DICEMBRE 2017
Fine di un’anomalia
L’eredità lasciata da questa legislatura
È che le sentenze non vanno rispettate
Si sciolgono le Camere elette in spregio alla Costituzione
Con i partiti che hanno ignorato le indicazioni della
Consulta
di Salvatore Sfrecola
Alla vigilia della conclusione della legislatura, la XVII
della repubblica, i giornali sono impegnati a riassumere,
secondo le diverse impostazioni ideologiche, quel che è
stato fatto e quel che rimane del dibattito politico.
Nessuno tuttavia ricorda che nel 2014, a poco meno di un
anno dall’apertura dei lavori delle Assemblee legislative,
la Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 13 gennaio
(Presidente Silvestri, relatore Tesauro) ha
affermato la contrarietà alla legge fondamentale dello Stato
della normativa elettorale sulla base della quale deputati e
senatori erano stati eletti. Infatti, ha spiegato la Corte,
“il sistema elettorale, pur costituendo espressione
dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da
controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di
costituzionalità quando risulti manifestamente
irragionevole”. Come l’attribuzione del premio di
maggioranza “in difetto del presupposto di una soglia minima
di voti o di seggi”, un meccanismo premiale “foriero di una
eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza
relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto
un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la
maggioranza assoluta dei seggi”. Ciò che può realizzare “in
concreto una distorsione fra voti espressi ed attribuzione
di seggi che… nella specie assume una misura tale da
comprometterne la compatibilità con il principio di
eguaglianza del voto”.
Le disposizioni censurate – ha ricordato la Corte – “sono
dirette ad agevolare la formazione di una adeguata
maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la
stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il
processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un
obiettivo costituzionalmente legittimo”, ma viziato dalla
ricordata assenza del raggiungimento di una soglia minima di
voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza
relativa dei voti, con “compressione della rappresentatività
dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi
costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari
sono sedi esclusive della “rappresentanza politica
nazionale” (art. 67 Cost.)” le quali si fondano
“sull’espressione del voto e quindi della sovranità
popolare”. Inoltre, la circostanza che alla totalità dei
parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il
sostegno della indicazione personale dei cittadini, “ferisce
la logica della rappresentanza consegnata nella
Costituzione”.
Dichiarata incostituzionale la legge elettorale nondimeno
rileva “il principio fondamentale della continuità dello
Stato… in particolare dei suoi organi costituzionali: di
tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal
Parlamento”. E poiché le Camere sono organi
costituzionalmente necessari, esse non possono perdere la
capacità di deliberare, come prevede la stessa Costituzione
ad esempio, a seguito di nuove elezioni, con la
prorogatio dei poteri delle Camere precedenti “finché
non siano riunite le nuove” (art. 61, comma 2), e come
prevede per la conversione in legge di decreti-legge
adottati dal Governo prescrivendo che le Camere, “anche se
sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro
cinque giorni” (art. 77, comma 2).
Quindi continuità della funzione legislativa, ma
limitatamente a quella che, in diritto, si chiama “ordinaria
amministrazione”. Solamente atti necessitati. La continuità
nell’emergenza, si potrebbe dire. Le Camera avrebbero dovuto
approvare in primo luogo una nuova legge elettorale ed
essere sciolte immediatamente dopo perché gli italiani
potessero votare nuovamente.
Di queste indicazioni i partiti si sono fatti beffe. Per non
perdere i vantaggi retributivi e pensionistici della
legislatura? Probabilmente. Considerato che “a pensar male
si fa peccato, ma quasi sempre si indovina”, secondo il
saggio adagio di Giulio Andreotti.
E così, complice Giorgio Napolitano, che da
Presidente della Repubblica avrebbe dovuto presidiare la
legalità costituzionale e, quindi, il rispetto della
pronuncia della Consulta, non solo è stata approvata una
nuova legge palesemente incostituzionale, il cosiddetto
Italicum, immediatamente bocciata dalla Consulta, ma si
è addirittura votata una legge di revisione della
Costituzione. Sì, un Parlamento delegittimato, perché eletto
sulla base di una legge incostituzionale, modifica
nientemeno che la Carta fondamentale dello Stato! I Padri
Costituenti sarebbero inorriditi.
Gli italiani l’hanno bocciata sonoramente. Ma i partiti
hanno fatto finta di niente, e Matteo Renzi, dopo
aver detto che se il referendum avesse avuto un esito
negativo avrebbe lasciato la politica, non solo è lì a
dirigere il Partito Democratico e, dietro le quinte
il Governo, ma si è fatto promotore di altre iniziative,
tutte fortemente divisive, come si dice, nel silenzio
generale. Anche i parlamentari dell’opposizione, infatti,
“tengono famiglia” e non hanno mai pensato seriamente a
perdere indennità e pensione per un principio di rispetto
della Costituzione. Uno di quei principi che una classe
politica seria dovrebbe onorare, sempre. Anche perché farsi
beffe della Costituzione è grave nel presente e nel futuro.
Determina assuefazione dei cittadini all’illegalità. Anche
per questo aumenta l’assenteismo elettorale e crescono i
“populisti”.
L’eredità della legislatura XVII, anche a non essere
superstiziosi considerata la fama sinistra del numero, sarà,
dunque, ricordata perché è stata violata impunemente una
regola fondamentale dello Stato liberale e democratico,
quella che le sentenze si rispettano. Ciò che avviene in
altri stati, come spesso ricordiamo con non celato
imbarazzo. Nel Regno Unito, ad esempio, dove il Primo
Ministro, David Cameron, il quale all’esito negativo
di un referendum consultivo non vincolante, che
avrebbe potuto evitare di indire, ha lasciato Dowing
Street, la presidenza del Partito Conservatore ed anche
il seggio alla Camera dei Comuni.
(da La Verità, 28 dicembre 2017, pagina 6)
Alla inesperta politica toscana
Manca lo stile della Destra storica
La lezione di Quintino Senna: separare la vita pubblica e
interessi privati. Pure se leciti
di Salvatore Sfrecola
C’è una regola che sono tenuti a rispettare tutti coloro ai
quali sono affidate funzioni pubbliche. Quella di
“adempierle con disciplina ed onore”, come si legge
nell’art. 54 della Costituzione. Uno stile di vita
istituzionale si potrebbe dire. Dimenticato per far posto ad
una pericolosa, crescente maleducazione istituzionale che
assume forme varie, spesso del conflitto di interessi.
Sappiamo che un tempo non era così. Richiesto di ricoprire
il ruolo di Ministro delle finanze dal Presidente del
Consiglio incaricato, Urbano Rattazzi, Quintino
Sella, ingegnere idraulico, professore universitario ed
esperto di mineralogia a livello mondiale, esponente di
spicco della Destra storica, appartenente da una importante
famiglia di imprenditori, scrive al nonno e lo sollecita a
dirgli se la famiglia avrebbe gradito l’incarico
ministeriale. Perché, aggiungeva, “dal momento del
giuramento le imprese di famiglia dovranno ritirarsi dagli
appalti pubblici”. La risposta è quella che il giovane
Quintino si attendeva: “la famiglia è onorata che tu
vada a fare il Ministro del Re e dal giorno del giuramento
le imprese di famiglia si ritireranno dagli appalti
pubblici”.
Fa impressione sentire queste parole oggi, quando la cronaca
ci consegna giorno dopo giorno episodi nei quali l’intreccio
tra politica ed affari mortifica le istituzioni e indigna i
cittadini che, anche per questo, si allontanano dal voto.
Non è solo l’illecito penalmente rilevante a dilagare. Sono
anche evidenti casi di assoluta mancanza di senso dello
Stato nei comportamenti individuali, nelle frequentazioni di
imprenditori e uomini delle istituzioni, tanto da non essere
neppure alle viste una legge sulla disciplina delle lobby,
che dovrebbe rendere trasparente l’interesse privato portato
all’attenzione della politica, in Parlamento e al Governo.
Lo stile Quintino Sella si è perso da tempo.
Certamente oggi, da alcuni anni, in tutti i partiti. Così
Maria Elena Boschi può dire di non aver fatto nulla di
male a mettere a parte il Presidente di CONSOB, Giuseppe
Vegas, delle sue legittime preoccupazioni per la sorte
di Banca Etruria. Per gli interessi delle aziende orafe, in
primo luogo. Non fa pressioni, afferma e ribadiscono i suoi
colleghi di partito. E qui sta la differenza tra lo stile
Sella – Destra storica e lo stile Boschi –
Partito Democratico. Non c’è bisogno di esercitare
pressioni. L’aver manifestato una preoccupazione è essa
stessa una pressione in quanto rivolta ad un soggetto
pubblico titolare di una funzione che avrebbe potuto essere
interessata alla vicenda, non della eventuale fusione della
banca con altra, ma di eventi borsistici. Nulla di illecito,
si badi bene, ma tutto fuori delle regole, espressione di
quella mancanza di senso dello Stato che avrebbe dovuto
consigliare il Ministro per le riforme costituzionali a non
interessarsi di una vicenda che direttamente o
indirettamente la investiva, per essere del luogo ove
prevalentemente opera la banca e per essere essa governata
da un consiglio di amministrazione nel quale opera il padre,
Pier Luigi Boschi, che sarebbe di lì a poco diventato
Vicepresidente.
Forse che il padre di un ministro non può essere incaricato
della vicepresidenza di una banca? Certamente è consentito e
legittimo. Ma ugualmente inopportuno se quell’incarico papà
Boschi lo ottiene mentre la figlia è ministro.
