NOVEMBRE 2016
Un
nuovo libro di Domenico Fisichella
Il
modello USA per ’unità d’Europa?
di Domenico Giglio
Domenico
Fisichella, dopo il fondamentale trittico dedicato al
Risorgimento ed al Regno d’Italia, costituito da “Il
Miracolo del Risorgimento”, “Dal Risorgimento al
fascismo” e “Dittatura e Monarchia” (editi
rispettivamente nel 2010, 2012 e 2014 da Carocci
Editore), che costituiscono la più recente, documentata,
completa analisi della storia d’Italia dal 1800 al 1946,
è tornato, sempre nel campo storico, al quadro più
generale delle realtà europee e mondiali ed ai temi a
Lui cari della Dottrina dello Stato e Scienza della
Politica di cui è stato per lunghi anni docente.
Il nuovo libro,
testè uscito, facente parte della “Biblioteca di Storia
e Politica” dal titolo “Il modello USA per l’unità di
Europa?” (edizione “Pagine s.r.l.” del 2016 – euro
18,00), tratta appunto questo problema) che come
precisato dal Fisichella, non vuole essere una storia
degli Stati Uniti d’America, anche se logicamente ha
dovuto precisare alcune tappe fondamentali della nascita
e dello sviluppo di questa Unione, partendo dalla
riunione del 1774, a Filadelfia, delle tredici
originarie colonie, che nel 1776, con la “Dichiarazione
d’Indipendenza”, si costituiranno appunto in Unione e da
Colonie in Stati. E necessariamente ricorrono i nomi di
Washington, Hamiltonn, Madison e poi Monroe, con la sua
dottrina e le tappe, anche sanguinose e dolorose, della
guerra civile, detta “Guerra di Secessione “, dopo la
quale ritrovata l’unità e la preminenza dello stato
nazionale, nascerà, come scrive Fisichella, “La Grande
Potenza”, i cui sviluppi “imperiali”, ben conosciamo e
che portarono nel 1917 i primi soldati americani in
Europa, in appoggio e sostegno delle truppe
franco-inglesi, impegnate nel mortale duello con
l’Impero Germanico.
Quanta differenza
con gli stati europei di cui ricorda, per sommi capi, le
linee di sviluppo, i dibattiti teorici e le implicazioni
politiche, con le lotte per l’egemonia, soffermandosi
sulla nascita di nuovi stati, con belle pagine dedicate
all’unità dell’Italia, costituitasi in Regno, e poi
ancora gli sviluppi della attuale Unione europea, anche
soffermandosi sul “Manifesto di Ventotene”. Importanti
infine le considerazioni, svolte anche in precedenza da
Fisichella, sui dati numerici della popolazione europea,
che nel giro di un secolo, dal 1900 ad oggi, l’ha vista
scendere dal 25% della popolazione mondiale, a molto
meno del 10%, con tendenza inarrestabile alla ulteriore
diminuzione, a vantaggio dell’Africa, ancora più che
dell’Asia, dove già esistono l’India e la Cina,
superiori al miliardo di abitanti! Dati impressionanti
che dovrebbero far riflettere gli sprovveduti che
rilanciano i nazionalismi europei o auspicano, in vari
casi la disintegrazione degli stati nazionali, a favore
di più piccole patrie.
Testo perciò da
leggere e meditare, invece di romanzi e di saghe fuori
del tempo e della storia.
22 novembre 2016
L’Europa dall’Atlantico agli Urali
di Domenico Giglio
Questa frase di
De Gaulle va oggi ricordata, perché le incomprensioni
tra l’Unione Europea e gli USA di Obama e la Russia di
Putin hanno raggiunto un livello pericoloso. Con questa
affermazione fatta da un uomo, profondamente legato alla
sua patria, la Francia, si voleva ricordare che la
Russia, oggi non più URSS, faceva storicamente e
geograficamente parte dell’Europa. De Gaulle, come tutti
gli ufficiali usciti dalle grandi accademie militari,
non aveva solo una vasta cultura militare, con una
moderna visione della guerra, che non avevano i grandi
generali francesi, e lo si vide nel 1940, ma anche una
altrettanto vasta cultura storica, come del resto
avveniva per chi, nel Regno d’Italia, usciva dalle regie
accademie di Torino e di Modena. A tale proposito, a
titolo indicativo, ho anche un ricordo familiare, in
quanto mio Nonno, entrato all’Accademia di Modena nel
lontano 1875, studiò la storia d’Europa su un importante
testo del Senatore del Regno, professore di storia nella
Università di Torino, Ercole Ricotti (volume di 736
pagine, che fa parte della biblioteca di famiglia), che
nulla taceva su quanto avvenuto in Europa dal 476 d.C.
al 1861, ed anche la storia mondiale su di un altro
testo (volume di 634 pagine ), opera di un brillante
ufficiale di Stato Maggiore, Tancredi Fogliani, testo
specifico per la Scuola Militare.
