FEBBRAIO 2017
Nel 25° di “Mani pulite”
Guardie e ladri: l’eterno gioco di grandi e piccini
di Salvatore Sfrecola
Giovanissimo, tra i giochi più in voga c’era quello denominato
“guardie e ladri”. Molti dei miei coetanei preferivano
“fare” i ladri, non ovviamente per una inclinazione al
crimine. I ladri erano, più che altro, ribelli
avventurosi, come quelli che avevamo imparato ad
ammirare dalle letture dei libri di Emilio Salgari, tra
pirati e corsari, tutti impegnati a vendicare torti
subiti, come Sandokan, “la tigre della Malesia”, o “il
corsaro nero”, il nobile Conte di Ventimiglia. Non
emergeva, dunque, la contrarietà alla legge. Della cui
autorità, comunque, si sentivano investite “le guardie”
tra le quali, manco a dirlo, io mi schieravo senza
tentennamenti, sempre. E così è continuato nel tempo,
fino ad indossare la toga del magistrato della Corte dei
conti, per individuare e punire, da Pubblico Ministero o
da Giudice, chi avesse danneggiato lo Stato o qualche
ente pubblico, con sprechi o corruzione.
Sento dire che i bambini non giocano più a guardie e ladri.
Mentre i grandi non giocano, fanno sul serio. Così
alcuni rubano “e non si vergognano”, come sostiene
Piercamillo Davigo, in qualche modo ribadendo che quel
“non” dimostra una evoluzione in peggio del malaffare.
Divenuto Presidente dell’Associazione Nazionale
Magistrati, il Sostituto Procuratore della
Repubblica che sotto la guida di Francesco Saverio
Borrelli aveva fatto parte del pool “Mani pulite” della
Procura di Milano, insieme a Gerardo D’Ambrosio,
Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro, continua la sua
battaglia, esponendo con cartesiana logica e con
l’eloquenza dei precedenti le ragioni degli illeciti che
quotidianamente vengono segnalati dalla stampa.
E qui va fatta qualche precisazione, che non sarà gradita a
quanti hanno visto in Tangentopoli, più che la
vicenda giudiziaria dei finanziamenti illeciti alla
politica e della corruzione, una sorta di colpo di stato
(qualcuno si è azzardato a definirlo così) contro i
partiti che, fino ad allora, avevano occupato la scena,
la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista
Italiano, il Partito Comunista Italiano, in
varia misura coinvolti nel sistema delle tangenti. E
così è passata, e persiste in alcuni, la vulgata che la
magistratura sia stata in qualche misura “usata” dai
“poteri forti” interni ed internazionali (la Massoneria,
la C.I.A. le centrali economiche internazionali e chi
più ne ha più ne metta) per provocare la fine della
prima repubblica.
Ora non è dubbio che, proprio dagli interrogatori, prima, e dai
processi, poi, ampiamente richiamati dalla stampa e
dalle televisioni (Radio Radicale, ad esempio,
trasmetteva per ore le udienze) è emerso che
effettivamente i “costi della politica”, sempre più
elevati per far fronte alle spese per pubblicazioni,
convegni, scuole di partito e quant’altro fosse ritenuto
utile per affermare la propria presenza sul territorio e
nell’economia ampiamente condizionata dalla politica, i
tesorieri dei partiti ricevevano ingenti “donativi” a
fronte di favori vari, con assegnazione di appalti,
soprattutto, e di forniture di beni e servizi destinati
agli enti pubblici. “Così fanno tutti”, sono le parole
di Bettino Craxi, ex Presidente del Consiglio e
Segretario del Partito socialista in un
drammatico discorso alla Camera dei deputati il 3 luglio
1992 tra il silenzio ostile di tutto l’emiciclo nel
quale sedevano quei “tutti” che erano abituati a
ricevere e gestire mazzette. “Il finanziamento illegale
dei partiti in Italia – sono le sue parole – è un fatto
vero e largamente noto”. Aggiungendo che “all’ombra di
un finanziamento irregolare ai partiti e al sistema
politico fioriscono e si intrecciano casi di corruzione
e concussione, che come tali vanno definiti, trattati,
provati e giudicati. E tuttavia bisogna dire che tutti
sanno: buona parte del finanziamento pubblico è
irregolare o illegale”. Con la conseguenza che “nessun
partito è in grado di scagliare la prima pietra”.
Poi si accertò che quelle somme messe a disposizione da
appaltatori e boiardi di Stato non finivano solamente
sui conti dei tesorieri di DC, PCI e PSI,
perché spesso andavano direttamente ai responsabili
delle correnti che se ne servivano per comprare tessere
o per organizzare in vario modo, anche con giornali e
riviste, il potere dei gruppi e dei loro esponenti
all’interno dei partiti.
Sembra quasi che l’azione dei magistrati sia stata “contro” i
partiti. In realtà i fatti sono veri, le imputazioni e
le responsabilità effettive e confessate. E quanto alla
lunghezza dei processi, spesso provocata degli imputati
alla ricerca della prescrizione, non risulta che
qualcuno vi abbia rinunciato per pretendere che i
giudici si pronunciassero nel merito, per rivendicare la
propria innocenza.
“Così fanno tutti” e, naturalmente, “tutti sanno”. L’accusa di
Craxi conferma che la prassi era quella e certo alcuni
drammi che hanno accompagnato le inchieste (mi riferisco
ai cosiddetti “suicidi eccellenti”) sono conseguenza
della generalizzata certezza dell’impunità. Che, venuta
meno anche per effetto del mutato clima politico a
seguito della caduta dell’impero sovietico, non poteva
che provocare traumi profondi nelle persone che, pur
essendo collettori di tangenti per i partiti, si
sentivano coperti da una prassi e forse addirittura
“onesti”, quando non rimaneva attaccato alle loro mani
qualche pacchetto di banconote di grosso taglio.
Questo clima buonista, che periodicamente emerge nel dibattito
politico, risuona nelle rievocazioni di “mani pulite” di
cui hanno scritto Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco
Travaglio (“Mani pulite 25 anni dopo”, in libreria da
alcuni giorni). Parole di comprensione, pur in assenza
di pentimenti. Per cui qualcuno si pone l’obiettivo di
“riabilitare” Craxi, cui certamente va riconosciuta la
dignità della confessione, sia pure, edulcorata da quel
“tutti sanno”. E il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala,
apre un dibattito sulla possibilità di intitolare una
strada o una piazza della “capitale morale” a Craxi.
Sarebbe un gravissimo errore e una inammissibile
ingiustizia nei confronti delle tante persone perbene
che giorno dopo giorno, con impegno e personale
sacrificio, operano al servizio delle istituzioni, dello
Stato e della politica, o rispettano le regole della
concorrenza nel mercato degli appalti di lavori o
forniture.
Sarebbe innanzitutto una ingiustizia nei confronti dei giovani i
quali devono essere educati al rispetto delle leggi,
nella convinzione che l’amministrazione pubblica sia
effettivamente quella “casa di vetro” della quale si
parla spesso con un’enfasi che vorremmo rispondesse alla
realtà. In un sistema di trasparenza “totale”, come è
regola di alcuni paesi che ci precedono, e di molto,
nella graduatoria che annualmente Transparency
International redige sulla base della percezione
della corruzione. I più virtuosi, com’è noto sono i
regni di Danimarca e Svezia, una realtà nella quale la
trasparenza dei poteri pubblici è, appunto, “totale”, un
aggettivo con il quale il Ministro della funzione
pubblica del governo di Stoccolma spiega i motivi di
quel primato, come ha riferito Raffaele Cantone nel
corso di un convegno che si è tenuto qualche mese fa a
Roma nell’aula delle Sezioni Riunite della Corte dei
conti.
26 febbraio 2017
Renzi: arroganza continua
di Salvatore Sfrecola
Nella relazione introduttiva ai lavori dell’Assemblea del
Partito Democratico Matteo Renzi ha mostrato ancora
il volto dell’arroganza. Ha chiuso, senza esitazioni, la
porta in faccia ai sui contendenti, arroganza gratuita
proprio per essere quella di D’Alema, Rossi, Speranza ed
Emiliano una minoranza, agguerrita ma pur sempre
minoranza. E l’ha bollata, per le richieste sulle regole
di funzionamento del congresso, come “ricattatrice”, un
termine che esclude in radice ogni possibilità di
intese. Infatti l’Assemblea si è chiusa senza una
replica, giustificata con la circostanza che, nel
frattempo, si era dimesso da Segretario per potersi poi
ricandidare.
Arroganza che è il limite del leader del PD e che lo ha
portato a definire “accozzaglia” lo schieramento di
quanti si opponevano alla “sua” riforma costituzionale.
Ha perso il referendum, sonoramente bocciato dagli
italiani recatisi in gran numero a votare, ma non
l’arroganza, e così abbiamo scoperto un politico che,
invece di prendere consapevolezza dei propri errori
(oltre alla riforma costituzionale, quella elettorale
dichiarata incostituzionale dalla Consulta, insieme a
parti della legge Madia), giorno dopo giorno, aggiungeva
a slogan, oggettivamente efficaci anche se spesso
dimostratisi inconsistenti, un’aggressività che ha
assunto presto i toni dell’intolleranza nei confronti di
chi dissentiva, dentro e fuori il Partito. Un tratto
caratteriale che poco si concilia con la forza degli
sbandierati consensi stimati intorno al 40%, in ragione
del risultato alle elezioni europee, assolutamente poco
significativo perché è noto che quella competizione
appassiona poco gli italiani, ed al referendum
costituzionale.
Che senso ha, dunque, questa chiusura senza appello alla
minoranza se non una evidente incapacità di comprendere
che il PD, come tutti i grandi partiti, ha più
anime e nei confronti di alcune di esse va ammesso il
dissenso, un limite grave per un politico che ambisce
governare il Paese. E che lo condizionerà negativamente
in futuro. Inevitabilmente.
A meno che non voglia favorire la scissione per far cadere il
Governo Gentiloni addebitandone la responsabilità alla
minoranza ed andare alle elezioni, come Renzi vorrebbe.
Obiettivo, tuttavia, difficile da ottenere perché, in
mancanza di una legge elettorale per Camera e Senato, il
Capo dello Stato darebbe certamente l’incarico di
formare un nuovo governo ad una personalità
istituzionale con il compito di definire in Parlamento
le regole con le quali andare a votare.
Uno spettacolo obiettivamente penoso.
20 febbraio 2017
Dopo l’Assemblea del Partito Democratico che non allontana le
ipotesi di scissione
Riuscirà il Centrodestra a cogliere l’occasione della crisi del PD?
di Salvatore Sfrecola
Nella ricerca di un riposizionamento delle forze politiche, che
interessa la Destra come la Sinistra, si sono messi in
campo slogan vari, dal “Partito della Nazione”
all’“Italia dei popoli” nel tentativo di andare oltre
l’esperienza della prima e della seconda repubblica, un
tempo nel quale, abbandonate le ideologie, abbiamo
perduto anche ogni riferimento ad idee forti, quelle che
indicano un progetto per la società di oggi e di domani.
La prima proposta, il “Partito della Nazione” è nata in casa del
Partito Democratico, nel tentativo di abbandonare
l’angusto spazio della Sinistra postcomunista che
convive sempre più in difficoltà con i post
democristiani a suo tempo confluiti nella Margherita.
Un amalgama difficile sentenziò, profetico, a suo tempo
Massimo D’Alema e si è visto che aveva ragione. Un
partito che guarda al centro, dunque, che occhieggia a
Berlusconi ed alla sua Forza Italia, in qualche
modo visibile nel “Patto del Nazzareno” un accordo
abortito quando Matteo Renzi ha mancato alla parola data
proponendo la candidatura di Sergio Mattarella alla
Presidenza della Repubblica senza concordare la scelta
con l’ex cavaliere. Questo PD, partito di
sinistra che occhieggia ai moderati, naviga oggi in
cattive acque. È alla vigilia di una probabile scissione
che, come segnala Bersani, è già avvenuta
nell’elettorato tradizionale in occasione delle elezioni
comunali e del referendum costituzionale dal quale è
risultato sconfitto oltre ogni più pessimistica
previsione. Stasera l’Assemblea del Partito, iniziata
con un duro attacco di Renzi alle minoranze, si è chiusa
senza la replica del Segretario, nonostante un accorato
appello all’unità di Michele Emiliano dal tono “ultima
chiamata”.
