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LUGLIO 2017
Quando un popolo perde la propria identità
Da Passa ‘a bandiera, passa a Patria e o’ Re ai vessilli sporchi e
stracciati dei nostri giorni
di Salvatore Sfrecola
Sporca, ridotta a brandelli la bandiera nazionale, il
“Tricolore Italiano”, come si esprime all’art. 12 la
Costituzione, è il simbolo di un Paese che non crede in sé
stesso, che non riconosce la propria identità. Ovunque è
così nell’Italia di questi anni e duole che siano
in queste condizioni soprattutto le bandiere
all’ingresso delle scuole di ogni ordine e grado laddove si
formano, o, meglio, si dovrebbero formare i futuri
cittadini, non solamente quelli che
iure sanguinis lo
sono dalla nascita, ma anche coloro ai quali la cittadinanza
si vorrebbe attribuire in base al cosiddetto
ius culturae, se
dovesse essere approvato il disegno di legge in discussione
al Senato. Quale cultura, quale rispetto per l’Italia
possono acquisire giovani provenienti da ogni parte del
mondo nel vedere come viene trattata la bandiera nazionale
proprio nelle scuole che sono invitati a frequentare per
ottenere la cittadinanza italiana? Senza che si levi una
qualche protesta, ma soprattutto senza che le autorità
sovraordinate intervengano richiamando all’ordine presidi e
direttori didattici, funzionari dello Stato evidentemente
senza dignità della loro funzione. Come potranno i migranti,
così generosamente accolti, integrarsi, il che vuol dire
percepire il senso della identità nazionale, quella fatta di
cultura, di storia, di tradizioni. In particolare di quella
unitaria realizzatasi nel Risorgimento, quando quel vessillo
dai tre colori. Verde, bianco, rosso, fu per la prima volta
alla testa dei soldati del Regno di Sardegna, come volle il
proclama del Re Carlo Alberto del 23 marzo 1848 in vista
dell’ingresso il Lombardia per rispondere alla richiesta che
Gabrio Casati gli aveva rivolto a nome del Governo
provvisorio milanese. Alla prima guerra di indipendenza
contro il “nemico storico”, per dirla con le parole del mite
Luigi Einaudi, all’indomani del 4 novembre 1918, quando,
come abbiamo tutti appreso dal
Bollettino della Vittoria firmato alle ore 12 di quel giorno dal
Generale Armando Diaz, “i resti di quello che fu uno dei più
potenti eserciti del mondo” risalivano “in disordine e senza
speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa
sicurezza”.
La bandiera, ovunque rispettata ed amata al di là del credo
politico, perché quei colori sono di tutti, di destra o di
sinistra. La bandiera ovunque è
il simbolo della nazione e del suo
orgoglio. Basta pensare agli Stati Uniti d’America, spesso
impropriamente richiamati quale esempio dell’apertura allo
ius soli, che lì
c’è, ma che vale esclusivamente per i figli di chi è
legittimamente presente sul territorio, cosa sempre
trascurata.
Qualche mese fa
Il Messaggero
denunciava il caso di
Villa Leopardi, nel romano quartiere
Africano, in via Makallè, dove, sui pennoni della biblioteca
comunale, il Tricolore non c’era più, ridotto ad uno
straccio con la striscia bianca e quella verde divorate dal
tempo.
Immaginavo che sarebbe andata così quando
fu approvata la legge sull’esposizione della bandiera
nazionale. Ero certo che sarebbe stata interpretata
“all’italiana” (quanto mi addolora questa espressione!).
Perché la bandiera non deve essere esposta continuativamente
sugli edifici pubblici ma, ai sensi dell’art. 2, comma 1,
della legge : Legge 5 febbraio 1998, n. 22 ("Disposizioni generali sull'uso della
bandiera della Repubblica italiana e di quella dell'Unione
europea") “per il tempo in cui questi esercitano le
rispettive funzioni e attività”, il che vuol dire, per le
scuole, “nei giorni di lezioni e di esami” (art. 4, comma 3,
del
Decreto del Presidente della Repubblica 7 aprile 2000, n.121 ("Regolamento recante disciplina
dell'uso delle bandiere della Repubblica italiana e
dell'Unione europea da parte delle amministrazioni dello
Stato e degli enti pubblici"). Il che esclude che siano
esposte di notte e in tempo di vacanze.
