APRILE 2017
Quando a Caporetto ritrovammo l’orgoglio nazionale*
di Salvatore Sfrecola
Pochi nomi di
località che si ricordano per importanti scontri armati
hanno la forza evocativa di Caporetto, la cittadina,
oggi in Slovenia (Kobarid),
nell'alta valle dell'Isonzo, sulla riva destra del
fiume, tra Tolmino e Plezzo, dove si combatté tra il 24
ottobre e il 27 novembre 1917, quando le truppe
italiane, sconfitte, dovettero abbandonare migliaia di
chilometri quadrati di suolo patrio e ritirarsi oltre il
fiume Piave. Una sconfitta grave, definita anche
“rotta”, “disfatta” o “catastrofe”, con uno strascico di
polemiche e di recriminazioni che ancora oggi impegnano
molte pagine nei libri di storia, alla ricerca delle
responsabilità di quel tragico evento che fece temere
per la tenuta dell’Esercito e per la stessa
sopravvivenza del Regno, del quale era stato appena
celebrato (1911) il cinquantenario della sua
costituzione.
E da allora “una Caporetto”, nel linguaggio comune,
evoca un fatto negativo gravissimo, una sconfitta senza
rimedio.
Tuttavia quella battaglia perduta non pregiudicò l’esito
della guerra che per noi ha rappresentato il momento
conclusivo del Risorgimento, “visto che aveva finalmente
completato l’unità del paese, facendo coincidere i
confini naturali della penisola con quelli politici” (A.
Ventrone, Prefazione a L. Falsini, Processo a
Caporetto. I documenti inediti della disfatta,
Donzelli, Roma, 2017, VII). Anzi, immediato fu il
risveglio delle migliori energie, della politica, delle
nostre Forze Armate e dell’intero popolo italiano. Fu
“uno scatto di orgoglio nazionale” (P. Milza, Storia
d’Italia, Corbaccio, Milano, 2006, 785). Cambiarono
molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo.
Dai rapporti tra il Governo ed i vertici dell’Esercito
che, con un nuovo Comandante generale, Armando Diaz,
divenne più moderno nell’organizzazione e credibile
nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e
degli Stati Maggiori alleati che furono convinti, a
Peschiera, dove erano stati invitati dal Re con un
telegramma del 6 novembre, della validità della ipotesi
di resistenza sul Piave. Presenti Painlevé , Lloyd
George (che ce ne ha lasciato la cronaca), ministri ed
alti esponenti delle forze armate alleate, Vittorio
Emanuele III, parlando in inglese e francese, tenne un
rapporto che gli guadagnò “il rispetto di tutti per la
chiarezza e franchezza con cui fece il punto della
situazione, realisticamente e senza retorica. Elencò le
cause del disastro citando anche la “falla morale”, ma
senza attribuirla alla propaganda disfattista, cui
infatti non credeva (e lo aveva già detto ai nostri
generali). Garantì la capacità di resistenza
dell’Esercito escludendo perentoriamente qualsiasi
ipotesi di crollo nazionale. “Alla guerra si va – disse
– con un bastone per darle e con un sacco per
prenderle”. Gli alleati rimasero colpiti dalla sua
fermezza, e concessero gli aiuti richiesti: sei
divisioni francesi e cinque inglesi, che avrebbero
collaborato col Comando italiano” (I. Montanelli – M.
Cervi, L’Italia del Novecento, Rizzoli, Milano,
1998, 40). Per il Sovrano il valore del soldato italiano
non era in discussione, come il sentimento patriottico
della maggioranza degli italiani nell’ora difficile che
il Paese viveva. Lloyd George “ne rimase impressionato”
(M. Silvestri, Caporetto, - Una battaglia e un enigma,
RCS, Milano, 2014, 235). Il suo ruolo fu determinante
nel richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica,
tanto che cancellò dal proclama, che il Presidente del
Consiglio Vittorio Emanuele Orlando gli aveva preparato,
l’incipit enfatico che non era nel suo stile (“Una
immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e
di Re”). Invece esordì: “Italiani, siate un esercito
solo!”
Tornava in prima linea alla testa del suo popolo in armi
per combattere contro il “nemico storico”, come avrebbe
scritto di lì a poco Luigi Einaudi solitamente sobrio
nella sua prosa.
Le cause della disfatta, perché di questo si tratta,
come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la
vastità delle terre perdute e il numero dei profughi,
furono essenzialmente militari, come fu evidente di lì a
breve anche dalle risultanze della Commissione
d’inchiesta. Cause individuate nella inadeguatezza della
catena di comando, della organizzazione dell’esercito e
della conduzione delle operazioni su fronti difficili,
fino a sottovalutare i segnali evidenti di una imminente
offensiva austro-tedesca provenienti da varie fonti (non
solo dai disertori che potevano apparire inviati ad
arte), tanto che sia il Generale Capello che il Re ne
informarono Cadorna in quei giorni in licenza. Dal 4
ottobre, infatti, il Generale era a Villa Carmenini
(Vicenza) essendo “molto scettico” sulla ipotesi di
partecipazione germanica all’offensiva nemica in
preparazione e che, a suo giudizio, si sarebbe
concretizzata in primavera: “passiamo così l’inverno”,
dice al Colonnello Gatti (da Caporetto, 250-251,
richiamato da P. Melograni, La storia politica della
grande guerra 1915/1918, Laterza, Bari, 1969, 395).
Era la cultura delle guerre dell’800 che si combattevano
nelle stagioni buone.
Fu sottovalutato anche il significato di un iniziale
cannoneggiamento la mattina del 21, caratterizzato da
tiri isolati ma con obiettivi precisi, come osservò il
Re nel corso delle sue ispezioni al fronte, riferendone
a Cadorna. Forse per saggiare la nostra capacità di
reazione, preludio del massiccio bombardamento che
sarebbe iniziato alle 2 del 24 ottobre. Durò cinque ore
ed anche di questo fu sottovalutata la finalità. “Nulla
di importante” commentò il Generale Badoglio, uno dei
tanti errori di percezione delle intenzioni del nemico.
Invece, il fuoco delle batterie aveva determinato una
piccola breccia (eppure Luigi Cadorna, per storie
familiari, di brecce si doveva intendere!) che aveva
consentito ad un battaglione di alpini del Wüttemberg di
penetrare alle spalle delle nostre linee per una decina
di chilometri. Insomma, mentre le vedette erano state
invitate a tener conto di quanto poteva accadere in
alto, sulle montagne dalle quali secondo il Comando
supremo il nemico avrebbe eventualmente attaccato,
questo aveva scelto di percorrere indisturbato il
fondovalle. L'operazione l'aveva condotta un giovane
tenente destinato ad una gloriosa carriera militare,
Erwin Rommel, che in ventiquatt’ore aveva fatto 30 mila
prigionieri e occupato le preziose posizioni del Kuk e
del Kolovrat perdendo, tra morti e feriti, appena una
trentina di uomini.
Ad Udine, sede del Comando supremo, nessuno
si era accorto di quanto stava accadendo. Cadorna se ne
rese conto solamente quando le avanguardie nemiche
giunsero in vista della città che, infatti, fu
abbandonata. Non aveva un quadro esatto della situazione
anche per le difficoltà dei collegamenti telefonici con
i comandi dispersi o posizioni precipitosamente
abbandonate. Infatti non erano stati previsti piani di
ritirata, che comunque fu ordinata in ritardo lasciando
in mano al nemico migliaia di soldati (350.000 tra morti
feriti e prigionieri) e oltre 400.000 sbandati
all’interno ed un ingente quantità di armi, cannoni,
mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni,
automezzi e strutture preziose dell’apparato logistico.
Senza contare il dramma delle popolazioni civili, un
milione circa di profughi, l'abbandono della case, delle
aziende, degli animali. Con un arretramento di oltre 100
chilometri, la perdita del Friuli e di parte del Veneto,
fino a mettere a rischio la stessa Venezia che, infatti,
si pensò di abbandonare. Solamente la III Armata del
Duca d’Aosta si era sganciata con ordine dal nemico. La
II Armata del Generale Capello era “ridotta a una torma
di fuggiaschi” (I. Montanelli – M. Cervi, cit. 35) che
creava ulteriori problemi alle truppe in ritirata,
intasando le vie di comunicazione, in particolare i
ponti, così impendendo un deflusso ordinato delle unità
in ripiegamento. Mancavano le carte e nessuno aveva da
indicare percorsi alternativi.
Niente colpa dei disfattisti, dunque, e dei soldati ai
quali Luigi Cadorna aveva voluto addebitare la
responsabilità della sconfitta denunciando, in un
comunicato del 28 ottobre, nel pieno della battaglia, la
“mancata resistenza di reparti… vilmente ritiratisi
senza combattere, o ignominiosamente arresisi al
nemico”, un giudizio a dir poco sconveniente
“sconcertante e clamoroso, vien di aggiungere vigliacco,
per il modo in cui il massimo comandante delle truppe
italiane, che in tre anni di conflitto ne aveva
determinato addestramento, strategie e posizionamento,
rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità della
catastrofe in corso. Talmente grave fu il suo passo che
il governo a Roma cercò subito di censurarlo, ma con
poco successo, visto che la prima versione del documento
era già stata resa pubblica” (L. Cremonesi, Da
Caporetto a Baghdad, la Grande Guerra raccontata da un
inviato dei conflitti di oggi, RCS, Milano, 2017,
269).