Avrebbe ottenuto quell’incarico anche se Maria Elena
fosse rimasta a Laterina o a Firenze in qualche studio
legale invece di seguire Matteo Renzi nella sua
avventura romana? Forse sì. Ma la storia non si fa con le
ipotesi. E nemmeno la politica al tribunale della quale
Maria Elena Boschi si presenta come una che non ha
sentito il dovere di astenersi, magari di mandare a
incontrare Vegas un suo collega di partito o di
governo. Invece no. La giovane, senza esperienza e senza
stile, ma consapevole del suo ruolo istituzionale e della
protezione del Presidente del Consiglio parla con il
Presidente della CONSOB. Non fa pressioni, nel senso che non
chiede. Ma con la manifestazione della sua preoccupazione fa
capire che se qualcosa Vegas potrebbe o potrà fare
sarebbe a lei gradito. Come aretina e come figlia.
In politica questi errori si pagano. Con le dimissioni.
(da La Verità, 16 dicembre 2017, pagina 3)
Armando Diaz (1861-1928)
Il Duca della Vittoria**
di Gianluigi Chiaserotti
Signor Presidente,
Signore, Signore, Amici,
devo essere ancora una volta molto, ma molto grato al nostro
benemerito Circolo di Cultura e di Educazione Politica “Rex”,
di cui festeggiamo il 70° anno di ininterrotta attività,
per l’opportunità che quest’oggi mi ha offerto, ma sempre
ed esclusivamente da appassionato di quella Signora che
viene denominata Storia, cioè maestra della vita
[esattamente «Historia est testis temporum, lux veritatis,
vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», come
scrive Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) nel suo “de
Oratore”], che ho l’onore di parlare a Voi e nella sala
dell’Associazione dei Piemontesi a Roma.
Ringrazio il Presidente, ing. Domenico Giglio, tutti
indistintamente i membri del Consiglio Direttivo, di cui mi
onoro fare parte, che mi hanno, indegnamente, ma nuovamente
voluto qui quest’oggi per cercar di ricordare, preciso “cercar
di ricordare”, e come al solito senza alcuna pretesa, il
generale Armando Diaz, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito
nel corso della Prima Guerra Mondiale dal giorno 8 novembre
1917, e quindi cento anni or sono.
Come il 15 febbraio 2015, sempre in codesta Assise, parlai di
Luigi Cadorna e dissi che “è un personaggio che conoscevo
solo di nome, ma non nei particolari della sua biografia”,
lo ripeto quest’oggi.
Quindi dopo il cortese incarico del Circolo, l’ho iniziato a
studiare, a valutare, ed ho cercato di scrivere quanto Vi
dirò, attenendomi esclusivamente ai fatti e non entrerò in
dettagli squisitamente militari e tattici in quanto non li
conosco e non ne sono consapevole da esporli.
§ 1. Note biografiche del generale Armando Diaz
-
Armando Vittorio Diaz nacque in Napoli il 5 dicembre 1861 da
Ludovico ed Irene Cecconi, in una famiglia (di lontana
origine spagnola) di militari, di magistrati e di uomini di
Legge.
L’avo Antonio era stato “ordinatore di guerra” durante il
regno del Re Ferdinando II di Borbone (1810-1859); il padre
fu ufficiale del genio navale nella marina borbonica e
quindi italiana; la madre veniva da una famiglia di
magistrati e di professionisti.
Il padre del Nostro, dopo aver lavorato negli arsenali di Genova
e di Venezia (di quest’ultimo era stato direttore, con il
grado di colonnello), morì nel 1871; la vedova con i
quattro figli si stabilì in Napoli, sorretta dalle cure del
fratello Luigi, avvocato, vivendo in modesta agiatezza.
Il Diaz compì gli studi elementari in varie scuole private, poi,
già orientato alla carriera militare, frequentò la scuola
tecnica pubblica, quindi l’istituto tecnico, traendone una
solida cultura scientifica e la capacità di scrivere in una
lingua italiana sobria e corretta; molto tempo dedicò anche
agli esercizi ginnici in palestra. Superati gli esami di
ammissione all’Accademia Militare di Torino, vi prese
servizio il 15 settembre 1879; sottotenente di artiglieria
nel 1882, frequentò la scuola di applicazione di Artiglieria
e Genio di Torino e, nel 1884, fu assegnato, con il grado di
tenente, al 10º reggimento di artiglieria da campo di stanza
a Caserta.
Vi rimase fino al 1890, alternando studio e lavoro con la
partecipazione alla vita della buona società napoletana.
Nel marzo 1890, Armando Diaz fu promosso capitano e trasferito al
1º reggimento di artiglieria da campo stanziato a Foligno.
Preparò e superò gli esami di ammissione alla Scuola di guerra,
che frequentò nel 1893-95, classificandosi al primo posto
della graduatoria finale del suo corso.
Il 23 aprile 1895 il Nostro sposò Sarah De Rosa, di una famiglia
napoletana di avvocati e magistrati: un matrimonio nato
all’interno dello stesso ambiente della buona borghesia
napoletana, che si rivelò solido e felice, allietato dopo
alcuni anni dalla nascita di tre figli.
Dal 1895 al 1916 la carriera del Diaz si svolse prevalentemente
negli uffici del comando del Corpo dello Stato Maggiore,
dove lavorò per un totale di circa sedici anni, lasciando
Roma soltanto per diciotto mesi per comandare un battaglione
del 26º reggimento di fanteria, quindi dopo la promozione a
maggiore nel settembre 1899, e per poco più di tre anni, e
precisamente dal 1909 al 1912.
A Roma prestò servizio soprattutto nella segreteria del Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito, generali Tancredi Saletta
(1840-1909) prima, eppoi Alberto Pollio (1852-1914). Un
incarico che non lasciava spazio per studi personali o
strategici, ma comportava un confronto quotidiano con la
realtà dell’esercito (organici, bilanci, armamenti) e con il
mondo politico romano.
Si rivelò, il Diaz un lavoratore preciso ed instancabile, capace
di far funzionare al meglio i servizi dipendenti, affabile e
diplomatico nei rapporti esterni; non ostentava interessi
politici, ma era bene informato di quanto accadeva in
Parlamento e nel paese ed in grado di destreggiarsi con gli
uomini politici e con gli addetti militari stranieri.
Di statura medio bassa, tarchiato ma non pesante, con i capelli
tagliati a spazzola e grandi baffi (più tardi ridotti a
baffetti), elegante senza esibizioni, di poche e forbite
parole, buon conoscitore del francese e sempre disposto a
tornare al suo napoletano, autorevole ma non autoritario,
esigente ma comprensivo, Armando era un ufficiale che
lavorava molto e bene senza mettersi in mostra, sempre
all’altezza della situazione, con una forza interna che si
inseriva senza difficoltà nell’istituzione militare.
Tenente colonnello dal 1905, nell’ottobre 1909 il Nostro lasciò
Roma perché nominato Capo di Stato Maggiore della divisione
di Firenze.
Il giorno 1 luglio 1910 fu promosso colonnello ed assunse il
comando del 21º reggimento di fanteria stanziato in quel di
La Spezia, dove seppe accattivarsi l’affetto dei soldati con
un regime disciplinare generoso ed un attivo interessamento
alle loro condizioni di vita.
Nel maggio 1912 fu destinato in Libia a sostituire il comandante
del 93º reggimento di fanteria, caduto ammalato; e subito
ebbe per i suoi nuovi soldati dimostrazioni di affetto e di
fiducia relativamente rare nell’esercito del tempo, ed anche
immediatamente ricambiate.
Il 20 settembre 1912, nello scontro di Sidi Bilal nei pressi di
Zanzūr, fu ferito da una fucilata alla spalla sinistra
mentre conduceva le truppe all’attacco; prima di abbandonare
il terreno volle assicurarsi del successo del suo reggimento
e baciare la bandiera, lasciando poi ai soldati un ordine
del giorno di elogio e ringraziamento.
Armando Diaz fu quindi rimpatriato con la croce di ufficiale
dell’Ordine militare di Savoia.
Nel gennaio 1913, appena guarito, riprese servizio al comando del
corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, come capo della
segreteria del generale Alberto Pollio.
Fu confermato in questa carica dal nuovo Capo di Stato Maggiore
Luigi Cadorna (1850-1828), poi, nell’ottobre 1914, promosso
maggior generale, assegnato al comando della brigata Siena e
subito richiamato al comando del corpo di Stato Maggiore
come generale addetto.
Nel maggio 1915, al momento della costituzione del Comando
supremo dell’esercito mobilitato, in cui Armando Diaz era
l’ufficiale più elevato in grado dopo il Cadorna, vi ebbe la
responsabilità del reparto operazioni, che però, malgrado il
nome, non si occupava di operazioni (la cui direzione era
accentrata nelle mani di Cadorna e della sua piccola
segreteria), ma dirigeva l’insieme degli uffici e servizi
del Comando Supremo e quindi esigeva una visione complessiva
della situazione dell’esercito.
Diresse l’ufficio con efficienza e piena soddisfazione di Cadorna
per oltre un anno, poi chiese di andare al fronte; il 27
giugno 1916 fu nominato comandante della 49ª divisione di
fanteria e subito dopo promosso tenente generale.
Tenne il comando della 49ª divisione per circa 10 mesi, sempre
alle dipendenze della 3ª armata, sul Carso o nelle immediate
retrovie.
Sin dall’inizio dimostrò notevoli capacità professionali e molto
impegno nella ricerca dei maggiori risultati con le minori
perdite, predisponendo con grande cura l’azione
dell’artiglieria e gli assalti della fanteria; e guidò con
energia le sue truppe nei sanguinosi combattimenti a nord
del San Michele, nel settore di Veliki, conquistando
nell’offensiva autunnale l’altura di San Grado di Merna e,
nel marzo successivo, la dorsale di Voltkoniak con una
manovra aggirante.
