MAGGIO 2017
Laura Bianchini. Una vita per la scuola
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Sostando dinanzi alle vetrine della libreria della quale
sono cliente, aggiornate meglio di un catalogo delle
novità, il mio sguardo si è posato sul volume di Grazia
Gotti “21 donne all’Assemblea”, edito di recente
da Bompiani.
Sono sobbalzato ben ricordando che ventuno erano le
rappresentanti femminili elette nell’Assemblea
costituente e, tra queste, ero certo che non poteva non
essere presente anche la mia indimenticabile
Professoressa di storia e filosofia degli anni del
liceo: Laura Bianchini. Infatti, alla pagina 91 e
seguenti si parla diffusamente di Lei, con commossa
partecipazione, della sua vita virtuosa, del suo impegno
politico e della sua attività di docente.
Quanti ricordi si affollano nella mente e quanta
emozione nel mio cuore!
Sembra ieri che la classe I^ del liceo classico Virgilio
– Sezione Monteverde era in ansiosa attesa
dell’insegnante di storia e filosofia, già deputata al
Parlamento e – si mormorava – docente dotata di notevole
carisma.
Fu un incontro molto sereno con la nostra classe, ma
subito ci si rese conto che questa insegnante avrebbe
lasciato un segno indelebile in tutti noi, come si
verificò puntualmente.
Conoscevamo poco o nulla di Lei. Ci avevano soltanto
riferito della sua origine settentrionale e che era
stata eletta in Parlamento nella I^ legislatura nelle
liste della Democrazia cristiana. Ricordo ancora che
venne presentata alla classe personalmente dal Preside,
un privilegio che veniva forse riservato a pochi
insegnanti. L’evento acuì la nostra curiosità e ci
indusse ad accoglierla con la dovuta deferenza, ma
instaurando di lì a poco un rapporto di affettuosa
solidarietà.
Fin dall’inizio le sue lezioni furono magistrali e
l’intera classe ne rimase avvinta. Nel primo anno di
corso dedicò un prolungato numero di ore al pensiero e
alle opere di Platone che considerava punto di partenza
e di arrivo di ogni ricerca filosofica.
Nel frattempo io, con altri pochi compagni di classe,
lavoravamo all’ambizioso progetto di pubblicare un
giornale della Sezione Monteverde del liceo classico
Virgilio.
Per doveroso atto di rispetto, volli parlarne al Preside
che, pur con qualche riserva, concesse il suo benestare
a patto che la pubblicazione, prima di essere
gratuitamente diffusa tra gli alunni, dovesse essere
sottoposta al suo visto.
Vide così la luce, tra la fine del 1953 e l’inizio
dell’anno seguente, “Lo Zibaldino”, “foglio
interno della Sezione Monteverde”, che in breve tempo
divenne la nostra bandiera.
La Prof. Bianchini rimase entusiasta del progetto ed
ebbe parole di affettuoso incoraggiamento. Le feci però
presente che, trattandosi di un foglio interno della
Sezione Monteverde, il compito di revisore poteva essere
demandato direttamente a Lei. Dopo qualche giorno
pervenne una comunicazione del Preside che investiva la
Prof. Bianchini del “potere di visto”.
Tale inaspettata decisione accrebbe la nostra
familiarità con la Prof. Bianchini che si mostrò sempre
prodiga di consigli e suggerimenti preziosi,
contribuendo così ad elevare i contenuti de “Lo
Zibaldino” ed a favorire la sua diffusione anche tra
le classi della confinante scuola media Manzoni.
Per la preparazione del nostro “foglio” venivo convocato
in Via della Chiesa Nuova, presso l’abitazione delle
sorelle Portoghesi, dove la Prof. Bianchini alloggiava
con altri parlamentari della Democrazia cristiana
aderenti alla “Comunità del Porcellino”.
In quelle occasioni si parlava di tutto e si confidavano
a Lei propositi e speranze.
Prima ancora di superare gli esami di maturità Le avevo
parlato della mia intenzione di iscrivermi alla Facoltà
di Giurisprudenza, come fecero il mio bisnonno e mio
nonno paterni, entrambi Notai, e dopo di loro mio padre,
Avvocato. Una volta conseguita la laurea, avrei tentato
il concorso in magistratura.
Dopo una breve pausa di riflessione, la Prof. Bianchini
non sembrò particolarmente entusiasta di quest’ultima
mia aspirazione: “sceglieresti forse”, mi disse, “la
meno adatta delle professioni perché mal si
concilierebbe con la tua autonomia intellettuale, con il
tuo rifiuto di ogni sorta di compromesso e con il tuo
temperamento refrattario a ricevere disposizioni
dall’alto”.
Queste parole mi colpirono profondamente ed hanno
influito in modo determinante su tutte le mie scelte
future.
Quando era tra noi, non amava rievocare gli anni
passati, anche se spesso traspariva dalle sue parole un
sentimento di delusione per la politica in generale.
Ma l’insegnamento era la sua vera vocazione e ogni
lezione costituiva un messaggio culturale per noi
giovani da non disperdere, ma da custodire nelle nostre
menti e nei nostri cuori.