Quindi la Russia,
nella visione di De Gaulle, faceva parte dell’ Europa,
ed in effetti questa appartenenza risale almeno a Pietro
il Grande, che da giovane, aveva girato per l’Europa per
studiarne costumi ed istituzioni e per conoscere le
conquiste di carattere tecnico, e ad ingegneri ed
artisti europei, specie italiani, affidò l’incarico di
progettare e costruire la nuova grande capitale che da
lui prese nome . E così i russi combatterono contro la
Svezia, di Carlo XII, famoso generale, per fermarne
l’espansione, e poi contro Napoleone, determinando
l’inizio delle sue sconfitte, e dopo la sua caduta,
presero parte quasi da protagonisti nel Congresso di
Vienna, del 1814 e nella costituzione della “Santa
Alleanza”.
In nome di
questa, truppe russe, intervennero in, Ungheria, nel
1849, ribellatasi all’Impero Asburgico, per
riconsegnarla a Francesco Giuseppe, e poi le guerre
contro l’Impero Ottomano, che portarono alla nascita di
Romania e Bulgaria, malgrado l’intermezzo della guerra
di Crimea, e poi ancora l’intesa dei “tre imperatori”,
con l’Impero Germanico ed Austro-Ungarico. Venne poi
l’alleanza con la Francia e l’intervento nel 1914 a
favore della piccola Serbia, slava ed ortodossa,
stupidamente aggredita dall’Austria, e l’inizio della
prima Guerra Mondiale.
In sostanza fino
al 1917, la Russia Imperiale fece parte del “concerto”
delle potenze europee, dove pure era entrato, non
dimentichiamolo, anche il giovane Regno d’Italia. La
frattura avvenne con la rivoluzione bolscevica, e con la
nuova URSS, che voleva espandere l’idea comunista nel
mondo per cui solo lo sciagurato attacco di Hitler, nel
1941, dopo l’effimero accordo Ribbentrop- Molotov, creò
nuovamente una alleanza con la Gran Bretagna e gli USA,
che consentirono all’Unione Sovietica di insediarsi nel
mezzo dell’Europa con i suoi stati satelliti, fino alla
caduta del “muro”, all’avvento di Gorbaciov e poi di
Eltsin.
Che oggi la
Russia, restituite alla indipendenza, magari
malvolentieri, i tre piccoli stati baltici, Estonia,
Lettonia e Lituania, e la grande Ucraina, non sia una
democrazia perfetta, ma quale è anche negli altri paesi
perfetta, è abbastanza noto, ma il compito storico
dell’Europa è di riportarla nel “concerto”, sia per il
numero degli abitanti, sia per le sue potenzialità
economiche (non dimentichiamo la Siberia), sia, infine,
per essere un paese ancora abbastanza cristiano, anche
se ortodosso, rispetto ad una Europa Occidentale,
piuttosto scristianizzata, malgrado le sue indiscusse
origini cristiane, e l’attività ecumenica e quasi
missionaria dei più recenti Pontefici.
19 novembre 2016
Errori e pregiudizi di stampa e televisione alle prese con la
campagna elettorale Clinton - Trump
di Salvatore Sfrecola
I giornali e le televisioni di casa nostra hanno dimostrato
ancora una volta, nelle previsioni del voto riguardanti
la campagna elettorale americana e nei commenti sui
programmi dei due candidati, di essere guidati
dall’ideologia alla quale si ispirano come uomini di
cultura, avendo spesso dimenticato una regola
fondamentale dell’informazione, quella di distinguere i
fatti dalle opinioni. È accaduto più volte in passato.
Clamoroso il caso dell’immagine che giornali e
televisioni davano in Italia del personaggio Ronald
Reagan, candidato alla presidenza degli Stati Uniti,
presentato come un attore di Hollywood di quarta fila,
specializzato in polpettoni western, trascurando il
fatto che lo stesso era stato, per due mandati,
governatore dello Stato della California, uno dei più
importanti di quel grande paese.