Le bandiere esposte giorno e notte col
sole o con la pioggia degradano nel giro di pochissimo tempo
e diventano assolutamente irriconoscibili. Uno spettacolo
desolante che la dice lunga sul senso dell’italianità dei
contri concittadini che, alla visione di quella bandiera
vilipesa non insorgono, se non in pochi casi, peraltro
inascoltati. Con questo spirito nazionale il Paese non
riesce a risorgere, come fece un tempo, più di recente dopo
la guerra perduta e le lacerazioni che ne sono seguite.
Bandiere che non hanno più neanche la forza di sventolare
per ricordare a giovani e anziani la nostra storia, chi
siamo. Forse perché non lo sappiamo, perché abbiamo avuto
cattivi maestri che mano mano hanno fatto perdere alle
giovani generazioni il senso dell’appartenenza, quella che
oggi in qualche modo vorremmo riconoscere nei migranti per
effetto dello ius
culturae, attraverso un ciclo scolastico in istituti al
cui ingresso la bandiera è necce condizioni che tutti
possiamo constatare. Impareranno che non c’è rispetto per la
nostra storia, come per l’autorità dello Stato. Quanta
differenza con gli Stati Uniti dove le bandiere sventolano
immacolate su ogni casa, dove bianchi, neri, gialli si
sentono effettivamente americani, come abbiamo imparato a
conoscere dai film di guerra che esaltano il soldato USA,
spesso di colore in un reparto comandato da un ufficiale di
colore. Laddove la Patria è un valore di tutti.
Un tempo era così anche in Italia, un sentimento che è anche
un’idea consegnata in una canzone dall’inconfondibile
accento partenopeo, “Passa a bandiera, passa a Patria o
Rre”, spesso richiamata nelle rievocazioni della Grande
Guerra.
Mi perdoneranno i lettori di fede repubblicana. Ma
converranno certamente che bandiera e Patria sono
inscindibilmente connessi come o’ Rre, per chi si è
abbeverato ai valori di libertà del Risorgimento e
dell’Unità nazionale.
Non esistono convenzioni internazionali
sull'uso della bandiera (flag etiquette), ma le linee
di comportamento seguono regole comunemente accettate. E
sono tali da garantire una esposizione della bandiera che
eviti il degrado che denunciano le nostre. In primo luogo la
bandiera viene esposta
dall'alba al
tramonto, alzata vivacemente ed abbassata con
solennità, non deve mai toccare il suolo né l'acqua. Mai può
essere usata come copertura di tavoli o sedute o come
qualsiasi tipo di drappeggio. Non può mai essere esposta in
posizione inferiore ad altre rispetto alle quali deve
occupare la
posizione privilegiata.
Regole logiche che attestano un senso di
rispetto che dobbiamo assolutamente ritrovare.
28 luglio 2017
Il Governo declassa i Conservatori di musica, un’eccellenza
italiana.
di
Salvatore Sfrecola
“Ci stiamo
lavorando”. Pressata da più parti, in primo luogo dall’Unione degli Artisti (UNAMS) e, da ultimo, dall’ex senatore Vincenzo
Vita che sul Manifesto
aveva parlato di “legge
dimenticata”, a proposito della normativa sugli istituti di
alta formazione artistica e musicale (Afam) datata 1999,
il Ministro Fedeli ha assunto
l’impegno di provvedere a varare il necessario decreto
ministeriale.
Parliamo di
accademie di belle arti, conservatori di musica, accademia
nazionale di danza, istituti musicali pareggiati, accademia
di arte drammatica e istituti superiori per le industrie
artistiche, un’eccellenza italiana nel mondo, oggetto del
desiderio di quanti da ogni continente si iscrivono in
questi istituti prestigiosi per studiare e spesso restano in
Italia per frequentare corsi di perfezionamento.