Mia carissima ed indimenticabile Professoressa!
Il Tuo ricordo rimarrà perennemente vivo in me ed ancora
adesso Ti vedo fare lezione seduta sul leggìo del
secondo banco della fila mediana della nostra classe
sicuramente per instaurare un rapporto più diretto ed
intenso con noi alunni ai quali hai dato, con
appassionata fermezza, tutta Te stessa per renderci
migliori, come studiosi e come cittadini.
Questa mia non è nostalgia, ma accorato, struggente
rimpianto di una persona che mai potrà essere
dimenticata.
Desidero chiudere questo breve, ma sentito ricordo,
facendo mie le parole di Grazia Gotti: Laura Bianchini,
tornata nelle aule scolastiche, “insegnerà per vent’anni
al liceo classico Virgilio di Roma, continuando lì la
sua opera di sensibilizzazione delle coscienze. Oltre
che di storia e filosofia, parla ai suoi studenti, che
frequentano la sua casa anche di pomeriggio, delle cose
che la appassionano. Lo fa ogni giorno, con fede e
tenacia, consapevole della sua opera di semina delle
menti, che prima o poi darà i suoi frutti”.
31 maggio 2017
Le elezioni e lo spettro della legge di bilancio
di Salvatore Sfrecola
Intervenendo a Tagadà de La7, sollecitato dalla
conduttrice Tiziana Panella, Gianfranco Pasquino,
politologo tra i più accreditati nelle analisi politiche
attuali, ha detto che, a suo giudizio, si voterà a marzo
2018, il 9, per l’esattezza, perché la individuazione
dei collegi uninominali è opera complessa in quanto,
secondo come se ne definisce l’ambito territoriale,
cambiano le possibilità di vittoria dei singoli
candidati.
È certamente vero, ma il professore non ha considerato, come
invece aveva fatto poco prima di lui nella stessa
trasmissione Marco Damilano, vice direttore de
L’Espresso, una variabile che, in qualche misura,
preoccupa tutti i partiti, la manovra finanziaria di
fine anno. Sembra, infatti, ormai certo, dati alla mano,
che per far quadrare i conti la legge di bilancio,
ex legge finanziaria, ex legge di stabilità, debba
necessariamente prevedere misure severe sotto il profilo
fiscale e non solo. Per cui, soprattutto il Partito
Democratico, che ritiene di essere ancora chiamato a
governare, sia pure in coalizione, teme che l’esito
della scadenza elettorale sia condizionato dall’effetto
di una legge di bilancio lacrime e sangue, con più
tasse, meno servizi, rinvio nella definizione del
contratti di lavoro nel pubblico impiego, e, forse,
sforbiciate alle pensioni. Un salasso per gli italiani
che potrebbe rivelarsi una autentica debacle per
i partiti che la voteranno, soprattutto quelli che
sostengono il governo, in primo luogo quello del
Presidente del Consiglio e del loquace segretario del
partito che, si è visto, piace poco agli italiani che di
slogan e slide hanno piene le tasche.
Bocciato dalla Consulta per la legge elettorale che, diceva
Matteo Renzi, ci invidiano tutti, tanto che l’avrebbero
copiata, massacrato il 4 dicembre 2016 dagli italiani
che, anche senza leggere la riforma costituzionale, gli
hanno votato contro per profonda disistima nei suoi
confronti, il giovanotto di Rignano sull’Arno dimostra
ogni giorno di più di non aver imparato la lezione.
Anzi, continua a riversare a piene mani sui
telespettatori e sui giornali che lo sostengono per
evidenti interessi economici improbabili messaggi
programmatici enunciati in Italia e altrove, dove spesso
si è esibito in un inglese esilarante, poco dignitoso
per un Presidente del Consiglio e segretario del partito
più numeroso in Parlamento, anche se per effetto di un
premio di maggioranza previsto da una legge elettorale
non in linea con la Costituzione. E vuole votare subito.
E forse ci riuscirà, ma gli italiani sanno che questa
accelerazione serve solo ad evitare l’effetto politico
negativo di una dura manovra finanziaria. E siccome non
sono “grulli”, per usare una espressione cara al
linguaggio del giovanotto, gli italiani al momento del
voto se lo ricorderanno. Il PD è il partito che
ha governato negli ultimi anni, l’intera legislatura,
portando l’Italia verso il disastro economico, unico tra
Francia, Germania e Spagna che non ha avuto incrementi
del PIL, segno che i mali nostri non vengono
dall’Europa, come si vorrebbe far intendere, ma
dall’insipienza dei governanti.