Confondendo la realtà con i loro desideri quei giornalisti
persero un’occasione per dare una informazione corretta,
liberi ovviamente di criticare la linea politica
prospettata nella campagna elettorale, allora da Reagan,
nei mesi scorsi da Trump. Invece hanno dato corpo alle
aspettative della parte politica alla quale aderiscono o
della linea dettata dal proprietario della testata.
Per la verità anche i sondaggisti hanno sbagliato, un po’ perché
è obiettivamente difficile individuare in una fase nella
quale le intenzioni di voto non sono sempre esattamente
delineate, l’andamento del corpo elettorale, soprattutto
in una realtà variegata come quella degli Stati Uniti
d’America dove da stato a stato cambia profondamente la
realtà sociale ed economica, il substrato antropologico
condizionato dalla storia, dalle esperienze maturate nel
lavoro, nel rapporto con le istituzioni, in particolare
con il fisco. Così basandosi su campioni evidentemente
non rappresentativi dell’universo da indagare, i
sondaggi hanno dimostrato i loro limiti forse anche
condizionati dagli interessi delle lobbyes contrapposte
che pure erano evidenti nella campagna elettorale.
Ricordo che qualche settimana fa, trovandomi a parlare con un
amico che conosce gli Stati Uniti ed ha molte amicizie
in quel paese mi sentii dire, ad alcune mie osservazioni
riguardanti l’andamento del confronto elettorale, che
per avere una migliore rappresentazione della situazione
effettiva avrei dovuto soffermarmi su alcune
trasmissioni televisive di canali di Sky, da lui
ritenuti più obiettivi. E in effetti, seguendo
interviste televisive, rilevazioni degli umori
dell’elettorato ed i commenti di vri opinionisti mi sono
fatto presto la convinzione che questo maggiore
appeal della Clinton, sulla quale in parte
concordavo avendo assistito ad alcuni confronti dei due
candidati che avevano mostrato un Trump troppo
condizionato dalla impostazione polemica della Clinton,
avrebbe portato la candidata democratica al successo.
Evidentemente, però, sfuggiva a me, e questo è poco importante,
quello che, invece, colposamente è stato trascurato dai
media, che il disagio sociale di larghi strati della
popolazione è stato bene interpretato e capito dal
candidato repubblicano il quale se ne è fatto portavoce
con successo. Ed evidentemente la gente ha capito che
quella presa di posizione, in un contesto più ampio di
una proposta elettorale, era affidabile e meritevole di
essere condivisa.
D’altra parte queste errate valutazioni degli orientamenti del
corpo elettorale sono anche un’esperienza italiana, non
solo dei giornalisti, ma anche dei politici, dacché si
sentono spesso in televisione ripetere, da parte di
esponenti del Partito Democratico, riferimenti al
risultato delle elezioni europee che hanno dato a quella
parte politica oltre il 40% dei voti, ritenuto realmente
un indice dell’apprezzamento stabile degli italiani nei
confronti della linea politica di Renzi, senza
considerare che nelle elezioni europee gli italiani si
sentono più liberi perché ritengono, sbagliando, che,
tutto sommato, le scelte che si fanno in quella sede
sono poco rilevanti per gli interessi della gente. E
comunque che ha avuto il suo peso la probabile
aspettativa del nuovo di fronte ad un leader appena
insediatosi a Palazzo Chigi, tra l’altro presentatosi
con una cospicua erogazione di denaro, gli € 80 erogati
alla vigilia ad una ampia categoria di cittadini. Tutto
questo ha prodotto quel risultato che non è stato
possibile reiterare in occasione delle elezioni
amministrative dove tradizionalmente il cittadino è più
attento alle scelte che è chiamato a fare, perché
consapevole degli effetti che personalmente si attende
dagli amministratori locali nelle grandi come,
soprattutto, nelle medie e piccole realtà che
caratterizzano il tessuto urbano del nostro Paese.
