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AGOSTO 2017
Il caso Regeni: la verità introvabile
di Salvatore Sfrecola
L’unica cosa certa nel caso Regeni è che non sapremo mai la
verità. Quella autentica, con nomi e cognomi dei mandanti e
degli esecutori di questo orrendo delitto. Lo sanno anche i
politici ed i giornalisti che dicono e scrivono, giustamente
indignati perché un giovane cittadino italiano, in Egitto
per motivi di studio, è stato rapito, sottoposto ad
interrogatorio e torturato fino a morirne. Perché nulla,
neppure il sospetto che il giovane fosse, magari
inconsapevolmente, una spia, al servizio di chi lo ha
incaricato delle ricerche che stava svolgendo, può
giustificarne il sequestro e la morte.
La storia ci insegna che fatti di questo genere è possibile
accadano ove i diritti delle persone, anche se affermati in
una legge, sono soggetti a tutela variabile. Spesso a
nessuna tutela effettiva, in presenza di una “ragione di
stato” come potrebbe essere avvenuto nel caso di Guido
Regeni, probabilmente sospettato, svolgendo un ruolo di
ricercatore per conto di una università del Regno Unito,
quella di Cambridge, di fornire dati sull’attività sindacale
che in quel paese è presumibile non goda della stessa
libertà che caratterizza i paesi occidentali.
Il governo egiziano smentisce ogni coinvolgimento nella vicenda.
E questo, ovviamente, va tenuto presente, anche perché, da
quanto si legge le autorità, che comunque devono indagare
per fornire elementi di conoscenza alla magistratura locale
ed al Governo italiano, hanno dato versioni via via
contrastanti, così ingenerando il sospetto che, invece, ne
sappiano, e molto.
È credibile la posizione del governo egiziano, è possibile che
quel che è accaduto non sia riconducibile all’iniziativa di
un servizio pubblico di sicurezza forse troppo zelante? O
talmente segreto da non ricadere sotto il controllo delle
autorità?
L’Italia ha risposto con un gesto forte nei rapporti
internazionali, immediatamente prima della rottura delle
relazioni diplomatiche, il ritiro dell’ambasciatore, e
continua a chiedere di sapere con certezza documentata cos’è
accaduto.
Detto questo occorre fare chiarezza riprendendo le fila degli
eventi ed esaminarli sulla base di due ipotesi teoricamente
possibili, quella del coinvolgimento diretto di autorità
egiziane, la più probabile, probabilmente l’unica, e quella
della sua estraneità agli eventi.
Secondo la prima ipotesi, il giovane Giulio Regeni sarebbe stato fermato perché sospettato di acquisire dati
che avrebbero potuto essere utilizzati a danno dell’immagine
dell’Egitto sotto il profilo della scarsa tutela dei diritti
dei lavoratori in quel paese. Nel senso che, anche se
teoricamente neutri, potevano sempre essere interpretati ad
uso di chi volesse ad esempio trarne elementi di supporto
all’opera critica dell’opposizione interna o dei critici
esterni di un regime politico che non è propriamente
liberale come noi lo intendiamo. E può essere accaduto, come
si legge su alcuni giornali, che qualcuno abbia “venduto” il
giovane ricercatore ai servizi di sicurezza, magari
enfatizzando l’attività che andava svolgendo. Non sarebbe il
primo caso che viene gonfiato il valore di una informazione
trasmessa allo scopo di alzare il prezzo o per affermare
l’utilità del ruolo dell’informatore.
Venduto a chi? È immaginabile ai servizi di sicurezza egiziani.
Ed è altrettanto immaginabile, come accade ovunque, che la
sicurezza di un paese, specie se di dubbia democrazia
all’occidentale, possa essere affidata a più organismi anche
informali, che magari rispondono a diverse istituzioni. Ad
esempio al ministero della difesa o dell’interno o a qualche
corpo militare, enti tra i quali, spesso, non si ha
collaborazione ma concorrenza, a fini di lotta interna di
potere o anche solamente per apparire più affidabile
all’autocrate di turno.
A questo punto il giovane torturato non ha fornito le
informazioni che ci si attendeva perché probabilmente non ne
aveva o non ne aveva consapevolezza, nel senso che i dati
singoli che poteva aver fornito all’università committente
avrebbero potuto diventare importanti solamente a seguito di
una elaborazione in concorso con informazioni da altri
acquisite. Un passaggio ulteriore che il giovane
probabilmente non era in condizioni di fare o che comunque
non spettava a lui fare.
Che fare, dunque, di Regeni una volta “interrogato”? Certo non
era possibile lasciarlo andare malconcio, anche se il
torturatore si fosse fermato per tempo. Morto, si è scelto
di abbandonarlo per strada, come se fosse stato vittima di
una aggressione o di un incidente. E qui i conti non
tornano, perché è evidente un errore marchiano da parte di
professionisti della lotta segreta e della tortura. I quali
non avrebbero potuto trascurare che un cittadino straniero,
tra l’altro ricercato perché scomparso, una volta rinvenuto
in quelle condizioni sarebbe stato oggetto di accertamenti
medico-legali i quali avrebbero immediatamente rese palesi
le ragioni della morte. Perché non far sparire il corpo o
immaginare un diverso esito, ad esempio un incidente
stradale con incendio del mezzo al punto da renderlo
irriconoscibile, da identificare solamente attraverso
l’esame del dna o di un documento rimasto miracolosamente
incombusto in una borsa magari volata fuori nel mezzo al
momento dell’impatto? Uno svarione inimmaginabile da parte
di un servizio di sicurezza con un minimo di
“professionalità”. Che potrebbe avvalorare la seconda
ipotesi, quella che il cadavere di Regeni sia stato gettato
lì per danneggiare il governo.
È è teoricamente possibile, infatti, che, a sequestrare e ad
uccidere Regeni, sia stata qualche organizzazione nemica del
regime, perché ne fosse incolpato e messo in difficoltà
rispetto all’Italia e, per quanto possibile, all’opinione
pubblica interna ed internazionale. Se così fosse
l’obiettivo sarebbe stato pienamente raggiunto perché, in
fin dei conti, l’opinione pubblica è contro il governo
egiziano il quale non può altro che dire, ma non dimostrare,
di non essere coinvolto nella vicenda. Sembra abbia tentato
ma senza successo.
La verità, dunque, non si conoscerà mai. Ha fatto bene l’Italia a
pretendere dalle autorità egiziane chiarezza, che spieghino
come è stato possibile che un cittadino italiano con
passaporto europeo, sia stato rapito e torturato,
identificando i responsabili, chiunque siano. Fa bene la
nostra magistratura ad indagare ricercando la difficile
collaborazione di quella egiziana a sua volta destinataria
di insufficiente collaborazione da parte governativa. Ed è
comprensibile che la famiglia, sconvolta dall’orrendo
delitto, abbia manifestato critiche al Governo italiano che,
a suo giudizio, avrebbe di fatto attenuato l’iniziale
protesta inviando nuovamente al Cairo l’Ambasciatore. Né si
può pretendere dai genitori del ragazzo ucciso che
comprendano le ragioni politiche che hanno indotto il
Governo italiano a “normalizzare” i rapporti diplomatici, in
considerazione di pressanti esigenze di collaborazione, ad
esempio nella lotta al traffico di uomini.
E comunque l’Ambasciatore ha anche il compito di ricordare giorno
dopo giorno al Governo egiziano l’esigenza di collaborare
alle indagini della magistratura egiziana ed italiana.
Una bruttissima vicenda, che troppi, al di là ed al di qua del
mare, hanno avuto difficoltà ad affrontare sul piano
politico, come spesso accade a questioni obiettivamente
complesse. A cominciare dall’Europa della quale Giulio
Regeni era cittadino e che avrebbe potuto svolgere un ruolo
forte a fianco dei quello del Governo italiano per
pretendere un impegno nelle indagini dalle autorità
egiziane. Le quali, diciamocelo chiaramente, non hanno dato
rilievo alla vicenda né si sono preoccupate delle possibili
reazioni dell’Italia, che ci sono state come abbiamo visto,
né di quelle dell’Europa, che invece non ci sono state. Ma
certo non potevamo attenderci molto dalla Mogherini,
l’evanescente Alto Commissario per la politica estera e di
sicurezza.