La diaspora della Sinistra, ormai difficilmente evitabile stante
l’atteggiamento arrogante del Segretario, costituisce
un’occasione straordinaria per il Centrodestra. E
ci si chiede se sappiano approfittarne Berlusconi, la
Meloni e Salvini. Il primo è in ambasce. Vorrebbe
riproporre un “Nazzareno due” ad un Renzi dimezzato e
comunque, come si è visto, inaffidabile anche quando non
promette “sta sereno” a qualcuno. Soprattutto l’ex
cavaliere non sa a chi rivolgersi per tutelare le sue
aziende, la preoccupazione di sempre, quella che lo ha
spinto a “scendere in politica”. Altro che ideali di
Patria e liberali. Berlusconi è un imprenditore e le sue
preoccupazioni sono solamente per le aziende di
famiglia. Lo dimostra la fallimentare gestione dei suoi
governi. Ricordo che Francesco Storace, dopo aver letto
il mio “Un’occasione mancata”, mi telefonò per dirmi che
il libro dimostrava “perché il Centrodestra aveva perso
le elezioni del 2006 per 26mila voti quando avrebbe
potuto vincere per due milioni”.
Berlusconi, quindi, è un elemento di debolezza per un’ipotetica
coalizione con Giorgia Meloni e Matteo Salvini i quali
non sanno se e come contare sul suo apporto.
La Meloni ha fatto molta strada, ha acquisito un profilo
nazionale, è solidamente alla testa di Fratelli
d’Italia un partito presente nell’agone politico e
parlamentare e, pur costituendo una realtà
prevalentemente romana e laziale, assicura al
Centrodestra quella cultura liberal-popolare che va al
di là del vecchio Movimento Sociale Italiano che
la maggior parte dei suoi dirigenti ed elettori non
hanno neppure conosciuto. È un ruolo delicato quello di
Giorgia Meloni. Potrebbe recuperare su altre destre che
soprattutto in Italia meridionale sono di ispirazione
monarchica, prevalentemente sabauda, ad onta
dell’affannoso e patetico agitarsi di sparuti circoli
neoborbonici dediti soprattutto alla toponomastica, a
cercare di eliminare strade e piazze dedicate a Giuseppe
Garibaldi, a Vittorio Emanuele II ed al Conte di Cavour.
Il ruolo di Fratelli d’Italia è, dunque, essenziale nella
ricomposizione del Centrodestra. Anche perché, se al Sud
qualcuno rivendica le glorie di un Regno “delle due
Sicilie”, nel quale a Palermo si odiavano i Borbone,
dinastia straniera, c’è chi al Nord contesta i
plebisciti di annessione al Regno d’Italia, propone il
bilinguismo e l’autonomia, che se costituisce un passo
avanti rispetto alla secessione è pur sempre un
atteggiamento che fa venire l’orticaria agli eredi del
Risorgimento. E parla di “popoli”, un plurale equivoco,
perché l’Italia è una ed uno è il popolo anche se con
esperienze e tradizioni diverse.
Matteo Salvini ha più volte fatto intendere che la sua proposta
politica va al di là dell’angusta visione regionalistica
tanto cara al pur bravo Zaia. E sembra riconoscere quel
che la storia dice. Che l’Italia, nata da una vocazione
unitaria che ha percorso i secoli da Dante in poi,
dimostra una ricchezza straordinaria proprio nella
varietà delle esperienze locali, nella cultura, nella
storia, nell’ambiente delle valli e delle pianure nelle
quali città e borghi hanno costituito un tessuto
prezioso che si integra, come scriveva Camillo di Cavour
nel 1846 (tenete a mente la data, ben prima della prima
guerra d’indipendenza), attraverso le ferrovie e le
strade che lungo lo stivale consentono il trasferimento
dei prodotti del made in Italy e la circolazione
delle persone, in particolare dei tanti turisti che ogni
anno da secoli vengono a visitare questo nostro Paese,
le sue bellezze naturali, i suoi meravigliosi musei, i
Palazzi ed i Castelli nei quali si è fatta la storia.
Riusciranno Forza Italia, Fratelli d’Italia, la
Lega e Noi Con Salvini, espressione centro
meridionale del movimento della Lega, ad offrire
una credibile proposta elettorale di stampo governativo?
O sarà una nuova “occasione mancata” nonostante il
fallimento di Renzi e del suo partito?
19 febbraio 2017
Il fallimento della “buona scuola”
Quando una buona conoscenza della lingua italiana fa la differenza
di Salvatore Sfrecola
Ho scritto altre volte dell’importanza della conoscenza della
lingua italiana, parlata e scritta. Nel senso che una
buona capacità di esprimersi, qualunque sia la
professione esercitata, assicura quella marcia in più
che garantisce successo nelle professioni. Da ultimo ne
ho scritto a commento dell’appello dei 600 studiosi che
si sono rivolti al Governo ed al Parlamento per
richiamare la loro attenzione sul grave degrado della
lingua italiana, accertata all’università, nella stesura
delle tesi di laurea nelle quali si rilevano errori di
grammatica e sintassi non tollerabili neppure in terza
elementare. Eppure parlare e scrivere in un buon
italiano è essenziale per ogni professionista, per
l’ingegnere che redige una relazione od una perizia, per
il medico che propone alla comunità scientifica una sua
ricerca, per un politico che s’indirizza al corpo
elettorale per ottenere voti e che sappia modulare i sui
discorsi in relazione al livello dei suoi interlocutori.
Anche le sentenze un tempo erano pezzi pregiati di letteratura
giuridica. Oggi è sempre più raro. E “in nome del popolo
italiano” si leggono ripetizioni, assonanze, anacoluti,
incisi improbabili, testi a tirar via.
È il fallimento della scuola, della sua capacità di formare nei
giovani quella istruzione che nei migliori diventa
cultura, solida conoscenza delle varie discipline e
capacità di ragionare e di immaginare. Fallimento della
scuola vuol dire innanzitutto incapacità della classe
politica di comprendere che lì, dalle elementari
all’università, si costruisce la società del domani, con
i suoi valori e con la capacità professionale necessaria
per competere nel mondo del lavoro. Insegnare è qualcosa
di diverso e di più di sapere, perché si può essere
preparati nella materia per la quale si è ottenuto il
posto o l’incarico ma non si sa porgere, interessare,
incuriosire e favorire nei giovani affidati alle proprie
cure quel desiderio di apprendere e di far assumere
nozioni che diventano parte di una approfondita
conoscenza.
Lo Stato non si preoccupa della preparazione didattica della
classe docente. Non seleziona coloro che andranno in
cattedra anche in relazione alla loro capacità di
trasmettere quello che sanno. E siccome va avanti da
tempo questa disattenzione di Governo e Parlamento per
una selezione che porti nelle scuole docenti di elevata
capacità didattica, di generazione in generazione le
cose vanno avanti sempre peggio in una deriva che non si
riesce a fermare. E forse non si vuole perché
occorrerebbe un progetto capace di rivoluzionare il
mondo dell’insegnamento ripartendo dalle elementari, la
scuola dove la mente dei giovani un tempo veniva formata
e predisposta ad ulteriori studi cominciando con
stimolare la curiosità e la fantasia inquadrandole in un
metodo di apprendimento che in qualche modo i 600
studiosi nel loro appello sottolineano, richiamando la
necessità di impararare, attraverso la dettatura di
testi, la grammatica e la punteggiatura, scritti da
riassumere perché la capacità di sintesi in taluni è
innata ma in molti va sviluppata e guidata. Come
l’apprendimento a memoria, rigettata come inutile se non
dannosa mentre costituisce un esercizio prezioso, a
parte il valore dei testi così imparati, spesso versi
dei grandi della nostra letteratura.
A giovani che “si formano” soprattutto sui tablet dove
insistono per ore, un tempo che noi passavamo sui libri,
è precluso o, nel migliore dei casi, fortemente limitato
lo studio della storia e della geografia, due materie
formative della realtà delle vicende umane nel corso dei
secoli fino a dare a noi, oggi, la consapevolezza di
quel che siamo e le prospettive che si aprono o che si
potrebbero presentare alla nostra generazione. Guardare
il futuro si può fare solamente con la consapevolezza
del passato che non è un tempo archiviato
definitivamente ma vive in noi anche se non ce ne
accorgiamo.
Occorre, dunque, un grande progetto per restituire un ruolo
all’insegnamento che non è “la buona scuola”, una
operazione elettoralistica costruita da Matteo Renzi per
ritrovare nelle urne un maggiore consenso nell’ambito di
una categoria che la Sinistra ha coltivato puntando
soprattutto sulla ribellione che nasce dal disagio di un
settore del mondo del lavoro che soffre una condizione
retributiva vergognosa che alimenta il malessere e la
disaffezione di chi sente di rivestire un ruolo
importante nella società eppure si rende conto di essere
emarginato. Perché è evidente che chi poco è remunerato,
poco è considerato.
Per un grande progetto, come quello che è necessario mettere in
campo occorre una grande idea. Ed una classe politica
capace di immaginarla e di affidarla a persone capaci di
intuire quel che è necessario per formare i futuri
cittadini e professionisti.
Ed in chiusura il motivo di queste mie riflessioni. Ho assistito
ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della
Sezione della Corte dei conti per la Regione Lazio ed ho
ammirato la requisitoria del Procuratore Regionale,
Donata Cabras, che ha presentato un testo completo,
documentato, di agevole comprensione, in un italiano
fluente, letto con rara efficacia. Un bell’esempio di
letteratura giuridica e di notevole capacità oratoria.
Le istituzioni hanno bisogno di presentarsi così.
18 febbraio 2017
Il Governo si sceglie giudici e generali
Tra toghe e stellette
di Salvatore Sfrecola
Dice bene Piercamillo Davigo, Presidente
dell’Associazione Nazionale Magistrati, quando afferma
che il Governo non può nominare, cioè scegliere, i
giudici. Ugualmente è da dire per i generali. Ciò che
viene attuato con un’abile gioco di successive modifiche
dei limiti del pensionamento ridotti o prorogati
praticamente ad personam. Per i magistrati, ad
esempio, nel 2014 il decreto legge n. 90 ha stabilito
che la proroga della permanenza in servizio dei
magistrati (consentita, a richiesta, dai 70 ai 75 anni)
non fosse più applicabile neppure a coloro che già si
erano avvalsi di quella facoltà, accolta con
provvedimento formale dai rispettivi organi di
autogoverno. Pertanto, se avessero raggiunto i 70 anni
avrebbero dovuto lasciare il servizio il 31 ottobre
2014, termine poi spostato, per chi già fruiva della
proroga, al 31 dicembre dello stesso anno e
successivamente del 2015, per tutte le giurisdizioni.
Per la Corte dei conti con una ulteriore proroga al 30
giugno 2016 (il Presidente in carica sarebbe stato
comunque collocato a riposto ai primi di luglio per
raggiunti limiti di età!). Poi è arrivata una proroga
ulteriore per i magistrati ordinari di qualifica più
elevata, si è detto perché con il limite dei 70 anni
avrebbe dovuto lasciare la toga il Primo Presidente
della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio.
In questo contesto, sottolinea Davigo, hanno abbandonato
il servizio molte centinaia di magistrati ordinari,
Presidenti di Corte d’assise e di Tribunali, Procuratori
generali e Procuratori della Repubblica. Molte decine di
magistrati della Corte dei conti e del Consiglio di
Stato il cui Presidente, Giorgio Giovannini, ha chiesto
di essere collocato a riposo anticipatamente per
protesta.
Tutto questo in funzione dello sbandierato ricambio
generazionale? Assolutamente no. Nessuno è entrato in
servizio (i concorsi per l’accesso alla magistratura con
migliaia di candidati e tre volte tante prove scritte da
valutare sono necessariamente lenti). Un governo ed un
Parlamento saggi, convinti di dover “ringiovanire” gli
alti gradi delle magistrature, avrebbero graduato le
uscite in funzione degli ingressi. Nulla da fare. Si
voleva un ricambio non generazionale ma di persone che,
favorite dall’esodo dei più anziani (volgarmente
definito “rottamazione”), s’immaginava sarebbero state
grate al potere.
L’effetto è stato negativo anche sui processi. Il cambio
dei collegi ha comportato il differimento delle udienze
con evidenti, ulteriori ritardi di una giustizia che già
ne denuncia tanti.
