colpevole ignavia della borghesia di recente fortuna, doviziosa per caso, inconsapevole e incapace di un progetto culturale di lungo periodo.

È significativo che nella competizione elettorale in corso in Sicilia il tema dell'istruzione sia pressoché ignorato. Accadrà altrettanto alle elezioni politiche nazionali? Nel frattempo gl'insegnanti vengono mortificati dagli allievi, da genitori incoscienti e da quella parte di scalcinata opinione pubblica che si gonfia le gote con chiacchiere su democrazia e onestà. È la stessa che condannò a morte Socrate, perché rinfacciava agli ateniesi di non capire che la classe politica, i “governanti”, deve essere il meglio della “città”: non espressione di pulsioni tumultose, della “balda gioventù”, di giocose e oscure “piattaforme”, ma anziani fatti saggi dalla vita, dallo studio, dalle armi.

Sarà benemerito chi caccerà i mercanti dal Tempio della Pubblica istruzione, come fece Gesù appena entrato in Gerusalemme, e lo restituirà ai suoi sacerdoti: la Scuola ai docenti. Se lo Stato latita, lo facciano i cittadini, moltiplicando le scuole private.

(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 5 novembre 2017)

 

 

Piero Cenci, “Quando i giudici non indossavano lo spezzato”, Futura Edizioni, Perugia, 2017, pp. 207, € 14,00

di Salvatore Sfrecola

 

Si legge tutto d’un fiato questo “diario” di Piero Cenci che ci fa conoscere, attraverso le sue esperienze di magistrato che via via assume funzioni sempre più rilevanti sul piano professionale, una personalità ancorata a valori civili e spirituali che emergono con straordinaria efficacia di pagina in pagina, anche quando annota episodi con sottile ironia, a volte con il rimpianto di non aver potuto fare quanto avrebbe desiderato, ostacolato da leggi e o da prassi giudiziarie. Sullo sfondo la quotidianità, l’amore per la sua famiglia, l’affetto per la diletta Marilena, moglie e madre dei suoi figli, la “fortuna” della sua vita.

Aveva scelto di indossare la toga del giudice, l’attività che un tempo con enfasi certamente sincera era definita “sacerdozio civile”, come ricorda Giulio Andreotti nella prefazione ad un libro di Giovanni De Matteo (Vita a rischio di un magistrato), Procuratore della Repubblica a Roma, ai tempi del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, essendo educato, con la parola e con l’esempio, dal padre, carabiniere, al senso dello Stato, al rispetto della legge “con la L maiuscola, senza sofismi e senza furberie”. E grande era stata, dunque, l’emozione al suo ingresso in magistratura che rievoca con semplicità e rara efficacia.

Queste pagine dovrebbero leggerle tutti i magistrati all’ingresso in carriera, perché riflettano sul compito specialissimo che loro è affidato, di applicare le leggi alle quali “soltanto” sono soggetti, come specifica l’art. 101 della Costituzione. Un avverbio che ha una forza straordinaria per affermare, ad un tempo, l’indipendenza di chi è chiamato a punire i delitti e definire il diritto nelle controversie tra privati e l’autonomia della Magistratura, segno distintivo di un regime politico, la misura di uno stato “di diritto”,  come ci ha insegnato Montesquieu. Il quale ha anche spiegato che i giudizi devono essere fissi, “a tal punto da non essere altro che un testo preciso della legge. Se fossero l’opinione particolare del giudice, si vivrebbe nella società senza conoscere con precisione quali impegni vi si contraggono”, quali sono i diritti e i doveri dei cittadini, quali comportamenti vanno tenuti e quali omessi. Altrimenti, verrebbero meno la certezza del diritto e la prevedibilità della sanzione. Per garantire la pacifica convivenza all’interno della comunità, ne cives ad arma ruant, come dicevano i romani, i quali hanno insegnato e continuano ad insegnare al mondo intero che il diritto è la regola della pacifica convivenza e la Giustizia il riconoscere a ciascuno il proprio, come ha scritto Ulpiano (Libro 2, regularum): Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.