30 maggio 2017
Occidente ed Islam
Integrazione, la tragedia degli equivoci
di Salvatore Sfrecola
Integrazione è la parola più ricorrente quando si parla di come
affrontare i problemi posti dai migranti che sbarcano
sulle nostre coste. E, ancora, in occasione dei tragici
eventi terroristici che hanno insanguinando l’Europa e
non solo. Integrazione, che dovrebbe garantire una
pacifica convivenza tra cittadini e immigrati. Per
concludere che gli episodi di violenza che la cronaca ci
propone con sempre maggiore frequenza, siano i casi di
accoltellamento, come quello recente alla stazione di
Milano, siano i più gravi attentati di Parigi, Berlino,
Londra o Manchester, sarebbero un po’ colpa degli stati
europei, nel senso che non sarebbero stati capaci di
favorire l’integrazione. Questa, come si legge nel
Vocabolario della lingua italiana Treccani (vol. II,
910), si realizza attraverso l’“assimilazione di un
individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un
ambiente sociale, in una organizzazione, in una comunità
etnica, in una società costituita (contrapp. a
segregazione)… integrazione dei lavoratori stranieri,
degli immigrati nella (o alla, con la popolazione
locale”. Insomma, integrazione significa condivisione,
da parte dei migranti, di valori che sono propri della
comunità che accoglie, valori che normalmente sono
individuati nella carta costituzionale dello stato, tra
i principi fondamentali, i diritti di libertà ed i
doveri di solidarietà, la pari dignità sociale,
l’uguaglianza davanti alla legge, senza distinzioni di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali, come si
legge nell’art. 3 della nostra Costituzione. Valori
civili, etici, giuridici che coloro i quali entrano in
un paese devono necessariamente rispettare. Ovunque
avviene così.
Nell’antica Roma, che nasce – è bene ricordare – con il
riconoscimento da parte di Romolo del diritto di asilo,
erano bene accette persone provenienti da ogni angolo
del mondo allora conosciuto, senza distinzione di razza
e di fede. Si richiedeva “esclusivamente” il rispetto
delle leggi e la condivisione della missione storica di
Roma, cioè della identità romana (G. Valditara,
l’immigrazione ai tempi dell’antica Roma: una questione
di attualità, Rubettino, 2014). Tanto che nella
storia del regno prima, della repubblica e, infine,
dell’impero, giungono ai vertice delle magistrature
personalità che avevano avuto i natali lontano e spesso
fuori d’Italia, come Livio Andronico, uno schiavo
manomesso di lingua e cultura greca, Nevio, campano,
come Petronio. Orazio, il grande poeta, era figlio di
uno schiavo liberato, Livio veniva da Padova. Nel II
secolo dopo Cristo gli imperatori sono quasi tutti nati
fuori Roma e lontano dall’Italia.
Dionigi di Alicarnasso scrive che coloro che sono degni di essere
cittadini romani sono i benvenuti ed ottengono la
residenza e la cittadinanza.
Anche per le comunità o gruppi valeva la stessa regola. Per cui
leggiamo in Livio, padovano, come si è ricordato, che
loda la scelta di rispedire a casa un’intera comunità i
cui membri si erano comportati in dispregio delle regole
di Roma. La quale praticava sul serio l’accoglienza,
anche con riferimento alle divinità dei gruppi etnici
presenti, come gli egizi ai quali avevano consentito la
costruzione dei templi di Iside e Osiride.
Il rispetto delle regole è la pretesa minima. Vieni a casa mia
devi rispettare le mie leggi e le mie abitudini. Sei
ospite ti devi comportare con rispetto e buona
educazione. Non sei cristiano? Non devi oltraggiare la
statua della Madonna o murare una sua edicola, come io
rispetto la tua moschea e mai mi permetterei di entrarvi
con le scarpe.
L’autorità pubblica non si fa rispettare nelle nostre città, tra
l’altro con danno grave all’immagine di un paese la cui
economia trae notevoli risorse dal turismo intorno al
quale ruota un indotto di proporzioni gigantesche. Si
pensi solo all’artigianato e alle produzioni
enogastronomiche. Infatti la scelta di una vacanza in
Italia non è evidentemente legata alla presenza del sole
o del mare e neppure alle bellezze paesaggistiche che
pure sono la meraviglia del “bel Paese”, così chiamato
proprio per il suo clima. Sole, mare e monti si trovano
anche altrove in Europa. Quel che rende unica l’Italia è
il suo straordinario patrimonio storico artistico
assolutamente ineguagliabile e noto in tutto il mondo.
L’Italia, infatti, è anche il paese della cultura e, in
genere, dell’arte, della letteratura e della poesia. Per
non dire degli storici, dei filosofi e dei giuristi. E
della musica, come dimostra l’alta affluenza di
stranieri nei nostri conservatori, per studiare e
perfezionarsi. È noto che le nostre orchestre, le nostre
compagnie teatrali, i nostri cantanti girano il mondo ed
i direttori d’orchestra che salgono sul podio dei
maggiori teatri in tutti i continenti sono spesso
italiani.
È evidente che disagio sociale indotto dalle migliaia di migranti
privi di lavoro genera insicurezza, la quale nuoce al
turismo in misura rilevante, anche perché c’è sempre la
televisione o il giornale da qualche parte del mondo,
soprattutto nei paesi nostri concorrenti, che s’impegna
a segnalare episodi piccoli e grandi che gettano
discredito sull’Italia, dipinta come il paese delle
mafie, della cattiva gestione dei servizi, degli
scioperi, dei ristoratori o dei baristi dai conti
salati. Per non dire della ricorrente lamentela,
giustificatissima, della mancanza di servizi per i
turisti, a cominciare dai bagni e proprio a Roma, che li
aveva inventati (i vespasiani dall’imperatore che
ne promosse la diffusione), per cui migliaia di turisti
che giornalmente visitano la città, devono passare per
un bar, per un ristorante per poter accedere a una
toilette. E il più delle volte si sentono dire che non
sono praticabili perché in corso di ristrutturazione.