Per i generali capi delle vare Forze Armate, invece, non
si anticipa il pensionamento ma si proroga il servizio
che, previsto di due anni, diventerà di tre, anche per
la Guardia di Finanza che si è affrettata a predisporre
un emendamento ad hoc. Non è in discussione,
ovviamente, la valentia dei nostri vertici militari, ma
la certezza delle situazioni giuridiche soggettive di
carriera, cioè le legittime aspettative dei singoli, è
anche una garanzia del buon andamento
dell’amministrazione. Regola costituzionale
fondamentale, infatti ricompresa nell’articolo 97
insieme a quella della imparzialità. Ampiamente
sconosciuta in questa stagione della repubblica.
10 febbrai 2017
Nella Pubblica Amministrazione non solo “furbetti del cartellino”
Ma la strada del recupero dell’efficienza
è lunga e irta di ostacoli
di Salvatore Sfrecola
È senza dubbio giusto ed urgente che Governo e Parlamento si
occupino dei “furbetti del cartellino”, che timbrano per
altri, e di quanti si assentano con le più diverse
motivazioni, sempre illecite. Come è giusto punire i
“nullafacenti”, come li ha definiti Pietro Ichino nel
titolo di un suo fortunato libro, che non lavorano con
l’impegno che è loro richiesto e per il quale vengono
retribuiti. Situazioni scandalose, che persistono
nonostante le denunce e gli interventi della
magistratura, a dimostrazione che le regole fin qui
applicate non sono sufficienti. Per cui il Ministro per
l’innovazione e la pubblica amministrazione, Marianna
Madia, preannuncia “una stretta”, come si esprimono i
giornali, con controlli più efficaci, sanzioni severe e
di immediata applicazione, fino al licenziamento.
Sono comportamenti che offendono i cittadini utenti dei servizi
pubblici resi dalle amministrazioni dello Stato e degli
enti locali e gettano discredito sulla stragrande
maggioranza dei dipendenti che lavorano seriamente e non
ricorrono a sotterfugi per garantirsi un “ponte” o un
fine settimana al mare o ai monti o per allungare le
vacanze.
Tuttavia l’amministrazione, la burocrazia, godono di pessima
stampa tra la gente che denuncia lentezza nelle
decisioni, frequente duplicazione di adempimenti e di
competenze, per cui può accadere che ci si debba
rivolgere a più uffici per ottenere provvedimenti spesso
sovrapponibili, almeno nella sostanza.
Le iniziative del governo contro i “furbetti” tengono banco sui
giornali e nelle trasmissioni televisive di
approfondimento come se fosse l’unico problema della
pubblica amministrazione la quale, invece, avendo come
compito primario il perseguimento degli obiettivi
indicati nell’indirizzo politico convalidato dal voto
elettorale, vorremmo venisse agli onori della cronaca
soprattutto con connotati di efficienza, quella che il
cittadino e le imprese si attendono quando richiedono il
rilascio di autorizzazioni o di attestazioni varie. Che
pretendono anche in tempi ragionevoli. Purtroppo,
invece, continuano le denunce contro il peso della
burocrazia, che sottrae tempo e denaro a chi si rivolge
agli uffici pubblici. Ed è uno dei motivi per i quali in
Italia è difficile investire in attività
imprenditoriali.
Non è stato sempre così. Un tempo il pubblico dipendente sentiva
l’orgoglio di servire lo Stato. Come accade negli stati
che hanno una consolidata tradizione amministrativa, dal
Regno Unito alla Francia, dalla Germania alla Spagna,
storie di grandi regni con importanti amministrazioni.
Ovunque vengono reclutati i migliori professionisti,
adeguatamente retribuiti. E quando lo stipendio è
inferiore a quello di un corrispondente impiego privato
la differenza, leggevo in un saggio sull’amministrazione
francese, è abbondantemente compensata dal prestigio che
in qual Paese assicura, agli occhi dei cittadini,
l’esercizio di una funzione pubblica, l’indossare “la
giubba del Re”, come Piercamillo Davigo ha intitolato
una sua intervista sulla corruzione, l’espressione con
la quale i vecchi del suo paese indicavano appunto il
“servizio di Stato”.
Un po’ di storia della pubblica amministrazione, senza negare le
disfunzioni che l’hanno accompagnata negli anni, dice
anche che in Italia ha svolto un ruolo essenziale. Dopo
il 1861 nell’unificazione dello Stato e nella
ricostruzione delle aree pesantemente danneggiate dalle
guerre, dopo la prima e, soprattutto, dopo la seconda
guerra mondiale. In poco tempo. Chi ha memoria o chi ha
avuto occasione di vedere i filmati che danno conto
delle distruzioni, delle città e delle infrastrutture
viarie, ferroviarie, aeroportuali, portuali, deve
constatare che, in pochissimo tempo, quelle rovine sono
state rimosse, tutto è stato ricostruito e l’Italia è
tornata a crescere.
Oggi il degrado che denunciano cittadini ed imprese è in gran
parte responsabilità della politica, perché al
Parlamento e al Governo spetta dettare le norme che
regolano le attribuzioni degli uffici e ne disciplinano
i procedimenti. Ma è vero anche che quella normativa
primaria e secondaria, legislativa e regolamentare, con
la quale troppo spesso il cittadino si scontra, nasce
essenzialmente negli uffici pubblici che sono quelli che
assistono Parlamento e Governo nella stesura dei testi
che hanno un rilevante contenuto tecnico quando
individuano tempi e modi dell’azione amministrativa. Le
responsabilità per questo stato di cose, dunque, non
possono essere soltanto della politica che indubbiamente
ne ha, e molte, perché spesso si rivela incapace di dare
direttive amministrative adeguate e di dialogare con
l’apparato definendo con i dirigenti delle
amministrazioni le regole che effettivamente occorrono
per assicurare legalità ed efficienza.
Spetta, dunque, ai dirigenti di più alto livello essere i garanti
dell’efficienza, della corrispondenza dell’attività
svolta agli interessi dei singoli e delle imprese,
considerando anche che i tempi dell’azione
amministrativa non sono indifferenti all’economia dei
singoli e dell’intero Paese ma costituiscono costi i
quali vanno messi a confronto con gli interessi dei
cittadini e delle pubbliche amministrazioni. Ecco dunque
che spetta all’alta dirigenza proporre e ottenere dal
potere politico, governativo e parlamentare, le
semplificazioni occorrenti per rendere efficiente il
sistema, per fare della pubblica amministrazione
un’opportunità per l’economia, non un freno allo
sviluppo. In sostanza io vorrei che la pubblica
amministrazione, nei suoi vertici e in tutti gli
addetti, fosse orgogliosa di prestare un servizio
efficiente al Paese e non continuamente additata come la
causa di tutti i mali.
Purtroppo il degrado della politica trascina quello
dell’amministrazione. Il reclutamento e la formazione
dei funzionari, dei dirigenti e dei quadri, è
assolutamente inadeguato. La politica condiziona le
carriere, l’assegnazione dei posti di funzione e financo
la retribuzione dei dirigenti. Lo spoil system
all’italiana ha spento ogni aspirazione
all’indipendenza, ad essere effettivamente “al servizio
esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98
della Costituzione.
Rimediare non è facile. Ma è necessario ed urgente.
6 febbraio 2017
Quando i professori di liceo erano pagati più dei
magistrati
L’effetto: 600 studiosi denunciano all’università errori da terza
elementare
di Salvatore Sfrecola
Non ho partecipato al coro di quanti si sono schierati sui
social network e sulla stampa per stigmatizzare la
scelta di Valeria Fedeli a ministro dell’istruzione
senza laurea, ma con una lunga esperienza di
sindacalista. E questo la dice lunga su come il governo
Gentiloni intenda il ruolo di quel ministero,
un’amministrazione di gestione del personale e quindi di
un potenziale bacino elettorale, come, infatti, è stato
fin qui per la Sinistra in una scuola nella quale i
docenti delle scuole di ogni ordine e grado sono
sottopagati e per questo covano un giusto risentimento
per la loro condizione di pubblici dipendenti trascurati
da uno Stato che pure assegna loro il ruolo essenziale
di formazione dei futuri cittadini e professionisti.
Resta e si aggrava il malcontento, ma la Sinistra perde consensi
dopo che uno dei tanti slogan di Matteo Renzi, la "buona
scuola” si è rivelato, come altri, privo di contenuti,
l’ennesima presa in giro.
A questo punto mette conto ricordare un episodio del liceo quanto
il nostro professore di storia e filosofia ci disse che
anni prima, giovane laureato in giurisprudenza, aveva
vinto, quasi in contemporanea, due concorsi, per
professore ordinario nei licei e per magistrato. Ed
aveva optato per l’insegnamento perché, all’epoca, i
docenti di liceo avevano uno stipendio superiore a
quello dei magistrati. Basta questo per dire quale
considerazione la classe politica italiana abbia oggi
per l’insegnamento e il ruolo fondamentale della scuola
nello sviluppo economico sociale, a fronte di altri
paesi dell’Unione europea nei quali lo stato investe
nella scuola e nella cultura, dopo aver prima investito
nella natalità, considerata giustamente un investimento
per il futuro.
Docenti meglio pagati, dunque, e più accuratamente selezionati
perché va affermato il principio che i pubblici
dipendenti in genere, come i docenti, vanno scelti fra i
migliori professionisti nelle varie discipline. Ad essi
va assicurato anche un adeguato aggiornamento, fatto di
buone letture e di occasioni di stage in altri
paesi dell’Unione, in modo da sperimentare altre
tecniche didattiche con le quali confrontarsi.
Ma non è tutto qui, ovviamente. Migliori docenti, meglio pagati
ma anche programmi adeguati perché la scuola deve
formare ai livelli più elevati. Non un diplomificio in
cui prevalga la regola del 6 o del 18 “politico”, come
si diceva nel ’68, quando è iniziato o si è sviluppato
il degrado che oggi constatiamo. Un tempo il
conseguimento del titolo di studio attestava una
effettiva preparazione professionale. In sostanza chi si
fosse presentato per ottenere un posto di lavoro da
geometra, ragioniere, ingegnere, giurista o economista
si presumeva avesse la necessaria preparazione per
affrontare un impegno di lavoro. Oggi quel livello è
molto basso e spesso non dà certezza, a chi ha esigenza
di assumere, che colui che offre la sua prestazione sia
effettivamente in grado di essere impiegato con il
livello del titolo di studio esibito.
È un grosso problema, perché, da un lato, chi riceve dallo Stato
un diploma legittimamente pretende un posto di lavoro
adeguato, dall’altro, la difficoltà di inserirsi in un
ufficio pubblico o in una azienda privata ne fa un
frustrato, un ribelle nei confronti della società. Certo
la mancanza di lavoro non è solamente colpa della scuola
che non forma come un tempo. La difficoltà della
crescita e dell’economia sono dovute ad altro, a scelte
politiche inadeguate, alla mancanza di prospettive di
sviluppo e di occupazione, ma è certo che il livello
basso degli studi non facilita l’inserimento nel mondo
del lavoro. E se il giovane volonteroso va all’estero è
molto probabile che ottenga una occupazione di livello
inferiore a quello corrispondente al suo titolo di
studio.
Quel che è certo è che in materia di istruzione non si rimedia da
un anno all’altro una situazione di degrado come quella
alla quale assistiamo e che è dimostrata in modo
impietoso, tra l’altro, dalla scarsa conoscenza della
lingua italiana, dalla banalizzazione diffusa e
programmata delle regole dello scrivere, come dalla
demonizzazione del congiuntivo che è espressione di un
modo di parlare e di scrivere elegante ma anche efficace
che è fondamentale per ogni professione. Ricordo che a
mia figlia fu assegnato il compito di sostituire il
congiuntivo in un brano “perché non si usa più”!
Scrivere bene in italiano non è soltanto dei letterati.
Anche la relazione di un ingegnere o di un medico, anche
una sentenza può e deve essere scritta in un buon
italiano per essere strumento efficace di conoscenza di
fatti e di regole. Stavo concludendo queste mie
considerazioni quando è stato diffuso dai giornali e
dalle televisioni un appello, firmato da oltre 600
studiosi, i quali denunciano che sono moltissimi gli
studenti universitari che non conoscono l’italiano. Di
più, che fanno errori non tollerabili neppure in terza
elementare. Anche la mia esperienza lo conferma. Ho
dovuto correggere relazioni e tesi di laurea ricorrendo
a tutta la possibile cortesia per suggerire, per non
offendere il mio interlocutore, la modifica di una
frase, senza segnalare apertamente che erano state
violate le regole più elementari della grammatica e
della sintassi.