Un atteggiamento dagli effetti devastanti sul morale
delle truppe già pesantemente colpite proprio
dall’evidente insufficienza del Generalissimo. E fu
comunque uno sconquasso nel Governo e nell’Esercito che
comportò la revisione totale nel rapporto tra la classe
politica e combattenti ed anche un nuovo modo di gestire
i rapporti con la truppa, così restituendo al soldato
italiano quello spirito combattivo che era stato
mortificato dalla conduzione precedente improntata alla
tecnica di combattimento che Luigi Cadorna aveva
teorizzato fin dall’inizio della guerra. In Attacco
frontale e ammaestramento tattico, un volumetto, che
riproduceva una circolare del febbraio 1915, nella quale
immaginava combattimenti all’arma bianca e cariche di
cavalleria (un’arma uscita di scena già cinquant’anni
prima con la guerra civile americana). Il Generale
dimostrava di non essere adeguato ai tempi (anche se, va
detto, era in buona compagnia soprattutto per quanto
riguarda i comandanti francesi). Di quel testo scrisse
un autorevole critico militare, Aldo Valori: “è
terrorizzante pensare ch’esso abbia servito sul serio di
base alle operazioni offensive di un esercito in una
guerra moderna”. Assalti inutili all’arma bianca ed
inadeguata gestione delle artiglierie. Inanellando una
serie di combattimenti spesso inutili che avevano
sollevato vivaci proteste, represse duramente dai
tribunali militari dinanzi ai quali venivano portati
quanti percepivano gli errori dei comandi. Per non dire
delle decimazioni o di altre forme di punizione
Cambiò tutto con Armando Diaz, un ufficiale che si era
formato più che sul campo di battaglia negli Uffici
dello Stato Maggiore, anche se da Colonnello nella
guerra di Libia si era distinto al comando del 93°
reggimento rimanendo ferito e nel 1917 era al comando
del XXVI Corpo d’Armata. Aveva una visione moderna della
guerra, della organizzazione delle Forze Armate e delle
esigenze della truppa. Il Re lo aveva osservato e lo
stimava, come ricorda Gioacchino Volpe riferendo di una
battuta del Sovrano nel luglio 1917, dinanzi ai monti
Kuk e Vodice, sul fronte della II Armata, quando,
indicando al suo seguito Diaz pronunciava parole che
sono state definite giustamente “profetiche”: “questo
generale un giorno potrà servire” (P. Gentile,
Vittorio Emanuele III, Il Sole 24 Ore, Milano, 2014,
17). Riservato “lontano da ogni esibizionismo,
naturalmente portato a guidare gli uomini tenendo conto
delle loro esigenze e delle loro opinioni”. Erano doti
che “in un preciso momento storico valsero a segnalarlo
come il migliore candidato ad assumere il comando
dell’esercito dopo la fallimentare esperienza
dell’autoritario e accentratore Cadorna” (C. Rosso,
Armando Diaz, Il Sole 24 Ore, Milano, 2014,13). “Sobrio
nel gesto e ordinariamente parco di parole; lavoratore
attivissimo, ma non frettoloso, anzi ordinato, preciso e
spesso anche minuzioso” (C. Rosso, ivi, 16), le sue
caratteristiche principali erano “l’equilibrio, la
duttilità, l’umanità coniugata alla fermezza, la
laboriosità, la precisione, il senso del dovere e del
servizio” (C. Rosso, ivi, 17). Proprio quel che serviva
nel momento drammatico di una sconfitta che, se non
affrontata a sangue freddo, come il Re, che “anzi non lo
aveva mai perso” (I. Montanelli – M. Cervi, ivi, 39. E
da allora i due agirono all’unisono. Il Generale si
consultava quotidianamente con il suo Re, cosa che non
era stata nelle abitudini di Cadorna.
Subito favorì licenze dal fronte, dialogo con le
famiglie e diede luogo ad un riordino dei comandi con
una strategia nuova che, non solo diretta all’attacco,
tenesse conto della necessità di una difesa articolata e
di quel coordinamento, che, in particolare, era mancato
a Caporetto, secondo le valutazioni di Lloyd George e
del Maresciallo Foch (D. Mack Smith, Storia d’Italia
dal 1861 al 1997, Laterza, Bari, 1998, 366), quando
i comandi non avevano neppure immaginato che potesse
verificarsi la necessità di un ripiegamento, qualunque
ne fosse l’occasione.
Caporetto è un nome fatale. Ma la storia insegna che
spesso le più gravi sconfitte sono capaci di risvegliare
l’orgoglio di un popolo, specialmente quando divenuto
finalmente tale dopo che nel corso dei secoli gli era
stato negato il diritto di avere uno stato nei confini
naturali della sua straordinaria geografia e che non
parlasse tedesco, francese o spagnolo.
21 aprile 2017
*
Sintesi di una relazione prevista per il
prossimo Convegno organizzato a Milano dal Prof.
Michele D’Elia sul tema “profilo della Grande
Guerra degli Italiani”
La riforma dei gradi sfascia i militari
di Salvatore Sfrecola
“Dimmi, Tu saresti dunque come Armando Diaz?” Guardando
le spalline argentee sulle quali spiccano le tre
stellette di Generale di Corpo d’Armata mi è venuto
spontaneo il ricordo del Duca della Vittoria, che aveva
condotto il Regio Esercito al successo del 4 novembre
1918. Uno sfottò che sapevo di potermi permettere.
Infatti quel mio carissimo amico non comanda un Corpo
d’Armata, che non c’è. Ed ha un incarico “a latere”
nell’Esercito.
Lo spunto, l’avranno intuito i lettori, per parlare di
quel che si sente dire e ha scritto, su questo giornale
Francesco Bonazzi: “La Pinotti promuove 13.000
ufficiali. Alla “truppa” resteranno le briciole”. Non
vogliamo soffermarci tanto sui costi (quasi un
miliardo per i primi tre anni, poi 400 milioni a regime)
ma gli effetti sul funzionamento dell’apparato militare.
E si intuisce immediatamente che così non può andare, se
avremo più generali degli Stati Uniti che arruolano
uomini e donne in misura molto maggiore dei nostri.
Non è una novità in Italia. Per dare ai dipendenti
pubblici, un migliore trattamento economico, giusta
aspettativa specialmente dopo anni di blocco degli
stipendi, si promuovono. Si è fatto sempre così, per i
civili e, di recente, anche per i militari. Così
aumentano i dirigenti, ai quali si deve trovare una
collocazione funzionale, che s’inventa dividendo
precedenti uffici. Lo stesso è avvenuto per gli
ufficiali assegnati a funzioni collegiali o di staff.
Con conseguenze disastrose per il buon funzionamento
delle strutture interessate nelle quali i ruoli, le
qualifiche ed i gradi corrispondono a posizioni
organizzative funzionali al perseguimento degli
obbiettivi istituzionali, in rapporto alla dislocazione
sul territorio ed alla consistenza delle unità, la
sezione o la divisione, la compagnia, il reggimento, la
brigata e via dicendo. Per restare ai militari, per i
quali i gradi rendono più evidente la loro
corrispondenza all’articolazione della Forza Armata, è
evidente che il numero degli ufficiali di un certo grado
non può superare in modo significativo il numero delle
strutture cui quel grado si riferisce. Se, ad esempio,
ad una Compagnia è ordinariamente preposto un capitano,
non vi possono essere più ufficiali di quel grado di
quante siano le compagnie. Così per i reggimenti, le
brigate e via discorrendo. È evidente la necessità di
ufficiali con incarichi di coordinamento e di staff,
aiutanti maggiori o di bandiera e via discorrendo, ma
devono essere previsti i numeri di queste posizioni.
La questione è gravissima sotto un profilo funzionale.
Un’amministrazione di dirigenti non funziona, come non
funziona un esercito di generali. Quale la soluzione?
Semplicissima. Il decorso del tempo esige
necessariamente l’aumento del trattamento economico per
soddisfare evidenti esigenze delle persone e delle loro
famiglie. Si riconoscano quei miglioramenti ma permanga
la qualifica o il grado se non si giustifica, dal punto
di vista dell’efficienza della struttura, l’aumento del
numero delle qualifiche o dei gradi. Questa esigenza è
trascurata dagli interessati i quali si sentono
soddisfatti dal rivestire una qualifica o un grado
superiore, per nulla preoccupati che questi non
corrispondano alle effettive funzioni di un tempo.
L’effetto? Politico, prima di tutto. Il divide et
impera, che per gli antichi romani assicurava
il potere ai capi della Repubblica e dell’Impero, oggi
garantisce alla classe politica la prevalenza sulla
burocrazia civile e militare attraverso la
parcellizzazione degli incarichi che diventano
espressione di un ruolo sempre meno rilevante a fronte
dell’autorità di governo. In questo modo i funzionari,
civili e militari, prendono soldi ma perdono potere. Che
non è attribuito nell’interesse della persona ma del
buon funzionamento dell’apparato. Loro non se ne danno
carico, soddisfatti che la qualifica o il grado dia
lustro al biglietto da visita e niente più.
Un esempio eloquente. Alcuni anni fa, nel 2001, fu
istituito presso la Presidenza del Consiglio il
Dipartimento Nazionale per le politiche antidroga,
affidato al Prefetto Pietro Soggiu, una straordinaria
personalità, già Generale di divisione della Guardia di
finanza, con compiti di prevenzione ad ampio raggio,
dalla famiglia alla scuola. Si ritenne necessario far
confluire in quella struttura la Direzione centrale del
Ministero del lavoro che si occupava di
tossicodipendenze e di famiglia. Stupì molto, quando si
predispose il provvedimento, che fosse composta da 11
persone, oltre al dirigente generale. La denominazione
di quella direzione era consegnata in un numero di
parole nettamente superiore a quello degli addetti.
Evidentemente istituita per creare un posto
dirigenziale. Al tempo di Monsù Travet, che i
lettori più anziani certamente ricorderanno, se ne
sarebbe occupata una sezione. Ricordate Carlo Campanini
l’impiegato con le “mezze maniche” ossequioso nei
confronti di un quasi invisibile Cavaliere, Capo
Sezione? Mai veniva nominato un direttore generale.
Per concludere a proposito della “carriera a sviluppo
dirigenziale”, con progressione automatica al passare
del tempo, che il Governo si appresta a varare. Qualcuno
certamente dirà che è così anche per i magistrati. Con
una differenza di non poco rilievo. I giudici in un
collegio fanno tutti lo stesso lavoro, qualunque sia
l’anzianità. Non è così per i funzionari civili ed i
militari. Perché un capitano comanda una compagnia ed un
colonnello un reggimento. E trasformare una sezione in
una direzione centrale è inevitabilmente l’inizio dello
sfascio. E i quadri, la fascia intermedia, quella che un
tempo si chiamava carriera direttiva? Nessuno ne parla.
Non interessa ai sindacati ed al potere politico. Ma
sono la struttura portante dell’Amministrazione.