Resta l’angoscia della famiglia Regeni, dolorosa e crescente,
alla quale dobbiamo la nostra solidarietà di cristiani e di
italiani.
25 agosto 2017
Figuraccia internazionale
Il 112 non decolla
e c’è chi cerca di sabotarlo
di
Salvatore Sfrecola
L’avvio della riforma è stata faticosa e
c’è già chi lavora per affossarla, enfatizzando ogni
incertezza e più di qualche disservizio, invece di spingere
per superare le difficoltà che sono la dimostrazione
plastica di come in Italia, purtroppo, sia arduo
semplificare la vita dei cittadini in un contesto di
efficienza. È la vicenda dell’attuazione del 112, il
Numero unico europeo
delle emergenze (NUE), che leggiamo sulle auto della
polizia e sulle ambulanze europee e perfino in Turchia.
Raccomandato già del 1976 dal CEPT, la
Conferenza Europea delle amministrazioni delle Poste e delle
Telecomunicazioni,
è
attivo da anni in tutti gli stati dell’Unione e in
molti altri in tutto il mondo, dalla Russia alla Svizzera,
dall’Ucraina all’Islanda, alla Norvegia. Ovunque, componendo
il 112, si viene messi in contatto con il sistema di
emergenza.
Istituito per tutta l’Unione nel 2004,
perché entrasse in vigore ovunque nel 2008, il NUE prende le
mosse dell’esperienza degli Stati Uniti d’America dove il
911, che abbiamo imparato a conoscere dai polizieschi
made in USA,
funziona benissimo. Al punto che se negli Stati Uniti o in
Canada qualcuno compone il 112 le chiamate d’emergenza
vengono trasferite al 911. Lo stesso avviene anche in alcuni
Paesi dell’America latina, nel Costa Rica, ad esempio, e in
alcune regioni dell’Oceano pacifico meridionale, a Vanuatu e
in Nuova Zelanda.
Nel 2008, quando la maggior parte degli
stati membri dell’Unione aveva già dato attuazione alla
direttiva comunitaria, l’Italia cominciava a fare
“sperimentazioni” nelle provincie di Biella, Brindisi,
Modena, Pistoia, Rimini e Salerno. Tra mille difficoltà,
tanto che il nostro Paese è stato sanzionato dalla Corte di
Giustizia dell’UE a seguito del ricorso presentato dalla
Commissione nel 2007. È del 15 gennaio 2009 la sentenza dei
giudici europei i quali hanno ritenuto inconsistenti le
misure sperimentali adottate dall’Italia e le “difficoltà”
eccepite a giustificazione del ritardo. Sanzione
inizialmente sospesa a seguito di nuove giustificazioni
presentate a Bruxelles e della buona volontà dell’Arma dei
Carabinieri, in atto titolare del 112, che aveva dato
dimostrazione di poter in qualche modo sopperire alle
esigenze, tra l’altro assicurando la presenza di operatori
capaci di rispondere in varie lingue. Ma alla Commissione
non si sono accontentati ed è venuto un nuovo richiamo con
minaccia di sanzioni onerosissime.
Eppure, con l’avvento del Giubileo del 2015 a Roma e
provincia era stata disposta l’attivazione del Numero Unico.
Dotato di 34 postazioni, con circa 80 addetti a conoscenza
di 14 lingue, per un totale di 6 milioni di potenziali di
utenti, il servizio ha dato buona prova sull’intero
territorio regionale. A conferma che siamo il Paese delle
emergenze, dei “grandi eventi”, nei quali, con
sovrabbondante e disinvolto dispendio di risorse, si riesce
a fare presto e, spesso, bene, quando non emergono gravi
irregolarità negli appalti e nella esecuzione dei lavori.
Nonostante nel 2009 la Commissione
europea, il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione avessero
adottato una risoluzione che ha istituito l’11 febbraio la
“Giornata europea del 112”, si è dovuto attendere il 20 gennaio 2016
perché il Consiglio dei ministri approvasse il decreto
attuativo per l’introduzione in Italia del NUE e
decollasse, sulla carta, la riforma prevista ben otto anni
prima, sperimentata ma rallentata dalla tipica mentalità
italiana della difesa strenua dell’orticello delle
competenze. Come accade nelle amministrazioni dello Stato
quando, nel concorso di più uffici in un procedimento, si
ricerca un accordo nella composizione dei vari interessi
intestati ai singoli. Tra chi deve adottare l’atto finale,
chi assicurare il concerto, chi rilasciare un parere, per
cui si deve ricorrere alle “conferenze di servizi” per
conciliare i vari interessi coinvolti, ai fini della
decisione finale. Difficile, difficilissimo procedere presto
e bene. Ognuno difende la propria specificità, non di rado
con effetti negativi sull’efficienza della stessa
amministrazione e sulla tutela degli interessi primari dello
Stato.
E così il 112, destinato a costituire il
riferimento unico di più istituzioni, l’Arma dei Carabinieri
(112), la Polizia di Stato (113), il Corpo dei vigili del
fuoco (115), il soccorso sanitario (118) non poteva non
subire i veti incrociati, i richiami alle diverse
specificità, alle competenze, alle priorità. Nessuno
vorrebbe perdere o veder declassato il proprio numero e lo
fa eccependo una specifica efficienza quanto ai tempi di
risposta. Intanto il sistema non decolla se non in alcune
realtà (si deve dire, ancora una volta, prevalentemente al
Nord, in Lombardia) per cui è inevitabile che accadano
disfunzioni, le quali a volte hanno causato gravi danni alle
persone. E così, in occasione di un recente ritardo in un
caso di emergenza sanitaria, si è addirittura titolato: “Il
112 ha un altro morto sulla coscienza”, senza neppure una
parola che individuasse le responsabilità di chi ha attuato
o sta attuando e/o gestendo il servizio. Si fa demagogia a
basso costo accreditando le “ragioni” di chi non vuole
innovare, infischiandosi di quel che accade in Europa e
della figuraccia che il nostro Paese fa ed ha fatto nei
confronti dell’Unione e dei turisti che a milioni vengono in
Italia. Ai quali non interessano le beghe tra i “titolari”
dei vari numeri ma vogliono sapere se, come accade nel loro
paese, hanno un riferimento certo ed efficiente in caso di
aggressione, di incendio, di preoccupazioni per la salute.
Si è letto di “Bufera sul 112” con la scusa che “l’obiettivo
del 112 è ancora lontano, e in alcune regioni che l’hanno
già introdotto si registrano troppi ritardi e reclami”.
Ancora lontano? Siamo a dieci anni dalla data prevista nella
direttiva comunitaria e da quando gli altri stati
dell’Unione vi hanno dato attuazione! E nessuno si vergogna!
A dieci anni anche dalle prime
sperimentazioni la riforma procede a macchia di leopardo
nonostante la lunga sperimentazione che ha dimostrato
possibile, senza eccessive difficoltà (che, infatti, non
hanno trovato altri in Europa) l’instradamento delle
chiamate tra le centrali operative di Carabinieri e Polizia
di Stato (anche per le competenze territoriali dei due corpi
di polizia), con la localizzazione del chiamante e il
trasferimento di quelle del soccorso tecnico e sanitario
alle competenti centrali operative dei Vigili del Fuoco e
del Soccorso Sanitario, le quali hanno accesso al sistema di
localizzazione delle chiamate anche per le telefonate
ricevute sulle linee 115 e 118,
A partire dal 2017 in molte città
italiane viene adottato il numero unico con standard GSM
riconosciuto da tutte le reti. Le chiamate al 112 vengono
indirizzate alla Centrale unica, anche se i numeri di
emergenza nazionali rimangono tuttora validi.
Il modello è quello di PSAP 1 (Public
safety answering point) Centrale di
Primo Livello,
che risponde a tutte le chiamate dirette al 112,
indirizzandole, dopo la localizzazione del chiamante ed una
breve intervista
per accertare la veridicità e il grado del pericolo della
richiesta, al PSAP di II livello (pubblica
sicurezza, vigili del fuoco o emergenza sanitaria) più
adatto alla situazione. Così, componendo qualsiasi numero
dell’emergenza (112, 113, 115, 118) il cittadino entra in
contatto con l’operatore della Centrale Unica di Risposta
del Servizio Emergenza,
che si posiziona tra l’utente e le centrali operative specifiche
(Pubblica Sicurezza, Arma dei Carabinieri, Vigili del Fuoco
ed Emergenza Sanitaria).
