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Il
giornale
degli
italiani liberi
“Non
è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi”
(Leo Longanesi, 1956)
“I
ladri di beni privati
passano la vita in carcere
e
in catene, quelli di beni pubblici
nelle ricchezze e negli onori”
(Marco
Porcio Catone)
A quasi 13 anni dal suo esordio, Un Sogno Italiano
cambia “abito”,
per offrire ai lettori, attraverso una nuova impostazione
grafica, pagine più leggibili, accompagnate, ove necessario,
da illustrazioni che valorizzino l’informazione e i
commenti. Ancora, “per non
arrenderci al pessimismo”, come scrivevo il 4 dicembre 2007
nel presentare il giornale.
Nuovo indirizzo http:/www.unsognoitaliano.eu
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia civile
Le Sezioni unite hanno escluso l’ammissibilità del ricorso
per eccesso o straripamento della giurisdizione (nella
specie, per invasione del potere legislativo) in tutte
quelle ipotesi in cui le censure mosse alla decisione del
Consiglio di Stato riguardino l’interpretazione del
giudicato, gli errori nei quali il giudice dell’ottemperanza
è incorso nel definirne il perimetro, trattandosi di censure
strettamente inerenti i limiti interni e non esterni della
giurisdizione.
Nel caso concreto, la contestazione mossa alla
sentenza impugnata ha ad oggetto la portata precettiva della
decisione della quale si è richiesta l’ottemperanza. Ne
consegue che oggetto di censura non è la possibilità di far
ricorso al giudizio di ottemperanza, ma il modo con il quale
il potere giurisdizionale è stato esercitato dal giudice
amministrativo, ferma la sua indiscussa potestas
iudicandi in tema di verifica della portata e
dell’ampiezza del giudicato ed in relazione
all’interpretazione del giudicato stesso.
La censura ha riguardato esclusivamente
l’interpretazione del giudicato, già oggetto della
valutazione conforme del giudice dell’ottemperanza di primo
grado, con conseguente radicale insussistenza dell’invasione
del potere legislativo (Cass., Sez. un. civ., ordinanza 19
marzo 2020, n. 7453).
In ricordo del Prof. Giuseppe Guarino
Il 17 aprile è deceduto il Prof. Giuseppe Guarino, Maestro
di diritto, costituzionalista insigne, Emerito
nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.
Ricordiamolo con devozione sincera e profondo cordoglio.
Emergenza e libertà personali
“Pochi sembrano rendersi conto dei
pericoli che derivano da questa china autoritaria occultata
dalle necessità urgenti del pericolo sanitario. Purtroppo la
storia insegna che la violazione della legalità
costituzionale, anche quando giustificata da pressanti
esigenze straordinarie ed urgenti, può avere esiti non
previsti e non prevedibili, magari perché nel frattempo
giunge a mettere le cose
a posto il solito Uomo della
Provvidenza che assume il potere e, di emergenza in
emergenza, tra le tante che è possibile immaginare in un
Paese che la politica ha reso straordinariamente fragile,
limita la democrazia che, ricordiamolo, da sempre, a parole
interessa tutti, ma preme solamente alle persone alle quali
gli ideali della libertà stanno particolarmente a cuore, per
cultura e tradizione identitaria” (Salvatore Sfrecola, “Emergenza
e libertà personali: spesso una difficile convivenza”,
in questa Riv., 17
aprile 2020).
Verso un nuovo 8 settembre?
“Una classe
politica, di fronte a una situazione che si riassume in due
semplici cifre, oltre ventimila morti e oltre quattro
milioni e mezzo di richieste di cassa integrazione, rinuncia
in partenza ad autocelebrazioni e polemiche. Non è questa la
strada scelta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e
dal suo staff di collaboratori… La moltiplicazione dei
comitati, le divisioni della maggioranza, l’ossessione
comunicativa del premier sono i volti di questo irreale
stato di eccezione in cui manca il sovrano che decide.
Mentre il Paese si avvia verso l’8 settembre economico e
sociale… Il 25 aprile 2020 non sarà una giornata di
impossibili manifestazioni, ma di una comunità che regge con
pazienza in condizioni potenzialmente disperate,
nell’isolamento e spesso nella solitudine… Non c’è retorica,
non ci sono inni nazionali da cantare affacciati dai
balconi, c’è il silenzio, c’è la pietà, c’è l’impegno a
ricostruire insieme un tessuto civile che rischia di essere
spezzato dalle conseguenze del dopovirus… Il domani che
aspettiamo oggi è una nebulosa acre, amara” (Marco Damilano,
“La Liberazione”,
L’Espresso, n. 17/2020, 8 ss.).
La sovranità impopolare
“Lo stato italiano, ormai, è
soltanto un’ombra, un compromesso fra il partito di
maggioranza e il Parlamento, e trae la sua autorità da una
vecchia tradizione burocratica: esso agisce per indolenza, e
resta unito in virtù di strane alleanze fra la grossa
borghesia e i suoi clienti, fra risparmiatori e dissipatori,
poggiando su un ceto medio deluso, ma ancora patriottico, e
sulla paura del peggio”
(Leo Longanesi, “Il destino ha cambiato cavallo”, Milano, 1951, in “Il
meglio di Longanesi”, Milano, 1958, 353 ss.).
Da Calamandrei
“Per capire come il processo veramente funzioni, non
basta neanche assistere alle udienze, o legger le sentenze,
o studiare le statistiche giudiziarie: i riti essenziali
della giustizia sono quelli che si celebrano senza
spettatori nelle camere di consiglio ove si decidono le
sorti delle cause, o nei consigli giudiziari ove si decidono
le sorti dei magistrati.
Da questi misteri orfici, non dalle formalità
esteriori, dipende il buon funzionamento della giustizia.
Anche nella procedura, come nella liturgia, esistono
cerimonie esoteriche, alle quali possono partecipare solo
gli iniziati: noi profani, che studiamo la procedura sui
codici, ne siamo all’oscuro” (Piero Calamandrei, “Elogio
dei giudici scritto da un avvocato”, rist. 2^
ed., Milano, 2001, 19 s.).
La burocrazia
La
burocrazia: il virus più pernicioso da combattere.
Lo Stato che abdica
La visione
di alcune riprese televisive effettuate in zone disastrate
dalle più recenti scosse sismiche, induce a ritenere che lo
Stato abbia ormai abdicato alle sue funzioni istituzionali,
incurante della propria dignità e della voglia di esistere.
“Ripartire”
Si parla insistentemente della necessità di “ripartire”.
Come, quando, quali obiettivi, quali risorse economiche?
Un amico dell’area partenopea avrebbe così commentato: “La
bocca è nu’ bello strumento!”.
Ai giovani (e ai non giovani)
“Studiate invece di perdere tempo su
Internet”
(Vittorio Sgarbi, “Diario della capra 2019/20”,
Milano, 2019).
28 aprile 2020
L’assurdo divieto di rifugiarsi nelle
seconde case
di
Salvatore Sfrecola
Contravvenendo a
quanto si diceva alla vigilia dell’emanazione del decreto
del Presidente del Consiglio del 26 aprile, gli italiani non
potranno recarsi nelle seconde case, al mare, in campagna,
ai monti. Il testo, fortemente equivoco del decreto, è stato
interpretato in questo senso “autenticamente” dal Ministro
delle infrastrutture Paola De Micheli, anche se non sappiamo
a quale titolo, considerato, se non altro, il ruolo
istituzionale ricoperto.
Parliamo della
seconda casa, dove è possibile una condizione di vita spesso
più agevole, in rapporto alla natura, dopo la lunga
permanenza nell’abitazione cittadina, accettata dagli
italiani nella consapevolezza che fosse misura necessaria
per contrastare il pericolo di contagio da COVID-19.
Cambiare aria, anche a tutela delle condizioni psicologiche
che sappiamo incrinate dalla costrizione cittadina. A
leggere l’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto, è
evidente la contraddittorietà della norma che consente solo
“gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative
o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”. Sono
considerati “necessari”, spiega la norma, “gli spostamenti
per incontrare congiunti”, con tutte le cautele del caso,
evitando “assembramenti” e garantendo il “distanziamento
interpersonale”.
Con queste
limitazioni non si comprende la logica del divieto di
trascorrere un periodo, nelle stesse condizioni di cautela
adottate in città, al mare o ai monti, che appare possibile
solo se in quelle località ho dei congiunti, perché questa è
l’interpretazione logica (cioè i congiunti non li posso
portare al seguito). Per la verità, fin dall’inizio, questa
limitazione è parsa illogica, considerato che l’abitazione a
disposizione della famiglia, di proprietà o in affitto, in
una località gradita, specialmente se dotata di spazi
superiori o più ariosi rispetto a quelli di cui si può
godere in città, avrebbe costituito una modalità di
distanziamento coerente con la prevenzione del contagio, con
l’effetto positivo di limitare fortemente un disagio fonte,
come si è fatto cenno, di conseguenze negative sul piano
psicologico.