“Ci stiamo
lavorando”. Ma sarà credibile il Ministro? Se ha trascurato
di chiedere alla collega Madia di dar corso, in sede di
modifica del decreto legislativo sul pubblico impiego (n.
165 del 2001), alla sollecitazione del Senato che aveva
invitato il Governo a
“valutare
la possibilità di rivedere l’inquadramento del personale
AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale), prevedendo uno
stato giuridico formalmente più consono con la loro
professionalità e in analogia con la disciplina prevista per
i professori universitari”.
Secondo le indicazioni della Costituzione che all’art. 33,
ultimo comma, riconosce alle “istituzioni di alta cultura,
università ed accademie… il diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
Come, del resto, aveva fatto la legge 508 del 1999 (diciotto
anni fa!) che ha stabilito l’equipollenza dei titoli,
rinviando ad un regolamento mai adottato la sua attuazione.
Ed ha ignorato la risoluzione presentata in Commissione
cultura della Camera (n. 7-01282) da Manuela Ghizzoni, che
ha invitato il Ministro ad avviare “una solida e accurata
procedura di accreditamento che permetta di adeguare la
qualità di questi corsi alle migliori esperienze nazionali e
internazionali…”. Una
inpasse attribuita a resistenze burocratiche o
corporative. E ciò nonostante la legge di riforma abbia stabilito che ai
Conservatori ed alle Accademie si acceda solo dopo il
completamento della scuola secondaria di secondo grado e che
essi rilascino diplomi accademici di primo e secondo livello
al termine dei relativi corsi accademici, rinviando ad un
successivo regolamento i criteri generali per l’istituzione
e l’attivazione dei corsi e per i relativi ordinamenti
didattici, come accade ovunque nel mondo. Ma il regolamento
poi emanato con decreto del Presidente della Repubblica 8
luglio 2005, n. 212, si è limitato a dettare le norme
relative agli ordinamenti didattici, rinviando ad un atto
successivo, mai adottato, quelle relative all’istituzione e
all’attivazione dei corsi di studio. Che, per quanto
riguarda i corsi di diploma di secondo livello, sono
autorizzati esclusivamente “in via sperimentale”, nelle more
del regolamento sull’istituzione e attivazione dei corsi
previsto dalla legge di diciotto anni fa. In assenza del
regolamento è nuovamente intervenuto il legislatore che, con
l’articolo 1, commi 102 e 103, della legge 24 dicembre 2012,
n. 228 (legge finanziaria 2013), ha disposto l’equipollenza
dei diplomi Afam di primo livello con le lauree
universitarie e dei diplomi Afam di secondo livello con le
lauree magistrali, ma al fine esclusivo dell’ammissione ai
pubblici concorsi per l’accesso alle qualifiche funzionali
del pubblico impiego per le quali ne è prescritto il
possesso.
Un gran marasma, dunque, che pagano
docenti e studenti di istituzioni che, come pure riconosce
il Ministro, sono il “fiore all’occhiello” della nostra
cultura, in un settore di riconosciuta eccellenza. E ci
chiediamo se sia mai possibile che, per dare compiuta
esecuzione ad una legge di diciotto anni fa, occorrano
sollecitazioni parlamentari ripetute e, finora, ignorate?
La legge n. 228 del 2012 ha stabilito che
le istituzioni Afam dovessero concludere la procedura di
messa a ordinamento di tutti i corsi accademici di secondo
livello, ma questa previsione, a distanza di quasi cinque
anni non è stata rispettata in assenza di indicazioni del
Ministero riguardo ai criteri da rispettare per gli
ordinamenti didattici dei corsi accademici di secondo
livello (l’unica eccezione è costituita da quelli di
didattica della musica e dello strumento, istituiti dal
decreto ministeriale 28 settembre 2007, n. 137, da attivare
in conservatori sedi di dipartimenti di didattica della
musica.