(da La Verità, 18 aprile 2017, pagina 18)
Requiem per un Imperatore defunto*
di Domenico Giglio
Che Vienna, nel
2016, centenario della morte di Francesco Giuseppe,
abbia dedicato numerose mostre ed esposizioni allo
stesso ed alla sua epoca, cominciando da Schonbrunn, il
palazzo dove era nato il 18 agosto 1830 ed era mancato
la sera del 21 novembre 1916, è logico ed opportuno,
trattandosi dell’Imperatore che vi aveva regnato per 68
anni, dal lontano 2 dicembre 1848 e che vi fu sepolto
nella Cripta dei Cappuccini, sepolcreto degli Asburgo
dal 1633, il successivo 30 novembre, cripta che dette il
titolo ad un celebre romanzo storico di Joseph Roth ed
il rituale per accedervi fu a sua volta ricordato da
Franz Werfel nel suo “Nel crepuscolo di un mondo”.
Questo ricordo,
doveroso per gli austriaci, per cui le poste
dell’attuale repubblica austriaca hanno dedicato un
francobollo commemorativo del centenario della morte
dell’ Imperatore, non vorremmo fosse occasione, in
Italia, specie nei territori che appartennero all’impero
asburgico, per analoghe celebrazioni, per cui nel
rispetto della memoria storica e con spirito sereno,
permeato di pietà cristiana, riteniamo necessario
ripercorrere la lunga vicenda terrena di questo
principe, particolarmente con riferimento alle vicende
del nostro processo unitario ed anche per smitizzare una
versione e visione edulcorata data in alcuni film,
continuamente ripetuti nelle varie reti televisive,
della sua giovinezza e del matrimonio, molto meno felice
di quanto non appaia nella versione hollywoodiana.
L’ascesa al trono
di Francesco Giuseppe, nel dicembre 1848, dopo
l’abdicazione praticamente imposta all’ Imperatore
Ferdinando, che visse poi in serenità a Praga fino al
1873, e l’altrettanto forzata rinuncia del padre,
l’Arciduca Francesco Carlo, coronava gli sforzi che la
madre, la bavarese arciduchessa Sofia, aveva fatto,
perché questo suo figlio primogenito fosse imperatore,
cominciando dalla sua educazione fin da bambino.
Purtroppo il
momento della assunzione all’ impero non era dei più
felici, perché da mesi Vienna e l’Ungheria tutta, erano
in rivolta contro l’assolutismo asburgico, impersonato
dal Metternich, anche con eccessi come la barbara
uccisione del Ministro della Guerra, il vecchio conte
Latour, raggiunto nei suoi uffici, massacrato e poi
appeso ad un lampione ! Rivolte, quasi rivoluzioni
represse a Vienna dalle truppe comandate dal maresciallo
Von Windish-Graetz, ed in Ungheria, con l’intervento
ancora peggiore, dell’esercito mandato dallo Zar Nicola
I, in virtù dei principii della “Santa Alleanza”, truppe
che avevano avuto ragione dei ribelli, così che questo
giovane di diciotto anni, saliva su di un trono
macchiato di sangue, cancellando quella Costituzione che
Ferdinando, aveva, forse a malincuore concessa. Ed in
Ungheria, dopo il vittorioso intervento russo, aprendo
un solco parzialmente riempito solo dopo un ventennio,
un generale austriaco, Haynau, già tristemente noto in
Italia, nel 1848, per la sua repressione, che gli aveva
meritato il titolo di “jena di Brescia”, fucilava ed
impiccava ad Arad, ben 13 generali ungheresi e 114 altri
militari, le cui domande di grazia erano state respinte,
come avverrà pure nel 1852 per la domanda di grazia per
il patriota e sacerdote, Enrico Tazzoli, reo di un
delitto di opinione, impiccato poi a Mantova nel
dicembre.
Questo, mentre un
altro giovane di 28 anni, Vittorio Emanuele II, salito
al trono il 3 marzo 1849, dopo una sconfitta militare,
in quel di Novara, aveva mantenuto la bandiera tricolore
e soprattutto aveva conservato quello Statuto, concesso
dal padre Carlo Alberto, con i relativi ordinamenti
parlamentari che l’Austria avrebbe conosciuto solo nel
1867. Interessante questo parallelo tra un governo,
quello del Regno di Sardegna, con l’intensa attività
parlamentare e governativa nel decennio dal 1849 al
1859, mentre nell’Impero d’Austria, vigeva un regime
assolutistico, da stato di polizia, così che da una
parte si affermava il liberalismo di Cavour e
dall’altra, mancato nel 1852, il principe di
Schwarzenberg, campione del dispotismo, non emergeva
nessuna personalità di valore che indirizzasse
l’Imperatore, di per sé digiuno di esperienza politica e
poco amante di letture, verso le necessarie riforme.
Così, quando nel
1854, scoppiò quella che fu chiamata “Guerra di Crimea”
con Francia, Regno Unito, Impero Ottomano, unite contro
l’Impero Russo, l’Austria rimase neutrale, con grande
amarezza e delusione dello Zar Nicola I, che riteneva
fosse un dovere di Francesco Giuseppe, appoggiare
militarmente la Russia, in ricordo e ricambio dell’aiuto
ricevuto per debellare la rivolta ungherese, mentre
proprio in questa vicenda si inserì abilmente Cavour,
fortemente appoggiato dal Re, mandando un corpo di
spedizione in Crimea, che gli dette così l’opportunità
di partecipare, unico rappresentante di uno stato
italiano, al Congresso di Parigi nel 1856 e denunciare
la situazione dell’Italia, ponendo le basi di
quell’accordo con Napoleone III, definito due anni dopo
a Plombieres. E peggio ancora si comportò l’Austria,
cioè l’Imperatore che, nel 1859, addirittura lasciando
all’oscuro il proprio Ministro degli Esteri, il conte
Buol, inviò il 23 aprile il famoso “ultimatum” al Regno
di Sardegna, seguito il 27 dalla dichiarazione di
guerra, che fece scattare la clausola dell’alleanza
“difensiva” con l’Impero di Napoleone III, che così in
tal modo poté intervenire militarmente in aiuto al
Piemonte, portando alla vittoria, insieme con Vittorio
Emanuele II, le truppe franco-piemontesi.
Questa
inesperienza di Francesco Giuseppe, anche di conoscenze
dirette dell’impero, avendo fatto un solo viaggio nel
1845 a Venezia ed in Dalmazia (dove in un disegno si
vede una insegna, con la scritta in italiano,
“Osteria”), fu pagata cara, perché non bastava da una
parte il coraggio personale, di cui aveva dato prova nel
1848, ancora arciduca, nel combattimento di Santa Lucia
ed il senso del dovere e dell’ordine, l’amore e
l’inclinazione al lavoro, che rispettò fino all’ultimo
giorno e che ne fecero il primo impiegato dell’impero,
quando invece sarebbe stato necessario lo spirito
d’iniziativa e decisioni rapide e nette, confermando un
vecchio giudizio di Napoleone che “l’Austria arrivava
sempre troppo tardi sia con l’esercito che con le idee”.
E sempre nel 1859 l’infelice scelta, quale comandante
dell’esercito austriaco che doveva invadere il Piemonte,
del maresciallo Gyulay, anziché dell’Hess, costrinse
Francesco Giuseppe, dopo i primi insuccessi, ad assumere
personalmente il comando delle truppe, venendo sconfitto
a Solferino e San Martino, perdendo la Lombardia,
assegnata al Regno di Sardegna.
Le incertezze
riguardavano anche la politica interna oscillante tra
centralismo e federalismo e dominavano la politica
estera austriaca relativamente al problema dell’unità
germanica e del ruolo di comando nella Confederazione
Germanica, per cui, anche in questo caso Francesco
Giuseppe fu abilmente giuocato da Bismarck, il potente
cancelliere del Regno di Prussia, che nel 1866 lo spinse
a mobilitare per primo, senza che l’esercito fosse
pronto e forzando il riluttante, ma fedele, generale
Benedeck, ad assumerne il comando, con il risultato di
essere travolto dai prussiani di Moltke a Sadowa,
perdendo definitivamente il primato tra gli stati
tedeschi, che così passava dai cattolici Asburgo ai
luterani Hoenzollern, ed il Veneto, assegnato al Regno
d’Italia, alleata della Prussia, in quella che per noi è
considerata la Terza Guerra d’Indipendenza, però con un
confine quanto mai infelice, tra Italia ed Austria, con
il Trentino incuneato tra Lombardia e Veneto e ben
lontano da Trieste. Inoltre l’Austria e quindi
l’Imperatore, a cui era demandato anche il più piccolo
problema, dettero prova dopo la guerra, di ingratitudine
nei confronti dell’ammiraglio Tegetthof, il vincitore di
Lissa e del Benedeck, sulle cui uniche spalle fecero
ricadere la sconfitta di Sadowa.
In questi anni si
inserisce l’amara vicenda del fratello Massimiliano,
quel fratello che nominato Vicerè del Regno Lombardo –
Veneto, nel 1857, aveva cercato di riconciliare con l’
Impero gli abitanti del Regno, sollecitando inutilmente
Vienna a liberalizzazioni e riforme, per cui inascoltato
era partito sulla carducciana “fatal Novara”, lasciando
il Castello di Miramare, con le sue “…bianche torri,
attediate per lo ciel piovorno…”, per salire al trono di
Imperatore del Messico, dopo essere stato obbligato dal
fratello, prima di partire, a firmare l’atto di rinuncia
al trono austriaco, per finire poi fucilato il 19 giugno
1867 a Queretaro, mentre pochi giorni prima, l’8 giugno,
Francesco Giuseppe con la moglie, la bavarese
Elisabetta, il cui fascino aveva colpito gli ungheresi,
erano incoronati a Budapest, Re d’Ungheria, dando così
origine e consacrazione a quella che da allora fu
definita “duplice monarchia” e l’Impero “Austro-
Ungarico”. Ed il successivo 18 agosto, a Salisburgo, si
celebravano solennemente i 37 anni dell’Imperatore,
presente anche Napoleone III, con la moglie Eugenia, a
cui non rimordeva la coscienza di aver spinto
Massimiliano all’avventura messicana, praticamente
lasciandolo solo ed indifeso quando aveva ritirato e
reimbarcato per la Francia, il corpo d’armata francese
comandato da Bazaine.