E veniamo alla ricorrente affermazione che sarebbe nostra la
colpa del disagio dei migranti, perché non sappiamo
integrarli, ogni volta che l’azione terroristica a
Parigi come Nizza, a Bruxelles, a Berlino, a Manchester
è stata posta in essere da cittadini di fede islamica di
seconda o di terza generazione con regolare passaporto.
E qui occorre un approfondimento serio. Stupisce,
infatti, o forse non stupisce, che i soloni del
politicamente corretto, i quali imperversano su giornali
e in televisione per insegnare la verità al volgo, i
soliti Severgnini o Friedman non capiscono ciò che sta
accadendo e perché. È evidente, infatti, che un
cittadino di seconda o terza generazione che massacra
con bombe o accoltella per strada suoi coetanei che avrà
o avrebbe potuto incontrare per strada o al bar è un
esaltato criminale. Evidente manca un adeguato
approfondimento che non si fa per non apparire fuori dal
coro del politicamente corretto. Infatti è facile
constatare che mentre i padri sono venuti in Occidente
per esigenze economiche o per sfuggire alle guerre e,
pur mantenendo il giusto legame con la cultura della
terra di origine, si sono in qualche modo dovuti
adattare alle usanze europee, anche per trovare una
occupazione, i figli, che dovrebbero sentirsi francesi,
belgi, inglesi o tedeschi (un attentatore “belga” era
addirittura un funzionario pubblico) soffrono
dell’isolamento nel quale queste comunità si sono
collocate mantenendo usi e costumi del paese di origine
non condivisi nella società che li ospita. Come la
condizione della donna, che pretendono di tenere fuori
dei rapporti di lavoro, in piscine separate, in luoghi
di divertimento separati, e conservano abitudini
tribali, come l’infibulazione, con loro tribunali che
decidono sulle questioni di famiglia al di fuori delle
regole dello Stato. In questi contesti i giovani
maturano rabbia verso i paesi che li ospitano per cui
non si sentono come i loro coetanei. E covano una rabbia
che ha molte origini ma al fondo nasce dalla incapacità
di queste persone di integrarsi, di accettare le regole
e le usanze delle comunità che li ospitano. Qualcuno
ricorderà la ragazze musulmane che non hanno partecipato
al momento di silenzio per i morti di Parigi. In questo
contesto la religione, che ingloba regole di vita
quotidiana, è uno strumento di ribellione. Richiama alla
purezza dei costumi descritta dal Corano, laddove gli
occidentali sono corrotti, perché consentono alle loro
donne di andare a capo scoperto, di mostrare i capelli
che notoriamente sono un elemento di attrazione per i
maschi, che scoprono le gambe con le gonne corte, che
spesso hanno le spalle nude e scollature che, non di
rado, fanno intravedere o immaginare quelle rotondità
che da sempre a noi maschi occidentali piacciono tanto,
perché scandiscono la differenza tra i sessi.
E se i vari Severgnini e gli altri che in televisione parlano di
integrazione culturale e religiosa, di dialogo
interculturale ed interreligioso, non comprendono queste
cose è evidente che c’è un vizio di fondo, una
sottovalutazione di fatti che vengono da lontano. La
storia, infatti, ci dice che l’aggressività del mondo
musulmano nei confronti dell’Occidente inizia con il
settimo secolo d.C., quando con la violenza sono state
convertite le popolazioni delle regioni costiere del
Mediterraneo che erano cristiane. Poi sono state
occupate la Spagna e la Grecia e le truppe ottomane sono
arrivate sotto le mura di Vienna, la capitale austriaca
nel cuore dell’Europa, sconfitte in due battaglie a
lungo dall’esito incerto. Se avesse perduto l’esercito
imperiale avrebbe perduto l’Occidente, per sempre.
A chi insiste nel prevedere conseguenze positive nel dialogo
interculturale interreligioso va detto senza mezzi
termini che dialogo esige un piano di parità, un
confronto che presuppone dei dialoganti consapevolezza
della propria cultura e della propria identità. E se
certamente i musulmani hanno consapevolezza della loro
identità culturale ed hanno una straordinaria capacità
di aggregazione sotto il profilo religioso e delle
usanze che sono strettamente legate al proprio credo,
gli occidentali, quelli che dovrebbero dialogare con
loro, non hanno la consapevolezza della identità di
europei, hanno rifiutato il riferimento alle radici
cristiane nella bozza di Costituzione europea preparato
dalla Convenzione che nei primi anni 2000 ha discusso a
lungo su come restituire slancio all’Europa anche
ricordando le glorie della storia, la cultura che fa di
un francese un francese, di un italiano un italiano, che
hanno una storia comune, che dalle sponde del mar Egeo e
dalle rive del Tevere si è dipanata lungo i secoli nel
Continente. Se non c’è consapevolezza della propria
identità il dialogo porta necessariamente alla
sottomissione è squilibrato e non giova al mantenimento
della pace.