Per i soldati il Diaz ebbe sempre un’attenzione costante,
controllando personalmente che fossero rispettati i turni
tra trincea e riposo e nella concessione delle licenze, che
tutto il possibile fosse fatto per assicurare un rancio
adeguato e regolare, che nelle retrovie le truppe fruissero
di qualche comodità. Non perdeva poi occasione di
interrogare i soldati nelle sue frequenti ispezioni alle
trincee e di incoraggiarli con poche e commosse parole.
Dalla Libia aveva scritto che “tutto il segreto è
nell’elemento uomo”; e ora ribadiva: “si comanda col
cuore, con la persuasione, con l’esempio”.
Un atteggiamento che può parere retorico, come altri gesti del
Diaz, ma che in lui era spontaneo, oltreché piuttosto raro
sul Carso, così come la sua riluttanza a punire i soldati
per piccole infrazioni (non transigeva invece
sull’obbedienza in combattimento ed era severo, anche se
sempre cortese, con gli ufficiali).
L’interesse per i suoi soldati e l’impegno con cui cercava di
risparmiare le loro vite trovavano un limite nella sua
convinta accettazione degli ordini superiori: un suo
ufficiale di ordinanza, testimonia che Armando Diaz
condusse l’offensiva autunnale verso il San Michele con
inflessibile energia, pur ritenendola destinata
all’insuccesso.
Le truppe in ogni caso risposero appieno alla sua fiducia,
seguendolo senza cedimenti in tutta la sua azione di
comando.
Il 12 aprile 1917 il Diaz fu promosso alla testa del XXIII Corpo
d’Armata appena costituito e destinato ancora sul Carso con
la 3ª Armata.
Le sue divisioni entrarono in linea ai primi di giugno nel
settore di Castagnevizza e furono subito oggetto di un
violento contrattacco austriaco, che respinsero; poi nei
giorni dal 19 al 21 agosto, nel quadro dell’ultima offensiva
italiana sul Carso, conseguirono buoni progressi a sud di
Oppacchiasella, perdendo 8.800 uomini e facendo 4.400
prigionieri; infine in settembre mantennero le posizioni
conquistate malgrado il ritorno offensivo degli Austriaci.
Il Comandante fu premiato con la croce di commendatore
dell’Ordine militare di Savoia; una leggera ferita da
palletta da shrapnel al braccio destro, nel corso di una
ricognizione in prima linea il 3 ottobre, gli valse inoltre
una medaglia d’argento, conferitagli sul campo dal Duca
d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia (1869-1931), suo
diretto superiore come Comandante della Invitta III Armata.
Il giorno 8 novembre 1917, il generale Armando Diaz fu nominato
Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in sostituzione del
generale Luigi Cadorna. Codesta decisione il Re la prese “nel
tratto compreso tra il ponte della ferrovia e quello della
Strada Provinciale per Monselice” come precisa
un’Aiutante di Campo del Sovrano.
Le modalità della scelta sono ben note nelle linee generali,
anche se su singoli dettagli esistono versioni parzialmente
contrastanti dei diversi protagonisti, mai del tutto
composte.
A fine ottobre, al momento della costituzione del nuovo governo,
il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando
(1860-1952), il Re e il ministro della Guerra, generale
Vittorio Luigi Alfieri (1863-1918) avevano concordato sulla
necessità di sostituire il Cadorna.
La designazione del generale Diaz come successore era stata fatta
da Vittorio Emanuele III (1869-1947) e dal Ministro Alfieri,
quindi accettata da Orlando, ma rinviata al momento della
stabilizzazione del fronte.
Senonché il 6 novembre, nel convegno di Rapallo, gli
Anglo-Francesi subordinarono l’invio di loro truppe in
Italia all’esonero immediato di Cadorna, cui addebitavano
l’ampiezza della sconfitta italiana, il disordine della
ritirata e il cattivo funzionamento del Comando supremo.
Ed allora il Re e l’Orlando presero l’iniziativa di chiamare
subito il Diaz alla testa dell’esercito, aggiungendogli come
sottocapi i generali Gaetano Giardino (1864-1935) e Pietro
Badoglio (1871-1956), su indicazione rispettivamente del Re,
di Orlando e di Leonida Bissolati (1857-1920).
Artefice primo della sua designazione era stato il Re, come
abbiamo di già detto, che nelle sue visite al fronte carsico
aveva appreso a stimarlo per le sue doti di comandante e la
capacità di avere rapporti positivi con i soldati e con i
superiori.
Ma soprattutto gli Alleati si ritrovarono insieme in Italia,
anche per l’occasione solidale del loro soccorso al nostro
Esercito dopo la rotta di Caporetto. Gli Alleati (Capi
politici e militari) si riunirono a Rapallo (6 e 7
novembre), quindi a Peschiera del Garda (8 novembre), dove
furono gettate le basi per “[…] una miglior coordinazione
dell’azione militare”.
Il Diaz apprese la notizia della sua alta nomina (del tutto
inaspettata, per lui e per tutti) il pomeriggio del giorno 8
novembre 1917; non esitò e si presentò al Comando Supremo
dicendo al tenente Paoletti: “Mi hanno dato una spada
rotta, ma saprò riaffilarla”.
Immediatamente diramò un sobrio ordine del giorno all’esercito: “Assumo
la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito e confido
sulla fede e l’abnegazione di tutti”.
Il Nostro scrisse, tra l’altro, alla consorte: “[…] Il peso
che grava sulle mie spalle è immenso, assai più pesante di
quanto possa immaginare e come base non ho che la mia fede
infinita e la fiducia in Dio che prego mi voglia dare la
forza per affrontare il durissimo problema […]”.
§ 2. Capo di Stato Maggiore -
Un bilancio del suo operato come comandante in capo dell’esercito
italiano nell’ultimo anno di guerra non è facile, perché la
tradizione e la bibliografia offrono soprattutto contributi
celebrativi, consolidati dalle esigenze propagandistiche del
regime fascista.
Il Diaz ed i suoi diretti collaboratori non lasciarono
testimonianze né studi su questo periodo, mentre generali
illustri come Enrico Caviglia (1862-1945) e Gaetano Giardino
rivendicarono la loro parte nella vittoria con polemiche
forzatamente reticenti e cifrate.
I maggiori studiosi della guerra italiana, come Piero Pieri
(1893-1979) e Roberto Bencivenga (1872-1949), hanno
concentrato la loro attenzione sul periodo cadorniano; e la
relazione dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore
dell’Esercito è giunta ad affrontare l’ultimo anno di guerra
solo a cinquant’anni dai fatti.
In sostanza, mancano ancora studi di respiro sul Comando supremo
del Diaz, anche se disponiamo di pagine e giudizi
interessanti e di buoni contributi di sintesi su singoli
problemi, in particolare sulle grandi battaglie.
Tutto ciò premesso, cerchiamo ugualmente di delineare il suo
contributo alla vittoria, dando per noto l’andamento delle
operazioni, la battaglia d’arresto sul Grappa e sul Piave
nel novembre-dicembre 1917, la riorganizzazione
dell’esercito, quindi la vittoriosa resistenza sul Piave,
che fu esclusivamente difensiva ma avendone rinnovato, ed in
meglio, le forze.
Il 23 giugno 1918, appena conclusa tale battaglia, Vittorio
Emanuele Orlando così telegrafò a Diaz: “Mi mancano gli
elementi per valutare tutta la grandezza dell’avvenimento e
soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale
dell’esercito nemico da rendere consigliabile di non
lasciargli prendere respiro”.
Fu l’inizio dell’offensiva finale che culminerà in Vittorio
Veneto.
Il primo merito del nuovo Comandante fu, senza alcun dubbio, la
capacità di far funzionare il Comando supremo in modo
adeguato alle esigenze e dimensioni della Grande Guerra.
Anche se non sono d’accordo in quanto diverse testimonianze, ma
anche documenti affermano il contrario, Cadorna aveva
accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in
condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi
piani e l’esecuzione dei suoi ordini e di non riuscire a
capire la gravità dei problemi che ricadevano sul governo.
Forte della sua lunga esperienza di ufficiale di stato maggiore e
di una visione più aperta delle necessità del conflitto, il
Diaz riorganizzò il Comando supremo, valorizzando il ruolo
del sottocapo Badoglio e del generale addetto Scipione
Scipioni (1867-1940), riordinando il lavoro degli uffici ed
attribuendo ad ognuno di essi responsabilità definite e
concrete; tutto ciò senza clamore né scosse, conservando
anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la
nascita di un clima di squadra nel rispetto dei diversi
compiti. Il nuovo Comando Supremo curò particolarmente lo
sviluppo dei servizi informativi e potenziò il ruolo degli
ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie
dirette sulla situazione dei vari fronti, senza però
scavalcare i comandi d’armata, con cui furono curati
rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e
incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione
con Badoglio (dell’altro sottocapo, Giardino, il Diaz si era
elegantemente liberato promuovendolo a comandare l’armata
del Grappa), che si occupò soprattutto delle operazioni e
del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo,
alleggerendo il Diaz di buona parte del lavoro di routine e
conquistandone la piena fiducia (tanto che, come è noto,
Armando Diaz ottenne per lui un trattamento di assoluto
privilegio dalla ministeriale commissione d’inchiesta sul
ripiegamento al Piave, che dovette rinunciare ad
approfondire l’esame della sua condotta a Caporetto).
Ciò non significa che egli abdicasse alle sue responsabilità di
comandante in capo, ma che, come richiedeva la complessità
della guerra, sapeva valorizzare l’opera dei suoi
collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi,
di preparazione e di controllo, riservandosi però la
decisione finale e l’intervento personale nelle situazioni
di emergenza.