Purtroppo recuperare anni di affievolimento dell’impegno
scolastico, che si trascina, nel corso di alcuni
decenni, dalle scuole elementari all’università, non è
facile. Sarebbe necessario che la classe politica, la
quale rivela scarsa sensibilità in tema di istruzione,
se si esclude l’interesse per le carriere dei docenti,
una classe politica la cui povertà di linguaggio si nota
nei comizi negli atti del Parlamento e del governo,
s’impegnasse con uno sforzo economico e prima di tutto
culturale per voltare pagina, per immaginare un percorso
nuovo che recuperi il meglio della nostra cultura
collegandola con le novità effettivamente importanti per
mettere i nostri giovani in condizione di competere sul
mercato del lavoro interno e internazionale. In questo
quadro servirebbe un ministro che non si occupasse
esclusivamente della carriera dei docenti, che pure è un
elemento essenziale insieme al loro trattamento
economico, ma immaginasse qualcosa di più e di diverso,
perché l’Italia si forma e si fonda sulla sua cultura,
sulla sua storia su quel patrimonio prezioso che
all’estero è ovunque apprezzato, aggiornato come è
necessario per preparare le nuove generazioni. L’Italia
che ha avuto come ministri dell’istruzione Francesco De
Sanctis e Giovanni Gentile deve ritrovare il percorso
giusto per il tempo attuale. Rapidamente perché il
degrado è già notevole.
5 febbraio 2017
Una pagina di storia poco conosciuta
5
giugno 1944- 9 maggio 1946:
due
anni difficili – La Luogotenenza del Principe Umberto
di Domenico Giglio
L’inizio
Se il Maresciallo
Badoglio, giunto a Brindisi, disse di aver ricominciato
la sua azione di governo “con una matita ed un pezzo di
carta”, non è che la situazione in cui si trovò il
Principe Umberto, l’8 giugno 1944, arrivato a Roma, al
Quirinale, fosse molto diversa. Gli angloamericani
entrati a Roma il 5 giugno, avevano dato il consenso al
ritorno nella capitale del Principe, nominato nella
stessa data Luogotenente Generale del Re (la cui formula
fu modificata senza provvedimenti di legge in “Regno”),
con un Regio Decreto, nel quale il Padre lo nominava a
tale carica, ritirandosi definitivamente a vita privata.
Ed il Principe arrivò, praticamente solo, in un
Quirinale vuoto, dovendo iniziare subito il difficile
ruolo di Capo dello Stato. Come da prassi, il
Maresciallo Badoglio aveva infatti presentato le
dimissioni del suo governo ed era venuto anche lui a
Roma per incontrare gli esponenti romani e nazionali del
C.L.N.(Comitato Liberazione Nazionale ), usciti dai
conventi e monasteri dove avevano vissuto nascosti e
protetti nei nove mesi della occupazione tedesca, per
trattare un allargamento del governo. Invece si sentì
dare il benservito, in quanto il CLN, voleva tutto il
potere e presentava la candidatura a Presidente del
Consiglio di un vecchio uomo politico prefascista,
Ivanoe Bonomi, che aveva già ricoperto tale carica nel
1921. Ed il Luogotenente dovette accettare questa
indicazione, che era una imposizione, in quanto, in
fondo, Bonomi, rappresentava pur sempre un uomo di
stato, cresciuto ed affermatosi, nello stato monarchico,
sotto il regno di Suo Padre, dove partendo da posizioni
socialiste, era approdato al riformismo ed era stato uno
dei tre parlamentari socialisti recatisi al Quirinale
nel 1912, per esprimere al Re Vittorio Emanuele III le
proprie felicitazioni, per essere scampato all’attentato
dell’anarchico D’Alba, e, per tale colpa, erano stati
espulsi dal partito socialista. Così, con decorrenza dal
18 giugno, veniva formato un nuovo governo, composto
dagli esponenti dei sei partiti componenti il CLN, e
precisamente il Partito d’Azione, il Partito Comunista,
il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito
della Democrazia Cristiana ed il Partito della
Democrazia del Lavoro, al quale apparteneva Bonomi.
Conoscete le vicende iniziali di questo governo, non
molto gradito dagli angloamericani e particolarmente da
Churchill che avrebbe preferito una conferma di
Badoglio, per cui per più di un mese il governo dovette
riunirsi a Salerno e potè ritornare a Roma, come il
Luogotenente, a metà di luglio.
Abbiamo detto
della solitudine del Principe, in quanto il personale
della sua casa militare, non aveva logicamente
esperienza e conoscenza politica, per cui era necessaria
una persona che avesse queste caratteristiche, già
individuata nella persona dell’avvocato Falcone
Lucifero, ma che, per un insieme di motivi e di ritardi
poté assumere la carica di Ministro della Real Casa solo
alla fine di agosto, iniziando quella collaborazione che
durò per tutta la vita del Principe, poi Re. Né a Roma
in quei tre mesi, giugno, luglio, agosto, vi era stato
anche un solo politico del periodo pre-fascista che si
fosse avvicinato al Luogotenente, per consigliarlo nella
nuova veste di Capo dello Stato. Così il Principe
dovette iniziare, senza alcun supporto, una “corsa di
ritorno”, e dimostrare la sua capacità di sostenere con
alta competenza ed equilibrio il suo ufficio, doti che
successivamente gli vennero riconosciute anche da
avversari della Monarchia .
Senza scendere in
troppi dettagli sulla vita di Falcone Lucifero, la cui
figura meriterebbe una analisi approfondita, dobbiamo
ricordare i dati essenziali: nato nel 1898 da nobile
famiglia calabrese, che aveva avuto diversi suoi
esponenti deputati al Parlamento nel periodo
pre-fascista, volontario di guerra in artiglieria da
montagna, laureato in legge, simpatizzante del
socialismo riformista, consigliere comunale socialista
di Crotone, logicamente antifascista, durante il
ventennio si era dedicato con successo alla professione
forense e nel settembre 1943, trovatosi nella natia
Calabria, per il suo nome prestigioso era stato nominato
Prefetto di Catanzaro, ad opera degli “alleati”, con
risultati positivi, per cui il suo nome era cominciato a
circolare, così che nel Ministero Badoglio,
ricostituitosi nel febbraio 1944, dovette accettare la
carica di Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste
tenuto dall’11 febbraio al 22 aprile. Terminata questa
esperienza governativa dove si distinse per energia,
dimostrando notevoli doti organizzative, entrato nella
vita politica ed amministrativa dello Stato, fedele alle
sue istituzioni, veniva nominato Prefetto di Bari, ed al
tempo stesso, proprio per le qualità dimostrate nei
diversi compiti svolti e per il suo passato, si pensò al
suo inserimento a fianco del Luogotenente, come Ministro
della Real Casa, carica che assunse, come già detto,
alla fine dell’agosto 1944. E di questa sua attività
tenne un importantissimo diario, che relativamente al
periodo dal 12 febbraio 1944 all’11 agosto 1946, è stato
pubblicato, nel 2002, da Mondadori, con il titolo “L’
ultimo Re”, con una importante introduzione dello
storico Francesco Perfetti. Diario che è fondamentale
per seguire giornalmente l’opera del Ministro, ma anche,
logicamente, quella del Principe Umberto, che,
finalmente aveva al suo fianco persona esperta di
politica e di diritto, e non un cortigiano.
L’assenza di un
autorevole ed esperto consigliere ebbe infatti la sua
importanza quando il governo Bonomi sottopose alla firma
del Luogotenente, il 25 giugno 1944, il Decreto n. 151,
che modificava la formula del giuramento dei Ministri e
prevedeva la convocazione di una “Assemblea
Costituente”, da eleggersi, terminata la guerra, alla
quale affidare la redazione di una nuova costituzione e
la forma istituzionale dello stato, ed abrogava il
decreto legge del governo Badoglio, dell’agosto 1943,
logicamente firmato dal Re Vittorio Emanuele III, dove
invece era stabilito che, dopo quattro mesi dalla fine
della guerra, si sarebbe proceduto alla elezione della
nuova Camera dei Deputati del Regno, decreto
importantissimo e fondamentale perché sanciva il ritorno
alle istituzioni della democrazia rappresentativa,
riprendendo la tradizione risalente allo Statuto del
1848. Perché ricordiamo questo decreto Bonomi? Perché in
pratica, come sottolineato dai costituzionalisti,
Giuseppe Menotti De Francesco, Magnifico Rettore
dell’Università di Milano, e dal professore Emilio
Crosa, questo Decreto, con riferimenti a leggi del 1939
(art. 18 legge 19/01/ 1939 n. 129 ) e 1943( R.D.L.
03/10/1943 n. 28) suscitava notevoli perplessità sulla
sua stessa legittimità e comportava difficoltà di
interpretazione per le sue intrinseche incongruenze, sì
che da molti commentatori si disse, con troppa
faciloneria che in pratica si era abolito lo Statuto e
l’Italia, da quel momento, non era più una Monarchia
anche se non era ancora repubblica.
D’altra parte il
Principe Umberto stava faticosamente riprendendo le sue
funzioni costituzionali e non aveva l’autorità
necessaria per opporsi al governo ciellenista, né in
fondo l’aveva lo stesso Bonomi, che non aveva brillato
per energia nel lontano 1921 e certo non l’aveva
acquistata negli anni successivi, anche se tutti gli
riconoscevano oltre all’onestà, doti di competenza, di
equilibrio e di moderazione, dote questa che cozzava con
l’intransigenza e l’estremismo specie degli “azionisti”,
presenti nel governo con tre ministri . Oltre tutto il
Principe per la sua nuova carica, non poteva essere
vicino più frequentemente ai soldati che combattendo
risalivano l’Italia, come aveva fatto, regnando ancora
il Padre, fino al 5 giugno, e come avrebbe preferito
fare, perché nel suo intimo era e rimaneva sopra tutto
un “soldato”, come tutti i Savoia, ed ai militari aveva
indirizzato un messaggio all’atto di assumere la
Luogotenenza del Regno.
A questo
proposito è bene precisare, una volta per tutte, che la
minore presenza tra le truppe del Regio Esercito, dopo
la nomina a Luogotenente, del Principe Umberto, era
dovuta alle nuove incombenze statutarie che richiedevano
la sua presenza a Roma, anche se non mancarono le visite
di cui accenneremo in seguito. Egualmente dicasi per chi
accusa il Principe di non aver assunto il comando
effettivo delle nostre unità, nomina “bloccata” dagli
angloamericani, ai quali stava bene il nostro contributo
di “cobelligeranti”, ma al tempo stesso tendevano a
minimizzarlo, come quando chiamarono “gruppi di
combattimento”, quelle che erano per numero di soldati
delle vere “divisioni”, il cui insieme avrebbe
costituito non solo un “Corpo d’Armata”, ma una vera
“Armata Italiana di Liberazione”! Ma di questa costante
presenza del Principe tra i soldati la migliore
testimonianza è la lettera che il Ministro della Guerra,
il democristiano Stefano Jacini inviò, il 14 settembre
1945, accompagnando il distintivo della vittoriosa
campagna di liberazione 1943-1945, “….alla quale Vostra
Altezza Reale. ha partecipato direttamente, insieme al
primo Raggruppamento Motorizzato, al Corpo Italiano di
Liberazione e coi gruppi di combattimento. Le truppe che
hanno visto Vostra Altezza, sulla linea di combattimento
dal Volturno a Bologna, saranno fiere di vederLa
fregiarsi di questo umile segno che ricorda l’opera
svolta per la rinascita della Patria”. Dobbiamo però
dare atto al generale statunitense Mark W. Clark,
comandante della Quinta Armata, di aver proposto la
concessione al Principe della “Legion of Merit”,
bloccata per motivi politici, di aver accettato con
orgoglio di ricevere dalle mani del Luogotenente la Gran
Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e di aver
fatto passare in rassegna dal Principe reparti
statunitensi, il che, se pensiamo alla realtà italiana
dell’epoca, a pochi mesi dall’armistizio, costituiva il
migliore e maggiore riconoscimento al contributo del
Regio Esercito e della Monarchia alla liberazione del
territorio nazionale e del prestigio personale che aveva
saputo conquistarsi il Principe . Eventi tutti che
furono volutamente ignorati dalla stampa ciellenista
perché avrebbero risollevato il nome della Casa Savoia
ed avrebbero successivamente giovato alla causa
dell’Italia in sede di trattato di pace, dove invece non
fu fatto alcuno “sconto” alla neonata repubblica
italiana, che non valorizzò questi argomenti, perché
favorevoli alla memoria della Monarchia, che, invece, si
cercava in ogni modo di cancellare, costante questa
cancellazione anche nel periodo successivo, fino ai
nostri giorni.