Normativa
confusa, dunque, ed equivoca, come ci ha abituato il
Presidente Conte con l’emanazione alluvionale di
disposizioni legislative e amministrative alle quali si
uniscono ordinanze di Protezione civile, decreti del
Ministro della salute e, naturalmente, provvedimenti dei
Presidenti delle Regioni. Confusa ed equivoca per quanto già
detto con riferimento al raggiungimento dei “congiunti” e
per il fatto il divieto di recarsi nelle seconde case
probabilmente deriva dal fatto che si è ritenuto che questa
modalità di permanenza fuori città fosse in contrasto con il
divieto di mobilità e favorisse l’assembramento, cioè la
riunione con persone evidentemente non della famiglia. Se
questa è stata la preoccupazione è, senza mezzi termini, una
colossale sciocchezza. In primo luogo, perché il divieto di
mobilità non doveva essere riferito al trasferimento in
un’altra località, mentre l’ipotesi che la seconda casa
fosse occasione di assembramenti è frutto di un processo
alle intenzioni. Infatti, sarebbe stato agevole verificare
sul posto l’eventuale assembramento.
Molto
probabilmente, invece, il divieto è conseguenza di scelte
politiche guidate da convinzioni ideologiche, come quella
che la seconda casa è espressione di ricchezza, dimenticando
che le seconde case al mare, ai monti, in campagna sono
spesso le casette dei nonni e dei padri, conservate per un
fatto affettivo, anche quando la loro manutenzione è costosa
e la proprietà è pesantemente tassata da sindaci sempre alla
ricerca di entrate, incuranti dell’apporto che i proprietari
delle seconde case recano all’economia del Paese.
28 aprile 2020
Le chiese riapriranno dal 4 maggio ma non
si potrà dir messa. E i Vescovi protestano
di
Salvatore Sfrecola
Funerali sì, ma con certe limitazioni. Solo alla presenza di
parenti stretti (“congiunti”) e fino ad un massimo di
quindici persone, da tenersi “preferibilmente all’aperto”.
Così l’art. 1, lettera i) del decreto del Presidente del
Consiglio 26 aprile 2020. Ma niente “cerimonie religiose”,
niente messe, dunque. E per questo protesta la Conferenza
Episcopale Italiana (C.E.I.). “I Vescovi italiani – si legge
in un comunicato – non possono accettare di vedere
compromesso l’esercizio della libertà di culto”. Un diritto
fondamentale, garantito per tutti dalla Costituzione
all’art. 19. Merita di essere ricordata in proposito una
recente pronuncia della Corte Costituzionale della
Repubblica Federale Tedesca per la quale
il
divieto di riunione nei luoghi di culto costituisce una
“grave limitazione dell’esercizio della ‘libertà religiosa’”.
È un evidente svarione dell’’“avvocato del popolo”, considerato
che “l’apertura dei luoghi di culto è condizionato
all’adozione di misure organizzative tali da evitare
assembramenti di persone”. Che senso ha, dunque, vietare
“cerimonie religiose”? Sembra, infatti, che il Governo sia
disponibile a tornare sui suoi passi. Anche perché sono
ancora vivi alcuni episodi di cronaca degli ultimi giorni,
con interventi delle Forze dell’Ordine e delle Polizie
locali che hanno destato sconcerto vivissimo anche nei non
credenti. Come nel caso del tentativo di interruzione della
celebrazione eucaristica in una chiesa della Diocesi di
Cremona con multe comminate ai presenti. Comportamenti
difficilmente giustificabili anche alla luce della prima
normativa emergenziale che avrebbe dovuto prevedere cautele
ma mai la chiusura dei luoghi di culto, rimasti aperti
durante le pestilenze e le guerre, anche sotto i
bombardamenti. Ha consorso in questa confusione delle regole
anche l’iniziale incerta difesa delle autorità religiose che
avrebbero dovuto pretendere che fosse consentito alle chiese
di rimanere aperte ed ai sacerdoti di celebrare le messe con
la partecipazione di chi, sulla base della normativa
generale, avrebbe potuto essere presente, naturalmente nel
rispetto del distanziamento sociale e con l’uso di
Dispositivi di Protezione Individuale e di strumenti idonei
a contenere efficacemente il rischio di contagio.
Considerato che, come ha ricordato nei giorni scorsi Papa
Francesco, la Chiesa vive nella comunità, con il concorso
delle persone che rendono effettiva la vita spirituale.
Ed ecco che un’associazione di laici, “Lettera 150”,
dal numero
iniziale di coloro che, professori universitari e
professionisti che vi hanno aderito, con il suo
Comitato Valori e
Identità Religiose,
formula un appello per la libertà di culto. Lo fa
richiamando un illustre liberale, Alexis de
Tocqueville, per il quale la libertà di culto è “la prima,
la più santa, la più sacra di tutte le libertà umane”.
C’è stata molta confusione sotto il cielo del diritto
“emergenziale”, dimenticando che certe regole, meglio certi
principi sono espressione della civiltà giuridica di un
popolo. Parliamo di cerimonie del culto cattolico, ma la
compressione della libertà religiosa interessa tutti i culti
perché – aggiunge l’Appello – “la situazione di “lockdown”
della libertà di culto si ripercuote anche sulle altre
confessioni religiose presenti in Italia, che si trovano
costrette ad una compressione notevole della loro esperienza
di fede”. E ricorda che
la strada maestra è quella della
attivazione dei canali previsti dagli Accordi con le
Confessioni religiose, nonché con l’intervento dell’apposita
Commissione governativa sulla libertà religiosa, che
consentirebbe di
concordare con tutte le religioni modalità utili per
l’effettuazione dei riti collettivi, sull’esempio di quanto
avviene in altri paesi, dalla Polonia alla Sassonia, per
rendere compatibili le concrete modalità di esercizio della
libertà di culto con la sicurezza e la salute dei fedeli,
senza rischi per la salute pubblica.
Ugualmente, ricorda l’Appello, dovrebbe essere consentito “ai
sacerdoti che lo desiderino” (sottraendoli all’obbligo di
autocertificazione) di “recarsi presso le abitazioni dei
malati con appositi presidi e dispositivi per somministrare,
laddove richiesto e laddove possibile, i sacramenti”. È
civiltà, è rispetto delle persone.
27 aprile 2020
25 aprile 1945: considerazioni impolitiche
di Domenico Giglio
Il 25 aprile fu la data della insurrezioni di tutte le forze
patriottiche e partigiane deciso dal CLNAI e dal comando
militare dello stesso, avendo le forze alleate, delle quali
facevano parte anche i Gruppo di Combattimento del Regio
Esercito, sferrato l’offensiva definitiva contro le linee
germaniche, sfondandole ed avanzando su tutto il fronte, dal
Tirreno all’Adriatico, raggiungendo Bologna e puntando verso
la pianura lombardo-veneta. In realtà le operazioni belliche
terminarono alle ore 14 del 2 maggio, dopo la resa delle
truppe tedesche, firmata il 29 aprile nelle Reggia di
Caserta.
La data quindi non celebra la fine delle ostilità, come il 4
novembre 1918 (che andrebbe essere reinserita come Festa
Nazionale), ma, diciamo, lo slancio finale, che avrebbe
portato alla completa liberazione del territorio italiano,
anche se Trieste e l’Istria videro l’arrivo, non certo
liberatorio dei comunisti jugoslavi, prima che vi
giungessero gli anglo-americani a ristabilire, parzialmente,
la situazione.
Nelle celebrazioni susseguitesi dal 1949, dopo quella iniziale
del 25 aprile del 1946, si sono ripetute e si ripetano
ancora alcune affermazioni retoriche, per dare lustro alla
data, quale ad esempio quella di aver ristabilto la
democrazia e di aver dato i natali alla repubblica,
affermazioni entrambe false. La prima del ristabilimento
delle istituzioni parlamentari con le relative elezioni
politiche, risale, non dimentichiamolo, ad un Decreto del
Governo Badoglio (R.D.L. del 2 agosto 1943, n.175), dove si
stabiliva procedere alla elezione della Camera dei Deputati,
quattro mesi dopo la fine della guerra, decreto che fu
sostituito con altro D.L.L. del 25 giugno 1944, n.141, dove
era precisato che, sempre dopo la liberazione del territorio
nazionale, si sarebbe proceduto alla elezione non più della
Camera dei Deputati, ma di una Assemblea Costituente. Quindi
nulla mutava od aggiungeva a queste decisioni la
sollevazione del 25 aprile. Il ristabilimento della
democrazia era già scritto e deciso, e nell’Italia Centro
Meridionale, dal giugno 1944 (liberazione di Roma ), la vita
politica ed i partiti avevano ripreso la loro attività, si
pubblicavano giornali, si tenevano comizi.