Piero Cenci aveva scelto di fare il magistrato nella consapevolezza che sarebbe andato incontro ad una vita “inevitabilmente connotata da sacrifici, solitudine, sofferenza e necessario isolamento sociale”, come avrebbe sentito dire nel fervorino del Presidente della Corte d’Appello che lo aveva ricevuto, insieme ai nuovi uditori, nello studio austero che occupava nel Palazzo che un tempo era stato il prestigioso Convento dei Barnabiti, al centro di Perugia, tra reperti medievali e mobili ottocenteschi. Quarant’anni dopo, in questo diario, Cenci avrebbe scritto che l’autore di quella che gli era parsa una “interminabile litania” tutto sommato “aveva ragione”. I sacrifici li aveva fatti e accettati. Del resto, per dirla con Giovanni Falcone, un uomo o è un uomo o non lo è.

Si era presentato a quell’appuntamento in un rigoroso e austero completo Principe di Galles, avendo dovuto a malincuore rinunciare all’elegante spezzato del quale andava fiero, da cui il titolo del libro. Il Presidente del Tribunale aveva sentenziato, con fare garbato ma fermo, che lo “spezzato” non si addiceva al decoro di un magistrato. Quel completo lo avrebbe accompagnato nel corso del suo uditorato.

Il libro ripercorre, quasi giorno dopo giorno, le molteplici attività alle quali Piero Cenci è stato assegnato nel corso della sua carriera, le emozioni del giovane uditore, la palestra della Camera di consiglio, dove s’impara “il mestiere…nell’angosciosa ricerca della verità”, il peso dei carichi di lavoro esorbitanti, i fascicoli “più rognosi e vetusti”, rifilati ai giovani “freschi di studi e bravi”. Una consuetudine da sempre, ovunque.

Poi le soddisfazioni del pretore, il “più giovane d’Italia”, come aveva scritto Il Resto del Carlino all’atto del suo insediamento. Il Pretore, quella figura antica e possente che nella realtà locale rappresentava un riferimento forte per il cittadino, vicina e autorevole perché il capo di quell’ufficio conosceva persone e cose, soprattutto nelle piccole realtà. Il Pretore, soppresso dall’improvvida riforma del processo del 1998 da un Parlamento “disinformato quanto ideologizzato”, da quel Legislatore che “sarebbe opportuno che qualche volta esca dal palazzo e si confronti con la realtà”. Quel Pretore che “incarnava la giustizia, mediava e risolveva i contrasti, espletava in delega funzioni del Tribunale e della Procura della Repubblica”. La sua eliminazione travolgeva con sé il carcere mandamentale, “un istituto utile per decongestionare le case circondariali e contenere il piccolo delinquente in una realtà il più delle volte autenticamente risocializzante”. Un passaggio che sottolinea la grande umanità di Piero Cenci che sarebbe stata esaltata nel successivo ruolo, difficile e delicato, presso il Tribunale dei minorenni.

In questo senso il Pretore era anche un osservatorio prezioso della vita locale e Cenci ce lo ricorda tra episodi esilaranti e grotteschi, e ci fa intendere come un magistrato di grande preparazione professionale, se assistito da una profonda umanità, possa, come lui ha fatto, riuscire a trattare i rapporti spesso difficili tra le persone cercando di favorire ragionevoli ricomposizioni al di là di contrasti economici o caratteriali. Come quando si occupò di divorzi, cercando di superare difficoltà psicologiche spesso ancorate a ragioni le più varie, nel tentativo di portare pace tra le coppie. Ciò che era possibile in una piccola sede, meno in un grande tribunale, non tanto per il numero delle cause iscritte a ruolo quanto per l’anonimato che nelle grandi città circonda le persone che il giudice non conosce. E s’imbatte anche nei divorzi “programmati”, quelli tra un vecchietto, spesso tratto da un ospizio nel quale era stato parcheggiato, e la giovane, di solito proveniente dall’Est europeo. Non si erano mai conosciuti, e non solamente in senso biblico ovviamente, altro che in tribunale nel corso di un’udienza necessariamente breve perché ogni tentativo di conciliazione non era prevedibile.

Poi il tirocinio presso la Procura della Repubblica, costellato di episodi che il lettore apprezzerà anche per il garbo e l’ironia con il quale vengono narrati, come nel caso di una presunta violenza carnale che, nella narrazione della “vittima”, sarebbe avvenuta di giorno, in pieno centro, e fin qui nulla di strano. Ma confusa nella descrizione dell’aggressione, da parte di un uomo che, mentre con una mano le tappava la bocca, con l’altra le serrava i polsi, e con un’altra le sollevava la gonna. Fu evidente che, mancando la prova che il presunto stupratore fosse figlio della Dea Kalì, la vicenda apparve subito poco verosimile, pur tenendo conto della concitazione del racconto e l’orrore del fatto in sé.