Ed a proposito di confronto religioso e di rispetto della
identità del paese che ospita, sembra sia stato
trascurato un segnale significativo di una mentalità
separatista e aggressiva, quando a Roma fu costruita la
grande moschea. Si voleva che avesse un minareto più
alto della cupola di San Pietro. Una sfida evidente
nella capitale della Cristianità. Considerato che nei
paesi arabi non è consentito costruire una chiesa
cristiana e curarne la manutenzione. Ed essere cristiano
significa non poter raggiungere alcune posizioni elevate
nelle istituzioni civili e militari, come in Turchia.
28 maggio 2017
Considerazioni nel giorno della Marcia per la vita
I figli sono un investimento della società
(un esempio dai Regni d’Europa)
di Salvatore Sfrecola
Straordinaria la vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera
di giovedì 18 maggio. Sotto il titolo “due chiacchiere
in famiglia” sono rappresentati Agnese Renzi, Matteo e
il padre Tiziano. Dice Agnese “ho letto che i governanti
europei, da Theresa May a Macron, dalla Merckel a
Gentiloni sono tutti senza figli”. E Matteo, “il
problema non sono i figli, sono i padri”.
La vignetta, sulla scia delle ultime vicende dell’indagine CONSIP
e della telefonata, intercettata, tra Matteo e Tiziano
Renzi ricostruita nel libro di Marco Lillo “Di padre in
figlio”, in edicola con Il Fatto Quotidiano, si
presta anche a qualche ulteriore riflessione, di
carattere generale, nel giorno in cui a Roma si tiene la
Marcia per la Vita, una manifestazione in favore
della famiglia, indipendentemente dalle idee politiche e
dalla fede dei partecipanti, cattolici o cristiani di
altra confessione. Perché i valori della famiglia, pur
essendo nel dna di alcuni partiti, in realtà non sono di
destra o di sinistra, in un tempo nel quale troppo
spesso prevalgono individualismo ed egoismo che non
prevedono un investimento in figli.
In questo contesto la vignetta di Giannelli sembra segnalare una
verità che è sotto gli occhi di tutti, quella di
politici dediti esclusivamente alla politica, al punto
da trascurare la vita privata, la famiglia laddove, per
definizione, magistralmente ripresa dalla nostra
Costituzione, nascono figli che è dovere dei genitori
“mantenere, istruire ed educare” (art. 30, comma 1),
cioè i futuri cittadini e professionisti.
Conseguentemente “la Repubblica agevola con misure
economiche ed altre provvidenze la formazione della
famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con
particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 32
comma 1). Le misure e le provvidenze sono fiscali (come
nel caso del cosiddetto “quoziente familiare”, adottato,
ad esempio, in Francia per cui il reddito a fini
tributari si divide per i numero dei componenti della
famiglia) o di altro genere, soprattutto in servizi,
dalla gratuità degli studi, delle cure mediche, delle
attività sportive, come avviene, ad esempio in
Danimarca.
Così si fa negli stati nei quali i figli sono considerati un
investimento. Così avviene in alcuni paesi europei più
avanzati. Che, non a caso, sono dei regni, dove i
sovrani hanno figli, sovente numerosi, dal Regno Unito
alla Svezia, Danimarca, Belgio e Spagna, nei quali le
famiglie regnanti sono di esempio per i cittadini.
Laddove i giovani principi studiano nelle scuole
pubbliche, frequentano le università statali,
approfittano, con i loro coetanei “borghesi”, delle
opportunità dell’Erasmus. La famiglia reale è
solo la prima delle famiglie, indipendentemente da idee
politiche e credo religioso.
Stati diversi con governi diversi che, da destra o da sinistra,
condividono questa filosofia, che ha cominciato ad
invertire la decrescita della popolazione.
Governanti senza figli. Fatti loro, si può dire. Ma sono fatti
nostri se queste persone non percepiscono i problemi e
le esigenze attuali della società. Questa inadeguata
percezione personale inevitabilmente oscura un grave
problema sociale. Chi non ha figli difficilmente ne
percepisce il ruolo di speranza per il futuro della
famiglia e della società. Attenzione per la famiglia ed
i figli significa anche avere la capacità di una
adeguata percezione dei problemi di una società che è
fatta di famiglie nelle quali ci sono consumatori e di
risparmiatori, lavoratori e aspiranti lavoratori. Figli
o non figli, i nostri governanti si sono dimostrati fin
qui incapaci del ruolo che pure hanno perseguito con
determinazione, quello di governare l’Italia. Un dato
per tutti. Il PIL di Germania, Francia, Italia e Spagna
dal 1999 al 2006 parla chiaro. Dall’introduzione
della moneta unica solamente l’Italia non è riuscita a
creare ricchezza. E questo non dipende assolutamente
dall’Europa, ma da noi, dai nostri governanti incapaci
di perseguire obiettivi di crescita sostenibili. Senza
figli, ma soprattutto senza idee.