La seconda affermazione, relativa alla repubblica, oltre che
falsa era ed è anche offensiva per tutti coloro che
parteciparono direttamente od indirettamente alla guerra di
liberazione per fedeltà al giuramento prestato per il “bene
indissolubile del Re e della Patria”. E questi furono
centinaia di migliaia, a cominciare dal ricostituito Regio
Esercito, dalla Regia Marina ed Aeronautica, dai Reali
Carabinieri, dalle formazioni patriottiche (non partigiane),
sorte subito dopo l’8 settembre 1943, di cui solo a titolo
indicativo e non esaustivo ricordiamo le fiamme verdi di
Martini Mauri e la “Franchi” di Edgardo Sogno, ed i loro
caduti, tra i quali furono generali, ammiragli ed altri alti
ufficiali, quando non risultano invece esservi nessun
esponente dei partiti politici del CLN, nascosti o protetti
in chiese e monasteri. Per precisione e correttezza ne
ricordiamo l’unico caduto, Bruno Buozzi, sindacalista e già
deputato socialista, fucilato dai tedeschi, il 4 giugno
1944, in località “la Storta”, sulla Via Cassia, quando
stavano fuggendo da Roma, ma insieme con lui, ribadiamo,
furono fucilati il generale Dodi, ed altri ufficiali. Con
l’occasione credo sia opportuno ricordare che Bruno Buozzi,
aveva accettato di collaborare con il Governo Badoglio, dopo
il 25 luglio, ricevendo l’incarico commissariale degli ex
sindacati fascisti.
Abbiamo detto partecipare anche “indirettamente” alla guerra di
liberazione, e mi riferisco alle centinaia di migliaia di
soldati, oltre 600.000, presi prigionieri dai tedeschi, dopo
l’8 settembre, e rinchiusi, in condizioni disumane, nei
campi di concentramento, veri lager, E quando agli stessi fu
proposto da emissari della repubblica sociale di aderire
alla stessa e tornare così in Italia, oltre il 90% rifiutò
l’offerta per quel famoso giuramento, di cui oggi si parla,
a denti stretti, dimenticando sempre e volutamente a chi
fosse prestato.
Sempre in merito all’offesa recata ai monarchici che avevano
partecipato alla vera Resistenza ricordiamo che nel
referendum istituzionale del 2 giugno 1946, le provincie di
Cuneo, Asti e Bergamo dove vi erano stati importanti nuclei
di patrioti, dettero la maggioranza alla Monarchia, come la
dette Alba, vilmente chiamata “repubblica di Alba”, le cui
vicende furono descritte dal “badogliano” Beppe Fenoglio, in
un grande romanzo storico che nessuna importante casa
editrice ha più ripubblicato, per quella “congiura del
silenzio”, su quanto di positivo abbiano fatto i monarchici
e Casa Savoia.
Sessanta, ma non li dimostra !
di Domenico Giglio
Spero che la proposta di prolungare la quarantena del coronavirus
agli ultrasettantenni, modificata in peggio agli
ultrasessantenni, che sta provocando reazioni indignate di
eminenti personalità e di più modeste persone unite nella
condanna ad una decisione antidemocratica ed
anticostituzionale produca l’effetto di fare ringoiare la
proposta stessa a chi aveva lanciato l’idea. Ma dal momento
che il problema degli anziani è stato posto o proposto
facciamo alcune considerazioni pacate e ragioniamo sulle
cifre.
La notizia della prevalenza tra i colpiti e soprattutto tra i
defunti delle persone anziane è stata divulgata quasi
contemporaneamente alle notizie sulla situazione precaria,
dal punto di vista sanitario, delle RSA, cioè delle
residenze dei veri anziani, cioè di una esigua percentuale
degli stessi, rispetto alla totalità delle persone, che,
effettivamente più che numerose in Italia, hanno superato
questo traguardo dell’età. Se responsabilità dei gestori
delle RSA e di chi doveva sorvegliare saranno accertate
avremo una prova che il virus ha trovato in queste persone
già debilitate, una strada facile, che invece non trova in
chi, oltre e ben oltre, quella età, continua a svolgere
attività lavorative o segue una vita familiare normale con
quelle precauzioni usate, già prima del virus, per
educazione e cultura. Le esperienze passate, per alcuni
anche la “asiatica” degli anni ’50 del secolo scorso
costituivano una difesa, che invece le giovani generazioni
non hanno, oltre al tipo di vita attiva, ma più contenuta ed
equilibrate praticata da parte di queste persone “anziane”.
Tutto questo è stato evidentemente non considerato o
sottovalutato dagli inventori del prolungamento
sine die della quarantena e dispiace leggere frasi dei promotori di
questa ipotesi di provvedimento, che lo stesso è stato
pensato proprio nell’interesse (sic) degli anziani, incapaci
di regolarsi da soli. Ora di queste preoccupazioni vorremmo
delle prove dal momento che in tanti altri provvedimenti,
dal fisco, ai trasporti, alla cultura ( vedi mostre e
musei), ai rapporti con le pubbliche amministrazioni (ad
esempio perché l’INPS non manda più il CUD a casa?) non vedo
agevolazioni per gli anziani, se non aggravi (ad esempio in
caso di lavori di ripristino nelle abitazioni, il recupero
fiscale per gli ottantenni previsto in cinque anni e non in
dieci, fu abolito, alla chetichella, per cui oggi anche i
vecchietti debbono sperare di campare dieci anni, mentre il
fisco spera nella loro premorienza!). E per oggi credo sia
sufficiente.
24 aprile 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La pubblica amministrazione ha il
potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e
ai documenti pubblici, formulata in modo generico o
cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una
specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina
dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato
non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento
alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa
dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai
profili della legge n. 241 del 1990, senza che il giudice
amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa
mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria
istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica
amministrazione all’esito del procedimento.
È ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai
sensi dell’art. 22 legge n. 241 del 1990, e una conseguente
legittimazione ad avere accesso agli atti della fase
esecutiva di un contratto pubblico da parte di un
concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero
condurre alla risoluzione per inadempimento
dell’aggiudicatario e, quindi, allo scorrimento della
graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale
istanza non si traduca in una generica volontà da parte del
terzo istante di verificare il corretto svolgimento del
rapporto contrattuale.
La disciplina dell’accesso civico generalizzato,
fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53
d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle
procedure di gara e, in particolare, agli atti della fase
dell’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in
senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis
d.lgs. n. 33 del 2013, in combinato disposto con l’art. 53 e
con le previsioni della legge n. 241 del 1990, che non
esenta in toto la materia dall’accesso civico
generalizzato, ma resta ferma la verifica della
compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui
all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli
interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale
disposizione, nel bilanciamento tra il valore della
trasparenza e quello della riservatezza (Cons. Stato, Ad.
plen., 2 aprile 2020, n. 10, con commento di Licia Grassucci,
“È ammesso l’accesso civico generalizzato agli atti della fase
esecutiva di un contratto pubblico da parte di un
concorrente alla gara”, in
www.italiappalti.it, 9 aprile 2020: commento che di certo agevola
una migliore comprensione delle questioni affrontate
dall’Adunanza Plenaria).
Il passaggio
“Pasqua è passaggio in questo 2020 vissuto nel silenzio,
nello svuotamento. Pasqua è il deserto che stiamo
attraversando, l’esilio da noi stessi. Con la sua scia
infinita di lutti, di chi non ci sarà più, di una mancanza
che non conosce rimedio. Di isolamento e di distanza tra le
persone, di spoliazione di ogni certezza. E di resistenza
dello spirito, il grande dimenticato fino alla pandemia. Di
senso profondo delle cose, oltre la superficie che ci
soffoca, di umanità liberata. Aspettiamo di riaprire le
case, come singoli individui e come comunità nazionale, ma
intanto sono già ora tante le pietre da far rotolare,
politiche, economiche, sociali, culturali. Ecco perché il
sepolcro vuoto è un segno che parla a tutti, con la sua
nuda, insopprimibile speranza. Non si cerca tra i morti chi
è vivo” (Marco Damilano, “Il
passaggio”,
L’Espresso, n. 16/2020, 8 ss.).
Come far ripartire l’economia
Recentemente, Salvatore Sfrecola (“Un
grande prestito nazionale per far ripartire l’economia”,
in questa Riv., 5
aprile 2020) è intervenuto sulla necessità di far ripartire
la nostra economia.
Le alternative, allo stato, sono due:
il ricorso al M.E.S., con modalità e tempi ancora da
definire, oppure il ricorso a non meglio identificate
risorse interne.
Riguardo a questo secondo aspetto,
concordiamo nel respingere, fin d’ora, “le forme predatorie
che ricordano il Governo Amato o certe ventilate iniziative
che sanno tanto di imposta patrimoniale“ e, men che mai,
“contributi di solidarietà da imporre a dipendenti e
pensionati”.
La strada maestra suggerita da Sfrecola
è quella di “chiedere agli italiani di sottoscrivere un
grande prestito pubblico destinato al rilancio dell’economia
attraverso uno straordinario piano di interventi
infrastrutturali che riguardino strade, autostrade,
ferrovie, metropolitane, porti, aeroporti e turismo”.
Pertanto, ad oggi, non resta che
attendere, auspicando che le scelte governative privilegino
le legittime aspettative degli italiani, già fortemente
penalizzati dalla crisi in atto che ha notevolmente
compromesso la nostra economia.