E poi c’è Piero Cenci nella sua esperienza di magistrato presso il tribunale dei minorenni, Procuratore della Repubblica e poi Presidente, testimone di sofferenze grandissime, delle famiglie, dei giovani, non di rado vittime di abusi, violenze e sopraffazioni, e il suo sentirsi impegnato a trovare per tutti una condizione di vita possibile, aperta al futuro, a prospettive di soddisfazione di soggetti spesso ai margini della società, ai quali desiderava restituire l’umanità smarrita, non solo per i minori in stato di abbandono. Il dolore delle adozioni internazionali, la difficoltà di decidere quando intervenivano fattori diversi, in presenza di donne africane o sudamericane dai rapporti difficili con il “compagno” italiano, a quelle spesso dedite alla prostituzione, un “lavoro” difficilmente conciliabile con la cura degli adempimenti materni.

C’è anche lo spazio per le vicende emerse nell’ambito di famiglie musulmane, di madri segregate, considerate oggetti in una cultura millenaria lontana dalla nostra, dai valori della società che attraverso il diritto romano e l’insegnamento cristiano ha messo al centro la persona.

Anche il capitolo dei rapporti con i colleghi, con le loro diversità caratteriali sono di grande interesse. Cenci mette in risalto soprattutto l’ironia, in particolare dei partenopei, impegnati spesso a sdrammatizzare, perché il dolore sotteso ad alcune cause non si trasformasse nei giudici in una ansiosa partecipazione, al di là del desiderio di applicare la legge nel modo più consono per gli interessi generali e delle persone. Nel contesto professionale c’è spazio per l’attenzione riservata al confronto delle idee e delle prassi operative maturato anche nei corsi di aggiornamento organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura e nei convegni di studio ai quali ha partecipato.

Ho conosciuto Piero Cenci nei primi anni 90 quando il mio ufficio di Procuratore Regionale della Corte dei conti per l’Umbria aveva sede nello stesso immobile, pur in una diversa ala, che ospitava anche il Tribunale dei minorenni. Eravamo accomunati dagli orari, spesso prolungati fino a serata inoltrata. Nel corso della giornata a volte approfittavamo di una pausa caffè, tra una udienza ed un interrogatorio (da noi si chiama audizione), per confrontare le nostre diverse esperienze e per scambiarci qualche impressione sui concerti del Conservatorio di Perugia, nell’aula magna dell’Istituto o al Teatro Morlacchi, dei quali eravamo assidui frequentatori. Favoriva la nostra amicizia anche questo idem sentire per la musica, da entrambi ritenuta espressione altissima di un’arte straordinaria capace come poche di arricchire l’umanità delle persone e di rasserenarle sulle note di Mozart e Beethoven e dei grandi compositori italiani, da Verdi a Puccini, a Rossini. Ce li presentava il maestro Giuliano Silveri, Direttore del Conservatorio, attraverso le pregevolissime performance dei suoi giovani allievi e dei più esperti docenti. In quelle occasioni lo accompagnava Marilena. Conobbi anche i suoi figli, soprattutto Daniele che ne avrebbe ereditato la toga, un’emozione straordinaria che ci accomuna, perché anch’io ho indossato per anni la toga di mio padre, magistrato della Corte dei conti.

In questo libro è Piero Cenci, con la sua umanità, il suo carattere di uomo sobrio, come appare dalla prosa, dal gusto per l’aneddoto, per ricordare ma anche per far riflettere tutti sul ruolo, difficile e impegnativo di chi ha scelto la professione del giudice con tutte le difficoltà proprie delle decisioni che è chiamato ad adottare. Perché a quell’uomo che pronuncia “in nome del Popolo Italiano” si chiede di essere indipendente ma anche di apparire tale, come lo vogliono i cittadini. Incurante di una certa impopolarità che naturalmente accompagna chi commina sanzioni e dirime diritti, per l’ovvia considerazione che colui che le subisce o chi non si vede riconosciuta una posizione giuridica che riteneva di poter pretendere, quasi mai “ci sta”.

Di Piero Cenci si potrebbe ripetere con le parole di San Paolo (Seconda lettera a Timoteo, 4,7) Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi.