Uno storico, non
certamente monarchico, Gianni Oliva, giudica che negli
anni della luogotenenza, malgrado l’atteggiamento
aprioristicamente repubblicano dei partiti politici,
esclusi liberali ed in parte i democristiani, “….Umberto
rivela una maturità inattesa. Egli regna …lavora con
impegno e restituisce al Quirinale dignità di reggia,
ostenta in ogni occasione il suo lealismo
costituzionale… accoglie ministri con animo tranquillo
ed imparziale, firma leggi che certamente non
condivide…”, ed anche in cose ben più semplici, come
sedersi in automobile vicino all’autista, dimostra la
sua maturità umana perché capisce che arrivare in città
o località quasi distrutte o presso reparti militari,
con una macchina lussuosa e con sussiego sarebbe stata
un’offesa a chi forse aveva perduto ogni sua cosa .Così
pure dando la mano a tutti, con una sensibilità da vero
Signore, oggi diremmo democratica, che spesso non
avevano suoi accompagnatori, come aveva fatto il Re, suo
Padre nelle visite al fronte durante la grande guerra
1915 -1918. Ed all’ Oliva si deve anche un importante
riconoscimento sull’entità dello sforzo bellico del
Regio Esercito, durante la cobelligeranza, con oltre ben
350.000 uomini mobilitati tra gruppi di combattimento e
divisioni “ausiliarie”, che operavano non solo nelle
retrovie, ma a ridosso del fronte, ed anche Incisa di
Camerana, nel suo libro sulla Luogotenenza, dedica al
Regio Esercito delle pagine bellissime di riconoscimento
del loro operato, ricordando anche l’opera svolta
dall’Esercito per stroncare il separatismo siciliano nel
1945, che si era reso minaccioso, anche con un suo
esercito, l’EVIS, e contro il quale non potevano bastare
i pur valorosi Carabinieri.
La vita quotidiana
Con la presenza a
fianco di Lucifero il Principe imposta una giornata di
lavoro che parte dalle prime ore del mattina e termina
nelle tardissime ore della sera per potere ricevere
quante più persone ne facessero richiesta, oltre agli
incontri ufficiali ed istituzionali, e per potere
recarsi al fronte, a visitare le nostre truppe e le
città ed i paesi liberati. Questo partendo prestissimo
in aereo, viaggi spesso pericolosi, e tornando in tempo
per le altre attività sopra indicate, e per quello che
riguarda la sua presenza tra i militari vi è una
notevole testimonianza fotografica venuta alla luce dopo
il referendum, in quanto prima era rimasta volutamente
occultata, sempre allo scopo di far ignorare agli
italiani, fatti che potevano giovare alla causa
monarchica. Anticipando i tempi ricorderemo ad esempio
il silenzio assoluto della stampa sulla presenza del
Luogotenente, nel febbraio 1946, ad una udienza papale
in occasione del Concistoro nel quale Pio XII aveva
nominato nuovi Cardinali ed il successivo ricevimento
che, in loro onore, il Principe con la Principessa
avevano dato al Quirinale, presenti anche tutti gli
altri Principi di Casa Savoia dal Duca d’Aosta, Aimone,
ai Duchi di Genova, Bergamo e Pistoia, ricevimento di
cui parlò brevemente, in una pagina interna, solamente
“L’ Osservatore Romano”. Ed a proposito dei Principi di
Casa Savoia, alcuni di questi, oltre tutto già anziani,
poterono tornare a Roma solo nel 1945, dopo la
Liberazione, per cui nel 1944 il Luogotenente avrebbe
potuto contare solo sul quasi coetaneo, Aimone, Duca
d’Aosta, che aveva assunto tale titolo a seguito della
morte del fratello Amedeo, avvenuta il 3 marzo 1942, che
però ai primi dell’aprile 1945, avendo in una cena
privata a Taranto, espresso una battuta sui giudici
dell’Alta Corte, che stavano processando il generale
Roatta, presente alla cena la giornalista inglese Silvia
Sprigge, la suddetta battuta fu dalla stessa,
scorrettamente, inviata e pubblicata sui giornali, come
fosse stata una vera e propria dichiarazione politica,
con grande ipocrita scandalo della stampa e del governo
ciellenista, il che mise fuori giuoco il Principe che
dovette lasciare Taranto e ritirarsi a Napoli, per
alcuni mesi, dove viveva la Duchessa d’Aosta Madre.
In questo periodo
cominciano ad organizzarsi dei movimenti monarchici, con
i quali i rapporti sono tenuti dal Ministro Lucifero,
per cui appare un partito, il Partito Democratico
Italiano, di Enzo Selvaggi e di Roberto Lucifero,
cugino del Ministro, si presenta un giovane professore
Alfredo Covelli, per una Concentrazione Democratica
Liberale, dove era pure l’anziano senatore
Bergamini, e ad ottobre del ’44 appare un manifesto
dell’Unione Monarchica Italiana, sorta da pochi mesi,
che dà spunto al ministro di precisare quella che era e
sarebbe stata la linea tenuta (ed anche criticata), dal
Luogotenente: “la Corona ed il Ministero (della Real
Casa) sono estranei a ogni iniziativa del genere,
giacché sono al di sopra e al di fuori di ogni partito,
ma non possiamo che ben vedere tutte le iniziative che
tendono alla ricostruzione del Paese, della democrazia e
della libertà”.
Per le visite del
Principe, solo a titolo indicativo e non certo
esaustivo, ricordiamo a luglio del 1944 la visita a
Firenze, quando erano ancora in corso dei combattimenti,
poi ad ottobre 1944 la visita alle truppe che si
apprestavano ad entrare in linea, poi a novembre la
visita a Rimini liberata, ed a Grosseto colpita da
un’alluvione, dopo essere stato ad Avellino per rassegna
truppe. Nel 1945 a gennaio è a Pisa, dove erano truppe
brasiliane alle quali si rivolge in portoghese, con
meraviglia del loro comandante e dei suoi
accompagnatori, ed a Lucca ed Arezzo, per recarsi il 25
febbraio ad Ascoli Piceno dove era la divisione “Nembo”,
con entusiasmo della popolazione, entusiasmo che si
rinnovò giorni dopo a Taranto, dove era andato a
ricevere la divisione “Garibaldi”, che tornava dal
Montenegro . Ad aprile del ’45 intensifica la sua
presenza nelle zone appena liberate, accolto dalle
popolazioni con lacrime ed abbracci e in località minori
come Santo Alberto, nel Comacchio, a Cesena, dove
pernottò su una brandina, a Peratello vicino Imola, e
poi a Ravenna e Ferrara, con un atterraggio fortunoso ed
il 28 aprile, come già a Montelungo, nel dicembre 1943,
effettua un volo di guerra, con reazione della
controaerea tedesca che ancora combatteva, ed infine si
reca a Bologna dove erano entrate le nostre truppe,
accolto molto bene dalla popolazione. Cito queste
località perché anche i comunisti che già vi
spadroneggiavano ebbero nei confronti del Principe un
atteggiamento di rispetto ed anche ammirazione. Lo
stesse accoglienze positive in altre località del Nord,
compreso Veneto e Friuli, dove si era recato a maggio,
con eccezione di Milano dove né il prefetto, il sindaco
ed il CLN locale si erano recati a salutarlo.
Di fronte a
questi avvenimenti riguardanti la guerra di liberazione,
come sempre taciuti o quasi dai giornali, eccettuata la
battagliera “Italia Nuova”, organo del Partito
Democratico Italiano, di cui ricorderemo uno dei più
importanti collaboratori, Alberto Consiglio ,”Babeuf”,
ed anche in parte il “Risorgimento Liberale”,
espressione del P.L.I., vi era invece a Roma nel governo
e negli ambienti ciellenisti, con i loro numerosi
giornali, dalla “azionista” Italia Libera, a L’Avanti, a
L’Unità, al settimanale “Cantachiaro”, il consueto
atteggiamento critico, pronto ad afferrare ogni
occasione per mettere in cattiva luce l’operato del
Luogotenente, come ad esempio protestando nel caso di
una sua intervista del 31 ottobre 1944 al “New York
Times” in cui aveva parlato di un “referendum”, e non
della sola Costituente per risolvere il problema
istituzionale, soluzione per il momento rigettata,
mentre poi fu successivamente accolta, ed opponendosi
alla pubblicazione di un suo messaggio agli italiani
dopo la liberazione. Invece i giornalisti angloamericani
modificavano in senso favorevole al Principe le loro
opinioni, come il Matthews che scrisse: “Il Principe
Umberto ha come meta una monarchia liberale e
democratica come in Inghilterra, Svezia, Norvegia e
Danimarca” e lo Schiff del “Daily Erald” che lo giudicò
“pieno di tatto ed imparziale”. Giudizi questi che si
uniscono a quello ben noto di Churchill che lo incontrò
a lungo nel corso della sua visita in Italia e che in
ogni caso ripetiamo: “La sua (del Principe Umberto)
potente ed attraente personalità, la sua padronanza
dell’intera situazione militare e politica erano davvero
motivo di conforto ed io ne trassi un senso di fiducia
più vivo di quello che avevo provato durante i colloqui
con gli uomini politici . Certo speravo che avrebbe
contribuito a consolidare la Monarchia in una Italia
libera, forte e unita”. Ed a quello, molto meno
conosciuto dell’incaricato d’affari USA, David Key che
dice: “(Il Principe Umberto) mi ha parlato con acutezza
dei problemi italiani. Si ha che fare con un uomo che ha
un elevato senso della dignità verso il quale non
esistono le riserve che aveva avanzato Roosevelt. Una
monarchia con Lui a capo potrebbe costituire un elemento
stabilizzatore e d’ordine”.
Parlando di
uomini di stato stranieri e di diplomatici giova
ricordare che dopo il riconoscimento da parte dell’ URSS
del Governo Badoglio, nel marzo 1944, anche Gran
Bretagna ed USA, e altri numerosi paesi avevano compiuto
lo stesso passo per cui via via i loro ambasciatori
venivano accreditati presso il governo italiano,
presentando le credenziali al Luogotenente, in cerimonie
formalmente impeccabili che non facevano pensare che
l’Italia era nazione sconfitta. Ad esempio l’ 8 gennaio
1945, in occasione della presentazione dell’Ambasciatore
USA, Kirk, lo stesso dopo la cerimonia si intrattenne
con il Principe per una mezzora, presentandogli poi
tutti i suoi collaboratori, o come il successivo 4
giugno in un ricevimento al Grand Hotel, organizzato da
Myron Taylor, rappresentante USA presso il Vaticano,
l’ambasciatore Kirk, dopo un brindisi al nuovo
presidente americano Truman, succeduto a Roosevelt,
mancato il 12 aprile, ne propose un altro per il
Principe Umberto, che aveva inviato a Truman un
messaggio di saluto . Sempre Kirk, in occasione di una
visita a Roma del generalissimo americano, Eisenhover,
il 13 settembre, organizzò una colazione, alla quale
invitò il Luogotenente, consentendogli un cordiale
scambio di idee con quello che sarebbe divenuto nel
1952, Presidente degli Stati Uniti, incontro di cui fu
data notizia sulla stampa. E così pure in altri
ricevimenti e cerimonie dove al posto d’onore è quasi
sempre Falcone Lucifero, proprio in qualità di Ministro
della Real Casa, e quindi rappresentante del
Luogotenente, come, molto significativa, la presenza, il
19 dicembre 1945, alla Sinagoga di Roma, per
l’insediamento del nuovo Rabbino Capo, il Prof. Grande
Ufficiale David Prato.