20 maggio 2017
Accademie e Conservatori di musica, un’eccellenza
italiana.
Ma il futuro è a rischio tra insensibilità politica e
interessi sindacali
di Salvatore Sfrecola
Un’eccellenza italiana è a rischio sopravvivenza per una
banale questione di “comparti di contrattazione”. Le
Accademie ed i Conservatori di musica (Istituti di Alta
Formazione Musicale – AFAM), che rappresentano una delle
più rilevanti specificità culturali italiane,
un’attrattiva forte non solamente per i nostri studenti
ma per i tanti che da ogni lato del globo vengono da noi
a studiare o a perfezionarsi, sono stati, tramite un
accordo sindacale presso l’ARAN, improvvidamente
“retrocessi” nel comparto del personale della Scuola “di
ogni ordine e grado”. In sostanza dal luglio 2016 i
docenti di Accademie e Conservatori sono stati inglobati
nel mare magnum del personale delle scuole
materne, elementari, secondarie ed artistiche,
nonostante si tratti di istituzioni culturali che,
sulla base della
legge di riforma n. 508/99, anche se attuata solamente
in parte, rilasciano titoli accademici di I e II
livello, insomma lauree, come accade ovunque nel mondo.
E, pertanto, per Costituzione, devono ricadere
contrattualmente nel sistema pubblicistico che regola
l’Università.
In prospettiva, dunque, sarà difficile mantenere alto il
prestigio di queste istituzioni, dal momento che al
corpo insegnante e agli studenti sarà sempre più
evidente che le loro scuole non sono più considerate
un’eccellenza, che l’Italia non è più il Paese dei
grandi pittori, scultori o musicisti ai quali si
ispirano gli artisti ovunque nel mondo. Per rimediare,
per uscire dal comparto scuola, tornando ad una
disciplina autonoma, quella si basa sul dettato
costituzionale dell’art. 33 (“Le istituzioni di alta
cultura, università ed accademie [e per sentenza della
Corte Costituzionale i Conservatori di Musica] hanno il
diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato”), la Commissione
Affari Costituzionali del Senato, nella seduta del 3
maggio 2017, chiamata a rilasciare un parere sul decreto
legislativo recante modifiche e integrazioni al testo
unico del pubblico impiego (il decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165) ha indirizzato al Governo la
raccomandazione di “valutare
la possibilità di rivedere l’inquadramento del personale
AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale), prevedendo
uno stato giuridico formalmente più consono con la loro
professionalità e in analogia con la disciplina prevista
per i professori universitari”. Così confermando
l’indirizzo già espresso dal Senato in sede di
conversione del D.l.vo n. 150/2009, quando aveva
segnalato l’esigenza di tenere fuori, dalla
riorganizzazione dei comparti e delle aree di
contrattazione, per la sua specificità, il comparto
AFAM. Ed, infatti, l’art. 40 del D.l.vo n. 165/2001, non
fa nessun cenno al comparto AFAM. Inoltre proprio il
decreto 150/2009 statuisce che la contrattazione non può
derogare a norme di legge se non espressamente previsto.
Fermi, dunque, gli ambiti di specificità funzionale ed
ordinamentale dell’AFAM, la mancata abrogazione della
legge 508/99 riguardante l’istituzione del Comparto AFAM
(art. 2 comma 6) e l’affidamento alla contrattazione
della definizione dei nuovi comparti di contrattazione e
delle corrispondenti aree dirigenziali, in assenza di
disposizioni legislative derogatorie, quel comparto deve
restare fuori dalla riorganizzazione contrattuale
attualmente in atto. Questa, dunque, la conclusione
necessaria messa nel nulla dalla decisione del luglio
scorso che ha “retrocesso” Accademie e Conservatori.
Conseguentemente numerose forze politiche e
l’Unione degli Artisti -
UNAMS (unico sindacato che non ha voluto firmare
l’accordo del luglio scorso presso l’ARAN) hanno chiesto
al Ministro Madia, cui spetta predisporre il decreto da
portare all’approvazione del Consiglio dei ministri, di
inserire nell’articolo 3 del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165 un comma 2-bis il quale preveda
che “Il rapporto di lavoro e le carriere del personale
docente delle istituzioni dell’Alta formazione
artistica, musicale e coreutica, di cui all’art. 33
Cost., sono regolati in analogia con la normativa
vigente per i professori universitari”. Con la
precisazione, necessaria per tranquillizzare la
Ragioneria Generale dello Stato, che “il relativo
trattamento economico, che in prima applicazione non
comporta nuovi o maggiori oneri per lo Stato, è
determinato con regolamento da adottare ai sensi
dell’articolo 17, comma 1, lettera b), della legge 23
agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro
dell’istruzione dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e
del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione, anche in riferimento a quanto previsto
dal decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre
2011, n. 232”.