E questo 1867 fu
anche importante perché finalmente l’Impero si dotava di
una Costituzione, con il suo parlamento, il Reichsrat,
costituzione che avrebbe regolato teoricamente la vita
politica austriaca fino al 1918, ma come commentarono
diversi storici in realtà lo Stato era in balia
dell’arbitrio burocratico sotto la maschera del
costituzionalismo, anche quando fu concesso il suffragio
universale maschile ed il parlamento raggiunse i 507
deputati, con 233 seggi previsti per i tedeschi e 255
per gli altri gruppi slavi, mentre solo 19 erano
assegnati alle minoranze italiane, tra i quali
ricorderemo il socialista, ma irredentista, Cesare
Battisti ed il cattolico Alcide De Gasperi. Questa
ridotta presenza italiana era il frutto della politica,
messa in atto dopo le nostre guerre d’indipendenza, che
avevano dato all’Italia la Lombardia ed il Veneto,
malgrado la “Triplice” stipulata nel 1882, di favorire
croati e slavi, fomentando la loro avversione nei
confronti degli italiani, modificando ad esempio i
collegi elettorali in modo da ridurre o far scomparire
la rappresentanza italiana che nel 1848 era
maggioritaria in Dalmazia e totale in Istria.
L’accenno alla
incoronazione a Budapest di Elisabetta Regina, ci fa
soffermare sulla figura di questa consorte di Francesco
Giuseppe, principessa bavarese, sposata a 16 anni, per
libera scelta del giovane Imperatore, contravvenendo
alla volontà della madre che aveva invece scelto per
lui, la sorella maggiore di Elisabetta, la principessa
Elena. Matrimonio effettivamente d’amore da parte
imperiale, che le fu fedele per tutta la vita, che la
assecondò in tutti i suoi desideri, che le scrisse
sempre lettere affettuose, non considerando la
relazione, in età più tarda, con l’attrice Caterina
Schratt, relazione nota ed anche favorita dalla stessa
Elisabetta. Diverso invece l’atteggiamento della giovane
Elisabetta, oppressa fin dall’inizio del matrimonio dal
rigidissimo cerimoniale asburgico, di origina spagnola,
soffocante per una giovane abituata ad una vita libera a
contatto con la natura, in una famiglia senza dubbio di
origine regale, essendo un ramo cadetto della dinastia
dei Wittelsbach, ma non schiava delle forme. Non
potevano essere due caratteri più differenti e lontani
fra loro, con esigenze diverse ed anche con passioni
diverse dai viaggi che videro Elisabetta andare da
Madera a Corfù, per finire tragicamente a Ginevra,
all’amore della poesia, particolarmente Heine, mentre è
noto lo scarso interesse culturale di Francesco
Giuseppe, tra l’altro poco disponibile ad accettare i
progressi tecnici dal telefono, alle automobili e alle
attrezzature ginnastiche e balneari che amava invece la
consorte. Questo distacco di Elisabetta dai suoi doveri
di Imperatrice va ad esempio confrontato, non certo a
suo vantaggio, con il ruolo che quasi negli stessi anni
veniva svolto in Italia, a favore dell’unità nazionale
dalla Regina Margherita, oggi quasi sconosciuta e
dimenticata, nei viaggi nella penisola ed in tutte le
manifestazioni ufficiali, sempre a fianco del marito, il
Re Umberto I, di cui pure conosceva e perdonava certe
debolezze!
Amante della
poesia Elisabetta era ella stessa poetessa ed ora dopo
oltre un secolo dalla morte le sue poesie riscoperte
recentemente sono state pubblicate in un libro curato
dalla storica viennese Brigitte Hermann e tradotte anche
in italiano, che aprono, come sottolineato dallo storico
Waldimaro Fiorentino, che ha recensito questo libro, uno
scenario incredibile sui veri sentimenti della
imperatrice, smitizzandone il personaggio, perché le sue
poesie “sulla famiglia Asburgo e sulla politica
imperiale degli anni Ottanta sono a volte spietate,
addirittura provocatorie” e di questa spietatezza è
prova, ad esempio, una poesia dove dice: “voi amati
popoli di questo vasto impero, in gran segreto io vi
ammiro tanto, perché col sudore e col vostro sangue,
nutrite generosi questa schiatta depravata”, cioè gli
Asburgo. E da queste poesie si comprende chi avesse
ereditato il carattere ribelle, libertario,
repubblicaneggiante di Elisabetta e cioè proprio il
figlio, l’Arciduca ereditario, Rodolfo, che, appena
trentenne, non compreso anche lui dal padre, gli inferse
la ferita più dolorosa con il suicidio in quella alba
tragica del 29 gennaio 1889 a Mayerling. Così, più tardi
Francesco Giuseppe, dopo la morte di Elisabetta avvenuta
il 10 settembre 1898, pare abbia detto che nulla nella
vita gli era stato risparmiato, mai pensando a quanto
sarebbe avvenuto a Serajevo sedici anni dopo!
Tra tanti eventi
non certo positivi, si arrivava, grazie finalmente ad un
uomo politico audace e spregiudicato, l’ungherese
Andrassy, nel 1878, dopo il Congresso di Berlino, che
poneva un punto fermo alla storica inimicizia tra gli
Imperi Russo ed Ottomano, il congresso da cui l’Italia
seppe solo uscire con le “mani nette”, alla assegnazione
all’Impero Austro-Ungarico, della Bosnia-Erzegovina in
amministrazione fiduciaria, che nel 1908 sarebbe
divenuta annessione, rafforzandolo nei Balcani e dando
inizio a quel lungo periodo di pace . Periodo di cui si
giovò l’intera Europa, ma particolarmente l’Impero
asburgico, per la parte economica e per lo sviluppo
industriale, anche se nel suo interno crescevano le
rivalità delle nazionalità componenti questo grande
insieme multietnico, di oltre cinquanta milioni di
abitanti, ed apparivano degli spunti antisemita. In
questo scenario la figura di Francesco Giuseppe,
fotografato in centinaia di occasioni diveniva simbolica
e quasi carismatica, assurgendo ad elemento unificatore,
anche se negli ambienti più qualificati culturalmente e
politicamente si capiva che il mantenimento dello
“status quo” non solo non risolveva i problemi, ma
lentamente li aggravava e quindi non bastava a fermare
il declino la ripetuta immagine dell’ Imperatore, ancora
alto, snello e sempre elegante nelle sue divise, sia nei
balli di Corte che nelle riviste militari od anche a
caccia che era forse la sua unica passione oltre il
lavoro di ufficio. Ed in tutte queste manifestazioni e
nelle sue vacanze nei territori dell’Impero, sembrava
essere vicino al popolo, anche se riservava la stretta
della sua mano solo all’alta nobiltà! E di questa
sterile nostalgia c’è chi si nutre ancor oggi in varie
parti dell’ex impero, meno in Austria, tranne forse il
Tirolo.
In questo periodo
di pace, che permetteva anche al giovane Regno d’Italia,
di consolidarsi all’interno e di trovare il suo ruolo
nel concerto europeo delle grandi potenze, quando Europa
voleva dire il Mondo, sia Vittorio Emanuele II, nel 1873
ed Umberto I, nel 1881, si recavano in visita a Vienna,
visite ricambiate da Francesco Giuseppe a Venezia, non
volendo venire a Roma, dove il Pontefice non riconosceva
l’annessione all’Italia, considerando i cattolici
Savoia, come usurpatori. Nasceva così in Italia, il
problema dell’irredentismo, con la relativa reazione
anti italiana, da parte austriaca, con punte di frizione
come quando il triestino Guglielmo Oberdan(k), per un
presunto possibile attentato all’Imperatore veniva
impiccato nel 1882, malgrado la domanda di grazia
presentata dalla madre e gli appelli di numerose
personalità tra le quali Victor Hugo . In questa ed in
altre occasioni il governo italiano, considerando
l’alleanza difensiva conclusa con gli Imperi Germanico
ed Austro-Ungarico, si comportò sempre con estrema
correttezza nei confronti degli alleati, come quando
Giolitti, Presidente del Consiglio, nel 1911, fu
costretto a censurare l’ode di Gabriele d’Annunzio, ”La
Canzone dei Dardanelli”, in quanto “ingiuriosa verso una
potenza alleata e verso il suo sovrano”, censura da cui
derivò il vero e proprio odio del poeta per Giolitti,
culminato nel 1915, in quanto nella canzone Francesco
Giuseppe era indicato come “…angelicato impiccatore,
l’angelo dalla forca sempiterna..” e l’Austria come “…la
schifiltà dell’aquila a due teste, che rivomisce come
l’avvoltoio, le carni dei cadaveri indigeste…”.
Nessuno in tutto
questo periodo voleva una guerra e realisticamente il
Regno d’Italia pensava a soluzioni diplomatiche per la
soluzione degli italiani irredenti, se non fosse
intervenuto il 28 giugno del 1914, a Serajevo, capitale
della Bosnia –Erzegovina, l’attentato e la morte
dell’Arciduca ereditario, Francesco Ferdinando, e della
moglie morganatica Sofia Chotek, ricordati, anche loro,
nel centenario del triste evento, incredibile a dirsi,
dalle poste della repubblica austriaca, con l’emissione
di un “foglietto”, contenente due francobolli con i loro
ritratti ! Francesco Ferdinando, nipote di Francesco
Giuseppe, in quanto figlio del fratello minore dell’
Imperatore, succeduto nella linea ereditaria, dopo la
morte dell’unico figlio maschio, l’arciduca Rodolfo, era
uomo dal carattere deciso come aveva dimostrato anche
nel caso del suo matrimonio con una nobile di modesto
rango, che non sarebbe mai potuto diventare imperatrice,
né i suoi figli ereditare il trono, ed era di
temperamento autoritario, diverso da quello dello zio.
Ed aveva progetti di ristrutturazione dell’impero per
dare spazio a boemi e slavi, cambiandone completamente
il volto e frenandone la dissoluzione. Questo assassinio
all’inizio, oltre allo sdegno, non aveva generato
particolari reazioni, ma fu successivamente preso a
motivo, da parte della classe dirigente militare e
politica, più austriaca che ungherese, per dare al Regno
di Serbia, considerato mandante dell’attentato e da
alcuni definito “il Piemonte dei Balcani”, una solenne
lezione, dimentichi che sugli slavi ortodossi esisteva
l’alta protezione del’ Impero Russo. Così si ripeteva
l’errore dell’ultimatum del 1859 e si metteva il
vecchio, ottantaquattrenne, Imperatore, quasi di fronte
al fatto compiuto.