Riusciremo ad
adeguarci al resto dell’Europa ovunque in Italia, o avremo
ancora regioni a risposta differenziata? Ma quanto dura il
processo di unificazione dell’Italia avviato il 17 marzo
1861?
(da La Verità del 19 agosto 2017 a pagina 12)
NO all’istruzione superiore di quattro anni.
Riflessioni del Prof. Michele D’Elia, già Preside, Direttore di
Nuove Sintesi
In forma di
comunicato stampa il Professor Michele D’Elia, già Preside
in istituti di istruzione secondaria di primo e secondo
grado, Direttore della Rivista
Nuove Sintesi, ha
manifestato il suo aperto dissenso rispetto alla proposta,
avanzata dal Ministro per l’istruzione, Valeria Fedeli, di
modificare la durata dei corsi della scuola media superiore,
sia pure in via sperimentale.
Osserva il Prof.
D’Elia:
1)
I programmi, da anni sono diventati “linee guida”, vale a dire il
nulla, nel quale ciascuno propone agli studenti ciò che gli
pare. In questo nulla entra a pieni titolo la
sperimentazione quadriennale, già condotta alla chetichella.
2)
Sempre uguale il copione: per abolire il latino nella scuola
media, il governo di allora lo rese facoltativo, nessuno lo
scelse più, subito dopo fu abolito formalmente. A maggior
ragione oggi nessuno studente sceglierebbe un istituto di
cinque anni. I politici, Ministro in testa, grideranno al
successo della sperimentazione.
3)
I quattro anni di corso sono una bufala espunta dopo la
sperimentazione dello scientifico 1923-1928 portato a cinque
anni, nel 1930, dallo stesso Gentile.
4)
All’estero, esperienza professionale, la scuola italiana è ancora
considerata di alto livello; non c’è ragione di scopiazzare
sistemi che non ci appartengono.
5)
L’ingresso anticipato nel mondo del lavoro, che nemmeno si vede
all’orizzonte, è pretesto ipocrita per continuare a demolire
la scuola pubblica e per disporre nell’industria di manovali
con il colletto bianco.
Le sue
considerazioni:
Il ministro
Berlinguer elevò a cinque anni l’efficace istituto
magistrale, sostenendo che quattro non erano adeguati alla
società contemporanea; oggi, la stessa parte politica
abbassa a quattro tutto l’impianto, connivente la cosiddetta
opposizione. Chissà perché in agosto …
I docenti
universitari, che già si lamentano dell’ignoranza di base
dei loro studenti, saranno soddisfatti. Hanno sotto gli
occhi il fallimento della laurea triennale.
17 agosto 2017
Da appunti, lontani
nel tempo ma attualissimi
Passeggiando per le
strade di Roma, tra disservizi e “puzza” (che è di Destra e
di Sinistra). Considerazioni e prudenti suggerimenti
di Salvatore Sfrecola
L’articolo riproduce, con alcune integrazioni, aggiornamenti ed
ampliamenti, l’articolo pubblicato ieri, 15 agosto, da
La Verità
a pagina 17 ed intende rappresentare un contributo obiettivo e
stimolante per il Sindaco e la Giunta comunale guidata da
Virginia Raggi nella considerazione che gli interessi di
Roma e dei romani prevalgono rispetto agli orientamenti
degli schieramenti politici che si sono confrontati nelle
elezioni comunali del 2016 ed a quelli che si vanno
delineando nella prospettiva (o nella speranza) che
l’attuale maggioranza deluda e possa portare alla fine
anticipata della Consiliatura Capitolina. L’Autore si augura
che il Sindaco voglia apprezzare questo contributo e trarne
insegnamento, mettendo in atto alcuni comportamenti capaci
di restituire efficienza all’apparato e fiducia ai
cittadini.
Mi colpì molto
anni addietro un amico che, a proposito delle sue ferie, mi
disse di averle sistematicamente trascorse a Roma nel mese
di agosto. E ne spiegò le ragioni: la possibilità di
riappropriarsi della Città liberata da gran parte del
traffico e quindi di godere delle sue bellezze naturali e
architettoniche, assaporando la frescura dei suoi parchi
pluricentenari e dei viali alberati che l’attraversano. Ma
anche di visitare musei e aree archeologiche mischiandosi
alle comitive variopinte dei turisti italiani e stranieri
che l’affollano in questi giorni più di sempre.
Roma, comunque
la città più desiderata, anche se le statistiche dicono di
un turismo veloce, “mordi e fuggi”.
In effetti, mai
come ad agosto ci si può immergere nella Città più bella del
mondo, che possiamo definire unica, perché solamente a Roma
si possono ammirare monumenti della civiltà lungo quasi
tremila anni, gli acquedotti, le terme, i templi che
attestano la civiltà dell’accoglienza, anche dei culti, gli
stadi, i palazzi del potere e, via via, fino ad oggi gli
immobili della storia civile, politica e religiosa,
splendide architetture in un contesto ambientale del tutto
particolare, i lungotevere, i colli che l’hanno resa famosa.
La Città che, come nessun’altra, possiede un patrimonio
arboreo ricco e variegato, ovunque, non solamente nelle
ville famose, dalla Borghese alla Doria Panfili alla Sciarra
o lungo i viali della Roma Umbertina. Come nel quartiere Delle Vittorie, dove vivo e prevalentemente lavoro, con i viali
dalla possente alberatura di platani centenari, Giulio
Cesare e delle Milizie. E poi anche strade minori arricchite
di piante fiorite, ovunque, da Via Ricciotti dagli oleandri
enormi con i rami piegati dal peso dei fiori, a via Paolucci
de’ Calboli ricca di HIbiscus odorosi, a Via Silvio Pellico
dai Tigli profumati. E ancora gli oleandri maestosi di via
Cornelio Nepote, alla Balduina.
La Città che,
illuminata dal sole che rende magici gli scorci dell’antico
e del moderno, mette in mostra anche le sue carenze. Che
risaltano agli occhi del cittadino e del visitatore.
Partendo dalla ammirata alberatura va detto, infatti, che il
Servizio Giardini del Comune di Roma, un tempo fiore all’occhiello
dell’Amministrazione capitolina, con il suo orto botanico
straordinario ed i suoi tecnici specializzati, marcia oggi a
ranghi ridotti. Molti servizi sono trascurati, altri
abbandonati. Come il sistema di innaffiatura a goccia.
Francesco Rutelli, da Sindaco, volle che la barriera
spartitraffico di viale Cristoforo Colombo fosse abbellita
da fiori e arbusti e innaffiata automaticamente. Tutti
ricorderanno che percorrendo quella importante arteria in
alcuni orari gli zampilli bagnavano oltre le aiuole anche la
strada e le auto in transito. Oggi non più. Le aiuole
spartitraffico non hanno fiori né arbusti ma mostrano in
bella vista i tubi dai quali non è erogata più acqua.
Rutelli lo ha denunciato qualche mese fa a
Porta a Porta, ma
non è accaduto nulla. I tubi sono ancora a secco. Come in
viale Mazzini, anche dinanzi alla Corte dei conti che
dovrebbe ricondurre la civica amministrazione nelle sue
varie articolazioni ad una gestione oculata del denaro
pubblico. Evidentemente al Municipio non temono che la
Procura regionale chieda conto di quel servizio pagato e
interrotto.
Cos’è accaduto?
C’è un contratto non rinnovato o inadempiuto? O non
adempiono gli uffici del Comune?
Ancora nell’afa
agostana, qualche giorno fa ho affiancato al semaforo al
crocevia, tra via Nomentana e viale 21 Aprile, un filobus
della linea 90 nel quale i passeggeri si sventolavano alla
ricerca di qualche refrigerio. Erano trascorse da poco le
16. Immagino non funzionasse l’aria condizionata, anche
perché il conducente teneva il finestrino aperto. O forse
non voleva attivare l’impianto, come mi hanno riferito più
volte passeggeri dei mezzi ATAC. Come i conducenti dei taxi
che sfrecciano con i finestrini aperti, incuranti di quella
ospitalità che dovrebbero dimostrare nei confronti degli
utenti, non solamente degli stranieri abituati a ben altro
confort. Il risultato è che una corsa anche di dieci minuti
si trasforma in una sauna intollerabile, in un mezzo con
alla guida un conducente spesso maleodorante.