“Ci stiamo lavorando”, assicura il Ministro. E
speriamo sia la volta buona per le molte migliaia di
studenti che hanno conseguito un diploma accademico di
secondo livello, ma che, a causa della mancata disciplina
dei relativi corsi, non dispongono ancora di un titolo di
studio equipollente ad una laurea magistrale, contrariamente
a quanto disposto dalla legge n. 228 del 2012, pur essendo
ampiamente scaduto il periodo previsto per l’adeguamento dei
regolamenti didattici. Contestualmente il Ministro dovrà
assumere iniziative per avviare accurata procedura di
accreditamento che permetta di adeguare la qualità di questi
corsi alle migliori esperienze nazionali e internazionali e
di disattivare i corsi che eventualmente non superino
positivamente la procedura di accreditamento.
Intanto il decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 59
(Madia), di cui si è detto, avendo trascurato la
sollecitazione del Senato a rendere autonomo il “comparto di
contrattazione” delle Accademie e dei Conservatori di musica
ha improvvidamente “retrocesso” questi istituti nel comparto del
personale della Scuola “di ogni ordine e grado”.
In sostanza dal luglio 2016 i
docenti di Accademie e Conservatori (intorno a 6.000) sono
stati inglobati nel mare magnum del
personale delle
scuole materne,
elementari, secondarie ed artistiche, nonostante si tratti
di
istituzioni
culturali che,
sulla base della
legge n. 508/99, devono rilasciare
titoli accademici di I e II livello, insomma lauree, come
accade ovunque nel mondo. Immaginate quale attenzione
Governo e sindacati possono riservare ad un settore
assolutamente minoritario, sia pure illustre, tra centinaia
di migliaia di docenti “di ogni ordine e grado”!
È evidente
l’assurdità di questa situazione. Con la conseguenza che, in
prospettiva, sarà difficile mantenere alto il prestigio di
queste istituzioni, dal momento che al corpo insegnante e
agli studenti sarà sempre più evidente che le loro scuole
non sono più considerate un’eccellenza, che l’Italia non è
più il Paese dei grandi pittori, scultori o musicisti ai
quali si ispirano gli artisti ovunque nel mondo.
(da
La Verità, 15 luglio 2017)
Denis Mack Smith, amico dell’Italia ?
di Domenico Giglio
La recente
scomparsa, l’11 luglio scorso, dello storico inglese ha dato
logicamente occasione ad articoli che ne ricordassero le sue
opere, grande parte delle stesse dedicate alla storia
dell’Italia e che ebbero anche una notevole diffusione, nel
trentennio dal 1960 al 1990, riempendo un vuoto sulla storia
della nostra Unità, che dopo Benedetto Croce e Gioacchino
Volpe, la cui “Italia Moderna” si fermava al 1914, non aveva
avuto per decenni alcuna opera di valore, vuoto che solo in
occasione del centocinquantesimo del Regno, ha trovato in
Domenico Fisichella l’autore che in una trilogia da “Il
miracolo del Risorgimento”, “Dal Risorgimento al fascismo” e
infine “Dittatura e Monarchia” ha realizzato finalmente una
storia completa e leggibile della Italia Unita.
Da questo
interesse dello Smith per la nostra storia, farlo passare ad
amore per l’Italia o ad amico della stessa, c’è una notevole
differenza, perché specie nell’opera principale, “Storia
d’Italia- 1861-1958”, le sue simpatie, senza dubbio
giustificate, furono solo per Garibaldi, mentre su Cavour il
giudizio non fu benevolo, tanto che Rosario Romeo, il più
accreditato tra gli studiosi dell’opera del Cavour dovette
replicargli, ottenendo, successivamente una qualche
ritrattazione. Egualmente acre fu pure il suo giudizio sui
Re di Casa Savoia ,”I Savoia re d’ Italia”, arricchendo
anche qui i suoi studi di aneddoti che stimolano la
curiosità del lettore, ma non rappresentano il vero quadro
storico nel quale si erano svolti i fatti.