8 novembre 2017

 

P.S. Il libro è stato presentato ieri pomeriggio in una gremitissima Sala dei Notari nel corso di un evento patrocinato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dal Comune di Perugia, da me, quale autore di una delle prefazioni, insieme a Monsignor Fausto Sciurpa, Presidente del Capitolo della Cattedrale di Perugia, al Prof. Luigi Ferrajoli, Emerito di Filosofia del diritto presso l’Università di Roma Tre, all’avv. Maria Giovanna Ruo, Presidente di CamMiNo, Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia ed i Minorenni ed all’Editore Fabio Versiglioni. Saluti sono stati portati ai convenuti dall’Avv. Andrea Romizzi, Sindaco di Perugia, da S.E il Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia e dall’avv. Gianluca Calvieri, Presidente dell’Ordine degli Avvocati.

Ha concluso il dottor Daniele Cenci, Consigliere della Corte di Cassazione, figlio del Presidente Cenci.

 

 

 

L’Italia verrà presa sul serio

solo continuando a restare unita

Le richieste autonomiste sono giuste,

ma se ci dividiamo diventeremo l’anello debole d’Europa

di Salvatore Sfrecola

 

L’anello “debole” dell’Europa rischia di diventare debolissimo. L’Italia, cui spesso è associato quell’aggettivo per indicare soprattutto la scarsa incisività della politica nazionale nel contesto europeo e l’insufficienza del PIL, appare ancor più precaria, alla vigilia di elezioni che potrebbero aprire una stagione di incertezze per la difficoltà di produrre una maggioranza forte e coesa. Si rafforzano le ipotesi di accordi strumentali alla conquista del potere con finalità di tutela di interessi non esplicitati agli elettori. “Inciuci”, nella migliore delle ipotesi, anche per evitare una stagione “alla spagnola”, con ripetute consultazioni alla ricerca di una maggioranza sempre sfiorata, per cui il governo di Mariano Rajoy si regge sull’astensione del Partito socialista. Di maggioranze impossibili si sente dire nel contesto tripolare in cui centrodestra, PD e M5S nei sondaggi sostanzialmente condividono percentuali simili.

Ma questa è anche la stagione dell’insufficienza di identità nazionale, componente essenziale della forza morale e politica di un popolo che si sente tale proprio perché nazione. Anche nella patria dei mille campanili, che richiamano storie diverse dal Nord al Sud ed all’interno di quelle aree. Se si pensa ai “convenuti dal monte e dal piano…  cittadini di venti città” che si ritrovarono a Pontida per schierarsi in difesa della autonomia dei loro Comuni contro Federico I, il Barbarossa, all’esperienza dei comuni toscani o alle “città libere” della Puglia. Mentre altrove, dinastie locali non guardavano oltre l’orizzonte pur di mantenere il potere si facevano vassalle di potenze straniere, dalla Francia all’Austria alla Spagna, nella assoluta indifferenza dei popoli. Per cui il noto adagio “Franza o Spagna purché se magna”.

Eppure, ad oltre 150 anni dall’unità, insorgono a minarne le fondamenta ed il futuro polemiche localistiche, dalla contestazione dei plebisciti che decretarono le annessioni al Regno d’Italia, al riconteggio dei “sì” all’annessione, dimenticando che il senso della Patria seguiva il pensiero di pochi intellettuali. Tra i primi i cattolici, da Vincenzo Gioberti ad Antonio Rosmini, e i laici come il genovese Giuseppe Mazzini, il lombardo Carlo Cattaneo e il siciliano Francesco Ferrara esule in Piemonte. E poi Camillo Benso Conte di Cavour, Massimo d’Azeglio, Luigi Carlo Farini, dalmata, un elenco infinito di cuori e di intelligenze che da ogni parte d’Italia, come il “grido di dolore” che percepiva Vittorio Emanuele II, si levarono a propugnare l’unità.

Cosa non ha funzionato se c’è chi rivendica la propria storia, la propria cultura, le proprie tradizioni? Fa bene a farlo: questa è la nostra ricchezza. Ma perché demonizzare l’unità cambiando i nomi a strade e piazze, eliminando statue? Per alimentare divisioni che minano la coesione e l’immagine del Paese e la capacità di essere patria comune dalle Alpi al Lilibeo nell’Europa che tante patrie vuole rappresentare consapevole delle comuni radici che la Convenzione europea, chiamata a scrivere la prima Costituzione, non ha voluto incastonare nel preambolo, e definire “cristiane”. Nonostante la consapevolezza diffusa che quelle radici, nate sulle sponde del mar Egeo alimentate dal diritto di Roma, hanno permeato l’Europa.