Poi c’è il
problema della pulizia della Città e dei cassonetti.
Ne avevo scritto
più volte in passato. Così mi è capitato in questi giorni,
nel mettere ordine tra i miei libri ed i miei articoli, con
l’aiuto del mio bibliotecario di fiducia, come si è definito
il mio nipotino Leonardo, di ritrovare alcuni pezzi del
2008, attualissimi perché scritti a proposito delle
“maleodoranti strade di Roma”. Firmavo, per questo Giornale
con lo pseudonimo di
Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che, da cavallo, osserva ancora
oggi la Città dalla piazza del Campidoglio, immaginavo senza
molta soddisfazione, quanto al traffico e alla pulizia. E mi
chiedevo se la “puzza”, come diciamo noi romani, cioè il
fetore che proviene dalle strade e dai cassonetti, sia di
Destra o di Sinistra, per concludere che è responsabilità di
entrambi gli schieramenti, considerato che gli uni e gli
altri hanno indegnamente amministrato la Capitale d’Italia.
Più articoli tra
aprile e settembre di quell’anno. Iniziavano con un ricordo,
neppure molto lontano, quando con i primi caldi facevano la comparsa nelle
strade di Roma le autobotti che irroravano l’asfalto,
eliminando lo sporco che si accumula giornalmente, la
polvere grassa e appiccicosa, i residui oleosi delle
autovetture. Quell’acqua attenuava in qualche modo anche la
sensazione dell’afa. Un tempo, dicevo, perché oggi quei
mezzi, tra l’altro immortalati in un celebre film di Totò,
non si vedono più e noi romani dobbiamo pazientemente
attendere che a pulire la nostra Città ci pensi il
Padreterno. Il quale, evidentemente commosso dalle
preghiere dei Quiriti, quell’anno vi aveva provveduto già ai
primi di aprile, in modo egregio, anche eccessivo, quando
Roma si era allagata in più punti, a dimostrazione che non
viene attuata neppure la manutenzione degli scarichi delle
strade, le caditoie, quell’elemento
del sistema di drenaggio urbano che serve ad intercettare le
acque meteoriche (o di lavaggio delle strade) che scorrono
in superficie. Queste,
se non liberate dalle foglie, non consentono il deflusso
delle acque. Anche ai margini dei ponti sul Tevere, dove
sarebbe facilissimo fare una canaletta che porti l’acqua
piovana al fiume. A lungotevere Flaminio, ad esempio,
all’angolo di ponte del Risorgimento, in direzione Stadio
Olimpico sulla riva sinistra, si forma sistematicamente una
pozza che arriva quasi al centro della strada. Nel 2008
(anche d’inverno ovviamente). Ugualmente nel 2017. Segno che
nessuno delle migliaia di vigili, funzionari, amministratori
della città che passano di lì tutti i giorni si è dato
carico di una segnalazione a chi di dovere. Un lavoretto di
quelli che si fanno “in economia”, spesso senza una gara,
neppure informale, perché affidato all’impresa
aggiudicataria dell’appalto della manutenzione delle strade.
Incuria, disattenzione, incapacità di gestire, presunzione
di una classe politica municipale modestissima (oggi sono in
vena di complimenti!) ma arrogante. E non è questione di
Destra o di Sinistra perché questo giudizio negativo
coinvolge comune e municipi, chi ha governato e chi sta o è
stato all’opposizione, in ogni caso incapaci di farsi
portavoce del disagio della gente. Modesta anche la classe
amministrativa.
Governare significa assumersi responsabilità rispetto alle
molteplici e diverse esigenze di una comunità. Esigenze di
lungo periodo, che corrispondono a progetti “politici” nello
sviluppo e nell’assetto di una città, che esprimono la
“filosofia” di una politica del territorio e del sociale.
Poi vi sono richieste “minori”, ma essenziali per la
cittadinanza, la viabilità, la sicurezza nelle strade,
l’illuminazione, i marciapiedi. Perché le autovetture devono
poter circolare agevolmente, trovare un parcheggio, quanto
più possibile in tempi brevi, ad evitare il girovagare con
effetti inquinanti evidenti. La gente deve poter camminare
sui marciapiedi, spesso ridotti in condizioni che
impediscono la deambulazione di chi ha difficoltà motorie, o
spinge carrozzine, come le mamme o le nonne, o le
carrozzelle. I marciapiedi sono sconnessi, coperti a tratti
con asfalto sovrapposto a precedenti interventi, le
classiche “toppe”, o con pietre che si muovono sotto i piedi
perché non fissate o rotte. Un esempio, tra tanti, il
marciapiede prospicente il cinema Adriano a piazza Cavour.
Ho chiesto ad un mio amico ingegnere se fosse un problema di
materiali scadenti e di messa in opera. Mi ha risposto
“l’uno e l’altro”. Mi chiedo da sempre chi abbia collaudato
quei lavori e chi abbia disposto la liquidazione della
spesa.
Strade ingombre di foglie che, alle prime piogge diventano
trappole, micidiali con l’imbrunire in assenza di adeguata
illuminazione. Qualche anno fa, in una serata buia e
piovosa, all’incrocio tra viale delle Milizie e Via Carlo
Alberto Dalla Chiesa un anziano con impermeabile nero fu
urtato da un autobus. Il conducente non se ne accorse e
l’uomo, rimasto a terra privo di sensi, fu travolto da altri
mezzi pubblici perché chi era alla guida, tra mucchi di
foglie e pozzanghere in un fondo stradale sconnesso, non
aveva notato quel fagottone, neppure sotto le ruote.
Strade poco o per nulla illuminate, come i tunnel di Corso
d’Italia o quello al quale si accede da via di Porta
Cavalleggeri. Pericolosissimi anche per le pozze d’acqua
lungo i bordi.
Tornando all’estate, nella lettura dei miei articoli del
2008 e degli appunti che avevo preparato i vista di quei
pezzi ritrovo altre annotazioni. Ormai siamo a settembre.
C’è ancora la speranza
che Giove Pluvio voglia
donare ai Quiriti un po’ di refrigerio con gli acquazzoni
autunnali, di quelli tipici dell’Urbe, violenti ed
abbondanti, quando piove “a goccioloni”, come si dice qui.
Anche nel 2008 arrivarono, come sempre, in barba ai cultori
delle variazioni climatiche, e le strade diventarono fiumi
di schiuma giallastra maleodorante. Che non fu in grado di
defluire rapidamente perché le famose caditoie a settembre
sono ancor più intasate che in primavera dalle foglie cadute
tra giugno e agosto, che nessuno raccoglie.
Diciamo la
verità, Roma è una delle città più sporche del mondo.
Ovunque, non solo le capitali, le città storiche sono
oggetto di quell’attenzione alla quale il cittadino tiene
molto, che marca la differenza, e che ha influito
negativamente sull’esito di alcune competizioni elettorali.
All’indomani della vittoria di Giorgio Guazzaloca a
Sindaco di Bologna si è letto che la Giunta di sinistra era
caduta sulle cacche dei cani. Animali meravigliosi, che amo
tantissimo, che spesso hanno padroni maleducati,
irrispettosi dei loro concittadini. Nei loro confronti fu
minacciata anni fa una severa sanzione se non avessero avuto
sacchetto e paletta per rimuovere gli escrementi del loro
“Fido”. Mi piacerebbe sapere quante multe sono state
elevate. Azzardo un numero, “zero” o vicino allo zero! Anni
fa AMA aveva acquistato una serie di motociclette, mi sembra
venti, per la raccolta delle deiezioni canine. Indagò la
Procura della Corte dei conti perché sembra non fossero
state mai utilizzate.
Nel 2008,
quando scrivevo, si era appena insediata la nuova Giunta
presieduta da Gianni Alemanno. Era logico nutrire
qualche speranza, pensare ad una iniziativa straordinaria
del Sindaco della Destra romana, ad una sorta di lavacro che
avrebbe potuto assumere un significato simbolico, un cambio
di passo, la rigenerazione dell’Urbe.