Senza dubbio in
questa sua visuale era determinante la sua formazione
ideologica, democratica radicale, così che anche per quanto
riguarda il fascismo lo Smith ne trova possibili origini
addirittura nel Risorgimento e nel patriottismo liberale e
successivamente in un Crispi, ma non ricorda che senza il
troppo spesso dimenticato ”biennio rosso”, dal 1919 al 1921,
e la altrettanto famosa “rivoluzione d’ottobre” in Russia,
di cui, fra l’altro, ricorre quest’anno il centenario, con
le sue successive rivolte in Prussia, Baviera ed Ungheria,
il fascismo non avrebbe trovato il terreno fertile per la
sua azione e successiva affermazione. E come per Cavour,
Smith aveva trovato le repliche di Romeo, così per il
fascismo le trovò in De Felice, che partendo da una
giovanile militanza comunista, era arrivato ad una visione
globale, veramente storica, del fenomeno Mussolini, visione
che a tutt’oggi rimane insuperata, provocando travasi di
bile negli antifascisti di “professione”, che non possono
perdonargli di avere sottolineato gli anni del consenso al
regime, di cui pure tanti e qualificati compatrioti del Mack
Smith erano stati pure ammiratori.
15 luglio 2017
Dovrà occuparsene la Procura della Corte dei
conti
Costituiscono danno erariale le spese
sostenute in violazione della Convenzione di Dublino
di
Salvatore Sfrecola
Alla fine dovrà
occuparsene la Procura della Corte dei conti. Infatti la
violazione del cosiddetto “Trattato di Dublino”, cioè della
“Convenzione sulla determinazione dello stato competente per
l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli
stati membri delle Comunità Europee”, recentemente
denunciata da Emma Bonino, ha riguardato anche una regola
fondamentale della gestione della finanza pubblica, quella
secondo la quale ogni spesa a carico del bilancio dello
Stato deve trovare necessariamente una giustificazione in
una legge che la preveda. Questo non è accaduto secondo l’ex Ministro degli esteri ed ex Commissario europeo per
l’immigrazione.
Infatti, parlando alla
69sima Assemblea generale di Confartigianato, la Bonino
ha testualmente affermato:
“all’inizio non ci siamo resi conto che era un problema
strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male
da soli. Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi
avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. In
sostanza, è la tesi dell’ex Ministro,
tra il 2014 e il 2016, il governo italiano, in accordo con
altri stati o autonomamente, avrebbe deciso che il
coordinamento delle operazioni in mare sarebbe stato gestito
in esclusiva dalla Guardia Costiera Italiana con la
conseguenza che, da allora, i migranti sbarcano solamente in
Italia, anche se soccorsi in acque internazionali o di altri
Paesi, come dimostra la circostanza che, ancora
recentemente, unità delle marine del Regno di Spagna, del
Regno Unito e del Regno di Svezia, hanno accompagnano nei
porti italiani soggetti recuperati in mare.
In sostanza, ha voluto dire l’ex Ministro, abbiamo fatto
sbarcare tutti in Italia, anche coloro che, sulla base della
Convenzione di Dublino, raccolti in mare da navi straniere,
avrebbero dovuto essere accompagnati nei porti dei paesi dei
quali battevano bandiera, ai fini dell’esame della richiesta
di asilo. Le navi, infatti, secondo il cosiddetto diritto di
bandiera, sono a tutti gli effetti territorio dello Stato
del quale inalberano il vessillo, sicché ai sensi della
Convenzione di Dublino il paese di prima accoglienza è
quello della nave che ha raccolto i profughi e che,
conseguentemente, deve darsene carico ai fini del
riconoscimento e degli altri adempimenti previsti. La
Convenzione, infatti,
ha
stabilito che
ogni domanda di asilo per
quanti raggiungono uno stato membro deve essere esaminata da
quello stato e non da altri.