Chi vivrà, vedrà. Coronavirus
permettendo.
Emergenza Trivulzio
Il Pio Albergo Trivulzio, “lo storico
ospizio milanese, che fu l’epicentro di Tangentopoli, torna
sotto inchiesta per ipotesi di reato gravissime, legate
all’abnorme numero di anziani uccisi dall’epidemia di
coronavirus”, come avvenuto in altre strutture per la terza
età.
I decessi verificatisi negli ospizi
sono enormi, specie nelle zone maggiormente colpite dal
virus.
“Un disastro che sembrava impensabile
almeno in quella istituzione pubblica, il Trivulzio, che da
quasi trent’anni è al centro di mille annunci e promesse di
far dimenticare uno scandalo epocale come Tangentopoli… Il
Pio Albergo Trivulzio è la prima e più importante
istituzione milanese di sostegno agli anziani, con oltre
1200 posti letto. L’istituto ha assorbito altre fondazioni,
come Martinitt e Stelline, dedicate agli orfani e minori
abbandonati” (Paolo Biondani, “I furbetti del Coronavirus”,
L’Espresso, n. 16/2020, 22 s.).
Non è agevole “scrivere la storia”
“In questo panorama che pullula di personalità a loro agio,
non stupisce si navighi ormai in almeno una decina tra
decreti del presidente del consiglio e decreti legge, due
delibere del consiglio dei ministri, venti ordinanze del
capo della protezione civile, per un totale di oltre 340
pagine esclusi gli elenchi, le circolari interpretative e le
altre ordinanze (ministeriali, regionali, comunali). Una
completa immersione in un mondo da grida manzoniane, da
esercizi di stile alla Queneau, nel quale però si pensa
molto a scrivere la storia. Ci pensa oggi Conte, ci pensava lo scorso
governo Luigi Di Maio, uno che adesso se ne sta
prudentemente defilato. Come poi da questa storia si
riuscirà invece a uscire, ancora non si capisce” (Susanna
Turco, “Decido io,
anzi no”,
L‘Espresso, n. 15/2020, 28 ss.).
Lasciando da parte sia la navigazione a vista, sia la
compagine governativa zeppa di dilettanti allo sbaraglio,
non può non essere posto nel dovuto risalto che la cura che
si tenta di attuare potrebbe risultare ben più deleteria
della malattia.
22 aprile 2020
“Partigiane liberali”, un nuovo libro di Rossella Pace,
di Salvatore Sfrecola
Che la resistenza al nazifascismo,
contrariamente alla vulgata diffusa a piene mani nel
dopoguerra, non sia stata monopolio della Sinistra
egemonizzata dal Partito Comunista Italiano, Rossella Pace,
PhD in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma
“La Sapienza” e Segretario Generale dell’Istituto storico
per il pensiero liberale internazionale, lo aveva già
documentato nel suo precedente saggio “La resistenza
liberale nelle memorie di Cristina Casana”. Adesso torna sul
tema (“Partigiane liberali”, Rubbettino, Soveria Mannelli,
2020, pp. 263, € 16,00) con l’autorevolezza che le deriva da
una lettura rigorosa degli orientamenti storiografici e,
insieme, dei documenti che hanno interessato un po’ tutti
gli aspetti delle complesse vicende politiche e militari
della Guerra di Liberazione. E così squarcia il velo del
silenzio sulla presenza di cattolici, liberali e monarchici,
a lungo imposto quale “verità” ufficiale dai connotati
funzionali alla presenza delle Sinistre nella società. Lo fa
avvalendosi anche della copiosa documentazione, messa a
disposizione, in particolare, dalle famiglie Filograna –
Minoletti e Sogno, con speciale riferimento alle
testimonianze del diario di Virginia Minoletti Quarello del
periodo 1940-1944, dalle quali emerge il ruolo di
personalità del Partito Liberale Italiano, impegnate
nell’opposizione al Fascismo, prima, e nella lotta armata,
poi. Tra le quali si segnalano alcune donne che saranno
protagoniste nei vari comparti della Resistenza.
L’Introduzione di Rossella Pace prende
le mosse da una testimonianza di Eugenio Artom, dirigente
liberale di primo piano, impegnato nella Resistenza ed
attivo nel partito anche dopoguerra, per il quale
quell’esperienza “non è stato un movimento univoco,
compatto: è stata la risultante di un complesso di
componenti, diverse nei propri motivi e nelle loro mete
ultime, che pur dell’unità dell’azione hanno conservato la
loro autonomia”.
“Partigiane liberali” scava, dunque,
nelle vicende solitamente trascurate dalla prevalente
storiografia, che, sottolinea la Pace, ha avuto nel
dopoguerra “uno sviluppo lento e piuttosto faticoso, dovuto
a vari fattori politici e culturali, tra cui innanzitutto
nell’Italia repubblicana la difficile convivenza tra diverse
“famiglie” politico-ideologiche che condizionavano
fortemente la strutturazione della “memoria civile”. E
sottolinea come è solamente negli anni 80, con il declino
dell’egemonia comunista, che si incrina la monolitica
narrazione di una lotta al nazifascismo guidata dalle
Sinistre. Ne dà conto il primo capitolo nel quale si legge
una puntuale, rigorosa ricognizione degli orientamenti che
hanno affermato
“una memoria pubblica che è stata in grado di attivare nel
Paese processi di identificazione profondi tali da
conferirle i tratti di una memoria collettiva”. E che ha
minimizzato, quando non integralmente trascurato l’apporto
della componente liberale alla lotta di liberazione e, in
questo ambito, il ruolo che in quelle convulse vicende hanno
avuto le donne.
Ricorda il libro come la presenza dei
liberali sia stata espressione di quella diffusa diffidenza,
divenuta poi aperta ostilità, emersa nell’ambito della
classe aristocratica e borghese, dove era stato presto
percepita la deriva autoritaria e illiberale del governo di
Benito Mussolini. È quella parte dell’opinione pubblica più
legata alla tradizione della classe politica liberale, che
potremmo definire giolittiana, nei cui salotti si sono
formati molti dei giovani che s’impegneranno nella lotta di
liberazione e nel confronto politico del primo dopoguerra.
Non a caso, infatti, questi sentimenti antifascisti si
manifestano, in primo luogo, in Piemonte e in Liguria, nelle
aree culturali che si erano alimentate alla passione
politica del Risorgimento e delle istituzioni della libertà,
da Cavour a Giolitti, appunto. Ambienti dove si leggevano le
opere di Benedetto Croce e Luigi Einaudi, campioni della
libertà senza aggettivi, come dimostra il loro garbato
confronto sul rapporto tra liberalismo e liberismo, “non una
disputa su una dottrina ma uno schiarimento del pensiero in
vista della riconquista della libertà civile”, come ha
scritto Giancristiano Desiderio (“Croce ed Einaudi, teoria e
pratica del liberalismo”, Rubbetttino, 2020, 13). Queste
persone sentivano il peso delle limitazioni delle libertà ad
opera di un governo che molti esponenti qualificati della
classe politica si erano illusi di considerare provvisorio,
comunque un “male minore” per uscire dalla crisi politica
del primo dopoguerra caratterizzata da una violenta
contrapposizione tra Sinistre e fascisti che non sembrava
possibile ricondurre in tempi brevi nell’ambito della
legalità costituzionale nella fase, comunque difficile,
della ripresa economica e della riconversione industriale.
È, dunque, naturale che questi
antifascisti, effettivamente “della prima ora”, attivi già
nel 1942, insieme ai gruppi monarchici legati ad Edgardo
Sogno, all’indomani dell’invasione nazista e della
formazione della Repubblica Sociale Italiana prendessero le
armi e si unissero ai reparti sbandati del Regio Esercito
dopo l’8 settembre, ad ex prigionieri di guerra, fuorusciti
ed ex condannati politici, ai giovani che non intendevano
rispondere alla chiamata alle armi del Governo di Salò, per
operare nelle città e sulle montagne. E danno vita ai primi
Comitati Militari, successivamente coordinati dal Comitato
di Liberazione Nazionale (C.L.N.). Ovunque sono presenti
elementi espressione del Partito liberale, anche a Roma dove
si incontrano Manlio Brosio, Leone Cattani, in contatto con
Croce ed Einaudi, e il colonnello Giuseppe Cordero di
Montezemolo responsabile della resistenza militare nella
Capitale. Tradito, fu catturato e portato nella prigione
della Gestapo di via Tasso insieme al maggiore dei
Carabinieri Ugo De Carolis. Torturati, finiranno trucidati
alle fosse Ardeatine dopo l’attentato di via Rasella.
Rossella Pace ricostruisce sul filo delle preziose
testimonianze acquisite, l’organizzazione della resistenza
dei liberali, non solo di idee ma di partito, in particolare
delle donne il cui ruolo è stato troppo spesso confinato in
funzioni di portaordini e staffette, di vivandiere e di
infermiere.