Poi si dovrà provvedere, con norma a parte, ad inserire
il settore delle Accademie e dei Conservatori nel
Consiglio Universitario Nazionale (CUN)
in due aree distinte,
con competenza nella formulazione di pareri e proposte
nelle materie già affidate al CNAM (Consiglio Nazionale
per l’Alta Formazione Artistica e Musicale), previsto
dalla legge 508/1999, con funzione
consultiva su numerosi aspetti della vita delle
istituzioni (dai
regolamenti
didattici degli istituti al
reclutamento del personale docente,
alla
programmazione dell’offerta
formativa nei settori artistico, musicale e coreutico,
etc.).
Siamo, dunque, ad una svolta decisiva, necessaria per
attuare integralmente, a distanza di quasi venti anni,
la riforma della legge 508/1999 e rilanciare un settore
dell’arte che costituisce una tipicità italiana, ovunque
nel mondo riconosciuta e ammirata. È cronaca di pochi
mesi fa l’episodio della giovanissima cinese, morta,
investita da un treno, mentre inseguiva dei delinquenti
che le avevano rubato la borsetta con i documenti,
compreso il permesso di soggiorno. Studiava arte a Roma,
iscritta all’Accademia.
Chi verrà più in scuole declassate mentre sarebbe
interesse dell’Italia valorizzarne ancor più il ruolo?
Oggi il provvedimento del Ministro Marianna Madia, di
revisione del decreto legislativo n. 165 del 2001,
sull’ordinamento del pubblico impiego è all’ordine del
giorno del Consiglio dei ministri. Sarà accolta la
raccomandazione del Senato? Se lo augurano tutti coloro
che hanno a cuore Conservatori ed Accademie, scuole di
eccellenza dimenticate, come spesso accade in Italia,
con la politica intrappolata tra conflitti di interesse
e corruzione.
19 maggio 2017
Enti pubblici, riforme all’anno zero
Incarichi decisi dallo spoil system
di Salvatore Sfrecola
Nelle
imprese si chiama “area quadri”, nelle pubbliche
amministrazioni era la “carriera direttiva. In ogni caso
la struttura portante delle organizzazioni
amministrative e finanziarie, costituita dai funzionari
che adottano gli atti di gestione delle risorse
pubbliche e che emanano i provvedimenti richiesti dai
cittadini e dalle imprese, nel rispetto dei principi
della economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e
trasparenza. Serve conoscenza delle leggi, dei
regolamenti e delle circolari che, insieme, delineano le
attribuzioni delle amministrazioni ed il loro modus
operandi nel caso concreto, per riconoscere diritti dei
privati e tutelare interessi pubblici. Vi provvedono
uomini e donne “al servizio esclusivo della Nazione”,
come si legge nell’art. 98 della Costituzione, ai quali
è richiesta una preparazione professionale elevata,
universitaria, accertata sulla base di concorsi pubblici
selettivi, difficili, anche perché sempre più rari e per
pochi posti. Infatti, a partire dalla fine degli anni
’90 le politiche di assunzione sono state sempre più
piegate a soddisfare finalità di equilibri di bilancio,
trascurando le esigenze organizzative delle pubbliche
amministrazioni, cioè la stessa funzionalità degli
apparati. È il cosiddetto blocco del turn over che ha
determinato un pericoloso invecchiamento
dell’amministrazione, inutilmente denunciato da più
parti, dagli studiosi come dalle associazioni dei
cittadini. Così oggi l’età media dei dipendenti pubblici
sfiora ovunque i 50 anni. Nessuno in Europa ha
dipendenti anziani come i nostri. Nel Regno Unito il 25%
del personale ha meno di 30 anni, in Germania il 30%.
Anche per la dirigenza l’età media è superiore ai 50
anni. In Francia e nel Regno Unito supera di poco i 45.
A
risentirne è soprattutto il corpo dei funzionari che
mandano avanti gli uffici, che attuano le direttive
amministrative, che redigono i provvedimenti. Un tempo,
come già detto, erano i funzionari della carriera
direttiva, dalla quale si traevano i dirigenti. Una
aspettativa di carriera che costituiva un incentivo al
continuo aggiornamento, al quale provvedevano
innanzitutto i colleghi più anziani ma anche le
amministrazioni, d’intesa con la Scuola Superiore della
Pubblica Amministrazione, attraverso l’organizzazione di
corsi e seminari, per approfondire leggi, per tenere
ferma l’attenzione sulla giurisprudenza amministrativa
(TAR Consiglio di Stato) e sugli orientamenti della
Corte dei conti nell’esercizio delle sue funzioni di
controllo. Poi quest’area è stata affollata da
inserimenti effettuati sulla base di selezioni
inadeguate, “percorsi formativi”, riconoscimenti di
servizi pregressi ed analoghe iniziative di matrice
sindacale che hanno trasferito indiscriminatamente, non
di rado senza titolo di studio (a volte equivocando su
laurea breve e magistrale), stuoli di impiegati nelle
qualifiche superiori, distinte non più per funzioni ma
per lettere e numeri (C1, C2, C3), spesso non avendone
l’attitudine e l’esperienza. Un’operazione fallimentare
che, tra l’altro, per assicurare un migliore trattamento
economico ad invarianza di spesa sono stati trasferiti
alle qualifiche superiori tagliando i posti alla base.