Appare dunque evidente che sondaggisti ed opinionisti si trovano
e ancor più si troveranno nei prossimi giorni in
difficoltà per interpretare gli orientamenti
dell’elettorato sia sulla riforma costituzionale che sul
governo perché è inevitabile che nel segnare un SI o NO
sulla scheda referendaria gli italiani giudicheranno se
gli slogan che il Presidente del consiglio e il suo
ministro delle riforme diffondono a piene mani ci
prospettano effettivamente risparmi e semplificazione,
avendo presente quel che il governo ha fatto in questi
due anni e mezzo di vita e quello che sta facendo in
vista dell’approvazione parlamentare della legge di
bilancio. Quindi un giudizio complessivo sul governo e
sulla persona del Presidente del consiglio che,
sbagliando, con arroganza, si è intestato una riforma
costituzionale che tradizionalmente è materia del
Parlamento. Quindi anche la marcia indietro rispetto
alla iniziale impostazione della riforma costituzionale
come scelta pro o contro il presidente che, in caso di
sconfitta, aveva preannunciato non solo l’abbandono del
governo ma della politica, non servirà a modificare gli
orientamenti del corpo elettorale in vista della data
fatidica del 4 dicembre. E non è da escludere che
l’esito delle elezioni americane, che hanno sovvertito i
falsi pronostici portando al vertice degli Stati Uniti
il miliardario eccentrico Donald Trump, che ha saputo
interpretare meglio le esigenze della gente, possa
guidare le scelte degli italiani che, come gli abitanti
di oltre oceano, sentono forte il peso di una burocrazia
oppressiva, di un fisco ingiusto che non favorisce i
consumi e lo sviluppo del Paese, di una sanità che varia
da regione a regione. Da ultimo mostrare a Bruxelles più
i minuscoli che le ragioni della nostra economia non
porta lontano, soprattutto perché nell’Unione europea
come in Italia molti ricordano che il presidente Renzi,
nel semestre nel quale ha esercitato le funzioni di
presidente del Consiglio dei Ministri europeo è passato
assolutamente inosservato per mancanza di idee e di
capacità di attuare un dialogo costruttivo con gli altri
partner europei.
12 novembre 2016
Riflessioni a margine delle elezioni USA
Nelle monarchie regine ed imperatrici
di Domenico Giglio
Le difficoltà
incontrate dalla Clinton per l’elezione, poi mancata, a
Presidente degli USA, invitano, ad una riflessione sui
due grandi sistemi istituzionali esistenti, monarchico e
repubblicano, e sul ruolo delle donne negli stessi
particolarmente dove le monarchie erano più diffuse e
cioè in Europa e nei paesi intorno al Mediterraneo a
dimostrazione che le frasi stantie e pur diffuse sul
progressismo delle repubbliche, sono semplicemente frasi
atte a colpire gli uditori, senza valore storico.
Tralasciamo le
regine mitiche, la cartaginese Didone e l’assira
Semiramide, e passiamo alle già storiche Sofonisba,
numida, Cleopatra, regina d’ Egitto e Zenobia, regina di
Palmira, per poi andare alla bizantina imperatrice
Teodora ed alla longobarda Teodolinda, tutte figure
particolarmente importanti nella storia dei loro paesi e
non semplici comparse.
Passiamo ad
epoche più vicine troviamo la grande Elisabetta, regina
d’Inghilterra, che ha dato il nome ad un’epoca
“elisabettiana”, la contemporanea sfortunata Maria
Stuarda, e sempre in Inghilterra, Anna Stuart,
determinante nell’atto di unione con la Scozia del 1707,
due regine di Francia, di origine italiana, Caterina e
Maria dei Medici, anch’esse dotate di forte personalità
e protagoniste della vita politiche del Regno, per poi
andare in Russia dalle due imperatrici Caterina, la
seconda detta “la Grande”, fra le quali si inserisce
l’imperatrice Anna Ivanovna, tutte tese ad un’opera
riformatrice dell’impero, come in Austria si adoperava
Maria Teresa, con esiti che hanno contrassegnato e
contraddistinto la successiva vita dell’impero
austriaco. Arriviamo all’ottocento e sempre in
Inghilterra, oramai Regno Unito, abbiamo Vittoria, anche
imperatrice delle Indie, da cui l’epoca “vittoriana”,
vera e propria “nonna d’Europa”, i cui nipoti sparsi in
tutto il continente, non sono stati purtroppo alla sua
altezza.
Dobbiamo
aggiungere altro ? Le tre regine d’ Olanda, succedute
l’una all’altra, per 123 anni, Guglielmina, Giuliana,
Beatrice, ed alla attuale Elisabetta II, la cui durata
del regno, non conosce limiti, e la regina di Danimarca,
Margherita II, mentre la Svezia dopo la famosa regina
Cristina, figlia di Gustavo Adolfo, donna colta e
sovrana illuminata, convertitasi al cattolicesimo e
venuta a stabilirsi a Roma, avrà nuovamente una regina
dopo l’attuale sovrano, di cui è figlia. Questo in paesi
sulla cui importanza nella storia d’Europa non credo ci
sia bisogno di soffermarci, ma anche dove vigeva la
“legge salica”, le regine pur non avendo responsabilità
dirette di governo hanno contrassegnato la loro epoca,
come è stato con Margherita di Savoia, prima regina del
giovane Regno, “icona dell’Italia Unita”, splendida
definizione dello storico Galasso.