In effetti
Francesco Giuseppe non era più per le guerre, ricordando
Solferino, con le migliaia di morti e feriti, lui che lì
era stato presente, ma “ingravescente aetate”, non aveva
più sufficiente energia per opporsi ai suoi sconsiderati
ministri, che arrivavano anche ad affermare fatti
inesistenti, per cui, con la stanca mano appose la firma
alla dichiarazione di guerra alla Serbia, mai pensando
che con quella sottoscrizione avrebbe dato inizio a
quella che fu poi definita “Prima Guerra Mondiale” e
posto fine non solo al suo impero, ma a tutto il
principio monarchico predominante in una Europa che al
momento vedeva solo tre repubbliche, Portogallo,
Svizzera e Francia, e dopo avrebbe visto proprio
l’Austria proclamare la repubblica e la decadenza della
sua Casa e cadere altri tre imperi, germanico, russo ed
ottomano, tutti, anche loro, sostituiti da repubbliche,
cambiando così l’aspetto geopolitico ed istituzionale
dell’Europa.
* È il testo integrale di un articolo pubblicato da
Storiainrete nel fascicolo di gennaio 2017 con
l’eliminazione di alcune frasi e la modifica del titolo
che l’Autore ha voluto in questa sede ripristinare.
Bibliografia
Elisabetta
d’Austria, “Diario poetico”, a cura e prefazione di
Brigitte Harman, ed. MCS, Trieste
Eugenio Bagger,
“Francesco Giuseppe”, ed. Mondadori, 1929
Francois Feito,
“Requiem per un Impero defunto”, ed. “Il Giornale”, 1990
Franz Werfel,
“Nel crepuscolo di un mondo”, ed. Mondadori, 1950
Gabriele
d’Annunzio, “Merope”, ed. Il Vittoriale degli italiani,
1943.
Joseph Roth, “La
marcia di Radetzki”, ed. Adelphi, 1987
Joseph Roth, “La
cripta dei Cappuccini”, ed. Adelphi
Nora Fugger, “Gli
splendori di un impero”, ed. Mondadori
Stefan Zweig, “Il
mondo di ieri”, ed. Mondadori, 1946
Waldimaro
Fiorentino, “Nessuna nostalgia ….”, da “Il sole -24 ore”
del 12 agosto 1995 ed altri articoli
Waldimaro
Fiorentino, “La prima guerra mondiale”, ed. Catinaccio,
2015
Il finto aiuto di Stato agli invalidi
Poco dignitoso e tassato due volte
di Salvatore Sfrecola
Il fisco ingiusto non è una novità nel Paese delle mille
gabelle, al punto che, per sfuggire ad una tassazione
predatoria, quanti possono, sempre più spesso si
trasferiscono all’estero, dai pensionati agli
imprenditori. Tra i tartassati sentono particolarmente
l’ingiustizia del fisco coloro che sono affetti da una
“grave e permanente invalidità o menomazione” e pertanto
devono sostenere, oltre a spese mediche spesso molto
costose, oneri di “assistenza specifica” e di
“assistenza personale nei casi di non autosufficienza
nel compimento degli atti della vita quotidiana”. Si
tratta di condizioni di drammatica sofferenza che il
fisco tratta con straordinaria trascuratezza delle
esigenze di queste persone e dei loro familiari.
Parliamo delle spese sostenute da “persona handicappata”
che l’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104
(Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e
i diritti delle persone handicappate) definisce al comma
1 come “colui che presenta una minorazione fisica,
psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è
causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di
integrazione lavorativa e tale da determinare un
processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Con
la precisazione (comma 3) che “qualora la minorazione,
singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale,
correlata all’età, in modo da rendere necessario un
intervento assistenziale permanente, continuativo e
globale nella sfera individuale o in quella di
relazione, la situazione assume connotazione di
gravità”. E, pertanto, assicura “priorità nei programmi
e negli interventi dei servizi pubblici”.
Ebbene, nonostante la “connotazione di gravità” che,
peraltro, com’è ovvio non è solamente “correlata
all’età”, dal reddito complessivo di queste persone,
l’art. 10, lettera b) del Testo unico delle imposte sui
redditi (T.U.I.R.) consente siano deducibili “le spese
mediche e quelle di assistenza specifica nei casi di
grave e permanente invalidità o menomazione”. Per
assistenza specifica s’intende la collaborazione
infermieristica, mentre per i “badanti” (cioè “gli
addetti all’assistenza personale nei casi di non
autosufficienza nel compimento degli atti della vita
quotidiana”, così si esprime l’art. 15, lettera 1-septies,
del T.U.I.R., dall’imposta lorda si detrae una somma
pari al 19% delle spese sostenute per un importo non
superiore a € 2.100, cioè 399 euro. Sempreché il reddito
complessivo non superi i 40.000 euro. È la vergognosa
negazione di un diritto fondamentale, quello ad una
condizione di vita appena dignitosa. Infatti, alla
persona non autosufficiente un “badante” (oltre vitto e
alloggio) non costa meno di 1.000 euro al mese, in
sostanza 13.000 l’anno, compresa la tredicesima
mensilità, esclusi i contributi (autonomamente
detraibili fino all’importo di 1.549,37 euro, come si
deduce del comma 2 del richiamato art. 10 del T.U.I.R.).
Ora non è dubbio che si tratti di una gravissima
discriminazione a carico di chi soffre una difficile
condizione personale, perché viene tassato un reddito
che l’invalido trasferisce ad altro soggetto il quale,
sussistendone le condizioni, dovrà fare la propria
dichiarazione dei redditi. In sostanza quella somma
viene tassata due volte, in quanto reddito dell’invalido
e del badante.
Si consideri, inoltre, che l’invalido il quale “si fa
assistere” in proprio non grava, come avverrebbe se
fosse ricoverato in una struttura accreditata, sul
bilancio del Servizio Sanitario Nazionale. Parliamo, in
particolare, degli invalidi totali, non autosufficienti
che di una assistenza continua non possono fare a meno.
Giustizia, quella giustizia che la gente istintivamente
capisce anche quando non ha fatto studi giuridici,
dovrebbe portare naturalmente alla conclusione che la
paga del badante debba essere integralmente dedotta dal
reddito imponibile dell’invalido “datore di lavoro”. Una
strada che va perseguita e che sarà tentata con ricorso
al Giudice Tributario perché si pronunci sulla rilevanza
e la non manifesta infondatezza della irragionevolezza
della normativa che abbiamo richiamato e ne deferisca
l’esame alla Corte costituzionale, anche sotto il
profilo della disparità di trattamento rispetto a
soggetti ai quali, in sede di determinazione del reddito
imponibile, il fisco consente di escludere somme
trasferite ad altri soggetti d’imposta, come avviene, ad
esempio, per le paghe dei dipendenti ai fini della
determinazione del reddito d’impresa. Si dirà che le
paghe dei lavoratori sono funzionali all’esercizio
dell’attività imprenditoriale perché il lavoro è uno dei
fattori della produzione. Ma al fondo la ragione è la
stessa che reclamano gli invalidi: non va considerata
nel reddito imponibile una somma trasferita ad altro
soggetto. Che, quando compensa una prestazione
lavorativa destinata ad assicurare l’“assistenza
personale nei casi di non autosufficienza nel compiere
gli atti della vita quotidiana” va a soddisfare una
necessità di assoluto valore morale e civile.
Non si tratta, infatti, un’attività facoltativa, come
quella della collaborazione domestica, ma di una
necessità che, come detto, è finalizzata a consentire ad
un invalido di vivere dignitosamente. Né va trascurato
che una normativa la quale assicurasse la deducibilità
delle paghe dei badanti farebbe emergere il “nero” che,
nel settore, si stima molto elevato, con conseguente
recupero di gettito prodotto e ignoto al fisco da
persone che, risultando prive di reddito, potrebbero
anche trarre vantaggi da questa condizione per fruire di
servizi negati a quanti, nelle stesse loro condizioni,
ma con normale contratto di lavoro, risultano titolari
di un reddito che li danneggia, ad esempio, nelle
graduatorie per gli asili nido o per un alloggio di
edilizia popolare.
Inoltre è evidente che in una famiglia nella quale vive
una persona affetta da gravi invalidità, quando
all’assistenza provvedano genitori e fratelli questi
sono costretti ad abbandonare o ridurre
significativamente il lavoro. Una situazione di disagio
comprensibile a tutti che, per altro verso, determina
conseguenze che un buon amministratore della cosa
pubblica non può trascurare: per il minore apporto alla
società e all’economia che ne deriva.
A margine delle considerazioni svolte sul tema della
imposizione fiscale a carico di persone gravemente
handicappate non si può trascurare che una società la
quale non riconosce i diritti dei più deboli è
intrinsecamente ingiusta. Ed è un memento per
quanti, a livello politico, tra Ministero dell’economia
ed Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, si
fanno promotori di proposte dirette a colpire i
pensionati pensando di “rivedere” pensioni di
reversibilità e di invalidità, attraverso modifiche di
modalità di identificazione dei diritti come l’ISEE,
quell’indicatore
che serve per valutare e confrontare la situazione
economica dei nuclei familiari che intendono richiedere
una prestazione sociale, uno strumento certo necessario
ma che nella realtà del nostro Paese, troppo spesso
favorisce i furbi i quali riescono molto bene ad
aggirarlo.