Niente da fare.
Una non piccola delusione! La prima di tante altre che hanno
avuto un esito scontato, la sconfitta del Sindaco e dei
partiti che incautamente l’avevano appoggiato.
Sembra che gli
amministratori capitolini non riescano a percepire quali
sono i problemi veri dei cittadini. Eppure sono pochi, anche
se non sempre è facile risolverli: il traffico, il servizio
pubblico di trasporto, e la manutenzione delle strade, la
pulizia. Cominciando dalle buche. Abituati a muoversi con
auto di servizio dalle robuste sospensioni, che sfrecciano
veloci, con i finestrini rigorosamente chiusi per non
disperdere l’effetto dell’aria condizionata, gli
amministratori capitolini non percepiscono lo stato del
manto stradale e il cattivo odore che ammorba la Città. La
classe politica di Destra e di Sinistra si rivela sempre più
lontana dai problemi veri della gente.
“Pulizia,
soddisfatto solo un romano su 3”, titolava il Corriere
della Sera del 13 settembre 2008 nella cronaca di Roma.
Gli altri due evidentemente hanno difficoltà di olfatto.
Intanto Franco Panzironi, appena nominato nuovo
amministratore delegato di AMA, dichiarava che “la
situazione dei servizi di igiene a Roma è difficile e
l’azienda versa in una condizione organizzativa confusa”. A
fare chiarezza è stata la magistratura che ha individuato i
responsabili di fatti di gestione illeciti, anche in questo
carrozzone mangiasoldi. E su Panzironi si è abbattuta
la scure della giustizia. Pochi giorni fa.
Oggi a Sindaco
di Roma (mi perdoni, ma a me quel “Sindaca” proprio non va
giù) è Virginia Raggi, del Movimento 5 Stelle, votata
a larghissima maggioranza in un ballottaggio che nel 2016 le
opponeva lo scialbo e triste Roberto Giachetti, uno
“di prima”. Su Facebook scrissi in quei giorni che i
romani non avevano bisogno di “giacchetti” in presenza di
“raggi di sole”, un post che ebbe molto successo. E così,
disgustati dalle precedenti esperienze, hanno avuto fiducia
in lei, nel giovane avvocato che aveva svolto un ruolo di
opposizione alla Giunta di Ignazio Marino. L’hanno
votata ad occhi chiusi. A scatola chiusa, come si sentiva
dire a Carosello nella pubblicità di un noto prodotto
alimentare.
Nessuno la
conosceva ma, devono aver pensato i romani, non potrà fare
peggio dei suoi predecessori. Tanto che le perdonano ancora
oggi incertezze, mancanza di uno staff già pronto all’uso,
più volte integrato con qualche imbarazzo, le difficoltà che
naturalmente incontra chi non conosce l’amministrazione, una
struttura complessa, poco affidabile e difficile da guidare.
Più di qualcuno non la rivoterebbe, ma prevale ancora in
molti l’aspettativa che riesca a mettere in moto la
macchina. “Famola lavorà porella. Damole tempo”, sentenziava
giorni fa al mercato una arzilla romana “de Roma”
rispondendo a chi criticava il Sindaco (non cambio!).
Ma almeno la
“puzza” riuscirà ad eliminarla?
Il
Movimento 5 Stelle,
che l’ha candidata e l’appoggia, sembra aver trascurato di
considerare che a Roma si gioca la speranza del Movimento di
prevalere alle elezioni legislative del 2018, che la
capacità di governare la Capitale sarebbe stata agli occhi
dei più un momento di verifica dell’attitudine ad assumere
maggiori responsabilità. Per loro fortuna Matteo Renzi
ha talmente deluso che il Partito Democratico è in caduta libera nei sondaggi.
Tornando ad
esempi di gestione della Città, nei giorni scorsi sono state
eliminate un po’ di foglie accatastate lungo viale delle
Milizie, un po’, solo un po’, per carità, di quelle
accumulate nelle precedenti settimane. Lo avevo segnalato su
Facebook con tre foto di vari punti dell’importante
arteria che costeggia tre tribunali con notevole, continuo
flusso di cittadini. È accaduto, infatti, che intorno alle
14 di venerdì 11 un buon numero di uomini e mezzi di AMA sia
stato impegnato nella raccolta delle foglie la cui presenza
minacciava la funzionalità delle caditoie al primo
acquazzone.
Bene dunque AMA
in questo caso. Ma male anche i privati, ad esempio il
ristorante all’angolo tra viale delle Milizie e Via Silvio
Pellico non si è peritato di togliere le foglie che si erano
accumulate in quell’angolo, dinanzi alle colonnine che
delimitano il marciapiede. Non aveva l’obbligo di farlo?
Forse. Ma certamente sarebbe stato apprezzato dai clienti.
E mi chiedo se
esiste o no una disposizione che imponga agli operatori
economici con accesso sul marciapiede o ai condomini di
tenere pulito il marciapiede antistante? Se non esiste
questa regola sarebbe il caso fosse introdotta perché i
cittadini devono contribuire alla pulizia della città e
questa loro partecipazione al decoro delle strade è
intuitivo che potrebbe contribuire al contenimento dei costi
dell’azienda municipalizzata e, quindi, della tassa sui
rifiuti.
Un invito al
Sindaco agli assessori. Perché di tanto in tanto, ma senza
preannunciarlo, non salgono su un autobus, sulla metro o si
mettono in fila dinanzi ad uno sportello di un ufficio
comunale? Perché, alla vista di una buca di quelle che più
propriamente andrebbero chiamate voragini, non chiamano la
manutenzione e rimangono sul posto fino all’arrivo dei
tecnici? E della stampa. Così per altre disfunzioni.
Federico II di Svevia il Re e
Imperatore che, ai suoi tempi, ha fatto stupire il mondo (fu
definito, appunto,
Stupor Mundi) amava andare al porto di Palermo o al
mercato, la Vucciria, ed ascoltare, camuffato nel vestire,
cosa dicevano i cittadini del suo governo e dei suoi
funzionari. Se accertava disfunzioni nella sua
amministrazione provvedeva immediatamente a rimediare e se
scopriva che qualcuno usava la prepotenza o prendeva la
classica mazzetta lo convocava e gli chiedeva conto del suo
operato. E lo invitava a dimettersi. Spesso lo dimetteva lui
stesso e, tenuto conto delle usanze del tempo, quelle
dimissioni a volte non erano proprio incruente.
Infine Sindaco
Raggi, Roma è stata devastata da incendi, come a
Castelfusano. Alcuni dei piromani sono stati individuati ed
arrestati. Li attende una pena lieve, come insegna
l’esperienza. E assolutamente non dissuasiva. Perché
l’Amministrazione non si costituisce parte civile nei
processi penali chiedendo il risarcimento del danno? Si
sente dire che è inutile perché i danni sono milionari,
l’intervento degli uomini e dei mezzi per spegnere
l’incendio costa molto, e nessuno degli imputati potrebbe
risarcirli. Ma se fossero condannati a sborsare una somma
significativa sulla base di una sentenza assistita da un
sequestro, della casa, dell’automobile, del conto in banca,
certamente la sanzione sarebbe maggiore e maggiormente
dissuasiva rispetto all’evanescente e ipotetica condanna
penale, lieve e il più delle volte sospesa. E se ad
appiccare il fuoco è un minorenne deficiente (a sentire la
stampa e l’avvocato difensore) o un disturbato mentale il
sequestro si fa a carico dei genitori e di chi è
responsabile della tutela. Il questo modo chi ha un minore
deficiente o la responsabilità di un disturbato l’anno
prossimo lo terrà chiuso a casa, almeno per il periodo
estivo. E lo Stato e le Istituzioni recupereranno
credibilità agli occhi del cittadino.
16 agosto 2017
Grande Guerra,
quarta dell’indipendenza italiana
di
Michele D’Elia
Aspre sono le guerre. Aspra è la Prima Guerra Mondiale.