Da Bonomi a De Gasperi ed in mezzo Parri
Se questi eventi
militari e diplomatici attestavano la crescita del
prestigio del Luogotenente, non altrettanto avveniva,
come già detto, in sede governativa dove venivano
proposte provvedimenti e leggi anche con effetti
retroattivi, quali quelle sulla “epurazione”, che
colpiva fra gli altri quasi tutti i Senatori del Regno,
sui “profitti di regime”, sull’Alta Corte di Giustizia e
successivamente la creazione di Corti d’assise
straordinarie, che il Luogotenente, pur non
condividendole, non poteva non sanzionare. Vi era poi
una continua conflittualità anche all’interno del
governo tra azionisti e socialisti da una parte e
liberali e democristiani dall’altra per cui Bonomi
dovette presentare, il 26 novembre 1944, le dimissioni
al Principe, che così iniziò le consultazioni
ripristinando la prassi del Regno del Padre. Questa
prima crisi di governo ed il suo svolgimento è
significativo perché da un lato rompeva il monopolio e
la monoliticità del CLN e dall’altro ridava alla Corona
il suo ruolo di mediazione. Bonomi ebbe il reincarico di
formare il governo al quale, incredibile a dirsi, non
parteciparono azionisti e socialisti, per cui vi sarebbe
stata una svolta al centrodestra, se i comunisti, con
l’ormai conosciuta abilità manovriera, non avessero
invece rinnovato la loro partecipazione governativa,
raggiungendo con Togliatti, ministro senza portafoglio,
la Vice Presidenza del Consiglio. Così il 12 dicembre
1944 iniziava il secondo governo Bonomi, con la
cerimonia del giuramento al Quirinale di fronte al
Principe, in divisa, mentre i ministri erano
correttamente vestiti di scuro. Il testo del giuramento,
era ormai quello modificato, che riportiamo: “Giuro sul
mio onore di esercitare la mia funzione nell’interesse
supremo della Nazione e di non compiere fino alla
convocazione dell’Assemblea Costituente atti che
comunque pregiudichino la soluzione della questione
istituzionale”. Testo che i ministri sottoscrissero,
senza però prima leggerlo, il che non piacque al
ministro Lucifero ed anche al Luogotenente, che nel suo
intimo era amareggiato di questi sgarbi minori, rispetto
a quelli maggiori che doveva egualmente accettare, con
il suo perfetto autocontrollo. Per cui in tutto il
diario tenuto da Lucifero, solo una volta, nel maggio
successivo, si legge uno sfogo del Principe: “non è
divertente quello che faccio se non fosse per compiere
un dovere per il Paese”, parole che confermano
l’altissimo senso del “servizio” che ha contraddistinto
tutta la sua vita, ma anche quella amarezza che si
rivelava nel suo aspetto fisico, precocemente
invecchiato, malgrado avesse appena quarant’anni.
In queste
trattative per un nuovo governo, da parte di Lucifero e
dello stesso Luogotenente, circostanza che si ripeté
anche nelle successive crisi governative, ci fu il
tentativo di inserire nella compagine ministeriali
alcuni “grandi vecchi” del periodo prefascista, ma su
questo punto la volontà monopolistica del CLN fu
intransigente, come pure lo fu nei confronti delle altre
formazioni politiche al di fuori del sei partiti e di
questa attitudine prevaricatrice fu successivamente
prova la composizione della Consulta Nazionale di cui
parleremo più avanti. È invece da sottolineare che in
questo secondo ministero Bonomi appare in un ruolo
importante, di Ministro degli Esteri, il leader della
Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, che nel
precedente governo era stato uno dei ministri senza
portafoglio, il che lo porta a frequente contatto con il
Ministro della Real Casa e con il Principe per la firma
dei decreti e per la scelta dei nostri ambasciatori
nelle principali capitali estere. E di questa
collaborazione sono significativi diversi episodi come
la firma di alcuni decreti il giorno di Pasqua, 1°
aprile 1945, dimostrazione del reciproco alto senso del
dovere che vedeva Principe e Ministro al lavoro in un
giorno festivo, e quando, sempre nell’aprile del ’45, De
Gasperi preoccupato per la sorte di Trieste, prega il
Luogotenente di aiutarlo intervenendo sul Maresciallo
Alexander, a conferma del prestigio che il Principe
Umberto aveva acquisito presso i comandanti
angloamericani, per cui il Principe si recò infatti a
Caserta, il 22 maggio, a parlare con Alexander, che lo
trattenne anche a colazione, e sempre De Gasperi, dopo
un lungo colloquio parla di averlo trovato talmente
preparato su tutti gli argomenti trattati da esserne
rimasto colpito, mentre la stessa impressione non aveva
avuto in un primo colloquio, mesi prima a Napoli. E di
questa competenza e capacità del Principe sono ulteriori
testimonianze le dichiarazioni di Benedetto Croce, quale
questa: “ Avendo avuto occasione di vedere più volte il
Principe per consultazioni politiche nel 1945 e nei
primi mesi del 1946, notai la sempre più progredente sua
formazione politica, l’ascoltare attento, il domandare
serio, la correttezza costituzionale, il sentimento di
responsabilità personale”, e, incredibile a dirsi, del
conte Sforza, che pur divenuto repubblicano, si
avvicinava al Principe, che, bontà sua: “mi pare proprio
a posto. Molto meglio di quanto pensassi”, chiedendo ed
ottenendo colloqui riservati o partecipando il 9 maggio
del 1945, nella Cappella Paolina, al Quirinale, alla
cerimonia in suffragio della povera Principessa Mafalda,
la comunicazione ufficiale della cui tragica morte nel
lager di Buchenwald era pervenuta il primo maggio, ed il
Principe si era recato immediatamente a Napoli, il 2
maggio, a recare la triste notizia ai Genitori.
Nella ripresa
della normale vita governativa e del completamento della
liberazione della penisola vi erano anche occasioni
ufficiali in cui il Luogotenente intervenne, come il 4
novembre 1944, all’Altare della Patria, senza però poter
deporre una corona, ma solo un fascio d’alloro con un
nastro azzurro, o il 24 marzo 1945 a Santa Maria degli
Angeli, alla cerimonia in memoria dei martiri delle
Fosse Ardeatine, dove alcune donne cominciarono ad
urlare contro la sua presenza senza che nessuno
intervenisse ed il successivo 13 maggio 1945 sempre a
Santa Maria degli Angeli, per il Te Deum di
ringraziamento per la fine della guerra, officiato da
Monsignore Ferrero di Cavallerleone, quando non gli
venne portato da baciare il Vangelo ed impartita la
benedizione usuale, consuetudini alle quali il Principe,
cattolico praticante, era legato particolarmente.
Ritornando alla
situazione politica, la liberazione di tutta l’Italia
del Nord, dove da tempo si era costituito il CLNAI, il
Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, di soli cinque
partiti, perché la Democrazia del Lavoro, era al Nord
praticamente inesistente, il predetto comitato riteneva
non essere più possibile il mantenimento del governo
Bonomi, almeno nella composizione di allora e pretendeva
un totale cambiamento, il cosiddetto “vento del Nord”,
per cui dopo diversi infruttuosi incontri di Bonomi con
i rappresentanti del CLNAI, il 12 giugno 1945, lo stesso
presentava la lettera di dimissioni al Luogotenente. Il
successivo 13 giugno si apriva così un nuovo ciclo di
consultazioni, cominciando dai Presidenti “formali” del
Senato e della Camera, poi in ordine alfabetico
rappresentanti dei partiti del CLN, che accettano tutti
di salire al Quirinale, tranne il rappresentante del
Partito d’Azione, ed anche successivamente Selvaggi per
il Partito Democratico ed il senatore Bergamini per la
Concentrazione Democratico-liberale. Seguivano i Collari
dell’Annunziata, il grande ammiraglio Thaon di Revel, e
l’ineffabile “conte” Sforza, nonché il Maresciallo
Badoglio, quale ex presidente del consiglio. Poi ancora
gli Alti Commissari per la Sicilia, Aldisio, e per la
Sardegna, Pinna, ed i Commissari per le Associazione
Reduci, Gasparotto, e la Medaglia d’Oro Cabruna per
l’A.N.M.I.G.(Associazione Nazionale Mutilati e invalidi
di guerra). In realtà l’unica realtà politica che,
purtroppo, contava era il CLN, ma questa larghezza di
interpellati dava anche all’opinione pubblica la
sensazione che il Quirinale non fosse una mera facciata,
dietro la quale esistesse il nulla. Anche Parri viene
invitato, quale esponente della Resistenza, ma declina
temporaneamente l’invito fino alla domenica 17 giugno
quando sale al Quirinale per ricevere l’incarico di
formare il nuovo governo, essendo stato indicato il suo
nome dai partiti del CLN. Ci siamo soffermati su queste
consultazioni e su questo incarico perché con il governo
Parri avveniva una svolta a sinistra ed una
accentuazione repubblicana, proprio a cominciare dallo
stesso Presidente del consiglio, esponente del Partito
d’Azione. Effettivamente la Democrazia Cristiana, pur
mantenendo gli Esteri, con De Gasperi, arretrava come
qualità di ministeri perdendo il Ministero della
giustizia che andava al PCI, nella persona di Togliatti.
Questa assegnazione rompeva una sia pure breve
tradizione dei governi Badoglio e Bonomi in cui il
Ministero di Grazia e Giustizia era stato retto da
liberali (Arangio Ruiz), e poi dai democristiani
(Tupini). Nel governo Parri faceva anche il suo debutto
ai LL.PP., un ingegnere socialista, Romita . Il
Ministero degli Interni era assunto dallo stesso Parri,
come era avvenuto in precedenza con Bonomi. Per questo
fondamentale ministero, vi erano state anche nelle
precedenti trattative pressanti richieste socialiste, ma
i liberali avevano replicato che non avrebbero mai
accettato un socialista agli interni e lo stesso aveva
risposto la Democrazia Cristiana, il che rende ancora
più strano quanto avvenne successivamente, alla caduta
del governo Parri, che sarebbe durato dal 21 giugno,
data del giuramento, al 10 dicembre 1945.
Cerimonia del
giuramento analoga alla precedente, ma questa volta i
ministri prima di firmare leggono il testo, sia pure a
bassa voce, per poi non tenerne conto, come i loro
predecessori nei loro discorsi di parte chiaramente
repubblicana! Parri, modesto di persona, si rivelò
altrettanto modesto come Presidente del consiglio, dando
così campo libero a Nenni, Ministro per la Costituente,
ed allo stesso Togliatti, che iniziava a conoscere e
penetrare nell’ambiente della Magistratura, sapendo già
il ruolo che avrebbe dovuto svolgere in occasione delle
elezioni per la Costituente, alle quali si aggiunse poi
anche il referendum istituzionale . Nel frattempo si era
inoltre messa in cantiere, con il Decreto del 30 aprile
1945, una assemblea “non elettiva”, da chiamarsi
Consulta, inizialmente di 304 componenti, di cui 60 ex
parlamentari, ante 1925, in grande maggioranza di
sinistra, 156 rappresentanti dei partiti del CLN, in
quote paritarie, e, bontà loro, un numero nettamente
minore, di 20 rappresentanti dei partiti e movimenti
fuori dal Comitato, tra i quali il Partito Democratico
Italiano, e 46 esponenti sindacali, più 12 per
combattenti e reduci ed infine 10 per associazioni
culturali.
L’ultimo anno
Il Quirinale non
era però solo sede di incontri politici, ma per precisa
volontà del Principe Umberto, anche sede di iniziative
assistenziali e benefiche o simili, quale ad esempio il
21 gennaio 1945, un pranzo offerto a 50 soldati del
Battaglione “San Marco”, con il suo personale
intervento, o il giorno di Pasqua del 1945, un pranzo
per ben 500 bambini poveri e 100 soldati. E sempre in
questa data viene aperto un ambulatorio per bambini
mutilati civili di guerra, intitolato “Maria Gabriella”,
come pure saranno aperti la casa “Maria Beatrice” per
bambini mutilati di guerra, la colonia elioterapico
“Maria Pia” per bambini dei quartieri operai, e una
cucina per gli indigenti “Mafalda di Savoia” e varie
altre iniziative per chiudere con un Ufficio di
Assistenza, che solo nel 1945, distribuì 10 milioni di
contributi, cifra rappresentante il 90% degli emolumenti
del Luogotenente. Ed a proposito di queste attività è
interessante un dialogo tra De Gasperi, che essendone
venuto a conoscenza, ed evidentemente apprezzandole, si
rivolge a Lucifero, quasi incitandolo: “le rendete note
queste cose?” e Lucifero che rimane interdetto, quasi
non pensando all’effetto propagandistico che avrebbero
avuto. E queste azioni benefiche sarebbero proseguite
particolarmente dopo il rientro a Roma, della
Principessa Maria Josè, il 7 giugno 1945, e quello
successivo dei giovani principi, con il pranzo di Natale
per 100 bambini poveri, un altro analogo per il
Capodanno ed un ulteriore per l’Epifania, dove appunto i
principini più grandi aiutavano nel servizio.