11 novembre 2016
Quando negli USA una donna
Presidente ?
di Domenico Giglio
Sembrava non
esserci in queste elezioni dell’8 novembre 2016,
occasione migliore perché una donna, la Hyllary Rhodam
in Clinton, raggiungesse la Casa Bianca, dopo un
cattolico, Kennedy, nel 1960 e un afro-americano, Obama,
nel 2008. L’imponente schieramento a suo favore di tutta
la stampa, degli “opinion leader”, di importanti reti
televisive ed infine la strana figura del suo
competitore, esponente di un grande e storico partito,
il GOP, che, incredibile a dirsi, non si riconosceva in
parte proprio nel suo candidato davano l’esito della
partita più facile del previsto per la candidata
democratica. Il tocco finale lo avevano dato le
previsioni degli istituti specializzati ed a proposito
di queste indagini, quando in una elezione vi è un
partito od un candidato “demonizzato”, come nel caso
Trump, non considerano che diversi intervistati non
osano dichiararsi a favore di questi “indesiderabili” e
preferiscono o l’astensione (ancora non ho deciso) o
addirittura dichiarano di votare per i loro avversari.
Così abbiamo avuto la sorpresa della sconfitta della
Hillary ed a questo punto ci si pone la domanda
iniziale: quando negli USA una donna presidente ?
L’attuale
candidata sconfitta, tra quattro anni, avrà ancora i
mezzi materiali ingentissimi di cui disponeva oggi e
soprattutto le condizioni fisiche, di cui già adesso, vi
erano stati segnali non favorevoli? Allora la candidata
più probabile non potrà essere l’attuale consorte del
presidente uscente, la Michelle Obama? Non dimentichiamo
l’impegno messo dalla stessa, quest’anno, a favore della
Clinton. Fossero le prove generali, l’apprendistato,
l’allenamento per una propria futura candidatura? Se
effettivamente lo fosse, il problema dei mezzi
finanziari di cui la Clinton era dotata, potrebbe essere
uno svantaggio iniziale, ma i mezzi finanziari si
troverebbero, come già si trovarono per il marito nel
2008 e nel 2012 per cui in un partito democratico
disastrato nel parlamento, minoritario nei Governatori
degli Stati che costituiscono l’Unione, fermatasi la
dinastia Bush, naufragata la dinastia Clinton non
potrebbe iniziare una dinastia Obama? L’ età, della
Michelle, anche tra quattro o più anni, sarà sempre
inferiore a quella che oggi aveva la Clinton e questa
possibile candidatura potrebbe rivelarsi l’ancora di
salvezza.
Manzonianamente “
..ai posteri l’ardua sentenza….”
10 novembre 2016
OBAMA : un finale poco dignitoso
di Domenico Giglio
Essersi
sbracciato, in maniche di camicia, per appoggiare, lui
Presidente degli Stati Uniti, una candidata alle
elezioni presidenziali, sia pure del suo partito
democratico, non ha giovato alla stessa candidata
battuta dal candidato repubblicano, sia pure un po’
anomalo rispetto alle tradizioni del suo partito. La
popolarità ed il giudizio favorevole su Obama, per il
50% degli americani, come dicono le rilevazioni
statistiche, sulle quali dopo il clamoroso errore nelle
previsioni per queste elezioni presidenziali, dovremmo
avere notevoli riserve, non hanno minimamente influito
anche sulle elezioni per il Congresso ed il Senato che
rimangono a maggioranza repubblicana, per cui si è
trattato di un fattore personale e familiare non
trasmissibile al partito democratico di cui era
espressione. Quello che però va rilevato da noi europei,
dove ancora esistono le monarchie, o dove il loro
ricordo è ancora vivo, è l’atteggiamento di un Capo
dello Stato, quindi rappresentante di tutti i cittadini
di quello stato, quali fossero le loro opinioni, che si
schiera senza alcuno scrupolo costituzionale a favore di
un candidato,, senza pensare che, anche quando fu
eletto, la maggioranza avuta nel voto popolare era stata
esigua, e che, all’indomani della elezione, aveva
solennemente dichiarato che sarebbe stato il presidente
di tutti.