“Una volta fatta la propria scelta –
scrive la Pace -, le donne seppero anche passare
all’iniziativa, comprendendo che la resistenza avrebbe
costituito un passo decisivo sulla strada dell’emancipazione
individuale e di tutte”. In guerra, inizialmente senza armi,
“ricorrendo ad azioni che rientrassero nell’ambito
dell’attività femminile consolidata, tesa a rivendicarne
l’importante ruolo che le donne avrebbero dovuto svolgere
nella società, ma che era stato loro sempre negato”. Donne
impegnate in ruoli diversi, tutti funzionali alla causa, a
volte poco appariscenti ma di straordinaria utilità, come
nei momenti più duri dei rastrellamenti. Molte avrebbero
conosciuto il carcere e le torture, la deportazione in
Germania, altre vennero fucilate o impiccate. Oltre 1000
caddero in combattimento. Un grande impegno, come dimostrano
le 19 medaglie d’oro al valor militare.
Lottarono anche contro i pregiudizi che
non cessarono neppure a guerra finita, quando “in tanti
cortei per le vie cittadine alle donne partigiane arrivò
l’ordine di non sfilare, oppure di farlo solo come
crocerossine”.
Rilevante, in particolare, l’apporto che
le donne diedero nella costituzione e nella gestione delle
reti informative, di approvvigionamento e trasporto di armi
e di vettovaglie necessarie ai reparti combattenti nei quali
operavano padri, mariti, figli, nipoti. Rossella Pace aveva
già messo in risalto nel suo precedente saggio l’importanza
delle reti, cioè di quella straordinaria e capillare
organizzazione presente in tutto il Nord ma che arrivava
fino a Roma e nella quale le donne avevano un ruolo
decisivo. ”Grazie al funzionamento di questa rete - scrive -
le notizie da Milano arrivavano a Genova e poi a Torino e
viceversa”. Non solo, ma svolgevano anche attività di
spionaggio, che raggiungerà livelli di eccellenza con
l’organizzazione Franchi, composta quasi esclusivamente da
liberali. Questo consentì anche il controllo dei territori,
evitando spesso che i tedeschi in fuga distruggessero ponti,
strade, comunicazioni telegrafiche e telefoniche,
infrastrutture di vitale importanza per una rapida avanzata
delle formazioni partigiane e comunque una ricchezza del
Paese che andava preservata in vista del dopoguerra e del
ritorno alla vita democratica.
L’Autrice mette in risalto le difficoltà
che le iniziative delle donne liberali hanno trovato,
soprattutto da parte delle comuniste (come
nell’organizzazione del Coordinamento femminile),
prevalentemente operaie e quindi diffidenti, quando non
ostili, nei confronti delle aristocratiche e delle borghesi.
A dimostrazione che la guerra al nazifascismo ha avuto i
caratteri, oltre che di guerra civile tra italiani, anche di
scontro di classe, del proletariato contro il padronato, e
che avrebbe pesato moltissimo su quella conventio ad
excludendum nei confronti dei liberali, che sarà una
costante della guerra di liberazione e dopo nella memoria
storica. Come se non si volesse ammettere che dei “Signori”,
in quanto esponenti della classe dirigente, lottassero per
la libertà contro il Fascismo e il tedesco invasore, essendo
fedeli al potere legittimo rappresentato dal Re a Brindisi.
Uno scontro esasperato anche in funzione delle prospettive
che ogni partito riservava a sè in vista del dopoguerra e
della definizione della “questione istituzionale” che le
Sinistre avevano posto al centro della loro azione politica,
ancorché Palmiro Togliatti, che sapeva ben leggere
nell’animo della gente e valutare l’opportunità dei tempi,
avesse scelto la momentanea collaborazione con la monarchia
con quella che è passata alla storia come la “svolta” di
Salerno.
Prezioso per questa rilettura di pagine
fondamentali della resistenza politica e militare, il libro
ci conduce nella società delle famiglie aristocratiche e
altoborghesi a Torino (Cristina e Costanza Casana) e a
Genova (Virginia Minoletti Quarello ed Maria Eugenia
Burlando, per fare un esempio che l’A. ricorda spesso), con
collegamenti a Milano (Giuliana Banzoni, Nina Ruffini,
Mimmina Brichetto Arnaboldi) e Roma (Lavinia Taverna), reti
personali e politiche che attuavano collegamenti con
esponenti dei partiti e delle bande partigiane. Poi a Roma
negli anni della ripresa della vita politica democratica.
Anche qui emerge il nome di Virginia Minoletti Quarello le
cui testimonianze hanno guidato l’Autrice attraverso gli
eventi dei quali la “partigiana” è stata protagonista, nei
comitati (come quello “di coordinamento femminile”) e gruppi
(“di Difesa della Donna”) che hanno svolto o tentato di
svolgere un compito di guida delle attività delle varie
componenti politiche e delle associazioni femminili. Anche
se non sono mancate manifestazioni dirette a dividere e ad
emarginare le donne liberali, ricorre spesso, anche “al
femminile”, l’Organizzazione Franchi, diretta da Edgardo
Sogno, il Comandante Franchi, una leggenda della Resistenza
e segnatamente della componente liberale e monarchica.
Finisce la guerra e con essa la
“resistenza perfetta” ed esplodono le profonde divisioni
ideologiche che non potevano non essere occasione di
contrapposizioni radicali, in particolare da parte dell’ala
marxista dei combattenti, in alcuni contesti apertamente
schierati con i nemici dell’Italia, come nella Venezia
Giulia dove la bandiera titina oscurava spesso il tricolore.
Del resto sono noti episodi di violenza nei confronti di
formazioni partigiane autonome, delle quali venivano
accusati i fascisti, come narrato anche da Giampaolo Pansa,
per tali motivi tacciato di “revisionismo”, espressione con
la quale si bollano le iniziative tendenti a dimostrare che
la resistenza non fu solo socialcomunista. Quando si
esaltava il ruolo pressoché monopolistico delle Sinistre,
contestualmente discriminando, mettendola in ombra, la
partecipazione degli “altri”, in particolare dei reparti
costituiti da militari fedeli al governo del re.
La componente liberale, questa
importante costola della vita politica italiana, nonostante
l’apporto di Croce di Einaudi e le solide basi culturali e
ideologiche collegate al Risorgimento e all’esperienza dei
governi liberali precedenti all’avvento del Fascismo, viene
squassata al suo interno da polemiche e divisioni, fin
dall’indomani del 25 aprile “e che avrebbero dimostrato in
seguito - scrive Rossella Pace
- la idiosincrasia dei liberali a essere ‘partito’”.
Una osservazione finale crediamo si
possa fare con riferimento all’apporto delle donne alla
guerra di liberazione, cogliendo spunti di riflessione
offerti dalla lettura del libro. Tanto nella prima quanto
nella seconda guerra mondiale le donne ebbero un ruolo che è
valso a favorire la loro emancipazione e l’affermazione di
una loro nuova presenza nella società. Negli anni 1915-1918,
perché sostituirono gli uomini nella conduzione dei campi,
nelle officine e nelle industrie, nei servizi (le donne che
guidavano i tram) e nelle attività professionali,
conquistando una generale credibilità in questi ruoli che, a
guerra finita, avrebbero voluto far valere. L’impegno nella
sostituzione degli uomini in guerra c’è stato anche nella
guerra 1940-1945. In più, in questa occasione, le donne
hanno svolto quel ruolo importante nella lotta di
liberazione, che Rossella Pace ha tanto concorso ad
affermare, che ha contribuito ad assicurare loro un ruolo
politico significativo nella nuova Italia, avviato con il
riconoscimento del diritto di voto concesso con il decreto
legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 23.
21 aprile 2020
In un momento di totale chiusura dei teatri ho ritenuto utile
fare il punto, sorridendoci sopra amaramente, sulla moda,
ahimè! intrapresa da tantissimi registi di stravolgere
completamente l’opera lirica, con effetti devastanti sul
povero spettatore. Inutile aggiungere come tutti i melomani
sperino in una pronta riapertura dei teatri di opera a
patto, però, che si ritorni a regie decenti o almeno
interessanti, capaci, soprattutto, di non offendere
l’intelligenza creativa degli autori e di chi ha pagato un
biglietto.
L’opera lirica, ovvero… “ ‘a famo strana! ”
di Dora Liguori
Con le parole “ ‘o famo strano”, il bravissimo Carlo Verdone, in
uno dei suoi film, preannunciava, alla sua fresca sposina,
come dire, l’intenzione di passare una notte d’amore
alquanto movimentata. E sin qui… chi può!
Il difficile, o meglio la tragedia per i melomani, è intervenuta
quando il proponimento di “farla strana”, piuttosto che
riferirsi ad una notte d’amore, è andata, da parte di alcuni
registi, ad interessare l’opera lirica.
E, allora, sono stati dolori!
Infatti, da una decina di anni a questa parte (e anche più), la
sopra descritta volontà di portare in scena la “stranezza
programmata”, è divenuta appannaggio di numerosi registi
italiani e stranieri che, in nome di questo “credo”, hanno
aperto una specie di gara fra di loro a chi, appunto,
riuscisse a “strombolare” di più un povero melodramma.