Quella solitudine
del Principe, cui accennammo all’inizio, si era
notevolmente attenuata perché oltre, logicamente al
Ministro della Real Casa, ed agli aiutanti di campo,
generale Adolfo Infante e l’ammiraglio Franco Garofalo,
si erano riavvicinati alla Corona, Vittorio Emanuele
Orlando, al cui parere venivano sottoposti numerosi
problemi giuridici, Francesco Saverio Nitti, che
rientrato dall’esilio, aveva pronunciato un importante
discorso al San Carlo di Napoli sottolineando la
funzione stabilizzatrice e moderatrice della Monarchia,
e persone più giovani quali Carlo Scialoja, esperto di
diritto, e per la politica estera, Giovanni Visconti
Venosta, diplomatico, entrambi discendenti da famiglie
che già avevano dato importanti contributi nel
Risorgimento e nel successivo Regno, nonché alcuni
giornalisti fra i quali Luigi Barzini jr., Ugo D’Andrea
ed il liberale Manlio Lupinacci, che troveremo nel
gruppo che salutò il Principe, divenuto Re, quel triste
pomeriggio del 13 giugno 1946 a Ciampino. Ebbene tutte
queste attività del Principe, di cui ricorderemo fra
l’altro il messaggio di Capodanno del 1946, letto alla
radio, indirizzato ai nostri prigionieri di guerra, e
l’accoglienza, il 17 novembre 1945, a reduci dalla
Russia, presente anche la Principessa, che, a sua volta,
aveva ripreso diversi contatti con personalità della
cultura, in primo luogo Zanotti Bianco, non mutavano la
propensione repubblicana anche di personalità lontane
dai comunisti, il cui atteggiamento è perfettamente
descritto dal conte Carandini in questa frase: “La
Monarchia è una causa perdente e non vale sciuparsi in
combattimenti di retroguardia” o in quella, ancor più
cinica, di Meuccio Ruini: “Dobbiamo schierarci per la
repubblica, giacché se vince la Monarchia, questa ci
perdonerà e saremo sempre lo stesso ministri,
Consiglieri di Stato….”. In realtà nessuno di questi
politici appartenenti alla nobiltà ed all’alta
borghesia, aveva effettivi contatti con il popolo, ed
ignorava quanto invece la Monarchia, come si vide nel
successivo referendum, malgrado la propaganda contraria,
la quasi totale impossibilità di una propaganda
monarchica in tutto l’Italia Centro settentrionale, gli
scarsi mezzi finanziari a disposizione, avesse radici
ben profonde, ed anche, specie da parte delle donne,
alle quali era stata finalmente concesso il diritto di
voto, un attaccamento, se non affetto, per la famiglia
reale, e particolarmente per le sue Regine, che erano
state esempio per i costumi morigerati ed il tenore di
vita.
Quanto alla
situazione politica, riunitasi finalmente la già citata
Consulta Nazionale, il 25 settembre, con l’elezione di
Sforza a Presidente, nel governo Parri si erano
accentuate le spinte demagogiche, specie per una
epurazione ancor più radicale, per cui da parte liberale
cresceva l’insofferenza per questo modo di agire, così
dopo un acceso dibattito interno, i liberali provocarono
la crisi del governo, anche se Parri, stranamente
attaccato alla poltrona avrebbe voluto continuare a
governare senza i liberali, ma è la Democrazia Cristiana
a dargli il “colpo di grazia”, costringendolo a
presentare le dimissioni al Luogotenente il 24 novembre
del ’45 .In questa occasione Parri tenne un infelice
discorso, criticato dallo stesso Nenni, dove aveva
spiegato le sue dimissioni come frutto di un “colpo di
stato” (sic!), anche se poi si corresse chiamandolo
“colpo di mano”. E queste infelici espressioni oratorie
erano presenti anche nel suo discorso del precedente 26
settembre, alla Consulta, dove aveva pronunciato la
frase, storicamente falsa, come lo rimbeccò Benedetto
Croce, che “neppure prima del fascismo, vi era stata in
Italia, una vera democrazia”.
Ripresa così
delle consultazioni, con i tentativi, non riusciti, di
inserire nel governo gli esponenti del liberalismo
storico, affiorò il nome come possibile nuovo Presidente
del Consiglio, del leader democristiano, De Gasperi, ed
il Luogotenente gli affidò l’incarico di formare il
nuovo governo con tutti e sei partiti dell’Esarchia, che
era divenuto il termine per definire il potere del CLN.
La costituzione di questo governo non si rivelò facile
per le pur giuste richieste liberali che non trovavano
accoglimento negli altri partiti, tanto che sembrava
essere orientato De Gasperi ad un governo senza i
liberali se non fosse stato proprio richiamato dal
Luogotenente al rispetto dell’incarico conferitogli di
un governo a sei, che, costituitosi, giurò con la solita
formula, il 10 dicembre. Purtroppo in tali trattative
quel Ministero dell’Interno, che in precedenza era stato
negato ai socialisti da liberali e democristiani, fu
concesso loro con una incredibile leggerezza,
particolarmente grave specie da parte della DC che ebbe,
oltre agli Esteri, confermati a De Gasperi, due
ministeri minori, e per questo incarico i socialisti
indicarono Romita, notoriamente repubblicano. E tale
nome non trovò opposizione neanche nel Ministro
Lucifero, che sottovalutò l’importanza che i due
ministeri chiave, giustizia ed interni, fossero in mani
socialcomuniste, e quindi repubblicani, ed anzi,
riferendosi proprio a Romita, in un successivo incontro
del 12 dicembre, lo definì “un galantuomo”, per cui
riteneva sufficiente questa qualifica a tranquillizzare
il Luogotenente. Forse sia lui che il Principe,
ignoravano non solo il repubblicanesimo del Romita, ma
proprio l’avversione a Casa Savoia, che sarebbe venuta
fuori anni dopo nel libro di memorie, dove Romita la
definisce come “la più inetta dinastia europea”, con una
incredibile malafede, frutto di ignoranza storica,
ingiustificabile in un piemontese che, almeno, avrebbe
dovuto conoscere la storia della propria regione. Romita
infatti, fin dal primo giorno del suo incarico lavorò, e
lo confessa nelle memorie, per il trionfo della
repubblica, con ipocrisia, sempre acquiescente
stranamente la DC, come nel caso delle prime elezioni
amministrative del successivo marzo del 1946 per cui uno
storico, Andrea Ungari, afferma, e non mi sento di
dargli torto, che la “repubblica era già fatta il
martedì 11 dicembre 1945”. Così per l’eterogenesi dei
fini la crisi aperta dai liberali per evitare lo
scivolamento a sinistra del governo Parri, portava ad un
governo, salvo il Presidente del Consiglio, maggiormente
squilibrato a sinistra e per la repubblica.
In questi mesi
che separano la nascita del primo governo, presieduto da
un cattolico, nella storia del Regno d’Italia, il fatto
più importante ed anche l’unica vittoria
luogotenenziale, fu l’affidamento ad un referendum la
soluzione della questione istituzionale, con il Decreto
del 16 marzo 1946, n. 98, la cui firma fu accompagnata
da una lettera personale del Principe al Presidente del
Consiglio, che trascriviamo integralmente,
rappresentando la sintesi del pensiero politico del
Luogotenente e della Sua correttezza costituzionale:
“Signor
Presidente,
Le restituisco,
muniti della mia sanzione, i provvedimenti con i quali
si indice il “referendum” sulla forma istituzionale
dello Stato e si convoca l’ Assemblea Costituente che
dovrà decidere sulla nuova Costituzione.
Nel compiere
quest’atto sento di ricongiungermi alle gloriose
tradizioni del Risorgimento nazionale, quando,
attraverso eventi memorabili indissolubilmente legati
alla storia d’ Italia, la Monarchia poté suggellare
l’unità della Patria e i plebisciti furono l’espressione
della volontà popolare ed il fondamento del nuovo stato
unitario.
Questo ossequio
alla volontà popolare dettò anche la decisione del mio
Augusto Genitore di ritirarsi irrevocabilmente dalla
vita pubblica per facilitare, come Egli stesso affermò,
l’unità nazionale. Il medesimo pensiero mi indusse a
sanzionar il Decreto del 24 giugno 1944, che rimetteva
al popolo italiano la scelta delle forme istituzionali.
La sanzione di
oggi è dunque il coronamento di una tradizione che sta a
base del patto fra Popolo e Monarchia, patto che, se
riconfermato, dovrà costituire il fondamento di una
Monarchia rinnovata, la quale attui pienamente
l’autogoverno popolare e la giustizia sociale.
In questo solenne
momento non posso fare a meno di rivolgere un commosso
pensiero ai nostri fratelli ancora prigionieri e
internati, ai cittadini tutti di ogni terra italiana, i
quali – per ragioni indipendenti dalla nostra volontà e
che per rispetto della giustizia devono considerarsi
contingenti – non potranno partecipare alla
consultazione che dovrà decidere anche del loro
avvenire.
Confido che il
Governo saprà provvedere affinché le elezioni si
svolgano nella massima libertà degli individui e delle
coscienze, per assicurare quest’ultima, ho dato, con le
disposizioni testé sanzionate, libertà di voto a quanti
sono legati dal giuramento.
Io, profondamente
unito alle vicende del Paese, rispetterò come ogni
italiano le libere determinazioni del popolo, che, sono
certo, saranno ispirate al migliore avvenire della
Patria.
Voglia, signor
Presidente, comunicare ai signori Ministri questa mia
lettera, che considero un doveroso contributo alla
serenità della consultazione popolare.
Roma ,16 marzo
1946 Aff.mo Umberto di Savoia
Conclusione
A questo punto
necessita una riflessione: cosa aveva giovato al
Luogotenente, con la sua innata signorilità, l’aver
esercitato con competenza, in forma discreta,
formalmente ineccepibile, la funzione di Capo dello
Stato, come osserva Ludovico Incisa, quando dalla parte
dei ministri e dei partiti repubblicani, nessuno si era
mosso dalle sue posizioni e convinzioni aprioristiche,
contrarie al mantenimento della Monarchia, pur
rappresentata da questo Principe? Sempre Incisa
definisce “evanescente e patetica, politicamente
rassegnata” la Sua figura, dimenticando e sottovalutando
quanto aveva fatto in quei mesi il Luogotenente,
attività che abbiamo seguito e descritto. Non pensava
che Umberto di Savoia era stato educato a fare il Re, e
non poteva quindi trasformarsi in capo di un partito o
di una fazione, quando il ruolo di un Re, e lo avevano
ampiamente dimostrato i suoi predecessori, era quello di
essere al di sopra delle parti e di rappresentare il
vertice dello Stato, in cui tutti i cittadini potessero
riconoscersi. O come scrivono altri storici, pure non
avversi alla Monarchia, c’era in Lui una propensione ad
espiare colpe non sue, ammesso che fossero colpe? Eppure
la risposta, la motivazione del suo modo di agire,
esisteva e ne dette prova quando partì dall’Italia, ed
era quella di non acuire le tensioni tra gli italiani,
di arrivare quanto prima alla pacificazione tra gli
stessi, ancor oggi non raggiunta dopo 71 anni (vedi la
proposta di amnistia, dopo la Sua elevazione al Trono,
amnistia che Togliatti, ministro della Giustizia, ed il
Governo non concessero), e sopra tutto di evitare lo
scorrere ulteriore di sangue fraterno . Il pensiero
regale per gli umili, come da carità cristiana, l’amore
per la Patria, per il mantenimento, ad ogni costo, della
unità della stessa, raggiunta per merito della sua Casa,
sentimenti e valori ereditati dal Padre, Vittorio
Emanuele, definito da Domenico Fisichella “l’ultimo uomo
del Risorgimento”, che quando, forse tardi, abdicò, il 9
maggio 1946, prendendo la strada dell’esilio, nella sua
agenda, il successivo primo gennaio 1947, scrisse “Viva
l’ Italia, ora più che mai”, avrebbero fatto dire al
Principe, divenuto Re, in un messaggio alla vigilia del
Referendum, che se la Monarchia avesse prevalso per
pochi voti, era disponibile ad un secondo referendum,
perché intendeva governare con un vasto consenso
popolare e non con il 51%. Questo atteggiamento da Re,
mantenuto per tutta la vita, anche in esilio, spiega
perché per decenni, fino al termine della Sua vita
terrena, 18 marzo 1983, tantissimi italiani si recassero
a visitarlo in Portogallo, altri numerosi seguissero con
affetto in Italia la sua vita, leggessero con interesse
le sue interviste, ancora scrittori, giornalisti e
storici rivalutassero la sua figura riconoscendo il
sacrificio della sua partenza dall’Italia, altri ancora
combattessero democraticamente ed a viso aperto la
battaglia monarchica, così che tanti volgessero lo
sguardo verso Cascais, sperando, forse, in un Suo
ritorno.