La decisione di accogliere tutti, dunque, si pone in
violazione della Convenzione di Dublino. Non solo. In tal
modo è stata violata anche la regola base della gestione del
bilancio, secondo la quale la legittimità di una spesa deve
rispondere ad un duplice requisito, l’esistenza di un
apposito stanziamento e di una norma di legge che quella
spesa preveda. Senza alternativa, nel senso che una somma
stanziata in bilancio ma non sorretta da una norma di legge
non può essere spesa. Per converso la semplice esistenza di
una legge non può consentire una spesa che non sia stata
preventivamente inserita nel bilancio con apposito
stanziamento.
La situazione denunciata dall’ex Ministro Bonino, dunque, va
configurata come una spesa non dovuta ed ulteriore rispetto
a quella con la quale legittimamente lo Stato italiano ha
inteso far fronte agli oneri di riconoscimento dei
richiedenti asilo come stabilito dalla Convenzione di
Dublino. Con la conseguenza che non sono conformi a legge
gli oneri sostenuti dalle varie strutture dello Stato quando
si sono prese carico, con tutte le ulteriori spese di
assistenza, di soggetti i quali sono presenti in territorio
italiano per essere stato consentito ad unità di flotte
straniere di attraccare nei nostri porti e di far scendere a
terra soggetti recuperati in mare.
Il fatto che si tratti di una Convenzione internazionale non
è certamente di ostacolo alla individuazione della
fattispecie illecita costituente danno erariale. La regola
vale sempre. Naturalmente non potrà essere considerato
responsabile a titolo di colpa il singolo funzionario
italiano, civile o militare, prefetto o comandante di porto,
il quale abbia consentito che da una nave militare spagnola,
inglese o svedese, tanto per fare riferimento ai casi più
recenti, scendessero a terra i profughi che su quella nave
avrebbero dovuto essere riconosciuti ai sensi della
Convenzione ai fini dell’istruttoria della domanda di asilo.
I nostri funzionari hanno agito secondo una evidente
indicazione dell’autorità politica, esplicita o implicita
che sia. Ed in questa indicazione è la ragione della spesa
non consentita, il requisito soggettivo della responsabilità
amministrativa per danno erariale che ricade sull’autorità
politica. Né può costituire esimente, sotto il profilo della
colpa, la “ragione politica” di una scelta che, secondo
indicazioni di stampa, sarebbe alla base della decisione di
accogliere tutti “indiscriminatamente”: l’ottenimento di una
maggiore “flessibilità”, cioè la possibilità di un maggiore
deficit di bilancio.
Salus rei pubblicae suprema lex esto? Difficile possa
configurarsi nella autorizzazione ad un maggiore deficit di
bilancio in cambio di una spesa dai confini difficilmente
definibili, nel
quantum e nel tempo, perché naturalmente moltiplicatore
di ulteriori oneri, al di là di quello immediato che,
peraltro, è notevole.
(da La Verità
dell’11 luglio 2017)
Immigrazione: prendiamo schiaffi a Tallin
E ce li dobbiamo tenere perché abbiamo violato le regole di Dublino
di Salvatore Sfrecola
Credo nell’Europa, fortemente. Io innamorato della mia Patria,
uomo “del Risorgimento”, come suole ripetere un mio amico,
perché fortemente ancorato ai valori che hanno trovato
accoglienza in quello straordinario processo unitario che
seppe mettere insieme idee e ambizioni personali, territori
e culture, il rivoluzionario Mazzini e il liberale Cavour,
la Sicilia e il Piemonte, confluiti nel Regno d’Italia sotto
lo scettro di Vittorio Emanuele II. Un “miracolo”, come ha
scritto Domenico Fisichella.
Credo nell’Italia e perciò credo nell’Europa alle cui radici il
nostro Paese concorre in virtù della sua storia, della
tradizione di Roma, del suo senso dell’universalità, del suo
diritto, le cui regole innervano oggi tutti gli ordinamenti
civili al di qua e al di là dell’oceano. L’Italia della
cultura, dell’arte, della filosofia, del pensiero medievale,
moderno e rinascimentale. E soffro nel constatare che
l’Italia, socio fondatore di quella Comunità che nel
frattempo è diventata Unione, non riesce ad essere partner
credibile e, pertanto, determinante nella definizione delle
politiche pubbliche europee, a cominciare, per motivi di
attualità, da quelle della immigrazione. Un fenomeno
“epocale”, si è detto con l’enfasi del
politically correct per qualificarlo immediatamente come
irrimediabile, che poco c’è da fare per contrastarlo o,
anche solo, per regolarlo secondo gli interessi dei migranti
e dei paesi che li accolgono di buona o di mala voglia.