Ho commentato: “i padri hanno tolto il lavoro ai figli”.
L’amministrazione ne soffre e ne soffrono gli addetti
che si vedono accomunati nei giudizi di disvalore,
generalizzati e ingiusti, della politica, di certi mezzi
di informazione, dei cittadini. Che ad ogni prova di
inefficienza, crolli un ponte o ritardi un’opera di
manutenzione danno subito colpa alla burocrazia e alle
sue regole. Di qui le ricorrenti proposte di riforma,
per restituire alle amministrazioni quell’efficienza che
è funzionale al perseguimento delle politiche pubbliche,
cioè del programma di governo, ed alla soddisfazione
degli interessi dei cittadini e delle imprese.
Vi
mise mano il Ministro della funzione pubblica Franco
Frattini nel 2002, con la legge n. 145 del 15 luglio,
che ha previsto, ad integrazione del decreto legislativo
n. 165 del 30 marzo 2001, l’istituzione della “vice
dirigenza” (art. 17-bis). L’errore è stato quello di
rinviare la definizione di questo comparto alla
contrattazione collettiva. Non se ne è fatto niente. I
sindacati, in particolare la CGIL, hanno immediatamente
mostrato ostilità per il progetto, così privando le
pubbliche amministrazioni di quell’area responsabile che
ovunque, negli stati moderni e più efficienti, manda
avanti il lavoro, fatta di tecnici, del diritto,
dell’economia e di tutte le altre specializzazioni che
occorrono per gestire le attribuzioni dei singoli
ministeri, dai medici agli ingegneri, passando per gli
statistici ed i geologi.
Infine la norma è stata abrogata. Non tutti, però, sono
rimasti a guardare. Così le agenzie fiscali, dopo aver
proceduto alla copertura provvisoria di vacanze nelle posizioni
dirigenziali mediante la stipula di contratti
individuali di lavoro a termine con propri funzionari,
con l’attribuzione dello stesso trattamento economico
dei dirigenti, reiteratamente prorogati, censurate dalla
Corte costituzionale (che ha parlato di aggiramento
della legge),
hanno inventato le posizioni organizzative vicarie, che
avrebbero più correttamente dovuto confluire nell’area
quadri, e, secondo la logica della spartizione politica,
le hanno attribuite liberamente sulla base delle
indicazioni provenienti dall’autorità politica. Un
pasticciaccio, nonostante le ripetute pronunce della
Corte costituzionale.
Un
tema tremendamente serio, dunque, quello dell’“area
quadri”, che non è certo in condizione di affrontare il
Ministro dell’innovazione e della pubblica
amministrazione, Marianna Madia, dagli scarsi studi e
nessun esperienza. Un tema che va affrontato con
determinazione, anche per riportare l’attenzione sui
funzionari che sono alla base dell’attività degli
uffici, oggi costretti ad operare in strutture
amministrative disarticolate a seguito della dilatazione
irrazionale delle qualifiche dirigenziali, un tempo in
numero limitato, rette da funzionari che sono rimasti un
esempio di grandissima professionalità nella storia
della Pubblica Amministrazione. Inoltre lo spoil system
selvaggio, che ha accentuato la soggezione del dirigente
al datore di lavoro pubblico attenuando le garanzie di
status, a cominciare dalla stabilità del ruolo, fa
ricadere sul corpo dei funzionari intermedi gran parte
dei gravosi compiti di istruttoria e decisione delle
amministrazioni pubbliche. Per cui l’esigenza di un
intervento urgente che definisca e valorizzi un’area
quadri capace di assicurare maggiore efficienza agli
apparati, e di evitare la riprovevole proliferazione
dell’affidamento fiduciario di incarichi e funzioni
dirigenziali, che ha generato un consistente aggravio
per le casse dell’erario e l’attribuzione di compiti
delicati a soggetti beneficiari di una inammissibile
contiguità con il potere politico, in violazione del
principio della separazione tra politica e gestione.
Sembra giusto, dunque, riconoscere ai futuri Quadri del
pubblico impiego le medesime prerogative che la
Contrattazione Collettiva di Comparto attribuisce, ad
esempio, nelle aree professionali delle imprese
finanziarie e creditizie, oltre alle funzioni vicarie
della dirigenza che appartengono naturalmente ai
funzionari più anziani, i “vice dirigenti” della riforma
Frattini. Quadri direttivi che siano stabilmente
incaricati di svolgere, in via continuativa e
prevalente, mansioni che comportino elevate
responsabilità funzionali ed adeguata preparazione
professionale e che abbiano maturato una significativa
esperienza nei rispettivi settori, accertata capacità
nella direzione e nel coordinamento di altri dipendenti
appartenenti alla medesima categoria o a quella
inferiore.
Sembra tanto? È, invece, il minimo che si possa
pretendere per una organizzazione pubblica nella quale
l’apparato costituisca un’opportunità per chi governa e
per gli amministrati e non un peso.
(Pubblicato da
La Verità,
9 maggio 2017, pagina 16)