Cosa non ha funzionato? Certo tanto, molto in una Repubblica che nella Carta “riconosce e promuove le autonomie locali” ma non riesce a dare corpo al principio di responsabilità che esalta la politica nelle periferie operose, senza che venga meno la solidarietà per le aree svantaggiate in forme assistenzialistiche. Autonomia, dunque, e responsabilità verso la comunità locale e nazionale. In forza di un nuovo modo di governare, di un nuovo patto tra gli italiani. Ed allora ecco che Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti parlano di nuovo risorgimento, e Matteo Salvini scende al Sud per una Lega che vuol essere “nazionale” porti ovunque le esperienze virtuose delle aree più ricche del Paese. Un nuovo risorgimento perché siamo in tanti a sentire fastidio nella definizione di “anello debole” e non risorsa preziosa dell’Europa attribuita all’Italia, che vorremmo porta aperta sull’Oriente come avevano immaginato uomini di pensiero ed azione, da Federico II, che alle soglie del Medio Evo immaginò rapporti diplomatici e commerciali con quei mondi ma con assoluta fermezza nella difesa dell’identità, a Cavour che volle unificare l’Italia per renderla prospera e protesa verso l’Europa e l’Oriente.

(da La Verità dell’1 novembre 2017, pagina 15)

 

CIRCOLO DI EDUCAZIONE

 E CULTURA POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

***

Inaugurazione 70° ciclo conferenze 2017-2018

Domenica 5 Novembre, ore 10.30

 

Sen. Prof. Domenico Fisichella

relatore sul tema

“Europa, Italia, sovranità”

 

Sala Italia, presso “Associazione Piemontesi a Roma”,

via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B (ingresso con ascensore)

 

 

Su Caporetto gli storici si dividono

 da 100 anni

 

La battaglia cosiddetta di Caporetto è stata oggetto nel corso del tempo di interpretazioni diverse. Ed ancora oggi non si rinvengono valutazioni univoche dei fatti e degli antefatti, intendendo con questa parola la conduzione della guerra nel corso dei mesi e degli anni precedenti. Una guerra “nuova”, combattuta con strategie e tattiche diverse rispetto a quelle del Risorgimento e soprattutto con armi nuove. Basti pensare all’uso della mitragliatrice che ha modificato in misura significativa il modo di combattere, come dimostra il famoso film di Stanley Kubrick “Orizzonti di gloria”. Ma come sapevamo dalla guerra di secessione americana di oltre cinquant’anni prima.

Tra le tante questioni oggetto di riflessioni la cultura militare dei nostri generali e la mancanza di coordinamento, peraltro già vista in altre battaglie e in altre guerre. Da evitare, in ogni caso, la difesa ad oltranza per “amore della Patria” di comportanti a dir poco inadeguati e la denigrazione delle forze armate e dei suoi comandanti consueta a certi ambienti “politici”, riversati anche in opere di carattere storico.

Sbagliano gli uni, sbagliano gli altri.

Personalmente ritengo che sia sempre necessario sottoporre a rigorosa verifica fatti controversi perché se ci sono stati errori non si ripetano. Perché è sempre necessario approfondire i fatti per correggere eventuali disfunzioni, soprattutto quando riguardano aspetti del funzionamento delle istituzioni, come quelle che presiedono alla sicurezza nazionale e alla tutela degli interessi di una Nazione. I grandi stati hanno sempre fatto così. Sugli eventi di Caporetto ci fu una specifica commissione d’inchiesta come sulle spese militari che rivelò, come aveva denunciato Giovanni Giolitti, corruzione e sprechi. Ho intitolato un mio articolo “Non solo eroi ma anche corrotti e corruttori”. Niente di nuovo, dunque, sotto il sole. Allora e dopo.

Pubblico, pertanto, volentieri lo scritto del Professore Aldo M. Mola, editoriale de Il Giornale del Piemonte e della Liguria, di oggi 22 ottobre 2017, un contributo che sicuramente i nostri lettori avranno modo di apprezzare.

Salvatore Sfrecola

 

 

 

 

 

 


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