Ora, a parte alcune spassose invenzioni con opere che, per lo
più, si prestavano (vedi alcune opere giocose settecentesche
o anche di Mozart), per le restanti opere liriche, la gara
di cui sopra, è stata ingaggiata da una serie di registi i
quali, appartenenti ad una specie di “Nouvelle Vague” (la
parola è però impropria), alla fine, stravolgendo i
“desiderata” degli autori (librettista e musicista), sono
riusciti a produrre mostri scenici, spesso davvero
insuperabili. E ciò,
lo hanno fatto con assoluto sprezzo del pericolo (fischi del
pubblico) e sprezzo del rischio di far uscire dalla tomba
gli autori che, per fortuna sempre dei registi, ebbero un dì
lontano a calare “ in un profondo avel”.
Ad essere precisi, la stagione delle stranezze o delle
rivisitazioni è stata aperta nel 1976, a Bayreuth, grazie al
nipote di Wagner, Wolfang che, morto il fratello, Wieland
(una specie di geniaccio), per farsi perdonare le simpatie
naziste di sua madre, Winifred, consentì alla cosiddetta
“officina di Bayreuth” da lui creata, di attualizzare le
opere del celebre nonno. Di qui le regie, spesso
stravaganti, a iniziare da quella fatta del Ring
(Tetralogia de’ L’anello del Nibelungo,
composto da un prologo e tre giornate:
L’oro del Reno, la Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli
dei) ad opera del regista francese Patrice Chéreau che,
influenzato dalle idee di Bernard Shaw, vide nel Ring una
metafora sociale fra classe operaia e capitalismo.
Data la stura, da quel momento hanno avuto inizio una valanga di
reinterpretazioni delle opere del povero Wagner che,
conservatore com’era, a mio giudizio, se fosse tornato in
vita, avrebbe appiccato fuoco al teatro che aveva costruito.
Come ovvio, non potendo, per giustizia, la sola Bayreuth godere
di tanto innovativo bene, i teatri di tutto il mondo si sono
dati da fare. Pertanto, è avvenuto che i sovrintendenti,
mandando all’aria secoli di tradizione, buon uso della
logica e del buon gusto, siano corsi ad affidare ai registi
di questa “novella moda”, l’impegno di seppellire,
attraverso le possibilità esplicate dai loro illuminati
cervelli, un numero considerevole di disgraziatissime opere
liriche a loro, incautamente, affidate.
Purtroppo, da abbonata al teatro dell’opera romano e
frequentatrice anche di altri teatri, ho avuto la disgrazia
di assistere a numerosi di questi dolorosissimi parti
(meglio definibili aborti) “nutrendo in core” (come si
direbbe in un’opera lirica) la speranza che la moda, prima o
poi, possa cambiare. Ma il tempo passa e siamo ancora lì!
Fatte queste affermazioni, per non far pensare a qualcuno
d’essermi bevuta il cervello, passo ad elencare, brevemente,
alcuni “pregevoli” esempi delle “illuminate” regie, alle
quali ho avuto il profondo disagio di assistere. E inizio
con quello che ritengo sia stato il più grande affronto reso
ad un’opera lirica di ineguagliabile bellezza musicale,
quale è appunto… la Sonnambula. Orbene, per volontà
registica, a parte amenità varie, alla povera Amina viene
rotta la “brocca” e, in conseguenza di questo abuso operato
dal conte, non certo da quel tonto del promesso sposo di
Elvino, la misera abortisce mentre canta la sublime “Ah! non
credea mirarti”, con tanto di scorrimento di sangue in
scena… ma si può?
Dopo Bellini, giungiamo ad una Traviata, dove un “romantico”
Alfredo, fornito di matterello, stende le tagliatelle per la
sua Violetta, la quale, possedendo dimensioni abbondanti,
dimostra agli spettatori d’aver lungamente gradito le citate
tagliatelle, anzi, non paga, tanto per aiutare la bilancia,
esala l’ultimo respiro stringendo al seno una scatola di
cioccolatini. Sull’ultima scena urge, però, un’ulteriore
precisazione: il regista, forse presago di un futuro
“coronavirus” relega i tre maschietti (Alfredo, il padre e
il dottore), non già a un metro di distanza ma addirittura
ad una decina di metri dalla povera donna che muore
(affetta, più che dalla tisi, da diabete fulminante!) sola e
abbracciata, piuttosto che con l’”amato Alfredo”, con la
cioccolata.
Proseguendo con Verdi, assistiamo ad una Giovanna d’Arco,
schizofrenica con un piede in manicomio, insidiata
addirittura da uno psicopatico padre che, in preda a turbe
sessuali, passa il tempo a chiedersi: Giovanna è pura o no?
Ai due, poi, ben si accompagna un reso idiota Carlo VII che,
impacchettato in carta stagnola dorata, più che un re sembra
un cioccolatino natalizio.
E ancora, da non perdere: un Barbiere di Siviglia, il cui regista
adopera e porta sulla scena, a mo’ di filo conduttore
dell’opera, un topo che, sin dalla sinfonia, attraversa la
scena e diviene, via via, sempre più grande sino ad assumere
le proporzioni, si direbbe a Napoli, di uno “zoccolone”. E
che dire di una Carmen con un’ambientazione irrazionale ove,
sparita Siviglia e la fabbrica di tabacco, al suo posto,
possiamo ammirare un portale addobbato con centinaia di
lampadine, tipo festa paesana del Sud, all’interno del quale
si aggira una folla d’incerto mestiere, in giallo canarino o
giallo itterizia. Vista l’uniformità di colore usata per gli
abiti, allo spettatore diviene lecito presupporre che
costoro, per ottenere simile uniformità, si siano dati,
telefonicamente, la voce il giorno prima. Comunque, il
meglio della regia si esprime allorché i poveri cantanti
vengono costretti ad agire attorniati e, direi io,
infastiditi, da biechi figuri che, agitando lunghi cilindri
fosforescenti, anche questi tipo matterello, arrecano
continuo incomodo a chi canta e a chi guarda. Potete
immaginare, per dirla operisticamente, “in tal frangente”,
ove sia andato a finire l’eros e il pathos del quale
dovrebbe essere pervasa l’opera di Bizet… roba da zucchine
lesse senza sale!
Persistendo poi con il povero Bellini, che più che rivoltarsi
nella tomba tenta ormai disperatamente di uscirne, dopo
Sonnambula, tocca a una Norma che, divenuta palestinese,
vedi mai, “miete il sacro vischio” (con ogni evidenza
importato dai Paesi del nord) nel deserto. Senza contare che
al posto del “fatal romano” se l’intende con un Pollione
(non poteva essere altrimenti), divenuto israeliano.
Identica ambientazione arabo-israeliana ci viene donata da un
altro regista che, bontà sua, applica le sue cure ad un
molto improbabile Attila, vestito più o meno da nazista; e
neppure questa è una certezza essendo quanto mai enigmatica
la foggia usata. Povero Verdi! Quest’ opera, già di suo
complicata, diventa improponibile se, è il caso di dire, si
va a “sconcicare” un panorama difficile come quello del
medio-oriente.
E come sorvolare sulla messa in scena di “Un ballo in maschera”,
la cui azione, parlando di corna, si svolge per intero su un
enorme letto che, generosamente, durante l’opera, al passo
forse con determinati gusti, ospita anche incontri plurimi.
Ma la vera genialata arriva anch’essa nel finale, ove il
regista fa resuscitare (e mica solo Gesù Cristo aveva questi
poteri!) il conte Riccardo che, dopo essere stato, non
pugnalato bensì sparato dal quasi cornuto marito di Amelia,
lasciata costei, fresco come una rosa, se ne va con
l’indovina Ulrica, per l’occasione divenuta “bona” come la
famosa Anitona di Fellini.
Da annoverare ancora una Mimì divenuta tossicodipendente; un
povero Werther che, visto come hanno conciato lui e
Carlotta, si suicida, non per disperazione d’amore ma per
disperazione di “lesa estetica”; ancora un Eugenio Oneghin,
ove la Russia è rappresentata con tre claustrofobiche pareti
bianche, senza quinte o quant’altro… quando si dice
operazione risparmio!
La lista potrebbe continuare, ma non voglio infierire su quanti
hanno la bontà di leggermi; ma prima di chiudere vorrei dare
testimonianza sul come, il pubblico presente a questi
aborti, non essendo scemo, ha sempre gratificato i
responsabili dello scempio con innumerevoli fischi e i buu
(gazzarre mai viste) che, chissà per quale arcano motivo,
quasi mai vengono riportati dalle cronache ufficiali dei
giornali. Insomma, stante la situazione, se Diogene cercava
l’”uomo” i melomani cercano qualcuno che, finalmente, lasci
“riposare” a casa questi onnipresenti geni della regia per
riconsegnarli, come si diceva una volta, alla madre terra,
essendo essi, a buon diritto, “possessori di forti braccia
sottratte all’agricoltura”. Il vantaggio che ne deriverebbe,
sarebbe quello di poter tornare ad assistere ad un’opera
eseguita come Dio e autori comandano.