Questa nasce da un groviglio di interessi economici e
coloniali, di errori diplomatici e di egoismi politici, di
pesi e contrappesi nazionali ed internazionali e di guerre
locali. Concetti dei quali non aveva idea Gravilo Princip,
assassino per caso di Francesco Ferdinando e della sua
consorte Sofia Chotek il 28 giugno 1914, dopo il fallito
primo tentativo nella stessa mattinata. L’Attentatore
pensava che la morte dell’Arciduca, peraltro aperto alle
richieste degli slavi, avrebbe liberato la Serbia e gli
slavi meridionali dal dominio austriaco. Ne nacque, invece,
un infernale domino, con la seguente scansione temporale:
23 luglio, ultimatum dell’Austria alla Serbia; 28 luglio,
l’Austria dichiara guerra alla Serbia;
30 luglio, lo zar Nicola II, protettore degli slavi
meridionali, ordina la mobilitazione generale;
31 luglio, Guglielmo II intima alla Russia e alla Francia di
interrompere la mobilitazione entro12 ore; 1 agosto,
dichiara guerra alla Russia e il 2 invade il Lussemburgo; il
3 dichiara guerra alla Francia; nella notte tra il 3e il 4
invade il Belgio, il 7 i tedeschi entrano a Liegi.
Lo stesso 3 agosto, l’Italia dichiara la propria neutralità,
in forza dell’art. VII del Trattato della Triplice Alleanza.
4 agosto, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania; il 6
anche l’Austria dichiara guerra alla Russia; il 9 e il 13
rispettivamente Francia e Regno Unito dichiarano guerra
all’Impero austro-ungarico. Il 27, il Giappone interviene a
fianco dell’Intesa; il 5 ottobre, la Bulgaria dichiara la
propria alleanza con gli Imperi Centrali; il 31, la Turchia
si schiera con l’Austria e la Germania.
Secondo una tesi propria anche di personalità come il Premio
Nobel Thomas Mann, la Germania aggredisce per non essere
aggredita, come Federico II ai tempi della Grande
Coalizione.
L’esercito tedesco il 20 agosto occupa Bruxelles, il 3
settembre giunge Senlis a 35 Km da Parigi. Il Governo
francese si era già trasferito a Bordeaux.
Anche questa sconosciuta velocità delle armate tedesche
prelude e simboleggia le profonde trasformazioni
dell’assetto tecnico, geopolitico, sociale ed economico, e
soprattutto mentale, del vecchio continente e delle sue
colonie. Infatti, la Grande Guerra sarà anche un conflitto
coloniale; o, secondo Lenin, l’ultima frontiera del
capitalismo.
Per tutti i Paesi europei la dichiarazione di guerra è quasi
un automatismo; non così per l’Italia.
Il giovane Regno, vincolato agli Imperi Centrali
dall’Alleanza firmata nel 1882 e confermata nel 1902,
dovrebbe intervenire, ma non lo fa; motivo ufficiale: il
patto è difensivo e non offensivo.
Nei fatti le cose stanno diversamente: l’Italia è un Paese
di recente costruzione, ancora geograficamente incompleto,
perché privo di alcune sue vaste regioni, sintetizzate,
nella memoria collettiva, nei nomi di Trento e Trieste,
perle dell’Impero. Le popolazioni della Penisola non sono
amalgamate; milioni di cittadini, nonostante l’impegno della
Monarchia, non sanno nemmeno leggere e scrivere. Gli
italiani sono cattolici e rifiutano lo spargimento di
sangue, anche se tra i cattolici emergono frange
interventiste, che fanno capo a don Romolo Murri. La
diplomazia è delusa dall’altalenare del Governo Salandra.
Questa amarezza è manifesta in molta corrispondenza tra i
vari Ambasciatori; un esempio: l’ambasciatore a Vienna
Avarna il 5 ottobre 1914 rispondendo al collega di Berlino,
Bollati, che gli aveva scritto il 25 settembre, lamenta che
il Corpo Diplomatico “sia
tenuto interamente all’oscuro del vero pensiero del Governo”
e preannuncia l’intenzione di voler lasciare l’incarico “…
non volendo rendermi complice dell’atto
di slealtà che sta
maturando”, ovviamente verso l’Austria-Ungheria.
(Documenti Diplomatici Italiani)
Violente fibrillazioni scuotono il mondo politico: i
socialisti e le Sinistre in generale pensano prima ad uno
sciopero contro la guerra, poi si dividono in interventisti
democratici e tradizionali. Benito Mussolini cambierà
fulmineamente idea e campo: espulso dal P.S.I. fonda il
Popolo d’Italia il 14 novembre 1914 e lancia una specie di grido di
battaglia con l’articolo “Audacia!”.
Il mondo operaio si riunirà a Zimmerwald, presso Berna,
tra il 5 e l’8 settembre 1915; con un proprio Manifesto,
detto appunto di Zimmerwald, contesterà la scelta dei
socialisti europei di partecipare alla guerra ciascuno per
il proprio Paese, in nome del sacro egoismo nazionale; ma il
loro grido: “Proletari
di tutti i paesi unitevi!”, cadde nel vuoto.
I socialisti italiani, in tale consesso, sono rappresentati
da Lazzari, Serrati, nuovo direttore dell’Avanti!
e Modigliani. I Futuristi, primo fra tutti Marinetti, ma
anche Papini, Curzio Malaparte, le riviste
La Voce, Lacerba,
… i pittori Carrà, Carlo Erba, i matematici come Eugenio
Elia Levi, architetti come Antonia Sant’Elia, scrittori come
Serra, che cadranno in battaglia; gli irredenti Battisti ed
i fratelli Filzi, si schierarono per l’intervento. Quasi
superfluo ricordare Giuseppe Ungaretti e l’indigesto
D’Annunzio. Tanti altri ancora come Monelli, Papini, Omodeo,
Pertini, Lombardo Radice, Parri, Calamandrei, Pieri, Cecchi,
Rebora, Volpe, l’anziano Bissolati, Amendola … non tutti
futuristi e neanche nazionalisti, per dovere civico o libera
scelta, parteciparono al conflitto, con diverse funzioni .
Anche i repubblicani mazziniani sono per la guerra. Ogni
nome rappresenta una storia diversa, ma un ideale comune:
quello di Patria, pur diversamente declinato.
A fronte di queste minoranze più che vivaci, la classe
politica liberale, che fa capo a Giovanni Giolitti, tiene un
contegno molle ed incerto, segno di decadenza. Il Re tace.
La Camera, contraddicendo un suo precedente e recente atto,
il 20 maggio 1915 vota l’intervento contro
l’Austria-Ungheria con 407 sì e 74 no; ma solo il 28 agosto
1916 dichiareremo guerra all’Impero germanico, segno che il
secolare nemico è uno solo. Antonio Salandra, che si era
dimesso il 13, viene riconfermato Presidente del Consiglio
ed ottiene i pieni poteri. Il 22 maggio il Re firma il
decreto di mobilitazione generale, il 23 l’ambasciatore a
Vienna Avarna, consegna la dichiarazione di guerra al
ministro Burian. Il 26 il Re, dal quartier generale
Martignacco di Udine, lancia il suo primo Proclama ai
soldati. Vittorio Emanuele III lascerà il fronte solo per
risolvere le crisi di governo.
Il giovane Regno ha un’occasione ed una speranza:
accreditarsi tra le potenze continentali ed
intercontinentali anche e proprio perché fu presto chiaro,
forse non a tutti, che l’eurocentrismo stava scomparendo e
che il conflitto ne avrebbe accelerato la fine.
La guerra fu luogo di scontro e d’incontro, per l’Italia, di
uomini di regioni, civiltà, costumi e lingue diverse. I
nostri soldati analfabeti cominciarono ad imparare a leggere
e scrivere in una lingua sino ad allora sconosciuta:
l’italiano (De Mauro).
La guerra è una costante del genere umano: da Socrate a Karl
von Clausewitz i conflitti armati sono la continuazione
della politica, quando questa e la diplomazia non hanno più
niente da dire.
Guerra e pace sono intimamente connesse.
Solo dallo scontro cruento nascono nuove realtà
sociopolitiche, anche se a volte peggiori di quelle
soppiantate.
Aree di frizioni geopolitiche divennero, lentamente e poi
sempre più rapidamente, origine di frattura ideologica e
sociale. Ozioso è chiedersi se un conflitto sia giusto o
ingiusto, morale o immorale. Pungente ed equilibrata la tesi
di Benedetto Croce in
L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra ha
scritto: “… quando la
guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale
e immorale quanto un terremoto o altro assestamento
tellurico) i componenti dei vari gruppi non hanno altro
dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio
gruppo, alla difesa della Patria … Solo a questo modo
l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, giusto sia
anche l’avversario e, per questa via giusto sarà per un
tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la
guerra”.