(pubblicato da La Verità, 13 aprile 2017, pagina
11)
1867
- il vero 150° dello Stato
l'Italia tra le grandi potenze*
di Aldo A. Mola
Lo Stato d'Italia compie tra poco il vero 150° del suo ingresso
nella Comunità internazionale. Oggi il Paese è in
affanno, disorientato, quasi sfarinato. Perciò va
ricordata quella data. L'11 maggio 1867 il marchese
Emanuele Tapparelli d'Azeglio rappresentò il Regno alla
firma del Trattato di Londra che chiuse il contenzioso
sul Lussemburgo: una vertenza apparentemente minima, in
realtà gravida di storia. Il Granducato era “la
Gibilterra del Nord”: un ammasso di fortificazioni
erette nei secoli per sbarrare la strada all'invasione
dall'una o dall'altra sua parte. Napoleone III aveva
tentato di comperarlo dal regno dei Paesi Bassi, come
nel 1768 la Francia di Luigi XV aveva fatto con la
Corsica, venduta a Parigi dal genovese Banco di San
Giorgio. Ma la Prussia gli tagliò la strada. La frizione
sprigionò scintille. L'Europa era appena uscita dalla
guerra del 1866 tra l'impero d'Austria e la coalizione
italo-prussiana che all'Italia fruttò il Veneto. La
diplomazia ebbe la meglio sulle armi, che - aveva
insegnato Clausewitz - ne sono la prosecuzione. Era il
“secolo della pace” che, tra l'una e l'altra “guerra di
teatro”, tutte circoscritte per territorio e numero di
vittime, durò dal Congresso di Vienna del 1815 alla
conflagrazione europea del 1914.
Giocando d'iniziativa e di sponda tra il 1859 e il 1860 Vittorio
Emanuele II di Savoia coronò il sogno di tanti patrioti:
un regno unitario dalle Alpi alla Sicilia. Non era
tutto. Mancavano il Triveneto e Roma. Ma anche ai più
audaci l'elezione di una Camera nazionale nel febbraio
1861 parve un miracolo, come in opere magistrali ricorda
Domenico Fisichella, storico e politologo insigne,
designato Premio alla Carriera dal 50° Premio Acqui
Storia. Il 14 marzo 1861 il Parlamento proclamò Vittorio
Emanuele II re d'Italia. Dunque era fatta? No, perché
sia per le persone sia per gli Stati non basta “dirsi”
qualcosa, bisogna “esserlo”, occorre ottenere il
riconoscimento: battesimo, iniziazione, consacrazione...
La demolizione del Sacro Romano Impero da parte di Napoleone I
abbatté nell'Europa centro-occidentale il principio in
forza del quale il potere regio discende da quello
imperiale: ora erano le Nazioni a dare corpo agli Stati.
La Russia continuò a fare storia a sé, perché, come
Terza Roma, non riconosceva alcuna autorità al vescovo
di Roma che per un millennio aveva benedetto Pipino e
consacrato Carlo Magno e i suoi successori. Il 17 aprile
1861 il Parlamento deliberò che il sovrano avrebbe
firmato leggi e decreti come “re d'Italia per grazia di
Dio e volontà della Nazione”: la Tradizione venne fusa
con la “rivoluzione”, del resto già alla base dello
Statuto promulgato nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848
da Carlo Alberto di Savoia, che proclamò i cittadini
uguali dinnanzi alle leggi e la libertà dei culti, caso
unico nell'Italia dell'epoca, mentre nel regno delle Due
Sicilie (rimpianto da Pino Aprile, da Fabio Andriola
inopinatamente elevato a paladino della “verità”, quasi
sia lo scopritore della plurisecolare “questione
meridionale”) vietava ogni religione diversa dalla
cattolica apostolica romana, là praticata in forme
superstiziose: e non per caso l'abate di Montecassino,
Luigi Tosti, si schierò per l'unità d'Italia, come Carlo
Passaglia e tanti insigni teologi ed ecclesiastici.
Ma, appunto, nella storia non basta dirsi, bisogna farsi
accettare. Dopo la proclamazione, il Regno d'Italia
venne riconosciuto dalla Gran Bretagna (che così lo
sottrasse all'abbraccio di chi lo confondeva con una
qualunque contessa di Castiglione), dalla Svizzera,
dalla Grecia (che fu sul punto di avere re il
secondogenito di “Monsù Savoia”, Amedeo, duca d'Aosta) e
dagli Stati Uniti d'America. Gli altri Paesi,
spocchiosi, rimasero a guardare. Quasi nessuno credeva
che l'Italia sarebbe divenuta uno Stato vero. A tarparne
il volo erano mazziniani, federalisti (pochi e
irrilevanti), papisti e nostalgici dei regimi abbattuti
e sconfessati dai plebisciti che nel 1860 unirono col
voto l'adesione alla corona sabauda di Ducati padani,
Granducato di Toscana, Emilia e Romagna, Umbria, Marche,
Sicilia e Province napoletane. In alcune di queste
divampò il “grande brigantaggio”, alimentato da carenza
di senso dello Stato, sorretto dall'estero e
direttamente dallo Stato pontificio che gli parò le
spalle. Fu una partita tanto difficile e dura quanto
necessaria. Checché ne capiscano i nostalgici del
trapassato remoto, appunto alla Pino Aprile, l'Italia
era il ponte tra la Gran Bretagna, l'India e l'Estremo
Oriente. Potate per linee ferrate dal Mare del Nord al
Mediterraneo settentrionale, dai suoi porti (Genova,
anzitutto) le merci avrebbero puntato, via nave, verso
il Canale di Suez ormai in costruzione. Il mondo
cambiava celermente nell'età dei cavi telegrafici
sottomarini, del gioco di borsa, dei grandi traffici e
della seconda età coloniale che in pochi decenni portò
l'Europa a dominare l'80% dell'Africa e, con metodi
sbrigativi, la Cina (anche tramite la guerra
dell'oppio), l'India, l'Afghanistan, per trarne risorse
e senza la pretesa infantile di esportarvi la
democrazia. Era l'età studiata da Karl Marx, secondo il
quale senza ammodernamento (industrializzazione e
accumulazione del capitale) non sarebbe mai giunta la
liberazione del lavoro dalla mercificazione. Rispetto ai
Paesi da più tempo uniti, organizzati e dotati di una
dirigenza capace di pensare “in grande”, l'Italia era
arretrata, malgrado i Congressi degli scienziati
(1839-1847), la prima statistica del regno (1861) e le
ancora balbettanti Esposizioni nazionali. Ben vennero
quindi i riconoscimenti del neonato Regno da parte del
Portogallo (il cui re aveva sposato Maria Pia, figlia di
Vittorio Emanuele II), dell'impero ottomano e
dell'Olanda (1861). L'impero di Russia e il regno di
Prussia lo riconobbero solo nel luglio del 1862, proprio
quando Garibaldi organizzò la spedizione contro il papa
(“Roma o morte”), rischiando di far annientare la
credibilità di uno Stato sorto non per suscitare
disordini ma per concorrere alla pace europea. Il 25
giugno 1863 la Danimarca accreditò il suo rappresentante
presso il re d'Italia. La Spagna si decise solo il 12
luglio 1865, quando capì che era del tutto vana la
speranza di restaurare l'evanescente Francesco II di
Borbone. Vittorio Emanuele II, di gran lunga superiore
al ritratto che ne fa Adriano Viarengo nella biografia
ora edita da Salerno, per unire l'Italia aveva
generosamente sacrificato non solo la Savoia e
l'italiana Nizza ma anche Torino quale capitale:
meritava credito. Lo stesso anno il regno fu
riconosciuto da Brasile, Messico e dal cattolico Belgio.
Mancava il tassello finale. Con la pace di Vienna (3
ottobre 1866) l'Austria aveva sì ceduto il Veneto, ma a
Napoleone III, che a sua volta lo “trasferì” alla Corona
d'Italia: accordo ratificato dal Parlamento italiano il
13-16 aprile 1867.
Il corpo diplomatico italiano, guidato da patrioti di alto
talento quali Alfonso La Marmora e Pompeo di Campello e
da ambasciatori di prim'ordine come Costantino Nigra e
Isacco Artom, cresciuti alla scuola di Cavour,
raggiunsero la meta: l'Italia fu accolta alla Conferenza
di Londra del maggio 1867. Fu la sua prima volta:
“ultima fra le grandi potenze” si disse con sorriso
ironico. Ma le sue potenzialità erano chiare agli
osservatori stranieri. Volente o nolente il Mondo Nuovo
doveva passare per l'Italia. Perciò non le erano più
consentiti colpi di testa, come la spedizione
garibaldina dell'ottobre-novembre 1867 contro il
papa-re. Del resto, pochi giorni dopo la Conferenza di
Londra lo sfortunato Massimiliano d'Asburgo, aspirante
imperatore del Messico, mandato allo sbaraglio da
Napoleone III, fu arrestato a Querétaro dagli sgherri di
Benito Juárez, che lo fece fucilare, su procura degli
USA.
I veri frutti dell'ingresso del Regno d'Italia nella Comunità
internazionale si colsero tre anni dopo, quando il
governo Lanza-Visconti Venosta-Sella-Castagnola frenò
ogni tentazione di scendere in guerra contro la Prussia
a fianco di Napoleone III e, nella “finestra” aperta con
la sconfitta dell'imperatore a Sedan, corse a Roma per
chiudere la “questione” che teneva inquieto il Paese e
l'Europa intera. Nei giorni fatali del 19-20 settembre
1870 Pio IX venne “vegliato” dagli ambasciatori di Paesi
luterani ancor più che da quelli cattolici, perché era
in gioco il coronamento del Risorgimento sognato da
Cavour quando, il 17 marzo 1861, aveva fatto proclamare
Roma capitale d'Italia: una data da mettere in
calendario sin d'ora, in vista del suo 150°. Lasceremo
dove sono i nostalgici degli antichi regimi e i
visionari d'ogni genere e ricorderemo Vittorio Emanuele
II padre della Patria: egli, sì, “uomo della
provvidenza” come nel 2011 convenne il presidente della
Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo
Bagnasco, e come scrive “La Civiltà Cattolica” che nel
suo n. 4000 plaude all' “ideale unitario” che la animava
“prima ancora che si concepisse l'Italia una e indivisa
sul piano politico”. In realtà quello stesso ideale,
molto prima che dai gesuiti, anzi contro la loro
Compagnia, era stato coltivato da Giuseppe Mazzini,
Giuseppe Garibaldi, Camillo Cavour, Vincenzo Gioberti,
dal carbonaro Silvio Pellico a da una schiera di
patrioti, in gran parte massoni, che ebbero per vessillo
il tricolore con lo scudo sabaudo: l'11 maggio 1867
accolto a Londra tra le bandiere del Mondo Nuovo, mentre
gli zuavi di Napoleone III facevano quadrato attorno a
Pio IX, nemico acerrimo dell'unità d'Italia.