Più che a Napoleone, modello inconfessato di tutti i comandanti
della grande guerra, il Nostro può essere avvicinato a
Dwight David Eisenhower (1890-1969), un altro comandante
capace di affrontare la complessità della guerra moderna
appoggiandosi sul lavoro del suo stato maggiore.
Sin dall’inizio del suo comando si era proposto di curare di
persona i rapporti con il Re, il governo e il mondo
politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza
prebellica e la sua convinzione della necessità di una
collaborazione di tutte le energie disponibili. Con il Re,
il Nostro ebbe contatti frequentissimi: si recava da lui a
pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più
spesso quando c’erano novità.
Con Vittorio Emanuele Orlando si incontrava tre o quattro volte
al mese, al Comando Supremo o a Roma, con lunghi colloqui
che assicuravano unità d’azione nella difficile situazione.
Il Diaz aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un
Comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato
maggiore dell’esercito e della marina avevano soltanto voto
consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a
Roma, ministri e uomini politici influenti [in particolare
Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Ministro del Tesoro,
che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si
dava da fare per appoggiarlo], senza intromettersi nei
contrasti interni alla maggioranza governativa, ma per
illustrare le esigenze dell’esercito e il suo operato. Tutta
questa disponibilità non implicava una eccessiva
arrendevolezza alle istanze politiche: egli non discuteva il
primato del governo e la necessità di un’ampia e continua
collaborazione, anche per migliorare l’immagine del Comando
Supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non
accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con
un’interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella
di Cadorna, sulla distinzione di sfere tra potere politico e
potere militare; come è noto, nel settembre 1918, egli
respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare
l’esercito austro-ungarico di cui si profilava la crisi,
rivendicando a sé soltanto, la condotta delle operazioni,
tanto da tenere inizialmente il governo all’oscuro della
preparazione dell’offensiva cui si era infine deciso.
Anche con gli alleati franco-britannici ebbe buoni rapporti: non
era sensibile come Cadorna alla necessità di una condotta
unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre di
sferrare offensive senza altro obiettivo che
l’alleggerimento indiretto del fronte francese, ma seppe
dare un’impressione positiva di sicurezza e volontà di
collaborazione e stabilire proficui contatti a livello degli
Stati Maggiori.
L’altro grande e indiscusso merito del Diaz comandante in capo fu
il suo fattivo interesse per le condizioni dei soldati.
In questo non era solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa
che il collasso di Caporetto fosse in gran parte dovuto alla
stanchezza fisica e morale dei combattenti, che molto
avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le
iniziative per il miglioramento del regime di vita dei
soldati e per una propaganda articolata ed efficace. Un
impulso decisivo, necessario per vincere le resistenze
burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz
medesimo, il quale fece quanto era in suo potere per
assicurare ai soldati un vitto curato e regolare, turni
sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto
della vita e della salute anche in trincea (quindi
alloggiamenti meno trascurati, qualche tentativo di igiene,
un freno poi allo stillicidio di piccole e sanguinose azioni
di scarso costrutto) e un’assistenza morale e politica non
limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non furono dappertutto uguali (la tradizione
agiografica certamente ne sopravaluta l’effetto), ma furono
avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non trascurabile, fu di saper evitare facili
successi pubblicitari con l’ostentazione del suo interesse
per i soldati: i suoi nuovi compiti gli impedivano di
ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i
soldati, se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto
per l’ordinamento gerarchico dell’esercito lo indusse a
limitarsi a dare le direttive generali che gli competevano,
senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il suo stile di comando fu sobrio, come attestano
i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu
l’accorciamento del fronte italiano (praticamente dimezzato
con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di
assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di
costituire quelle riserve a disposizione del Comando Supremo
che negli anni precedenti erano state vietate
dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze
disponibili per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato fatto osservare che due altri vantaggi di cui
il Nostro fruì, ossia la forte produzione dell’industria
bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero
austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del
suo predecessore.
Sono fatti indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che
credeva fermamente nella propria fortuna, con qualche
concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel 1918
il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma
bisogna anche ricordare che dopo Caporetto la posizione
strategica dell’esercito italiano era molto più delicata
(mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto
perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è
un fatto che la ripresa del paese e delle truppe fu assai
più lenta e contrastata di quanto non voglia la leggenda
patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone”
al cavallo di razza in difficoltà.
Inoltre scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna
aveva potuto attingere con relativa larghezza: il Diaz non
avrebbe potuto affrontare una battaglia di logoramento,
perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata
alle armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto
nella primavera del 1919.
In ogni caso ci sembra priva di senso la contrapposizione
polemica tra la strategia offensiva di Cadorna e quella
difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei
comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal
concorso di molte e diverse circostanze (a cominciare dal
comportamento del nemico); ed infatti l’asprezza dei
contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra
(1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo
Boselli (1838-1932) di condividere e appoggiare
l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e
il Diaz, dopo dieci mesi di piena collaborazione, si
divisero nel settembre 1918 sull’opportunità dell’offensiva
autunnale.
In sintesi, la scelta di una strategia difensiva era
sostanzialmente obbligata fino al settembre 1918.
Merito del Nostro fu di condurla con intelligente fermezza e di
approfittare del rallentamento delle operazioni e della
disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente positiva la proclamazione dell’inscindibilità della
divisione, pedina base della condotta del combattimento
(così come il battaglione ad un livello inferiore); semmai
la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era
stata fatta nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare
alla divisione ternaria (cioè su tre reggimenti di fanteria,
anziché sui quattro che la rendevano assai pesante).
Positive furono anche la redistribuzione dell’esercito in sei
armate di medie proporzioni e l’emanazione di nuove norme
per le operazioni, che sulla base della dura esperienza
prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e
condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le
costose offensive dimostrative (anche se poi Armando Diaz
permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino
lanciasse la sua 4ª armata in improvvisati attacchi contro
le munite posizioni austriache del Grappa, risoltisi in un
massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente insufficienti invece gli sforzi per un migliore
addestramento delle truppe, anche perché all’efficienza
degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra
corrispondeva uno scadimento della media dei quadri
inferiori, troppo giovani e inesperti.
Deludente infine l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che
cercava di replicare su grande scala, senza un adeguato
potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente rendimento
negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei quadri, la contrapposizione tradizionale
tra i siluramenti indiscriminati del generale Cadorna e la
gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra
felice.
Indubbiamente il primo non aveva avuto la mano leggera e nei
molti esoneri da lui effettuati o avallati (217 generali,
255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si contano
non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti
ufficiali incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del
conflitto era una necessità innegabile ed i suoi effetti
furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz ereditò alti
comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza
della situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli
del 1915 e non inferiori a quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso confrontare quantitativamente gli esoneri nei
diversi periodi della guerra, perché avevano luogo in
condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di alti
comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati
non furono pochi, anche se meglio accolti dall’opinione
pubblica.
In realtà la sua immagine tradizionale di comandante paterno e
comprensivo è vera solo a metà: il suo fattivo
interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad
esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina,
né la sua consapevolezza della stanchezza delle truppe e
della pesantezza dei sacrifici loro imposti comportava
alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di guerra i tribunali militari continuarono a
lavorare con il ritmo e i metodi dei tempi di Cadorna
(mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono
reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.
§ 3. Conclusioni
-
Un giudizio complessivo dell’operato del generale Armando Diaz
come comandante in capo è certamente positivo.
Al riguardo cito volentieri due giudizi sul nostro, uno del
generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta
sotto la guida di una mente sempre in equilibrio e sempre
presente a sé stessa”. L’altro è del Sonnino: “Diaz è
un uomo che ragiona e con cui si puo’ ragionare”.
Non aveva l’inflessibile volontà offensiva e la personalità
dominante di Luigi Cadorna, ma la sua prudente e serena
fermezza, la sua comprensione della terribilità della
guerra, quindi il suo interessamento autentico per le
condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche
pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di
collaborare con le forze politiche e di costruirsi
un’immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero
l’uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una
guerra pressocché logorante.
Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in
cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere
sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito di
aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili
alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una
combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell’impiego
delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie
difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della
situazione internazionale nel settembre 1918, quando
un’offensiva italiana diventava così necessaria da un punto
di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato
negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi
anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la
battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo
momento utile contro un nemico sull’orlo del collasso, ma
ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui
la guerra italiana aveva legittimo bisogno.
Successo consacrato nel famoso “Bollettino della Vittoria”,
steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani
(1879-1938), e dal Diaz aggiustato, corretto, integrato e
sottoscritto.
Il Generale Armando Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno
ancora dopo l’armistizio. Non fu un anno facile, per i
grossi problemi concreti che si ponevano (la prima
ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle
Alpi e sull’Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni
di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra
vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull’esercito e
dentro l’esercito.
Nella primavera 1919 il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla
Conferenza di Parigi, appoggiandone la politica
espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una
forte presenza italiana sulla sponda orientale
dell’Adriatico non comportava difficoltà militari
nell’immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non
disponevano ancora di forze organizzate di qualche
consistenza (e quindi l’arresto della smobilitazione voluto
dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare
l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a
lungo andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso
insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in
giugno del governo del Nitti con un programma di
normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro
della Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e
collaborò pienamente alla smobilitazione dell’esercito
condotta quasi a termine nell’estate.
Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla
pubblicazione dell’inchiesta ministeriale su Caporetto non
potevano piacergli, per il loro carattere di critica
radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo
toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano
unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della
guerra.
Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di
tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo
al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e
il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non
senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una
condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva approvare l’avventura fiumana di Gabriele
d’Annunzio (1863-1938), che metteva in crisi la tradizione
di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui affidato,
in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva;
appoggiò quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la
spedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose
di persona, così come non partecipò, allora e in seguito,
alle polemiche sull’amnistia che nel settembre 1919, che
cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il
suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota
come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua
decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché
Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o
Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto
senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di
Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era
troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di
guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche
interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore
del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva
contratto una bronchite cronica che lo avrebbe
progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare
a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e
degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e
esigenze collettive e spontanee dell’opinione pubblica a
spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al
di sopra delle parti.
In occasione dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio
dell’esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica
di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a Badoglio e assunse
quella di nuova creazione di ispettore generale
dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito,
improntato a economie di gestione e riduzione di organici,
soppresse la carica di ispettore generale.
Il generale Armando Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche
se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli
riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico
di cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al
Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a titolo di
riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti
la riforma dell’alto comando dell’esercito, promossa dai più
illustri generali in odio alla posizione di preminenza di
Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo
di Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione,
il Consiglio dell’esercito, di cui il Diaz assunse la
vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il
ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali
della “vittoria”).
Il Consiglio dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti
a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l’esercito
sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico,
ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando
un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non
ne fu scalfito e, nell’autunno 1921, compì una trionfale
missione di propaganda negli Stati Uniti.
Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in
affitto a Roma ed un piccolo ufficio al ministero della
Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza
nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze
estive.
Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né
appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento
fascista.
All’inizio dell’ottobre 1922, mentre la crisi politica
precipitava, il presidente del Consiglio, Luigi Facta
(1861-1930), lo convocò con Badoglio per essere informato
dell’orientamento dell’esercito e rassicurato sulla sua
obbedienza in caso di gravi disordini. “Diaz e Badoglio
“- telegrafò Facta al Re il 7 ottobre – “assicurano
che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti,
farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma”; il che
significava che il Diaz, pur rivendicando l’unità e
l’obbedienza dell’esercito, aveva consigliato una soluzione
politica della crisi e non la repressione dello squadrismo
fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a
dirigere).
Secondo testimonianze lacunose, ma nella sostanza attendibili,
nella notte tra il 27 e il 28 ottobre il Diaz ribadì questo
atteggiamento direttamente al Re (non sappiamo se per
telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna
a Roma in automobile), sconsigliando la proclamazione dello
stato d’assedio con la nota frase: “l’esercito farà il
suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”.
Subito dopo accettò di entrare nel primo governo Mussolini
come ministro della Guerra [con l’ammiraglio Paolo Thaon di
Revel (1859-1948) come Ministro della Marina]: un avallo
fondamentale per il governo fascista dinanzi all’opinione
pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per
la monarchia e per l’esercito, come fu sottolineato nelle
prime uscite pubbliche del governo, in cui Mussolini cedette
al Diaz il primo posto e i maggiori applausi.
La principale preoccupazione del Diaz, come ministro della
Guerra, nei primi diciotto mesi del Governo Mussolini, fu il
riordinamento dell’esercito, in modo da porre fine alla
confusa situazione creata dal sovrapporsi della
smobilitazione, dei tentativi di riforma e modernizzazione e
della resistenza passiva delle alte gerarchie.
Il nuovo ordinamento dell’esercito, che il Diaz varò nel gennaio
1923 con una celerità permessa dai pieni poteri ottenuti dal
governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di un
anno, rappresentava un sostanziale ritorno all’anteguerra.
L’ordinamento del Diaz ebbe indubbiamente il merito di porre fine
ad una situazione di incertezze e di dare soddisfazione alle
aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe però
tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e
delle aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che
auspicavano un maggiore coinvolgimento del paese nella
preparazione bellica, e invece conservò organici troppo ampi
per le disponibilità finanziarie, tanto che al giorno 1
aprile 1924 l’esercito contava solo 125.000 uomini, con
compagnie di 69 uomini assorbiti per tre quarti da servizi e
presidi caratteristici di un esercito di caserma.
Altre decisioni del Diaz come Ministro della Guerra meritano di
essere ricordate.
Innanzi tutto l’avallo concesso alla costituzione della Milizia
Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che raccolse
tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del
governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini,
rompendo il monopolio della forza armata e il ruolo di
tutore dell’ordine che l’esercito aveva tradizionalmente
avuto e difeso.
Secondo ogni evidenza, il Diaz accettò la Milizia come un prezzo
da pagare al fascismo e manovrò per diminuirne il ruolo
militare, rifiutando l’equiparazione dei suoi ufficiali a
quelli dell’esercito e l’impiego bellico dei suoi reparti;
negli anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e
militare, pur continuando a esercitare un’influenza negativa
sulla preparazione bellica nazionale.
Concesse inoltre a Mussolini una drastica riduzione del bilancio
dell’esercito per favorire il conseguimento del pareggio
anche a scapito dell’efficienza dell’ordinamento da lui
varato; e non si oppose alla costituzione di un’aeronautica
indipendente, che pure nasceva non da una meditata scelta di
politica militare, bensì dalla ricerca di successi
propagandistici del regime fascista.
All’inizio del 1924 il Diaz maturò la decisione di lasciare il
governo, perché pensava di avere ormai portato a termine il
riordinamento dell’esercito e perché il lavoro d’ufficio
(cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava
pesante per la sua salute.
Rinviò le dimissioni a dopo le elezioni di aprile per non
indebolire il governo, poi il 30 aprile 1924 lasciò il
ministero della Guerra al generale Antonio Di Giorgio
(1867-1932), scelto con il suo consenso. Fu subito nominato
vicepresidente del comitato deliberativo della Commissione
suprema di difesa. con compiti vasti quanto indeterminati (e
in definitiva non mai esercitati) di impulso e coordinamento
della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica
fino alla morte.
Negli anni seguenti il Diaz continuò a dividere il suo tempo tra
l’ufficio romano, la villa di Napoli e le vacanze a Capri.
Nella primavera 1925 si schierò con gli altri “generali della
vittoria” nella battaglia senatoriale contro il
riordinamento dell’esercito proposto dal suo successore Di
Giorgio, risoltasi con il ritiro del provvedimento e le
dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il
lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul
Carso.
Il generale Armando Diaz fu creato Senatore del Regno il 24
febbraio 1918 ai sensi della categoria 14 dell’art. 33 dello
Statuto Albertino e la sua creazione fu convalidata il
giorno 1 marzo.
Ad un anno esatto dalla “Vittoria” fu insignito anche
dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, quale
creazione n. 747 dalla fondazione dell’ordine medesimo.
Quindi con R. D. “motu proprio” del 24 dicembre 1921
e RR. LL. PP. del giorno 11 febbraio 1923 (riconosciuto poi
con D. M. 21 novembre 1940), Armando Diaz ebbe anche il
titolo di Duca della Vittoria, nonchè il 4 novembre 1924
quello di Maresciallo d’Italia.
Morì a Roma il 29 febbraio 1928.
I tre protagonisti della Vittoria Italiana nella I Guerra
Mondiale, il Nostro, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di
Revel, Duca del Mare, ed il Presidente del Consiglio dei
Ministri, l’insigne giurista Vittorio Emanuele Orlando, sono
tutti sepolti nella chiesa romana di Santa Maria degli
Angeli e dei Martiri alla piazza dell’Esedra.
Ed ora, richiamando, come è mia consolidata tradizione, i
versi di Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.) (Georg. III,
284), nella loro perenne e duratura validità: «fugit
interea, fugit inreparabile tempus […]», taccio e chiudo
codesta mia sommaria e forzatamente molto incompleta
esposizione, ma permettetemi di tacere con il ricordo della
friulana Maria Bergamas (1867-1952), il cui figlio
volontario
irredento Antonio Bergamas che aveva disertato
dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era
caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse
ritrovato.
A lei toccò il compito di scegliere il Milite Ignoto.
La solenne cerimonia ebbe luogo il
28
ottobre
1921,
nella
Basilica
Romana di Aquileia, e Maria scelse il corpo di un soldato
tra le undici salme di caduti non identificabili, raccolti
in diverse aree del fronte. La donna venne posta di fronte a
undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle
prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione, e,
gridando il nome del figlio, si accasciò al suolo davanti a
una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone e,
accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d'oro al
Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro
ferroviario appositamente disegnato.
Le Sacre spoglie prescelte vennero portate a Roma con uno
speciale convoglio ferroviario sul quale era visibile il
feretro che nelle principali stazioni ferroviarie ricevette
gli onori dei picchetti militari in armi e delle popolazioni
commosse.
Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria, alla
presenza del Re Vittorio Emanuele III, la bara, portata a
spalla da dodici decorati di Medaglia d’Oro al Valor
Militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355
Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne
deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma
dell’Altare della Patria in Roma.
Al Milite Ignoto fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor
Militare con la seguente motivazione:
“Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria
civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese,
prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde
combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la
grandezza della patria”.
*
Conferenza tenuta al Circolo di Educazione Politica
REX il 3 dicembre 2017
Asini, avvoltoi, sciacalli e iene
di Domenico Giglio*
Senza offesa per
gli animali citati che fanno solo quanto la loro natura
prevede, dando chi un calcio al leone morente, chi
scarnificando i cadaveri di altri animali e cibandosi di
carogne, ma gli articoli pubblicati su quasi tutti i
giornali in occasione del rientro della salma del Re
Vittorio Emanuele III, sono ad un tale livello di faziosità,
di ignoranza e volgarità che, dopo settent’anni dalla morte
di questo Sovrano non credevo fosse più possibile. Molto
meglio furono gli articoli nel lontano dicembre del 1947,
anche quando polemici e negativi sull’operato del Re, e
l’allora Capo Provvisorio dello Stato, De Nicola, inviò un
nobile messaggio di condoglianze al figlio, il Re Umberto
II.