E su questo punto, un‘ulteriore domanda sorge obbligatoria: se la
democrazia si regge sul concetto della maggioranza, perché,
parlando di opere liriche, questa maggioranza di spettatori
che, disperati, abbandonano i teatri lirici, stracciando gli
abbonamenti, non viene tenuta in conto? Perché mai si
dovrebbe pagare per vedere, così distrutte, opere frutto del
genio umano? A chi giova un simile andazzo? Perché si affida
a certi sovrintendenti (per fortuna non tutti) che, capaci
soprattutto a far di conto (e visti i deficit spesso manco
quelli), l’onere di approntare un cartellone? Costoro,
appunto, essendo dei manager, risultano preparati sull’opera
come un cittadino qualsiasi lo può essere sul teatro Kabuki.
Perché non si ridà potere ai direttori artistici che, oggi,
nominati come sono dal sovrintendente, poco aprono bocca?
Chissà, costoro, essendo musicisti, forse potrebbero
riuscire, recuperata autorità, intanto a non farsi rifilare
dalle agenzie, a scapito degli italiani, artisti stranieri
il più delle volte mediocri; e poi, chissà, imponendosi
potrebbero moderare anche i “lampi di genio” di alcuni
registi che, spesso mostrano di poco essere informati sui
tempi e sui fatti contenuti nel libretto delle opere a loro
affidate.
Impossibilitata a dare appropriate risposte a questi quesiti, e
non volendo, magari col dire la verità, procurarmi querele,
mi affido alle famose parole di Pietro Mascagni, il quale,
dopo la visione di un’opera di un raccomandatissimo
compositore fascista, onde evitare dei guai, dando i giudizi
severi che costui meritava, così si espresse: “non ho
parole!”
Ebbene, anch’io non ho parole per definire queste genialate ma
un’ultima cosa, però, la vorrei esprimere, anzi la vorrei
chiedere a chi di dovere: perché se qualcuno, magari fuori
di testa, danneggia un’opera d’arte, dicasi, quadro o
scultura etc. viene, direi giustamente, sbattuto in galera,
mentre, invece, se la passa indenne chi manomette e dissacra
un’opera lirica? Non rappresenta anch’essa una dimostrazione
altissima dell’ingegno umano?
Ultima annotazione, lo giuro, dopo aver visto il famoso topo che
imperversava nel Barbiere di Siviglia, non avendo ben
compreso il recondito e subliminale messaggio di questa
inquietante presenza, ho scritto al teatro chiedendo lumi.
Non ho avuto risposta! Rimasta,
pertanto, “in grave ambascia” e dovendomi pur fare una
ragione circa la scenica pantegana, ho così concluso: può
essere che il regista, ritenendo Rossini alquanto antiquato,
abbia ritenuto utile, tanto per svecchiare l’opera, portare
in scena, più che un barbiere, un bel… topo di Siviglia.
Che dire? Attendo, con trepidazione, il prossimo operistico “ ‘o
famo strano”!
P.S. Chiedo scusa per l’intercalare operistico ma, trattandosi di
melodramma… “necesse est”!
19 aprile 2020
La rivolta dei nonni:
NO alla quarantena prolungata per loro
di
Salvatore Sfrecola
L’iniziativa l’ha
presa il dottor Bruno Lago, un austero ex dirigente della
Banca Europea degli Investimenti (B.E.I.), che, abbandonato
il tradizionale aplomb in uso tra Bruxelles e Strasburgo, si è fortemente “adirato”
(si dice così in italiano) e, presa carta e penna, ha
scritto due righe “Gli anziani sanno badare alla propria
salute, diciamo NO a quarantene prolungate”, ed ha
cominciato a raccogliere le firme per una petizione al
Ministro della salute.
L’occasione
scatenante, che ha mosso, lungo lo stivale, la rivolta degli
ultrasettantenni, è stata una improvvida iniziativa della
Presidente della Commissione europea, la tedesca
Ursula von Der Leyen,
la quale nel dire la sua a proposito di come si dovrebbe
tornare “alla normalità” ha detto che gli ultrasettantenni è
bene restino a casa fino al 31 dicembre. Niente ferie
estive, dunque. Se ne riparlerà nel 2021!
E così alcuni,
tra i più autorevoli ultrasettantenni (ma è presumibile che
sarà presto una valanga), hanno scritto su giornali di
prestigio non solo nazionale,
Luigi de Rita
sul Corriere della Sera e
Vladimiro
Zagrebelski su La Stampa, per far sentire alto
il loro dissenso, il primo da sociologo, il secondo da
giurista. Perché anche se è chiaro che il prolungamento
della quarantena è immaginato a tutela degli anziani, in
quanto considerati soggetti a rischio, stabilire un obbligo
di residenza coatta di un cittadino, solo perché anziano,
che comunque sa badare alla propria salute, come dice Bruno
Lago, non è consentito. Perché la Costituzione è ancora lì
con il suo art. 16 a tutelare il diritto dei cittadini a
circolare liberamente ed a soggiornare dove vogliono, un
diritto comprimibile soltanto per motivi di salute, cioè se
la persona è portatore di un contagio. In assenza, il medico
curante gli potrà consigliare di non esporsi in aree a
rischio, se cagionevole di salute. Potrà essere consigliato,
mai obbligato.
Eppure tira una
brutta aria per gli anziani. De Rita, attento
all’evoluzione dei costumi, segnala che, nella stagione in
cui tutto sembra dominato e regolato dal consumismo e
dall’utilitarismo, l’età ingravescente è considerata da
molti un peso per la società. E richiama il caso
dell’Olanda, dove gli over 70 hanno ricevuto un bel modulo
con il quale s’impegnano, in caso di infezione da
coronavirus, a non ricoverarsi in ospedale per non sottrarre
posti a chi ha più possibilità di guarire. E in Italia? “Io
non parlo da un mese, risponde
De Rita
all’intervistatore. Non mi piace nulla di quello che sta
succedendo. Non mi va di polemizzare con mezzo mondo”.
Quel paese, l’Olanda, che, non
dimentichiamolo è un paradiso fiscale e fa la morale
all’Italia alla ricerca di solidarietà europea per uscire
dalla crisi economica dovuta al blocco delle attività
industriali e commerciali, vive in una “forte dimensione di
autonomia, di prestigio dell’individualità. Quasi un esempio
di coscienza pubblica: sono vecchio, se mi ammalo cerco di
farcela da solo ma non tolgo spazio ai più giovani”.
È evidente una mentalità che non ha
memoria del passato, che non tiene a conservarla, non
considera un valore l’esperienza. Noi ancora crediamo al
ruolo dei nonni, non tanto, tuttavia, per la trasmissione di
valori civili, ma perché “moltissimi anziani hanno una
pensione decente, aiutano figli e nipoti”. Non va al di là
De Rita: “gli
anziani in Italia manterranno un ruolo affettivo perché è
anche economico”.
Il giurista è più
drastico. Va giù pesante
Vladimiro Zagrebelsky: segregare gli anziani è un
abuso “non sono più contagiosi degli altri. Secondo la
Costituzione, la legge può limitare la libertà di
circolazione per motivi di sanità. ma si tratta della sanità
pubblica. Si faccia opera di informazione sui rischi, si
offra a chi ne ha bisogno opportunità di sostegno, ma non si
violi la libertà di cittadini adulti”. E richiama due
principi cardine della nostra Carta fondamentale i
criteri di “ragionevolezza e proporzione”, considerando che
le libertà dei cittadini possono essere ristrette nella sola
misura del necessario. Limitazioni irragionevoli o
esorbitanti si tradurrebbero in abusi discriminatori,
inammissibili nel regime delle garanzie liberali disegnato
dalla Costituzione”.
Ursula von Der
Leyen
è avvertita. Ed è avvertito anche
Giuseppe Conte
qualora volesse prevedere quel limite per gli
ultrasettantenni in uno dei tanti d.P.C.M., cioè i decreti
del Presidente del Consiglio dei Ministri che il Premier
richiama nel suo eloquio come fossero di altri, che adotta
quasi quotidianamente.
17 aprile 2020
Emergenza e libertà personali: spesso una difficile
convivenza
di Salvatore Sfrecola
Colui che, tra
qualche anno, si interrogasse sugli eventi politico
istituzionali di questo periodo, con molta probabilità dirà
che gli italiani hanno vissuto momenti di forte turbamento
per l’emergenza da Coronavirus e, contemporaneamente, corso
rischi di involuzione democratica. E che, mentre alcuni non
vedevano l’ora, ancora una volta, di gettarsi tra le braccia
di un nuovo “Uomo della Provvidenza”, identificato oggi in
Mario Draghi, nel 2011 in Mario Monti, per limitarci ai
tempi più recenti, il Presidente del Consiglio in carica,
fiutato il pericolo, premeva sull’acceleratore del potere in
modi che hanno destato perplessità e diffuse preoccupazioni
di eminenti giuristi che le hanno manifestate pubblicamente
sulla stampa, come Claudio Zucchelli, già Presidente di
Sezione del Consiglio di Stato, su Il Dubbio del 4
aprile che parla di “Costituzione che finisce violata” o il
costituzionalista Giovanni Guzzetta che, sullo stesso
giornale, si chiede se il caos delle norme non sia “un
trucco per toglierci la voglia della libertà”.