* Editoriale del Giornale del Piemonte del 9
aprile 2017.
Ci si mette anche Gramellini
Dalli al giudice
di Salvatore Sfrecola
Un popolo poco avvezzo alla legalità, forse perché nel tempo, e
ancora oggi, è costretto a subire frequentemente la
prepotenza dei forti, a cominciare dalle istituzioni
della politica, poco propense a fare della imparzialità
e della trasparenza un modo di operare che altrove è la
regola, non è propenso a nutrire simpatia per i giudici
che, per mestiere, richiamano al rispetto della legge.
Ed allora ricorrente, anche nei migliori commentatori di
eventi della vita di tutti i giorni, una sorta di
fastidio per la magistratura, uno sport nel quale si
sono esercitati anche i politici, da Berlusconi a Renzi,
per rimanere in tempi più vicini. Il primo riteneva che
per fare quel lavoro occorresse essere “disturbati
mentali”, il secondo li ha indicati al ludibrio della
gente alla quale è stato fatto credere che avessero più
ferie degli altri pubblici dipendenti. Non era vero, ma
la vulgata è passata, come quella che Renzi abbia
ridotto il parco automobilistico dello Stato. Basta
andare dalle parti di Palazzo Chigi per rendersi conto
che non è vero. Ma tant’è. Nella società dell’immagine e
degli spot ogni slogan rimane nella mente della gente,
anche se evidentemente non corrisponde alla verità. Come
la buona scuola, il cambio verso, ecc.
In questa voglia di semplificare per dare addosso ai giudici non
poteva mancare Massimo Gramellini, che nella quotidiana
rubrica Il Caffè sulla prima del Corriere
della Sera è costretto a rivestire la veste di
forzato dell’ironia, una professione non facile da
esercitare volendo mantenere a livello adeguato ogni
giorno.
E così il Nostro viene oggi a parlare di Uber e NO, questo
il titolo per denunciare che, a seguito di una pronuncia
del tribunale di Roma che ha vietato il servizio che,
appunto, avrebbe voluto svolgere Uber, inviso ai
tassisti, scrive che “nel Paese dei veti reciproci le
decisioni non le prendono gli eletti dai cittadini, ma i
laureati in giurisprudenza”. Capisco l’ossequio alla
politica, intesa come espressione della democrazia
rappresentativa, quella che fa le regole, consegnate in
leggi, regolamenti e decreti vari. Che sono, appunto,
quegli atti giuridici che “i laureati in
giurisprudenza”, quando hanno la funzione di giudici,
sono chiamati ad applicare. È normale in uno stato di
diritto che l’ultima parola sul rispetto delle regole le
dicano i giudici. Ma Gramellini ci scherza sopra e
sospetta che anche quando furono inventati i caratteri a
stampa da Gutermberg i monaci, gelosi del loro lavoro di
amanuensi, si siano rivolti ad un giudice. E che ne
abbiano trovato uno “zelante e romantico che li
sostenne. Ma dei loro NO si è persa la memoria. O no?”
Simpatico Gramellini, forzato dell’ironia, ma diseducativo perché
al lettore poco fornito di appropriati elementi di
giudizio può venire il dubbio che il giudice non abbia
legittimazione a stabilire ciò che è conforme o meno
alle regole che la politica ha stabilito. E questo non
va bene.
8 aprile 2017
Alzare le tasse sulle case al mare
Significa ammazzare il turismo
Il nuovo catasto versione PD penalizzerà ancora di più
le seconde e terze residenze
di Salvatore Sfrecola
“Chi ha seconde o terze case… dovrà contribuire di più”.
Così Filippo Taddei, Consigliere economico del
Partito Democratico e dell’ex Presidente del
consiglio, Renzi, parlando al Lingotto, in occasione
dell’inizio della campagna per le primarie del PD, a
proposito della riforma del catasto con la quale il
governo si appresta a fare cassa anche per accontentare,
a suo dire, l’Europa. Naturalmente l’incremento della
tassazione partirà dalle prime case, attraverso la
individuazione di indici più significativi per la
determinazione del tributo, non più i vani ma i metri
quadrati.
È evidente, dietro queste parole, un antico ritornello
della politica italiana di Sinistra: le seconde case
sono un indice di ricchezza. Non è vero o, nella maggior
parte dei casi, non è quasi mai vero. Infatti le seconde
case, al mare o ai monti, sono il più delle volte case
di famiglia, ereditate da nonni e genitori. Spesso
modeste abitazioni, usate solamente nel fine settimana o
nei periodi di ferie. Tassarle, dunque, oltre ad essere
ingiusto è sbagliato. Perché, intorno a queste unità
immobiliari ruotano, evidentemente non compresi,
importanti e significativi interessi locali.
Interessi locali
In primo luogo perché queste case, abitante
saltuariamente, esposte a significative variazioni di
clima, richiedono continua manutenzione che alimenta
ovunque un non indifferente impegno di piccoli
artigiani, muratori, pittori, falegnami e fabbri, spesso
le uniche occupazioni nei piccoli paesi dove il lavoro è
scarso. Spesso c’è anche necessità del giardiniere o di
chi fa le pulizie e vigila sulla casetta. È tutto
facilmente comprensibile, ma i sindaci, a corto di
risorse, anche per la diffusa riduzione del gettito
delle imposte locali (la gente spesso non ha di che
pagarle, come ha accertato in più occasioni la Corte dei
conti), con incredibile vista corta, preferiscono fare
cassa, così trascurando le ricadute che naturalmente
conseguono alla frequentazione dei “cittadini” nei loro
borghi.
La tassazione già esagerata delle seconde case se
dovesse, come preannuncia Taddei essere ulteriormente
appesantita, finirà inevitabilmente per favorire il loro
abbandono, con conseguente trascuratezza per le esigenze
di manutenzione e, di seguito, delle possibilità di
lavoro e di guadagno di cui si è detto. Non solo. Com’è
nell’esperienza di tutti, le seconde case sono oggi una
delle occasioni di incontro tra amici e parenti
stimolati ad andare in campagna, al mare o ai monti
proprio per un desiderio di svago e di aggregazione. Uno
scenario che abbiamo tutti sotto gli occhi: il pranzo a
casa, nella seconda casa, occasione di acquisto di
generi alimentari nei negozi locali, o, in alternativa,
al ristorante o alla trattoria che assicura le ricette
“della nonna”, dove si possono gustare i piatti tipici
della cucina locale. Forse gli amici pernottano in
albergo, forse, attratti dalle bellezze naturali della
località o dall’interesse storico tanto diffuso nei
nostri borghi, saranno indotti a tornare per un periodo
di vacanze e anche per godere ancora della compagnia
degli amici. E magari inviteranno altri ad unirsi alla
comitiva.
Turismo
A volte troveranno anche loro una casetta da acquistare
per godere del relax e della aria buona lasciando le
città soffocate dallo smog e costrette a ricorrere alle
“domeniche ecologiche” o al blocco del traffico.
Le seconde case, dovrebbero esserne consapevoli i
sindaci, sono oggi occasione di sollecitazione del
turismo e quindi di guadagni per ristoranti, alberghi e
rivenditori di oggetti di artigianato che caratterizza
un po’ tutte le località italiane. Come delle specialità
enogastronomiche che, per altri versi, i sindaci
propagandano favorendo le “sagre” paesane un po’ lungo
tutto l’anno perché, se non è la bruschetta, è il
carciofo, la bistecca, la pagnotta, il tartufo, il
fungo, la patata o la polenta ad essere al centro di
feste paesane che ricercano il concorso di abitanti del
contado e delle città, come si legge sui manifesti.
È evidente allora che la tassazione delle seconde case,
già pesante e nella prospettiva di un incremento che non
sarà lieve (dovranno “contribuire di più”, ha detto il
baldo Taddei) oltre a essere ingiusta è soprattutto
sbagliata in una visione dell’economia, in particolare
locale, che tenga conto dei vari fattori che concorrono
allo sviluppo e alla ricchezza delle comunità. E c’è da
chiedersi che razza di economisti sono questi che non
comprendono elementari regole che ruotano intorno ad
interessi evidenti e facilmente percepibili e che razza
di amministratori abbiamo se non si rendono conto che i
borghi sono destinati a spopolarsi perché l’attrattiva
per i proprietari delle seconde case si attenua dal
momento che è sempre più costoso mantenere la casetta
del nonno.
(pubblicato da La Verità, 2 Aprile a pagina 6)
Esposta per l’occasione la bandiera fiumana con firma
autografa di Re Umberto II conservata all’Archivio Museo
storico di Fiume
Le terre istriane, fiumane e dalmate
Un percorso tra passato e futuro*
di Marino Micich**
Il Presidente del Circolo REX l’ing. Domenico Giglio ha
introdotto la conferenza del dr. Marino Micich
ricordando il sacrificio di migliaia di italiani uccisi
nelle foibe, durante e dopo la Seconda guerra mondiale
dai partigiani jugoslavi di Tito. Le foibe strumento del
terrore che furono tra le cause principali che spinsero
nel giro di alcuni anni oltre 300.000 italiani ad
abbandonare le proprie terre. Una storia taciuta, se non
proibita, che solo da alcuni anni, a partire dalla Legge
del Giorno del Ricordo del 2004 approvata dal
Parlamento, ha reso possibile una divulgazione più
strutturata nelle scuole e nei media. Ma molto rimane da
fare secondo l’ing. Giglio perché tale storia sia
veramente condivisa, esistendo purtroppo in Italia
ancora dei circoli politici o pseudo storici che mettono
in dubbio tale scomoda verità. L’Ing. Giglio ringrazia
sentitamente il dr. Micich, figlio di esuli dalmati, per
aver voluto portare in esposizione in occasione della
conferenza un cimelio conservato presso il Museo fiumano
di Roma, vale a dire la bandiera di Fiume firmata
di suo pugno dal Re Umberto II. Dopo aver ricordato le
attività promosse quest’anno dal Circolo Rex l’ing.