Cominciando dalle
volgarità il ripetere il termine “sciaboletta”, riferendosi
al Re, è meschino dal momento che tale epiteto proveniva dai
fogli della sinistra, quando nel Regno d’Italia, esisteva la
vera libertà di stampa, oggi a continuo rischio per una
serie di divieti sull’uso di determinati termini che portano
ad accuse di razzismo (ed irridere alla statura di una
persona non è forse razzismo?), omofobia e altro. E volgare
ed antinazionale è stato pure sminuire, da parte di un
neoborbonico, la presenza e l’opera a Messina, nel 1908,
dopo il terremoto, della Regina Elena, della quale, non
potendone parlare male, si è preferito ipocritamente tacere.
Continuando sulla
ignoranza, una “perla” è aver definito su “Repubblica”, il
trasferimento in Egitto, dopo l’abdicazione, come “fuga”,
l’altra è non ricordare che se le leggi razziali,
predisposte nel 1938 da un legittimo e regolare governo,
riconosciuto da tutti gli stati del mondo, furono
necessariamente ed amaramente controfirmate dal Re, la loro
abrogazione avvenne con un decreto predisposto dal nuovo
governo Badoglio, all’inizio del 1944 e firmate logicamente
dal Re, in quello che è stato definito “il Regno del Sud”,
ma che era sempre il Regno d’Italia, anche se ridotto a
poche provincie del Meridione. Sempre ignoranza è parlare di
colpo di stato nel 1922, che avrebbe aperto la strada al
fascismo, quando dovrebbe essere notorio che l’incarico a
Mussolini avvenne dopo regolari consultazioni e che nessun
fascista entrò in armi a Roma, il 28 ottobre, ma solo tre
giorni dopo i fascisti entrarono per sfilare
disciplinatamente nella città, arrivando fino al Quirinale,
e che il governo Mussolini fu un governo di coalizione, con
indipendenti, liberali, demo sociali e soprattutto con i
“popolari”, la democrazia cristiana dell’epoca, avendo alla
Camera un larghissimo voto di fiducia. Ignoranza, voluta, è
non ricordare che il fascismo cadde, non certo ad opera
degli antifascisti, ma ad opera del Re, il 25 luglio 1943, a
seguito di un voto espresso dal Gran Consiglio e che il
tutto avvenne senza lo spargimento di una goccia di sangue e
senza un colpo di fucile. Sempre ignoranza, se non peggio, è
scrivere di aver “consegnato alle SS “ i cittadini italiani
di religione ebraica, confondendo le leggi razziali del
1938, che privavano di alcuni diritti, ma non
perseguitavano, come era avvenuto in Germania, con quanto
avvenne solo dopo l’8 settembre 1943, nella parte del
territorio nazionale governato dai tedeschi e dalla RSI,
ovvero le deportazioni nei lager ed il conseguente
olocausto.
Infine come
faziosità e deformazione della storia sono gli articoli di
neoborbonici, ospitati su “Il Giornale “, che si fregia
essere stato “fondato da Indro Montanelli”, che si rivolterà
nella tomba, dove si parla dei Savoia, come “pessima
dinastia”, (evidentemente fin dall’anno 1000!), si scrive,
almeno nel titolo, di altra dinastia con sovrani
“coraggiosi” (dove? quando? protetti dagli inglesi o dai
soldati austriaci),”generosi”(con i Caracciolo, Pagano, la
Sanfelice, e centinaia di altri, e con i
messinesi),”illuminati” (forse dalle candele dei bellissimi
candelabri della Reggia di Caserta), e più italiani, pur
essendo giunti a Napoli, per vittoria sugli austriaci solo
nel 1734!
Forse il culmine
lo ha raggiunto un articolista del “Secolo XIX”, definendo
Vittorio Emanuele III, come il peggiore monarca dell’Europa,
“lasciando massacrare i soldati, guidati da generali
indegni”. E allora il presidente della repubblica francese
ed i generali francesi? Certa terminologia non dovrebbe più
trovare spazio in una stampa “democratica” e non è degna di
giornali che abbiano decenni e decenni di anzianità,
ignorando volutamente che quel Re d’Italia è stato per più
di tre anni vicino a quei soldati, visitandoli nelle prime
linee a suo rischio e pericolo. Ed un esponente dell’ANPI
che dimentica essere stati i primi patrioti della Resistenza
gli ufficiali, compresi anche generali, e soldati trovatisi
nei territori occupati a riprendere le armi contro i
tedeschi, per fedeltà ad un giuramento prestato proprio a
quel Re, cui si vuole contestare la sepoltura al Pantheon, e
sempre per quel giuramento più di seicentomila militari
subirono i campi di concentramento in Germania, non
accettando il rientro in Italia sotto bandiera diversa dal
tricolore con lo Scudo Sabaudo e Corona Reale!
Tra tutte le voci
si è poi levata sulla “Stampa”, quella del Sindaco di Alba,
forse geloso di Vicoforte, (nel referendum 953 voti per la
monarchia e 734 repubblicani) perché nel suo Santuario
voluto dal Duca di Savoia, Carlo Emanuele I, hanno trovato
il riposo le salme dei Reali ( almeno provvisoriamente),
accusando il Re di aver lasciato Roma, dopo l’8 settembre,
senza “proteggere” gli italiani, non pensando minimamente a
cosa sarebbe accaduto di ben peggio allo Stato Italiano, se
fosse stato catturato dai tedeschi e dimenticando che nel
referendum istituzionale il suo comune (altro che
“repubblica di Alba”), vide una netta maggioranza per la
Monarchia dei Savoia con 6.709 voti contro 3.334. Così che
tutta la Provincia di Cuneo dette 188.876 voti monarchici,
contro 147.480 repubblicani, per cui insieme con Asti e
Padova, furono le tre provincie del Nord, dove malgrado la
massiccia propaganda repubblicana e l’impedimento a quella
monarchica, la Monarchia sia risultata vincitrice.
*
Presidente del Circolo di Cultura e di Educazione Politica
Rex
22 dicembre 2017
Pietro Grasso:
A questo punto deve lasciare la poltrona
Se vuole fare campagna elettorale,
l’ex magistrato rinunci alla carica istituzionale
di
Salvatore Sfrecola
Mi soffermo spesso sullo stile che
debbono avere i magistrati, tenuti, come sappiamo, oltreché
ad essere indipendenti anche ad apparire tali. Uno stile che
nei codici etici delle Associazioni dei pubblici dipendenti
in toga viene richiesto anche fuori dei tribunali, in
famiglia e nella società. Insomma il magistrato deve essere
riconosciuto dai cittadini non solamente come un uomo probo
ma anche come uno che porta nella vita civile uno stile, di
evidente rispetto delle regole.
A questa regola è tenuto anche
Pietro Grasso.
Magistrato di indiscusso valore, Procuratore della
Repubblica di Palermo e poi Procuratore antimafia, un
cursus honorum di
tutto rispetto,
Grasso gode di generale considerazione nell’opinione
pubblica. Pensionato, ha scelto di mutare la toga con il
laticlavio e si è assiso sul seggio più alto di Palazzo
Madama, un ruolo che impone grandi capacità
nell’organizzazione dei lavori e nella conduzione del
dibattito in aula, in modo che mai appaia uomo del partito
che lo ha portato in Parlamento. Il Presidente è “arbitro”,
“è soggetto di indirizzo politico”, ma, spiega Andrea
Manzella, “non è soggetto dell’indirizzo politico della
maggioranza”. E tale deve “apparire”.
Non dubitiamo che
Grasso abbia seguito queste regole, anche se la gestione del
dibattito sulla legge di revisione della Costituzione
Renzi – Boschi, con ricorso a strumenti, pur legittimi, di
limitazione del voto sugli emendamenti, come il cosiddetto
“canguro” o la “tagliola”, tesi a ridurre o ad escludere gli
emendamenti presentati dalle opposizioni e i tempi degli
interventi di ciascun gruppo parlamentare, è stato duramente
criticato da molti costituzionalisti. Non solo dalle
opposizioni, che fanno il loro dovere, anche attraverso
l’ostruzionismo, il cosiddetto
filibustering, un metodo diretto ad allungare i tempi
dell’approvazione delle leggi o delle mozioni. La storia dei
parlamenti è ricca di esempi, a dimostrazione della vivacità
del confronto politico, a difesa del ruolo di chi
rappresenta gli elettori “senza vincolo di mandato”.
Oggi ad incrinare l’immagine di
Grasso Presidente
del Senato è il ruolo politico che ha assunto con la
presidenza del nuovo movimento che, a sinistra, contende la
leadership al Partito
Democratico di
Matteo Renzi. Liberi e Uguali si schiera alla vigilia della campagna elettorale e
chiede voti per un programma parlamentare e di governo.
Grasso è un “pezzo grosso” di quello schieramento della Sinistra,
della quale afferma di essere stato sempre fautore,
essendosi qualificato “un ragazzo di sinistra”. Gli
auguriamo il massimo successo. Non può, invece, continuare a
svolgere le funzioni di Presidente del Senato, assolutamente
incompatibili con quell’immagine di indipendenza che il
ruolo richiede e che da magistrato ha imparato ad esercitare
anche nella funzione requirente (per questo difendo da
sempre l’unicità della carriera di giudici e pubblici
ministeri). Non dubito che
Grasso mantenga
quella indipendenza alla quale è stato educato, ma è certo
che la sua immagine ne risentirà e lo faranno rimarcare,
giorno dopo giorno, i senatori che riterranno ogni sua
mossa, quando non gradita, suggerita dal suo ruolo di
partito. Ciò che macchierebbe inevitabilmente la sua
immagine, come è stato per altri presidenti di assemblea i
quali hanno esercitato contemporaneamente un ruolo di
partito con funzioni di responsabilità. Critiche che hanno
toccato in primo luogo
Gianfranco Fini,
ed anche Fausto
Bertinotti e
Pierferdinando Casini, sia pure in misura minore.