Tra questa tesi e quella di von Clausewitz si dispiega una
serie quasi infinita di livelli e di interpretazioni
polemologiche. Sta di fatto che la Grande Guerra è il
displuvio tra il nuovo e l’antico, processo di
trasformazione al quale l’Italia non poteva sottrarsi.
I belligeranti respinsero con fastidio l’appello di
Benedetto XV, dell’1 agosto 1917, concordato con
l’imperatore Carlo, per porre fine all’inutile
strage, tanto si erano identificati nei propri interessi
e nelle proprie ragioni, e pure, proprio in agosto a Torino
era scoppiata la sanguinosa ‘rivolta del pane’.
Caporetto e Vittorio Veneto sono due metafore che
rappresentano l’Italia, sempre caricate di significati
estranei alla loro natura di fatti bellici. Mercoledì 24
ottobre 1917 alle ore 2 del mattino gli austro-tedeschi
investono, con i gas, gli avamposti della conca tra Plezzo a
Tolmino. Hanno in mente un’operazione di ordine tattico,
condotta su tre colonne che attaccano contemporaneamente
sulla destra e sulla sinistra dell’Isonzo. Il progetto
divenne via via strategico, quando il nemico si rese conto
che i nostri Comandi al più alto livello nelle prime ore non
riuscivano ad organizzare alcun contrasto in profondità,
poiché la loro filosofia era sempre stata solo di attacco e
non anche di difesa in profondità. La 14ª Armata
austro-tedesca, 15 divisioni, investì tre nostre divisioni
prive di riserve. In sintesi, il nemico avanzò lungo la
linea Isonzo-Tagliamento-Udine- Belluno- Piave nel vuoto,
per tutta la prima giornata. Il piano di contrasto fu
preparato da Cadorna tra il 28 e il 30 ottobre. I reparti in
linea, nel frattempo, si ritiravano combattendo. Pochi
esempi: il 24 stesso alle ore 14 nel comune di Idersko si
combatte casa per casa e solo alle 16 i battaglioni slesiani
occuperanno Caporetto.
il 25 ottobre: “…
ufficiali della brigata Napoli, 75° reggimento, che si
trovavano verso Monte Piatto videro al mattino del 25 i
battaglioni della brigata Firenze, che salivano a plotoni
affiancati l’erta ripida verso la cima del Podklabuk …
L’artiglieria nemica rivolse il tiro contro di essi. Si
videro i plotoni colpiti scomporsi, ricomporsi subito e
ritentare la salita; ed i fanti della brigata Firenze
salivano sempre più in alto, mentre vuoti continui si
osservavano nelle loro file”. Così Guido Sironi,
I vinti di Caporetto.
Il Diario del LI Corpo d’Armata tedesco conferma:
“Gli italiani difesero lo Jeza con straordinario valore”.
Il 27 ottobre il Bollettino austriaco afferma:
“ Gli italiani hanno difeso la Bainsizza a passo a passo”.
E ancora: “Le
intercettazioni telefoniche ci facevano conoscere le
maledizioni alla nostra artiglieria, il numero dei morti e
dei feriti, le proteste degli ufficiali perché fosse data
un’altra sistemazione alle loro truppe” (Generale Enrico
Caviglia in La
dodicesima battaglia – Caporetto pag 93).
La travolgente avanzata dopo le prime 24 ore andò
gradatamente rallentando sino a spegnersi del tutto sulle
rive del Piave il 9 novembre; tra il 10 e l’11 dicembre
1917, si spensero anche le ultime spallate di Conrad.
L’arretramento sulla linea del Piave era previsto sin dai
tempi di Odoacre, di Napoleone e del generale Cosenz.
Cadorna il 27 ottobre giunge a Treviso e predispone il
rischieramento dell’esercito sulla riva destra del Piave; il
30 il nuovo progetto è pronto. Sarà attuato da Diaz.
Purtroppo, alle ore 13 del 28 il Generalissimo aveva emanato
l’infelice Bollettino n.° 887, che accusava di viltà la II
Armata. Cadorna avrebbe spiegato la sua accusa nel volume
Pagine polemiche
Garzanti 1951. (D. D. I.) Un po’ tardi!
Sul fronte politico il Re, tornato a Roma il 26, risolve la
crisi di governo sostituendo Boselli con Orlando e
nominando, poi, il generale Diaz al posto di Cadorna. Il 5 e
il 6 novembre si svolse a Rapallo la riunione preparatoria
del convegno dell’8 a Peschiera. Qui Vittorio Emanuele III
sostenne le ragioni del soldato italiano e la sua capacità
di resistenza. Non sbagliò. Il Piave, quindi, fu un disegno
netto e meditato, che riduceva la linea del fronte da 650 a
300 km, e ci consentiva un rafforzamento fondamentale
nell’immediato e nella prospettiva.
L’altra metafora è Vittorio Veneto. Per taluni è modesta
battaglia enfatizzata dalla propaganda governativa. Falso.
Le tre battaglie del Piave, che a Vittorio Veneto si
conclusero il 31 ottobre, ci costarono 36.000 perdite, delle
quali 7.000 morti accertati. Vero è, invece, che
l’implosione dell’Impero asburgico non aveva intaccato la
capacità di resistenza e offesa dell’esercito, fedele
all’Imperatore.
Non possiamo descrivere l’andamento degli scontri sul Piave
e sul Grappa, dove già il 24 eravamo partiti all’attacco e
dove i combattimenti saranno più sanguinosi che sulle rive
del Piave e sugli Altipiani, ma la montagna non ebbe un
Cantore; diremo soltanto che il nemico organizzò la propria
manovra su tre momenti: a. superare il Piave; b. prendere
Venezia; c. dilagare nella Pianura Padana.
La massima penetrazione del nemico si ferma sull’ansa tra
Zenson e la Grave di Papadopoli. Lo storico londinese Erbert
A. L. Fisher nella sua
Storia d’Europa, a pag 401, aveva scritto:
“Che, dopo simile disfacimento del morale militare,[Caporetto ndr]
il fronte italiano fosse solidamente ricostruito, dimostra
la grande abilità di Cadorna e l’enorme forza di reazione
italiana. Il Piave fu tenuto e fu salvata Venezia. Ma al
sopraggiungere dell’inverno era ancora incerto se l’esercito
italiano, benché sotto il nuovo comandante Diaz e rafforzato
da divisioni francesi e inglesi, sarebbe stato in grado di
respingere vittoriosamente il nuovo attacco”. Purtroppo
l’illustre storico dimentica che prima della battaglia di
Caporetto gli Alleati avevano ritirato dal fronte alpino ben
99 medi calibri ed avevano sospeso l’invio, già iniziato, di
altri 102 bocche di fuoco, il 19 settembre 1917, non
credendo all’imminente attacco degli Imperiali. Non solo, ma
le divisioni promesse non saranno 11 e le poche arrivate si
attesteranno oltre il Mincio. Gli Stati Uniti entrati un
guerra il 6 aprile del 1917, ci manderanno un solo
reggimento. Astuti!
Epitome della guerra italiana è il passaggio del Piave. Sera
del 26 ottobre 1918: “Appena
fu notte, cominciarono le operazioni sulla fronte delle
armate schierate lungo il fiume, fra Pederobba e Le Grave.
La 12ª e l’8ª armata potevano agire per sorpresa; la 10ª,
avendo già sfruttato la sorpresa, doveva passare di viva
forza. Verso le ore 21 le truppe erano raccolte ai posti
prestabiliti; ed i pontieri erano pronti. Cominciò subito il
traghetto con le barche. Gli Austriaci tacevano, ed il
rumore delle barche sul terreno e dei carri era soffocato da
quello della turbinosa piena del fiume. Essa ci rendeva un
buon servizio, pur essendo in quel momento la nostra
principale avversaria. La 12ª armata, dopo vari tentativi di
gittamento del ponte, era riuscita a far passare al di là il
107° fanteria francese, i battaglioni alpini Bassano e
Verona, nonché due compagnie mitragliatrici e due compagnie
della brigata Messina (XII corpo d’armata – Di Giorgio). Ma
tutti i lavori per gittare un ponte e tre passerelle furono
distrutti dalla piena e dalla reazione nemica. Al mattino
del 27 le truppe passate erano isolate al di là del fiume”.