Giglio passa la parola al dr. Marino Micich che
ringrazia e informa il pubblico convenuto che tale
bandiera fiumana, firmata da Re Umebrto, è conservata
presso l’Archivio Museo di Fiume nel fondo Paolo
Venanzi. Paolo Venanzi, esule da Fiume dopo il 1945,
ricorda Micich, era di fede monarchica, tanto da
costituire a Milano negli anni “60 l’Unione dei
Monarchici Irredenti. Venanzi assieme ad altri
monarchici fiumani si recò più volte a visitare il re
Umberto II in esilio, sia in Portogallo sia in Francia.
La bandiera esposta fu firmata nel 1970 a Cap Ferrat
dove il Re si trovava per una breve vacanza estiva.
Micich ricorda che altri cimeli riguardanti Casa Savoia
sono conservati presso l’archivio-museo fiumano. Il tema
della conferenza è stato quello di ricordare la lunga
storia di italianità degli esuli istriani, fiumani e
dalmati che spesso è stata confusa con il periodo
fascista per tornaconto politico e ideologico di parte.
Le città istriane come anche Fiume erano da sempre
caratterizzate da una forte identità culturale italiana
che superava l’identità slava tradizionalmente più
consistente nei territori interni dell’Istria o in altre
vaste zone della Dalmazia. Dante Alighieri nel IX Canto
dell’Inferno citava Pola come luogo di italianità
“..sì come a Pola presso del Quarnaro che Italia chide e
i suoi termini bagna..”. Dante è solo un esempio, ha
affermato Micich, di come sin dai secoli più remoti la
civiltà italiana avesse caratterizzato quelle terre.
Successivamente avvenne l’espansione di Venezia che nel
corso di alcuni secoli caratterizzò permanentemente gli
usi, i costumi e i dialetti parlati dagli istriani e dai
dalmati. Molte figure di letterati e uomini di cultura
provengono da quelle terre, tra cui lo scienziato
Ruggero Boscovich, l’autore della prima grammatica
italiana Giandomenico Fortunio, l’illuminista Gian
Rinaldo Carlo, il letterato Nicolò Tommaseo e lo stesso
Ugo Foscolo, ricorda Micich, amava ricordare che fu
educato tra dalmati, poiché frequentò gli studi
ginnasiali a Spalato. Innumerevoli gli scrittori della
frontiera giuliana che hanno lasciato il segno nelle
antologie letterarie Giani Stuparich, Scipio Slataper,
Enrico Morovich, Fulvio Tomizza e tanti altri. Molti gli
istriani e i dalmati, ancora sotto la Casa d’Austria,
parteciparono nell’800 alle guerre d’indipendenza per la
costituzione del Regno d’Italia.
Dopo la Prima guerra mondiale (1915-18) con la vittoria
dell’Italia sull’Austria-Ungheria fu acquisita la
Venezia Giulia, ma per avere Fiume all’Italia ci volle
l’Impresa dannunziana e poi un lungo contenzioso
diplomatico tra Italia e allora Jugoslavia che terminò
solo il 27 gennaio 1924 con la firma del Trattato di
Roma, attraverso il quale la città quarnerina passò
definitivamente al Regno d’Italia. Il 16 marzo di quello
stesso anno il Re Vittorio Emanuele III fece visita a
Fiume accolto da una folla esultante.
Ci furono poi gli anni caratterizzati dal regime fascista che
suscitarono nelle terre giuliane nuove tensioni, già
sorte nell’Ottocento, tra italiani e minoranza slava ma
non produssero un esodo epocale di popolazione slava
come invece avvenne dopo la Seconda guerra mondiale in
seguito all’occupazione jugoslava. Micich ricorda poi
gli antefatti del secondo conflitto mondiale e le
nefaste conclusioni per le armi italiane. L’8 settembre
1943, data memorabile, vede l’Istria abbandonata a se
stessa e quindi sottoposta all’attacco dei partigiani
comunisti jugoslavi, coadiuvati da quelli italiani, che
danno avvio alla triste pratica degli infoibamenti.
L’arrivo dei tedeschi verso la metà di settembre portò
all’ instaurazione della zona militare del Litorale
Adriatico e la loro azione armata spinse i partigiani
jugoslavi a ritirarsi dall’Istria. Gli anni 1943 e 1944
non saranno favorevoli agli italiani come ai tedeschi e
nei primi giorni di maggio 1945 vengono occupate
Trieste, Fiume, Gorizia, Pola e altre cittadine
giuliane. Zara in Dalmazia era invece caduta in mano
jugoslava già il 31 ottobre 1944, dopo 54 bombardamenti
a tappeto che uccisero oltre il 20% della popolazione.
Nel secondo dopoguerra ripresero su larga scala gli
infoibamenti da parte comunista jugoslava e prese grande
consistenza, per via di altri conseguenza ad altri
soprusi, l’ Esodo degli italiani. Si trattò di una vera
e propria pulizia etnica ed ideologica che non lasciò
scampo alla componente storica italiana della Venezia
Giulia della Dalmazia. Il 10 febbraio 1947 a Parigi fu
firmato il vessatorio Trattato di Pace con il quale
l’Italia dovete cedere supinamente alla Jugoslavia
comunista di Tito tutta la Venezia Giulia, Fiume e Zara.
L’Italia fu trattata in tutto e per tutto come Paese
sconfitto e il prezzo più alto dovettero pagarlo i
giuliano-dalmati con l’esodo e la perdita dei propri
beni, con i quali l’Italia pagò i debiti di guerra alla
Jugoslavia. Non ci fu nessun riconoscimento da parte
Alleata ai meriti della cobelligeranza, ma solo
amputazioni territoriali gravissime. Gli esuli istriani
non sempre furono accolti bene nel resto della Penisola,
dovettero affrontare lunghi anni nei campi profughi
prima di ricostruirsi una vita dignitosa. Ebbene tutta
questa storia è stata per lungi decenni taciuta e
osteggiata dalla propaganda cultura di sinistra ma dopo
il crollo del Comunismo internazionale nel 1989 le
scomode verità sono riapparse. Marino Micich continua il
suo intervento sottolineando che nonostante una storia
tragica e costellata da ingiustizie subite i
giuliano-dalmati hanno mantenuto sempre vivo il loro
associazionismo e dopo il disfacimento violento dell’ex
Jugoslavia avvenuto tra il 1991 e il 1996 c’è stato un
movimento teso a dialogare con le nuove repubbliche di
Slovenia e di Croazia. Il Governo italiano, in virtù di
una piccola ma consistente minoranza italiana superstite
esistente soprattutto in Istria e a Fiume (circa 21.000
connazionali) ha inteso favorire la riunione di un
popolo disperso dietro accordi con la Croazia e la
Slovenia. Oggi alcune cose sono cambiate e la Società di
Studi Fiumani la prima a promuovere un dialogo
articolato con la città di Fiume (oggi Rijeka –Croazia)
ha ottenuto dalla autorità cittadine croate il permesso
di promuovere cultura e prendere contatti con le scuole
della minoranza italiana. Ogni anno quindi ci sono
iniziative congiunte che sono improntate a ricordare
l’identità culturale italiana di Fiume con spirito
europeo moderno di apertura e collaborazione. Micich ha
concluso ricordando che nel giugno 2016 la Città di
Fiume-Rijeka ha voluto premiare il Presidente della
Società di Studi Fiumani l’esule fiumano Amleto
Ballarini per il dialogo culturale instaurato sin dal
1990. Sono atti importanti che danno la possibilità di
operare in futuro per far conoscere e divulgare la
cultura italiana nelle proprie terre di origine. A
questo riguardo i governi italiani sin dal 2001 con una
legge finanzia progetti culturali delle associazioni
degli esuli indirizzati sia in Italia che nelle terre
d’Oltreconfine. Non si tratta più di un confine chiuso
come tanti anni fa ma di un confine permeabile visto che
la Croazia nel 2013 è diventato Stato membro dell’Unione
Europea. Anche il mondo della scuola si è aperto a
queste vicende dimenticate e ogni anno dal 2006 il
Ministero dell’istruzione, in accordo con la Federazione
degli Esuli promuove un seminario di studi per docenti
sulle vicende storiche del Confine orientale italiano.
Con questi segnali di speranza si è concluso
l’intervento del dr. Micich che ha letto in finale
alcune passi del messaggio del Sen. Lucio Toth, esule
zaratino, che non è potuto intervenire per motivi di
salute.
“Desidero che giunga il mio saluto a questa importante
iniziativa degli amici del Circolo “Rex”, che sono stati
vicini a noi, esuli istriani, fiumani e dalmati, nelle
battaglie culturali per riportare nella memoria della
nazione la tormentata vicenda del nostro confine
orientale nelle due guerre mondiali e della perdita il
10 febbraio di settanta anni fa delle province della
Venezia Giulia e della Dalmazia “redente” nell’ottobre
1918. L’egemonia culturale di una sola parte politica ha
distorto la narrazione delle vicende italiane del
Novecento… Fra le vittime di questa egemonia ci fu anche
la nostra vicenda di italiani dell’Adriatico orientale,
gli eccidi delle Foibe e l’Esodo di massa
dalle terre natali, italiane da secoli. Fiume, Pola.
Zara, Capodistria, Parenzo, Rovigno e altre belle città
affacciate sul mare andarono perdute e deserte di gran
parte della loro popolazione autoctona italiana.. Sen
Lucio Toth”.
*
Sintesi della Conferenza tenuta al Circolo REX
il 26 marzo 2017
**
Direttore
dell’Archivio Museo storico di Fiume)
CONFEDERAZIONE ITALIANA PROPRIETÀ EDILIZIA
00187 ROMA - Via Borgognona, 47
Mercoledì 12 aprile, alle 17.30, Giancarlo Perna sarà in
Confedilizia, a Roma, per presentare il suo libro
“CENTO VITE CON IL PUNTO INTERROGATIVO”
Nel volume vengono tratteggiati ritratti di uomini e
donne famosi con un’originale particolarità: se ne tace
il nome che va indovinato, in un divertente quiz per
appassionati di biografie.
Ne parlano con l’Autore G. Aurelio Privitera (professore
emerito e socio dell’Accademia dei Lincei) e Alessandra
Rauti (giornalista RadioRai). Modera Giorgio Dell’Arti
(giornalista e scrittore).
Prenotazioni:
06.679.34.89 –roma@confedilizia.it
Tel. 06.679.34.89 (r.a.) - 06.699.42.495 (r.a.) · Fax
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