Siamo alla vigilia dello scioglimento
delle Camere. Pietro
Grasso farebbe una bella figura dimettendosi da
Presidente del Senato, motivando la decisione in ragione del
suo nuovo ruolo partitico. Ne riuscirebbe rafforzata la sua
immagine, quella che ha indotto
Massimo D’Alema e
Pier Luigi Bersani
a sceglierlo come Presidente di
Liberi e Eguali in
vista della campagna elettorale.
(da
La Verità,13
dicembre 2017, pagina 9)
Da ex magistrato dico al pm Rossi che avrebbe dovuto passare
la mano
Oltre alle regole c’è l’opportunità:
bisogna apparire indipendenti non solo esserlo
di
Salvatore Sfrecola
Ricordo sempre le parole di mio
padre, che prima di me ha indossato la toga di magistrato, e
che avrei sentito ripetere all’atto del giuramento dal
Presidente della Corte dei conti,
Silvio Pirrami Traversari:
“non basta essere indipendente
occorre che tu appaia tale agli occhi della gente”.
Una banalità, si potrebbe dire,
dacché l’indipendenza del magistrato è scritta in
Costituzione all’art. 101, comma 2,
laddove
si dice che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Eppure questa esigenza dell’apparire, essenziale nella
società che privilegia ovunque l’immagine, è sovente
trascurata, anche quando intimamente seguita. Come nel caso
del Procuratore della Repubblica di Arezzo,
Roberto Rossi,
il quale avendo svolto legittimamente, per esservi stato
autorizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura,
funzioni di consulenza presso la Presidenza del Consiglio
dei Ministri, quando Maria
Elena Boschi rivestiva il
ruolo di Ministro per le riforme costituzionali, avrebbe
dovuto sentire la necessità di astenersi dall’indagare su
Banca Etruria e su papà
Boschi, perché nessuno potesse dubitare della sua
obiettività in ragione della conoscenza e della pregressa
collaborazione con la figlia.
Non mi sfiora neppure il dubbio che
il magistrato sia stato men che ligio al dovere
dell’indipendenza, ma è certo che l’aver proceduto a quelle
indagini con esiti ancora non chiari, almeno per quanto
riferiscono i giornali sulla sua audizione dinanzi alla
Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da
Pierferdinando Casini, ha scatenato sulla stampa
illazioni e critiche le quali non hanno giovato alla
Magistratura che certamente non ha bisogno che qualcuno
dubiti della obiettività di giudici e pubblici ministeri.
È un fatto importante in un momento
di crisi delle istituzioni, come si rileva quando i
sondaggisti, che indagano sulle opinioni degli italiani in
ordine al gradimento di uomini e istituzioni, il Capo dello
Stato, le Camere, il Governo, questo o quel ministro, l’Arma
dei Carabinieri e la Polizia di Stato, non trovano al
vertice delle preferenze la Magistratura. La quale
evidentemente non gode di quella autorevolezza che i
cittadini desidererebbero perché vorrebbero, come un tempo
il mugnaio Arnold
di Postdam si chiedeva se ci fosse un giudice a Berlino per
ottenere giustizia contro un signorotto prepotente, e la
trovò nel Re di Prussia
Federico II, che
anche in Italia ci fosse ovunque un giudice indipendente
pronto a dar ragione al cittadino, anche contro le
prepotenze del potere politico e burocratico. È in questo
contesto di sfiducia che si parla spesso di “partito dei
giudici” o “dei pubblici ministeri”, espressione sgradevole
che sollecita iniziative avventate, come quella di suggerire
la separazione delle carriere ritenendo, a mio giudizio
infondatamente, come ha chiarito anche su questo giornale
Bruno Tinti, che
questa sia la panacea dei mali della Giustizia penale, senza
considerare che il Pubblico Ministero non è, come qualcuno
afferma, “l’avvocato dell’accusa” ma colui il quale, in
funzione dell’interesse pubblico alla giustizia, in presenza
di una notitia crinminis
, indaga e, se raggiunge il convincimento che siano stati
effettivamente commessi dei reati, porta all’attenzione del
giudice la condotta ritenuta illecita perché si pronunci
punendo il colpevole.
Ecco, dunque, che il magistrato,
qualunque sia la funzione cui è assegnato, dovrebbe
apparire, oltre che essere, come la moglie di Cesare,
assolutamente insospettabile, sicché fu ripudiata, pur se
innocente rispetto ai comportamenti che le malelingue le
attribuivano, perché non risultasse offuscata l’immagine
dell’illustre consorte.
Insomma, vorrei che i magistrati
avessero sempre la sensibilità di astenersi quando, per
amicizia, per consuetudine di carattere culturale o sportivo
si trovassero ad indagare o ad occuparsi, in un giudizio di
carattere civile, amministrativo o tributario, di persona
conosciuta e frequentata in altro ambiente. Darebbe loro
serenità nel lavoro, assicurando alla toga che indossano
quella autorevolezza che tutti noi desidereremmo, perché la
Magistratura nel suo complesso risalisse nell’indice di
gradimento degli italiani.
(da
La Verità del 7
dicembre 2017, pagina 5)
Cosa
insegna la legislatura che si chiude: disprezzo della
politica per le istituzioni e per gli elettori
di Salvatore Sfrecola
La legislatura che si avvia a conclusione, al di là della
narrazione dei partiti che rivendicano improbabili successi,
in particolare il Partito Democratico, sarà ricordata quale espressione tra le più
significative del distacco della politica dalle istituzioni
e dagli elettori che purtroppo coinvolge, in varia misura,
tutti i partiti. In primo luogo chi ha governato, ma anche
chi dall’opposizione non ha saputo rivendicare il rispetto
della Costituzione. Infatti Matteo Renzi ed i suoi
ispiratori la volevano cambiare profondamente alterando le
regole della democrazia parlamentare, laddove la volontà del
popolo si esprime nelle assemblee elettive e nei
contrappesi, uno dei quali è costituito dalla presenza di
due Camere in funzione di controllo sul governo. Ma anche di
controllo l’una sull’altra in materia di legislazione.
Cominciamo da capo. Gli attuali componenti della Camera e
del Senato sono stati eletti in misura determinante sulla
base di una legge elettorale dichiarata dalla Corte
costituzionale non conforme ai principi che in materia di
rappresentanza si ricavano dalla Carta fondamentale. Dunque,
questo Parlamento avrebbe dovuto chiudere i battenti il
giorno dopo secondo la logica conseguenza della pronuncia
adottata dalla Consulta. Impossibile, in quanto si sarebbe
tornati a votare con la stessa legge dichiarata
incostituzionale. La sentenza numero 1 del 2014 ha, così,
previsto la permanenza in carica delle assemblee legislative
esclusivamente per quello che, per un organo amministrativo,
si chiamerebbe “il disbrigo degli affari correnti”,
l’ordinaria amministrazione. Lo ha spiegato bene la Corte
richiamando due articoli della Costituzione che indicano
proprio la routine
più emblematica, la
prorogatio dei poteri delle Camere sciolte “finché non
siano riunite le nuove” (art. 61, comma 2), la convocazione
delle Camere, “anche se sciolte”, per decidere della
conversione dei decreti legge che, come è noto, hanno una
vita breve (60 giorni) e se non ratificati dal Parlamento
decadono (art. 77, comma 2).
Due esempi di attività minima obbligatoria. Naturalmente,
anche se la Corte non lo ha detto esplicitamente, le Camere
“illegittime”, quanto alla loro composizione, avrebbero
dovuto fare immediatamente una nuova legge elettorale per
essere subito dopo sciolte dal Presidente della Repubblica
ed andare al voto.
Sarebbe avvenuto in qualunque paese serio, in una democrazia
compiuta. Invece i parlamentari della maggioranza non solo
hanno omesso di fare in tempi rapidi la nuova legge
elettorale, per non essere costretti ad andare a casa e
perdere i benefici economici della legislatura, ma
addirittura hanno riformato la Costituzione, la legge
fondamentale dello Stato, quella sulla base della quale la
Corte costituzionale aveva decretato l’illegittimità della
legge elettorale.
Non solo. Quando il 4 dicembre 2016, con un referendum
cosiddetto confermativo, ben due anni dopo la dichiarazione
di incostituzionalità, il popolo italiano, a stragrande
maggioranza, ha bocciato la legge di revisione
costituzionale, quanti l’avevano voluta non hanno battuto
ciglio. Convinti che gli italiani abbiano memoria corta,
coloro che avevano preannunciato la decisione di abbandonare
posti di governo e politici in caso la riforma non fosse
stata approvata – ritenendo così di forzare la mano agli
elettori - sono ancora lì. Renzi, la Boschi, il digiunatore
a giorni alterni Del Rio ed altri. Renzi si è dimesso,
infatti, da Presidente del Consiglio ma non ha abbandonato
la politica, come aveva promesso, e nel giro di pochi giorni
è tornato in sella alla guida del
Partito Democratico ed ha preso ad insistere per l’approvazione di
leggi di particolare rilievo, da ultimo la disciplina
cosiddetta del fine vita e la riforma della legge sulla
cittadinanza. Che stanno avvelenando il clima politico di
questi mesi.