Con questo
atteggiamento invece parziale e fazioso, spesso con
termini ed espressioni da comiziante, Obama, è venuto
meno alla sua solenne promessa, scendendo nella
considerazione di quanti ancora credono in valori di
equanimità di un Capo dello Stato, al di sopra delle
parti.
10 novembre 2016
4 novembre l’eclissi dell’identità nazionale
di Salvatore Sfrecola
Ho appena finito di leggere i giornali, non tutti ovviamente, ma
quelli ai quali mi riferisco quotidianamente per
conoscere le vicende della politica, dell’economia e
della finanza e per ritrovare riflessioni sulla cultura,
dalla storia alla letteratura, al cinema, al teatro. Su
nessuno ho trovato riferimenti al 4 novembre 1918, data
della conclusione delle operazioni militari della prima
guerra mondiale. Ho letto, invece, molto dell’alluvione
di Firenze di cinquant’anni fa. Un evento drammatico
della storia civile che ricordo benissimo.
Quel giorno avevo programmato una visita a Firenze per incontrare
degli amici. Mi stavo preparando tenendo, come di
consueto, la radiolina sintonizzata sul giornale radio.
Alle 6 le prime, drammatiche notizie. Ricordo ancora una
frase: il Generale Centofanti, Comandante della Piazza
di Firenze, ha disposto l’impiego dell’esercito per far
fronte ai gravi problemi della Città allagata.
Successivamente avrei partecipato, insieme ad altri
studenti universitari, al recupero dei libri e dei
fascicoli dell’archivio criminale di Firenze lavorando
nella sede dell’Archivio centrale dello Stato all’Eur
per contribuire ad asciugarli inserendo fra una pagina e
l’altra fogli di carta vergatina in vista del successivo
inoltro all’essiccatoio dove queste opere venivano
trattate. Fu un’esperienza molto bella, e conservo
ancora con orgoglio l’attestato, un impegno civile di
giovani e meno giovani che dedicavano del tempo per
questa opera di salvezza di beni del patrimonio storico
il librario di Firenze ed Italia.
Il ricordo dell’alluvione è doveroso e fa onore ai giornali che
gli ha dedicato pagine e pagine. Ma quel che ho notato è
che l’occasione e la contestuale ricorrenza della data
nella quale possiamo dire l’Italia si è effettivamente
unita nei confini naturali che Dio le ha dato avrebbe
dovuto suggerire un collegamento fra i due avvenimenti,
unità politica e identità data dal patrimonio storico
artistico del quale Firenze è una delle massime
testimonianze.
Infatti, se il 4 novembre 1918 si è concluso con l’unità d’Italia
il percorso del Risorgimento, un percorso assai più
lungo di quello iniziato con la prima guerra di
indipendenza (1848) avviato secoli addietro con il
concorso di uomini d’ingegno, di cultura, politici e
filosofi i quali avevano evocato l’esigenza di quella
unità che già si rinveniva nelle parole del sommo poeta,
nell’invettiva per le condizioni in
cui versa l’Italia, “serva”,
“di
dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta,
/ non donna di provincie, ma bordello”.
Un’invettiva diretta a tutti coloro, uomini di Chiesa e
signori d’Italia, che ostacolavano l’autorità imperiale
e non lasciavano “seder
Cesare in la sella” (vd.
Conv. IV ix 10 e
Mon. III xv 9). Quell’idea di Italia
che aveva affascinato il giovane imperatore Federico II, tedesco
di stirpe ma immerso nella cultura mediterranea.
Questa disattenzione per le date della storia dimostrano la
mancanza di consapevolezza della identità nazionale cioè
di quel complesso di valori che la storia ci ha
consegnato e che lungo i secoli hanno distinto e
distinguono gli italiani da tutti gli altri popoli anche
da quelli con i quali abbiamo fatto percorsi comuni. Una
storia trimillenaria che nasce dalle colonie greche
dell’Italia meridionale, si sviluppa sulle rive del
Tevere per innervare tutta l’Italia e l’Europa con le
istituzioni del diritto, con la cultura storica,
filosofica, artistica per cui l’Italia si riconosce
nelle sagome delle cattedrali, dei castelli, del
declivio delle sue colline e dei suoi monti e vive nelle
biblioteche e nei musei.