APPENDICE :
1)
Messaggio in occasione dell’assunzione della
Luogotenenza Generale del Regno
“Soldati di terra
di mare e dell’aria,
nell’assumere la
Luogotenenza Generale del Regno, affidatomi dal mio
Augusto Genitore, il mio pensiero va alle Forze Armate
italiane, che nelle ore dolorose attraversate dalla
Patria, hanno saputo mantenersi fedeli alle loro nobili
tradizioni.
A tutti i soldati
che in Patria ed oltre mare combattono ed operano a
fianco che ne sorreggono e potenziano lo sforzo invio il
mio saluto affettuoso.
Oltre le linee a
decine di migliaia, i vostri compagni hanno impugnato le
armi e combattono l’oppressore, esponendo se stessi ed i
propri cari ad ogni rischio ed alle più barbare
rappresaglie . Nei campi di prigionia i nostri fratelli
chiedono e sperano di poter nuovamente impugnare le armi
.
Numerosi sono i
caduti, numerosi sono i martiri, immolatisi per la
Patria, a loro il nostro pensiero ammirato, commosso e
riconoscente e la promessa di valorizzare e vendicare il
sacrificio
Il nostro popolo
ha dato l’esempio più elevato di forza morale e capacità
di ripresa dopo una guerra non sentita e non voluta, ma
per sempre eroicamente sopportata.
Soldati di terra,
di mare e dell’aria,
dure prove ancora
vi attendono, ma io sono sicuro che il vostro amore per
la Patria, il vostro valore ed il vostro spirito di
sacrificio, non mai offuscati, sapranno vincere ogni
ostacolo.
Mentre a Roma
sventola di nuovo i Tricolore, sulla via che i martiri
ed i caduti ci hanno tracciato, fraternamente legati
alle truppe delle Nazioni Unite, continuerete e
moltiplicherete i vostri sforzi e tendendo le nostre
volontà, con la certezza che la Patria risorgerà per
riprendere in un mondo pacificato e migliore, il posto
che le compete come madre di ogni progresso e ogni
civiltà.
Di questa
rinascita voi sarete gli artefici più meritevoli e
migliori –
Viva l’ Italia .
UMBERTO DI SAVOIA
Roma, 8 giugno
1944
2)
Proclama del Luogotenente Generale alle Forze Armate nel
primo annuale della Liberazione:
“Combattenti
della Guerra di Liberazione
A Voi,
nell’annuale della Liberazione, torna l’animo
riconoscente e memore dei cittadini.
Allorché tutto
sembrava perduto, voi mostraste cosa possano l’amore per
la Patria e la fede nel suo avvenire.
E, con il vostro
eroismo, avete arricchito l’epopea italica di nuova
gesta.
Rapidamente
riordinati, i soldati di una guerra pur sempre
eroicamente combattuta tornarono primi all’attacco, i
marinai continuarono a tenere alta sul mare la Bandiera
mai ammainata, gli aviatori ripresero con l’antico
sprezzo della morte i combattimenti nel cielo, a tutti
affiancandosi con fraterna gara di patriottismo, di
dedizione e di audacia, i partigiani che ben sapevano di
coinvolgere nella lotta anche le loro famiglie.
Queste forze vive
ed eroiche diedero alla vittoria delle potenti armi
alleate un contributo ogni giorno più evidente e sicuro,
ogni giorno più lealmente riconosciuto.
Quando un popolo
in così aspro travaglio non cede di fronte alla
immensità della sciagura e alla avversità del destino,
ma trova nelle fibre profonde della stirpe il coraggio
per non disperare e la forza per lottare ancora, quel
popolo può alzare la fronte davanti a tutto il mondo e
affermarsi degno di migliore avvenire.
E questo l’
Italia lo deve a Voi, soldati, marinai, avieri e
partigiani.
La Patria vi
ringrazia . Viva l’Italia!
UMBERTO DI SAVOIA
Roma, 25 aprile
1946
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16) Oreste GENTA:
“S.M. Umberto II durante il periodo della Guerra di
Liberazione”, edito da INGORTP – conferenza tenuta al
Circolo REX - 29 gennaio 1989
17) Oreste GENTA:
“S.M. Umberto II nei due anni di Regno”, edito da
Ingortp - conferenza tenuta al Circolo REX – 21 gennaio
1990
18) Franco
GAROFALO: “Pennello nero – La Marina Italiana dopo l’ 8
settembre 1943”, edizioni della Bussola – 1945
4 febbraio 2017
Gentiloni in pista: Matteo sta sereno che qui ci sono io
di Salvatore Sfrecola
“La forza dei nervi calmi”, si potrebbe dire prendendo a prestito
dal Carosello degli anni ’60, la battuta della
pubblicità di una nota marca di camomilla. Paolo
Gentiloni, che certamente lo è per indole, appare ancor
più moderato a fronte del suo predecessore, spesso
inutilmente polemico, a volte volgare, come quando ha
costruito parte della sua immagine di giovane
innovatore, preannunciando la “rottamazione” degli
anziani del partito e della società. Senza essere
sfiorato dal dubbio che quella parola, che si attaglia
alle cose inanimate, dalle automobili ai frigoriferi,
alle lavastoviglie, superati dalla tecnica e logorati
dall’uso, non va usata per le persone, le quali meritano
assolutamente rispetto soprattutto se anziane. Anzi, si
è sempre detto che il rispetto per i vecchi misura il
grado di civiltà di quella che si ritiene effettivamente
una comunità che nei senati ha costantemente riunito gli
anziani, i saggi.
Ma torniamo a Gentiloni, un premier che si presenta in giacca e
cravatta, eleganza sobria come deve un Presidente del
Consiglio, dà l’impressione della fermezza, di stare in
quel posto con la consapevolezza del ruolo, un eloquio
garbato, ragionato, laddove Renzi esibiva camicie
candide, presto intrise di sudore, assai spesso urlando.
Gli italiani non amano la politica urlata, soprattutto quando
proveniente dal governo che, a differenza
dell’opposizione, legittimata dal suo ruolo ad alzare i
toni della polemica, avendo la forza della sua
maggioranza, ha il potere per fare le cose che promette.
Per cui la polemica della forza di governo rivela spesso
l’incapacità di fare, nascosta dietro accuse agli
avversari interni ed esterni che non lo consentirebbero,
una sorta di excusatio non petita. E questo hanno
evidentemente pensato gli italiani che, in massa, hanno
detto “NO” a Renzi prima che alla sua sconclusionata
riforma della Costituzione. Anche se chi l’ha capita,
per dirla con Maurizio Crozza, ha presto compreso che
quella proposta non avrebbe giovato alla democrazia, non
avrebbe effettivamente semplificato le procedure
parlamentari e di governo e ridotto i costi della
politica, ma era diretta alla conquista del potere.
Quale destino, dunque, per Gentiloni? Escluso che stia lì a
tenere calda la sedia a Renzi, che per rioccuparla dovrà
sudare le classiche sette camicie cercando di tenere in
pugno un partito dalle molte anime il più delle volte
non convergenti su un’unica sponda, incurante degli
inviti alla prudenza, a “riprendere fiato”, come quello
che viene oggi dalle colonne del Corriere della Sera
da Antonio Bassolino, intervistato da Marco Demarco, uno
che ben conosce e sa interpretare quel che agita le
menti ed i cuori della Sinistra. Per certi versi,
infatti, la prospettiva elettorale che sollecita
quotidianamente crea al leader del Partito
Democratico più problemi di quanti ne possa
risolvere, tra il desiderio di punire i ribelli e i
tiepidi e il proposito di portare in Parlamento i
fedelissimi. Mentre D’Alema il quale, ad onta della
scarsa simpatia dell’uomo, soffia sul fuoco, sembra
vantare un appeal elettorale stimato sul 10 - 15%
in caso di scissione. Il vecchio leone, che ha scaldato
i muscoli nella lunga campagna elettorale per il NO
nella quale non si è risparmiato, scalda oggi il cuore
della sinistra ex comunista che già in Francia ha
mostrato un revival inatteso nelle primarie del
partito socialista con la vittoria di Benoît Hamon sul
moderato Manuel Valls, che proponeva una convergenza al
centro. Sullo sfondo l’antica, difficile convivenza tra
ex comunisti ed ex Margherita che si sentono orfani
della Democrazia Cristiana che ancora guardano
con non celata nostalgia alla stagione degli Andreotti,
dei Fanfani, dei Forlani e dei Moro, uomini di valore,
“cavalli di razza” come si usava dire, da tutti
riconosciuti, uomini di partito e governanti che
ricordano la stagione migliore dell’economia italiana,
quella più favorevole alla classe media, con il
benessere diffuso che l’aveva alimentato. Mentre, in fin
dei conti, la successiva crisi economica sarebbe
conseguenza dell’ingresso delle sinistre nei palazzi del
potere, a cominciare dal Partito Socialista
guidato quel Craxi, esuberante e guascone, e certamente
spendaccione, con il quale il debito pubblico ha
superato il milione di miliardi di lire.
Il moderato Gentiloni a Palazzo Chigi certamente “fa comodo” al
PD in questo momento difficile nel quale il partito
rischia di esplodere come dimostra, oltre alla ricordata
posizione di D’Alema, l’iniziativa di Michele Emiliano
che dalla Puglia muove la rivolta contro Renzi, al punto
da minacciare il ricorso alla carta bollata se non si
terrà il congresso prima delle elezioni. Un rischio che
Renzi sembra non individuare o, forse, sottovaluta. O
teme che tra i pericoli ci sia proprio Gentiloni che
cresce nella considerazione della gente ed è guardato
con simpatia dai peones, i parlamentari alla prima
legislatura che attendono la pensione dopo quattro anni,
sei mesi e un giorno di esercizio delle funzioni, sul
finire del 2017. Gentiloni “il calmo”, che conosce le
regole del potere, che così consolida la sua immagine.
Il Presidente del Consiglio ha creato un clima nuovo a
Palazzo Chigi. Con lui i membri del governo si sentono
più liberi di proporre le iniziative che competono loro,
laddove era Renzi che dettava l’agenda delle proposte
che presentava all’opinione pubblica concentrando su di
se l’immagine stessa del governo. Con Gentiloni si può
parlare non solo ascoltare, e ci si può confrontare con
i tecnici qualificati per approfondire programmi,
iniziative e provvedimenti. Infatti a Palazzo Chigi
tornano tecnici nuovi, conoscitori dell’amministrazione
e della finanza, persone affidabili con esperienza,
quella che è mancata costantemente ai giovani esuberanti
del Giglio Magico. Insomma Gentiloni ha portato
un clima di fattiva collaborazione nella gestione
ordinaria dell’amministrazione che poi è l’effettiva
forza dei governi. Che è fatta soprattutto dei
provvedimenti che mandano avanti la gestione che
interessa i cittadini e le imprese. Con passo felpato il
nuovo inquilino di Palazzo Chigi rassicura gli animi
esacerbati dallo scontro referendario condotto senza
esclusione di colpi, con l’invasione degli spazi
televisivi e con un linguaggio ancora una volta volgare
come quando Renzi definì “accozzaglia” lo schieramento
del “NO” solo per essere formato da persone provenienti
da differenti orientamenti ideologici e culturali. Da
questo punto di vista Gentiloni giova anche all’ex
premier, più di quanto lo danneggi, il tratto moderato
con il quale si presenta. In fin dei conti allontana dal
ricordo degli italiani, che non l’hanno gradito come
dimostrano i risultati del 4 dicembre 2016, la stagione
urlata da Palazzo Chigi e dal Largo del Nazareno.
1 febbraio 2017