L’opposizione protesta ma, di fatto, sta al gioco. Anche chi
si oppone a Renzi e chi ha fatto finta di opporsi (Forza
Italia in primis)
“tiene famiglia”. Nella maggior parte dei casi sono persone
senza arte né parte che non sia l’attività politica e di
partito e non sono disposte ad abbandonare l’indennità
parlamentare nella prospettiva della pensione. E così
protestano sulle piazze, di fronte all’elettorato, ma in
Parlamento consentono al governo di sopravvivere. A volte
votano “per senso di responsabilità”, a volte si sfilano al
momento opportuno. Dal “Patto del Nazareno” è evidente che a
Berlusconi quel giovanotto parolaio e inconcludente venuto
da Rignano sull’Arno in fin dei conti piace. Anche lui
racconta balle, anche lui vorrebbe che il potere fosse
concentrato nell’esecutivo, anche lui succubo dei “poteri
forti” può essere controllato dalle lobby politiche
internazionali, quelle che dettano l’agenda dell’economia e
della finanza. Per cui se i francesi comprano imprese
italiane è l’effetto positivo della globalizzazione e delle
regole dell’Unione Europea e se le nostre vanno a fare
shopping a Parigi, sulle rive della Senna il governo si
ricorda di essere prima di tutto francese, sia all’Eliseo la
destra o la sinistra. Tanto sono cadute le ideologie! E
sbarra la strada agli italiani.
Qualche richiamo ai fatti, qualche considerazione per
tracciare alcune conclusioni. Il mancato rispetto della
pronuncia della Corte costituzionale consentito dall’allora
Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che avrebbe
avuto istituzionalmente il dovere di presidiare quel che era
scritto nella sentenza perché fosse attuato, denota il venir
meno della funzione di garanzia del Capo dello Stato.
Avrebbe dovuto richiamare governo e maggioranza al rispetto
delle regole. Non lo ha fatto, dimostrando una contiguità
con il potere politico, incompatibile con il suo ruolo di
garante della legalità costituzionale. Un comportamento reso
palese dalle ripetute affermazioni che la riforma
costituzionale era la sua eredità politica. Lo ha detto di
giorno in giorno durante la campagna referendaria. Una
autentica bestemmia in un sistema parlamentare liberale.
Lui, Renzi e i partiti, inoltre, hanno dimostrato aperto
disprezzo nei confronti del popolo italiano, che, bocciando
con voto significativo la legge di revisione costituzionale,
hanno in primo luogo bocciato il governo e la sua
maggioranza.
La legislatura avrebbe dovuto essere chiusa a quella data,
ma non c’era ancora la legge elettorale che, furbescamente,
i partiti hanno tardato ad approvare. Arriviamo così alla
fine “naturale” della legislatura. La pensione è salva. Il
popolo è stato fatto fesso. Qualcuno si stupisce se sono
sempre meno gli italiani che vanno a votare?
8 dicembre 2017
Ad un anno dal referendum sulla riforma costituzionale
Quando gli italiani hanno detto a Renzi: “no grazie”
di
Salvatore Sfrecola
Marco Travaglio mi ha rubato il titolo
su
Il Fatto Quotidiano
di domenica con quel “NO grazie” che ricorda la risposta
degli italiani al referendum sulla legge di revisione
costituzionale di Matteo Renzi. L’avrei voluto usare io quel
titolo di nuovo, come all’indomani del 4 dicembre 2016
quando gli italiani, a stragrande maggioranza, hanno
respinto le proposta di riforma, con un voto che, per la
verità, come fu subito evidente, era diretto soprattutto
contro il giovanotto di Rignano sull’Arno, parolaio e
inconcludente, che aveva occupato Palazzo Chigi e le
televisioni dalle quali invadeva le case degli italiani per
illustrare, a furia di slogan, una riforma che qualcuno
evidentemente gli aveva suggerito. Confusa e
contraddittoria, anzi, come si legge nelle ultime righe del
documento del Comitato per il “SI” “un testo non privo di
difetti e discrasie”. Ed io mi sono sempre chiesto come sia
possibile che un uomo delle istituzioni possa proporre la
revisione della legge fondamentale dello Stato nella
consapevolezza della sua fragilità. Il fatto è che Renzi non
è, se non formalmente, un uomo delle istituzioni, cioè uno
che sia loro fedele e, all’occorrenza, proponga di
revisionarle nello spirito costituente, considerato che il
limite alla revisione sta nella conformità alla forma di
stato e di governo, al di là della quale siamo alla
rivoluzione, al cambio di regime. Come dal Regno d’Italia
alla Repubblica, dallo Statuto Albertino alla Costituzione
votata a fine 1947 da un’Assemblea Costituente che, con
straordinaria saggezza, seppe incastonarvi principi che
soddisfacevano forze politiche diversissime per ispirazioni
ideali e per obiettivi politici. Ed insieme regole di buon
funzionamento delle istituzioni che Renzi ed i suoi seguaci
hanno cercato di piegare ad esigenze di bottega, di piccolo
cabotaggio poluitico, già sperimentate nella spartizione
delle poltrone. Avendo di mira il rafforzamento
dell’Esecutivo a danno del Parlamento, demonizzato per quel
bicameralismo paritario o perfetto additato all’opinione
pubblica come la causa di tutti i mali e, soprattutto, della
lentezza del processo legislativo. Cosa, dati alla mano, non
vera, perché quando la politica ha voluto, cioè in presenza
di un accordo tra i partiti, le leggi sono state approvate
anche nel giro di poche ore. E se effettivamente le Camere
sono composte da troppi membri, 630 deputati e 315 senatori,
molti più di quelli che siedono a Washington a governare gli
Stati Uniti d’America con 323,1 milioni di abitanti, non si
capisce perché la riforma abbia previsto 100 senatori, un
numero certamente congruo, proprio come negli Stati Uniti (2
per 50 stati), lasciando 630 deputati, mentre la Camera dei
rappresentanti americana conta 441 membri. Rendendo evidente
che se li avesse ridotti la riforma non sarebbe stata
approvata. E questo ne attesta la strumentalità sul solco
della impostazione ideologica, cara alla sinistra comunista,
del monocameralismo nel quale il governo propone e la Camera
unica disciplinatamente approva. Tutto questo nella logica
del potere del partito egemone che è cosa diversa dalla
governabilità, che è certamente obiettivo prezioso ma che va
individuato in altre condizioni senza invertire la logica
del sistema parlamentare che vede nelle Camere l’espressione
della rappresentanza popolare. Laddove il governo vive della
fiducia della maggioranza che si è manifestata nel responso
delle urne.
Così Renzi, non essendo riuscito ad
abolire il Senato, come desiderava ed aveva preannunciato
all’atto dell’insediamento del suo governo, ne ha proposto
una sorta di parodia, avendo previsto che fosse formato da
consiglieri regionali e da Sindaci. Sicché fu definito anche
il “dopolavoro” di persone elette per altra funzione,
inviati a Roma alcuni giorni la settimana, spese di viaggio
di vitto e alloggio comprese. Senatori a Roma consiglieri e
sindaci in provincia. Difficile immaginare una proposta più
assurda.
Insomma il bicameralismo, che ha spesso
consentito la correzione di errori in testi approvati da una
Camera, senza produrre quei ritardi erroneamente
enfatizzati, esiste quasi dappertutto con esclusione di
alcuni piccoli Stati. Bicameralismo che negli Stati uniti
d’America fu immaginato dai Padri Fondatori per garantire un
reciproco controllo delle assemblee, in forma assolutamente
paritaria. Eppure Renzi aveva convinto il Presidente Barack
Obama a lodare la proposta di revisione del sistema
parlamentare giovandosi di un
assist che evidentemente nasce da un equivoco e del quale comunque
non ha tratto vantaggio.
Poi un sistema di formazione della legge
assurdo e pesante del quale molto si è detto. Una proposta
di riforma che ha certificato l’assoluta inadeguatezza di
Renzi per il ruolo che si era ritagliato nella storia
politica di questo nostro Paese.
Aveva promesso, in caso di esito
negativo del referendum, di lasciare non solo il governo,
come ha fatto, ma anche la politica. Non ha mantenuto la
parola. Ovunque i politici sconfitti lasciano. Come David
Cameron che, travolto dall’esito negativo del referendum
sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, che
nessuno gli aveva chiesto di fare e che aveva solamente una
funzione consultiva, si è dimesso non solo da Primo Ministro
e da leader del
Partito Conservatore ma anche da parlamentare. Altro
stile altra dignità di fronte al popolo.
Di personaggi alla Renzi l’Italia non ha
bisogno. E la meteora del giovanotto di Rignano sull’Arno
deve insegnare agli italiani che è necessario conoscere le
persone che la politica propone sulla base della loro storia
pregressa e della loro professionalità. Ebbene molti si sono
illusi che l’ex Sindaco di Firenze, per essere stato votato
nella città che è nel cuore degli italiani per storia ed
arte fosse di per sé stesso idoneo a governare l’Italia solo
perché giovane ed abile affabulatore. Attenzione, dunque, al
Renzi di turno che promette governabilità attraverso leggi
elettorali palesemente incostituzionali, come attestato
dalla Consulta. Governabilità, anzi governo stabile è
certamente un valore e che va perseguito attraverso il
consenso dell’elettorato che sia ampio e certo, non nella
riforma della Costituzione. Ma nelle leggi ordinarie e nei
regolamenti che disciplinano modi e tempi dell’azione di
governo. E nei partiti, nella loro, al momento, dimostrata
incapacità di essere forza omogenea e decisa, nella loro
permeabilità alle lobby e agli interessi, non di rado
illeciti che muovono le loro scelte. La ricerca della
governabilità non deve limitare le funzioni degli organi
rappresentativi della comunità nei quali si esprime la
volontà popolare.
Scorciatoie come il monocameralismo e il
presidenzialismo, presentati all’opinione pubblica come la
panacea dei mali della politica, fanno intravedere, in
assenza di significativi contrappesi, una realtà di lesioni
gravi alle regole della democrazia liberale, quella di cui
tutti si riempiono la bocca ma che nei fatti è stata
ripetutamente violata, nello spirito e nella forma.
4 dicembre 2017