Le tre
battaglie del Piave (pagg. 174-175) Così il Generale Enrico Caviglia, comandante l’VIII Armata, che
condusse la manovra.
Da questo momento le truppe italiane proseguiranno in
profondità riprendendo uno per uno tutti i centri occupati
dal nemico. Il 3 novembre alle 15,15, i nostri primi reparti
entrano a Trento. Alle 16,30 dal caccia “Audace”, i
bersaglieri sbarcano a Trieste. Sempre il 3 novembre, alle
18,20, i generali Badoglio e Webenau, a Villa Giusti,
firmano l’armistizio. Questo atto stroncò la nostra avanzata
verso Vienna. Nessuno, amici ed alleati, voleva che l’Italia
andasse oltre.
Tuttavia, l’esperienza bellica modifica le coscienze e
testimonia l’esaltazione della storia di un popolo, ignaro,
sino a quel momento, di quanto sapesse fare e sconosciuto a
se stesso. I nostri giovani chiusero un’epoca e ne
iniziarono un’altra. Diedero prova di virtù civiche prima
ancora che militari. Si identificarono nello Stato
Nazionale. Cianciare di
“generazione perduta”
significa negare noi stessi.
14 agosto 2017
Napolitano ha spadroneggiato
Grazie a un Parlamento complice
Re Giorgio ha
benedetto la legislatura bocciata dalla Consulta.
In cambio, ha
regnato lui
Di
Salvatore Sfrecola
Monta la polemica sull’operato del
Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
in occasione dell’intervento militare in Libia nel 2011. Né
si placherà presto, perché la critica nei confronti di
questo Presidente ha accompagnato l’intero suo settennato
nel quale egli, a giudizio di molti, si è atteggiato non da
arbitro, come vuole la Costituzione, ma da giocatore in una
delle squadre in campo, tanto che sulla stampa ricorre
l’espressione “Re Giorgio”, proprio a sottolineare il suo
protagonismo, in versione presidenzialista. Che ha raggiunto
il suo acme in occasione della proposta di riforma
costituzionale che egli si è intestato ed ha posto come
obiettivo dell’agenda del Governo. Lo ha ripetutamente
affermato, durante la campagna referendaria, l’allora
Ministro per le riforme
Maria Elena Boschi,
insieme al Presidente del Consiglio
Matteo Renzi, un altro che non ha saputo stare al suo
posto, perché la riforma costituzionale è del Parlamento e
non del Governo.
Tornando a Giorgio
Napolitano, il suo impegno per le riforme del Governo
Renzi è stato rilevante e continuo, fino all’ultimo giorno
del suo secondo mandato terminato il 14 gennaio 2015, tanto
da rivendicarne apertamente la paternità, con interventi,
ripetuti e pressanti, non consueti ad un Capo dello Stato in
una Repubblica parlamentare. Ed ha continuato, da Presidente
emerito, a difendere la riforma durante la lunga campagna
referendaria, come quando ha affermato che, se avesse
prevalso il NO, avrebbe considerato il risultato una sua
personale sconfitta, un disconoscimento della sua iniziativa
(“col referendum, a rischio la mia eredità”
Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2016), aggiungendo che in
tal caso “per le riforme è finita: l’Italia apparirà come
una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento
e mettersi al passo con i tempi”(Corriere
della Sera, 3 maggio 2016).
È così che la lettura “presidenzialista” che
Napolitano ha
impresso alla sua presidenza è stata al centro del dibattito
politico e dell’attenzione dei costituzionalisti la maggior
parte dei quali ha ritenuto che il Presidente fosse fuori
della Costituzione. Un comportamento entrato nel mirino di
Gustavo Zagrebelsky,
ordinario di diritto costituzionale a Torino e Presidente
emerito della Corte costituzionale, che, nell’accusare il
Governo di
“arroganza”, ha ripetutamente sottolineato come “queste
riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di
chi, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per
diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente
della Repubblica; sono state recepite nel programma di
governo e tradotte in disegni di legge imposti
all’approvazione del Parlamento con ogni genere di
pressione” (Loro
diranno, noi diciamo, Laterza, Bari, 2016).
Se facciamo un passo indietro la
responsabilità di
Giorgio Napolitano è ancora maggiore, con riguardo alla
legittimità del Parlamento
eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale
dalla Consulta con la sentenza n. 1 del 2014 la quale ha
anche delimitato i poteri delle Camere, consentendo loro,
per un principio di continuità delle istituzioni, di restare
in carica per attività di ordinaria amministrazione. Come si
deduce dal riferimento, che si legge nella sentenza, a due
disposizioni della Costituzione, l’art. 61, il quale prevede
che “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati
i poteri delle precedenti” e l’art. 77, comma 2, sulla base
del quale le Camere, “anche se sciolte” si riuniscono per
esaminare decreti legge che devono essere convertiti entro
sessanta giorni, pena la decadenza. Due riferimenti che
delimitano fortemente l’ambito di operatività delle Camere.
Chi avrebbe dovuto presidiare
il rispetto della sentenza se non Giorgio Napolitano,
Presidente della Repubblica e pertanto garante della
legalità costituzionale? Invece il Capo dello Stato non si è
preoccupato di tenere sotto controllo il rispetto della
sentenza ed anzi ha consentito al governo, non solamente di
farsi promotore di una serie di disegni di legge approvati a
colpi di maggioranza, ma addirittura di promuovere la
riforma della Costituzione, la legge fondamentale dello
Stato. Insomma un Parlamento eletto sulla base di una legge
incostituzionale che modifica la Costituzione. Ne
scriveranno per anni nei libri di storia costituzionale.
Un Presidente sopra le righe,
dunque, le cui iniziative gli italiani hanno dimostrato di
non gradire respingendo con un voto senza appello, il 4
dicembre 2016, la riforma costituzionale che Matteo Renzi
aveva proposto anche su sua indicazione. Quella riforma,
quel testo – lo si legge nelle conclusione del documento dei
fautori del SI – che “non è, né potrebbe essere, privo di
difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente
sbagliate”. Ed io mi sono sempre chiesto se sia possibile
proporre una riforma radicale della Costituzione, la legge
delle leggi, nella consapevolezza che il testo “non è privo
di difetti”.
La Verità, 6 agosto 2017, pagina 11
Nello sport l'immagine
dell’unità d’Italia
di Domenico Giglio
Già in occasione
delle recenti Olimpiadi di Rio, del 2016, avevo scritto
compiacendomi per il risultato raggiunto, come numero di
medaglie, dalla rappresentativa italiana, confermando un
andamento positivo che può farsi risalire al record di 30
medaglie, ottenuto alle Olimpiadi del 1932 tenute a Los
Angeles (che dopo il bis del 1984 farà il tris nel 2028!),
ed avevo sottolineato che questo risultato era uno dei
frutti della unità nazionale, in quanto il medagliere aveva
premiato atleti di tutte le regioni italiane.
Adesso, luglio
2017, i campionati mondiali di nuoto e di scherma hanno
confermato l’Italia nei primi posti di queste specialità per
cui non posso che confermare il precedente giudizio
altamente positivo, che riguardava inoltre la presenza di
numerose donne campioni. E questo apprezzamento delle nostre
atlete si rinnova per questi campionati mondiali e quale
maggiore soddisfazione vedere le vittorie nella scherma
della squadra femminile, sport dove l’Italia aveva sempre
primeggiato, a livello maschile, con schermitori di livello
mondiali che sono entrati nella leggenda dai Nedo Nadi ai
Mangiarotti.
Fortunatamente da
anni le ipotesi secessioniste che erano state avanzate qui
in Italia, per il Nord, sono rientrate, ma ancora oggi vi
sono invece scrittori che scavano fossati ed incitano a
sentimenti quasi di rivolta, questa volta nel Sud, ed ai
quali invio queste considerazioni sportive, pensando cosa
sarebbe stato il medagliere di un’Italia divisa, in più
stati e staterelli, quale era prima del 17 marzo 1861.
1° agosto 2017
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