Firenze è una tappa di questa storia, così come le chiese della
Valnerina, la cattedrale di Norcia, intestata a San
Benedetto, patrono d’Europa. E se da una piccola città
dell’Umbria Benedetto raggiunge l’Italia e l’Europa per
divenirne il santo protettore, ebbene questi profili
della storia civile e religiosa sono parti della
identità nazionale e dovrebbero sviluppare un culto
della Patria che solo gli sciocchi possono ritenere
essere coltivato ad escludendum alios, per negare
l’accoglienza e l’integrazione. Che era stato un valore
nell’antica Roma, che accoglieva tutti, singoli e
comunità, con l’obbligo della condivisione di due
regole, il rispetto delle leggi di Roma e la
consapevolezza della missione storica dell’Urbe.
Oggi spesso trascuriamo le nostre radici. A volte le rinneghiamo,
come quando fu tolto dalla preghiera degli Alpini il
riferimento alla civiltà cristiana o come oggi che è
stata impedita una celebrazione religiosa a ricordo dei
caduti della Grande Guerra in segno di rispetto, si
dice, di soggetti provenienti da altri paesi che
professano altre religioni. Non è una scelta felice. Chi
viene in Italia deve rispettare le leggi e le tradizioni
che non sono contro nessuno ma sono per noi. Questi
comportamenti rifiutano la nostra storia agli occhi
degli immigrati dei quali noi dobbiamo rispettare la
cultura e la religione senza che per questo debba
occultarsi la nostra identità. Per questo gli immigrati
spesso si sentono a noi superiori, ci disprezzano,
ritengono la loro cultura pura, incontaminata. È in
questi sentimenti spesso la ragione della ribellione nei
confronti dell’Occidente corrotto.
Si è scritto che c’è un risveglio del culto della Patria,
identificato nelle bandiere tricolori che sventolano sui
monumenti e sugli edifici pubblici. Lo si è dedotto dal
suono e dal canto dell’inno di Mameli riportato in auge
negli anni scorsi. Forse quel risveglio è stato
percepito in occasione delle celebrazioni del 150º
dell’unità d’Italia, attraverso i libri, le
manifestazioni, le iniziative “miranti alla costruzione
di una storia comune cementata da gioie e dolori,
nostalgie e rimorsi, delusioni e speranze”. Sicché, a
conclusione di queste parole, Emilio Gentile scrive che
“l’Italia s’è desta”. Scriveva nel 2009 (La Grande
Italia, Editori Laterza), ma a quell’entusiasmo
sincero non è seguito un conseguente atteggiamento delle
autorità e dei cittadini. Sicché il grido di allarme che
Gian Enrico Rusconi aveva lanciato nel 1993, “se
cessiamo di essere una nazione”, è ancora valido perché
attraverso le contrade d’Italia giunga a muovere gli
animi, per ricordare a tutti che un popolo che non è
consapevole della propria identità non ha futuro.
D’altra parte il governo, che pure vanta un premier che
ha passeggiato nelle strade di Firenze, non appare
consapevole della necessità di questo impegno, di
galvanizzare gli animi perché la scuola e il lavoro
offrano possibilità di una vita ricca di soddisfazione
spirituali e materiali. Invece questo governo mette mano
con una estrema improntitudine, dimostrando una non
comune incapacità tecnica, alla Carta fondamentale dello
Stato nella quale si identificano i valori della civiltà
nazionale e le caratteristiche proprie del suo
ordinamento e propone di sostituire una legge
equilibrata, certamente meritevole di ritocchi anche
significativi, con una sguaiata enunciazione di regole
scopiazzate da altri ordinamenti e trasferite nel nostro
in modo assolutamente inconsulto.
L’Italia ha una caratteristica che tutti i politici dovrebbero
considerare. L’unità ha reso possibile la confluenza
nell’unico corpo della Nazione di esperienze politiche,
storiche e culturali diverse ma tutte preziose, dal
Piemonte alla Puglia, dal Veneto alla Sicilia. Tutte
sono gioielli inimitabili, ricchezza dell’intera
Nazione. Se la politica non comprende questo, se la
politica abbandona delle aree del Paese all’incuria,
alla regressione economica e alla prepotenza criminale
ebbene questa politica non è degna di un grande Paese e
questi politici devono andare a casa definitivamente.