Poi ci si accorge, ma sarebbe stato facile capirlo prima, che il
fenomeno “epocale” in realtà è organizzato, con il concorso
di interessi vari, economici e politici. Di chi recluta,
assiste e trasporta per terra e per mare migliaia di esseri
umani. Non gruppetti di fuggiaschi ma persone che pagano
somme rilevanti, fino a 5000 dollari/euro, si dice, per
essere trasportati in Europa. Quanto basta per aprire
un’attività produttiva in Africa spesa per una traversata!
L’Europa ha capito. Lo aveva certamente già presente, ma lasciava
fare all’Italia, volonterosa e caritatevole, dove con i
soldi del contribuente si arricchiscono organizzazioni le
più varie, anche criminali se qualcuno ha potuto affermare
che, con l’accoglienza dei migranti, si guadagna più che con
la droga.
Era prevedibile, dunque, che i nodi sarebbero venuti al pettine,
che gli ingressi indiscriminati e incontrollati avrebbero
creato problemi di tenuta del sistema dell’accoglienza e
della sicurezza interna. Del resto una massa di soggetti
sbandati e senza lavoro è naturalmente portata a ricercare
espedienti per sopravvivere o per non annoiarsi. E così,
quando abbiamo deciso di fare quello
che avremmo dovuto fare all’inizio per frenare il fenomeno,
i nostri partner europei giustamente non accettano di essere
chiamati a risolvere un’emergenza che noi abbiamo
volontariamente provocato, come ha affermato l’ex Ministro
degli esteri ed ex Commissario europeo Emma Bonino. Parlando di immigrazione in un intervento
alla 69sima Assemblea generale di Confartigianato, al quale i mezzi d’informazione hanno
riservato uno speciale rilievo, la Bonino ha affermato:
“all’inizio non ci siamo resi conto che era un problema
strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male
da soli. Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi
avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. In
sostanza, è la tesi dell’ex Ministro,
tra il 2014 e il 2016, il governo italiano, in accordo con
altri stati o autonomamente, avrebbe deciso che il
coordinamento delle operazioni in mare sarebbe stato gestito
in esclusiva dalla Guardia Costiera Italiana con la
conseguenza che, da allora, i migranti sbarcano solamente in
Italia, anche se soccorsi in acque internazionali o di altri
Paesi, come dimostra la circostanza che unità delle marine
di altri paesi europei, negli ultimi giorni navi del Regno
di Spagna e del Regno Unito, hanno accompagnano nei porti
italiani soggetti recuperati in mare in acque non italiane.
In sostanza, ha voluto dire l’ex Ministro, abbiamo fatto
sbarcare tutti in Italia, anche coloro che, sulla base della
Convenzione di Dublino, raccolti in acque di altri stati,
avrebbero dovuto essere accompagnati nei porti di quei paesi
ai fini della richiesta di asilo. In questo sta la
violazione della Convenzione di Dublino.
E così rimaniamo col cerino in mano, screditati, avendo
dimostrato per molto tempo di agire con colpevole leggerezza
anche contro gli interessi dei migranti e dei paesi di
provenienza, come se volessimo fare un piacere al lucroso
business
dell’accoglienza o della carità pagata dal contribuente. Per
cui prendiamo solo schiaffi con la consolazione, che
solamente il ministro Minniti può ritenere tale, che a
Tallin, al vertice dei Ministri europei dell’interno, tutto
è andato secondo le previsioni. Insomma gli schiaffi
previsti li abbiamo presi. E ce li teniamo.
7 luglio 2017
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