Confondere la Costituzione con le esigenze della vita di
tutti i giorni con i problemi che riguardano la
giustizia lenta, l’amministrazione pubblica pesante e di
impaccio per le persone e le imprese, il sistema
tributario rapace, mentre dovrebbe essere lo strumento
di elezione della politica economica e dello sviluppo,
significa non avere capacità di governo. Se la scuola
non riesce ad essere, come un tempo era, la fucina dei
migliori cervelli italiani, come dimostra il fatto che i
nostri studenti, i nostri laureati, i nostri tecnici
ovunque all’estero hanno avuto grande successo, se la
politica non capisce tutto questo è cattiva politica e
va rimossa. Cominciando dall’occasione del 4 dicembre,
dicendo NO ad una riforma che è un complimento definire
pasticciata.
4 novembre 2016
La riforma “meglio di niente”
di Salvatore Sfrecola
Impegnati a far digerire agli italiani la riforma della
Costituzione che, per loro stessa ammissione, “non è, né
potrebbe essere, priva di difetti e discrasie”, anche se
“non ci sono scelte gravemente sbagliate … o
antidemocratiche”, come si legge nel documento del SI,
fra i renziani si fa strada un concetto che viene
ripetuto ossessivamente sui giornali e nelle
trasmissioni televisive: “meglio questo che niente”. Con
l’aggiunta che è “per iniziare”. Evidentemente ritengono
che questo sia un argomento forte. Non lo è, solo a
considerare che ci troviamo di fronte alla Costituzione,
la legge fondamentale dello Stato che si scrive, si
corregge e si integra quando, come ha scritto Enzo
Cheli, costituzionalista, quando si è in presenza di una
“necessità storica in grado di imporre e giustificare
agli occhi dell’opinione pubblica le ragioni del
mutamento. Né tale necessità può essere surrogata dalla
presenza di motivi di opportunità, sia pure forti e
pressanti, legati alle vicende della politica
contingente”.
Non lo ha scritto in questi giorni ma in un libro del 2000 (“La
riforma mancata”, Il Mulino editore) secondo il quale “è
sempre mancata una seria riflessione sui fattori
strutturali che hanno condotto alla Carta del 1948;
sulle ragioni del suo (prevalente) successo e del suo
(parziale) insuccesso… una lacuna che ha finito per
rendere inadeguati e astratti i vari disegni di
ingegneria istituzionale via via proposti”. Per Cheli la
strada è quella della revisione costituzionale (e non
dell’Assemblea costituente), il completamento della
scelta maggioritaria, l’allineamento del quadro
costituzionale interno al nuovo assetto europeo.
Non è, dunque, la strada della riforma Renzi-Boschi-Verdini,
nella quale i motivi esposti attengono a materie sulle
quali che spetta al legislatore ordinario intervenire,
la giustizia, la pubblica amministrazione, il fisco,
tutti nell’ottica di una politica economica che
favorisca la crescita. Si è, così, scelta la strada di
gettare fumo negli occhi degli italiani esasperati
dall’incapacità di questo governo, come dimostra la
crescita zero che persiste ad ogni rilevazione
statistica nonostante ogni tentativo di ricercare nei
dati qualche spiraglio di luce, quei più zero virgola
che infiammano di tanto in tanto l’eloquio del
Presidente del Consiglio. E così, in assenza di una
“necessità storica”, da buon emulo di Berlusconi che
alcuni anni fa si era inventato per qualche ora
l’ostacolo dell’articolo 41 della Costituzione allo
sviluppo dell’economia, Renzi attribuisce alla
Costituzione ostacoli alla sua azione di governo che,
invece, dovrebbe ricercare nella insufficienza delle
idee e degli strumenti messi in campo fin da quando,
spavaldo, enumerava in Senato le riforme che avrebbe
fatto di mese in mese, facendo sorridere i più per la
evidente impreparazione al ruolo, ma preoccupando
quanti, proprio da queste improvvisazioni, hanno
dedotto, vedendo poi conferma nei fatti, che alla testa
del Partito Democratico e del Governo si è
insediato un soggetto evidentemente eterodiretto. Che
propone riforme volute e disegnate da organismi
economici internazionali, quelli che vorrebbero avere in
tutti i paesi un solo interlocutore malleabile al
massimo.
E così si è arrivati, per bocca del Ministro delle riforme, Maria
Elena Boschi, ad affermare che la riforma costituzionale
cambierà l’Europa, cosa evidentemente al di fuori del
possibile effetto della normativa proposta e della
stessa capacità di azione del premier del quale non si
ricorda una qualsiasi iniziativa meritevole di
considerazione nel semestre nel quale ha ricoperto il
ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri
dell’Unione Europea.
1° novembre 2016