Essenzialmente in ragione della scelta, sulla base del
principio di necessità, di adottare plurimi provvedimenti di
urgenza “con forza di legge”, tuttavia pressocché privi di
contenuto normativo immediatamente efficace, come previsto
dall’art. 77 della Costituzione, ma meramente autorizzatori
di poteri assegnati al Presidente del Consiglio, il quale
provvede a darvi attuazione con propri decreti. Con la
conseguenza che, nella sostanza, il potere, la stessa
sovranità, che ai sensi dell’art. 1 della Costituzione
“appartiene al popolo”, si sposta da questo al Governo cioè
al Presidente del Consiglio, delegato ad adottare le misure
restrittive imposte dall’epidemia, senza il controllo del
Parlamento che converte in legge non già norme
immediatamente operative ma autorizzazioni ad adottarle.
Al riguardo
Sabino Cassese, professore di diritto amministrativo ed ex
giudice della Consulta, intervistato da Paolo Armaroli per
Il Dubbio è stato fortemente critico. Ritiene che “il
primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto
il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il
primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è
responsabilità della politica – prosegue -, ma di chi è
incaricato degli affari giuridici e legislativi”. Aggiunge
che quel primo decreto legge “non fissava un termine; non
tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione
esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti
innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei
poteri”. Per l’illustre giurista Conte, che è un professore
di diritto, “avrebbe dovuto rifiutarsi di firmare decreti
così contraddittori”. In ogni caso “continua la serie di
norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene
di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo
pessimo andamento”.
La responsabilità – insiste - sarebbe
“imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati
dell’attività normativa”, cioè al Dipartimento per gli
Affari Giuridici e Legislativi (DAGL). Tanto più che “per la
legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente
a emanare più della metà di quegli atti era il ministro
della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla
centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle
mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una
sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più
autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse
eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è
avvicinati”.
A questo punto Armaroli chiede a Cassese
se “si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura
rappresentano un correttivo della forma di governo
parlamentare per i poteri che acquista il Presidente del
Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non
parlare del Presidente della Repubblica e, soprattutto, del
Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo
e di controllo è andata a farsi benedire”.
L’intervista si chiude con alcune
considerazioni su gli organi di garanzia più diretti, il
Presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte
costituzionale. “Quest’ultima, salvo casi eccezionali,
interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente
della Repubblica, invece, collaborano nella funzione
normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per
ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo
dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie
preferenziali o di emergenza”. Si poteva anche dire altro,
ad esempio che quei decreti sono stati emanati dal Capo
dello Stato (art. 87) il quale ha una funzione di verifica
della legittimità costituzionale del provvedimento e,
pertanto, avrebbe potuto rilevare i vizi che Cassese
riconosce e che, a suo giudizio, avrebbero dovuto spingere
Conte a non firmare.
Fermarsi sulla soglia del Quirinale non
fa certo bene alla democrazia.
Indubbiamente a Palazzo Chigi si fa quel
che vuole Conte. Lo voglia in buona fede, perché pressato dall’emergenza sanitaria
o perché teme di essere scalzato dalla poltrona di
Presidente del Consiglio dall’ex Presidente della Banca
Centrale Europea che riceve ogni giorno nuovi attestati di
stima, sta di fatto che la scelta operata dal governo
preoccupa quanti hanno a cuore la legalità costituzionale
che discende dalle regole e dai principi che al mondo intero
sono stati insegnati dal barone di Montesquieu ormai molti
anni fa e che sono alla base della democrazia liberale. Per
cui non va bene, per dirla con Armaroli,
che il Parlamento “non tocca palla”. Eppure nelle aule di
Palazzo Madama e di Palazzo Montecitorio si esercita la
sovranità che appartiene al popolo.
D’altra parte la
limitazione del ruolo del Parlamento sta scritta nella
decisione delle Camere di ridurre il numero di deputati e
senatori, con l’effetto di attuare una minore rappresentanza
delle realtà territoriali e linguistiche, forse l’unico e
certamente il più rilevante risultato che il Movimento
Cinque Stelle ha portato a casa avendo convinto gli
altri partiti, i quali non hanno avuto il coraggio di
contrastarli, che si
trattasse di un “risparmio” gradito dagli italiani. Del
resto cos’altro ci si poteva attendere da un Movimento
politico il quale teorizza la “democrazia diretta” che
esercita affidando le proprie scelte al voto, sulla
piattaforma Rousseau, di una minoranza della minoranza,
coloro che votano, un’aliquota degli iscritti, poche decine
di migliaia, rispetto al numero consistente, almeno nelle
edizioni del 2018, degli elettori.
Pochi sembrano
rendersi conto dei pericoli che derivano da questa china
autoritaria occultata dalle necessità urgenti del pericolo
sanitario. Purtroppo la storia insegna che la violazione
della legalità costituzionale, anche quando giustificata da
pressanti esigenze straordinarie ed urgenti, può avere esiti
non previsti e non prevedibili, magari perché nel frattempo
giunge a mettere le cose “a posto” il solito “Uomo della
Provvidenza” che assume il potere e, di emergenza in
emergenza, tra le tante che è possibile immaginare in un
Paese che la politica ha reso straordinariamente fragile,
limita la democrazia che, ricordiamolo, da sempre, a parole
interessa tutti, ma preme solamente alle persone alle quali
gli ideali della libertà stanno particolarmente a cuore, per
cultura e tradizione identitaria.
17 aprile 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv.
Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
Ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., la Sezione V
ha chiesto all’Adunanza Plenaria:
a)
se rientrino nel divieto di clausole di esclusione
c.d. atipiche, di cui all’art. 83, comma 8, ult. inciso, del
d.lgs. n. 50 del 2016, le prescrizioni dei bandi o delle
lettere d’invito con le quali la stazione appaltante,
limitando o vietando, a pena di esclusione, il ricorso
all’avvalimento al di fuori delle ipotesi consentite
dall’art.89 del citato d.lgs. n. 50/2016, precluda, di
fatto, la partecipazione alla gara degli operatori economici
che siano privi dei corrispondenti requisiti di carattere
economico-finanziario o tecnico-professionale;
b)
in particolare, se possa reputarsi nulla la clausola
con la quale, nel caso di appalto di lavori pubblici di
importo pari o superiore a 150.000 euro, sia consentito il
ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA soltanto da
parte di soggetti che posseggono una propria attestazione di
quest’ultima (Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2020, n. 1920,
con commento esaustivo di Licia Grassucci, “Quesito
all’Adunanza Plenaria sul principio di tassatività delle
clausole di esclusione”, in www.italiappalti.it,
30 marzo 2020).
Il vuoto e il pieno
“Il vuoto e il pieno hanno sempre fatto parte della
storia repubblicana. A lungo il panorama nazionale è stato
affollato da partiti, leader, territori, sindacati,
associazioni di categoria, intellettuali, giornali. E poi
operai, imprenditori, banchieri, maestri e professori,
studenti e contadini. Tutti insieme componevano come tessere
di un mosaico faticoso e paziente quella tela in cui fu
possibile immaginare e poi costruire e realizzare la
ricostruzione post-bellica. Nello spazio di un paese di
frontiera, in cui si muovevano i grandi attori
internazionali della guerra fredda, con il loro seguito di
apparati. Questo pieno fu composto e poi annullato verso la
metà degli anni Settanta, nell’Italia aggredita dal
terrorismo, dall’inflazione e da un processo di distacco tra
i vertici e il paese reale, che intanto continuava a
crescere, si sviluppava, si arricchiva, ma fuori da un
discorso comune, da quella trama unitaria che invece era
stata garantita dalla classe dirigente diffusa della fase
precedente”.
Questo scrive un apprezzato giornalista, preparato,
serio, composto, che sa guardare la realtà con serenità e
obiettività innate (Marco Damilano, “Il vuoto e il pieno”,
L’Espresso, n. 14/2020, 16 ss.).
Morte di Cicerone
Il 7 dicembre del 43 a.C. i sicari di Marco Antonio
raggiunsero la lettiga di Cicerone, che stava fuggendo verso
il mare di Formia, trasportato da alcuni servi. Plutarco
racconta che Cicerone li sentì arrivare e immediatamente
ordinò ai servi di posare a terra la lettiga. Poi,
appoggiando il mento sulla mano sinistra, come era solito
fare, si mise a fissare i soldati che si avvicinavano. I
suoi capelli erano arruffati, il volto era segnato
dall’apprensione e la sua espressione era tale che molti si
coprirono gli occhi mentre Erennio lo colpiva. Fu ucciso
mentre sporgeva il collo dalla lettiga, nel suo
sessantaquattresimo anno di vita. Per volere di Antonio, i
sicari tagliarono la testa e le mani con cui Cicerone aveva
scritto le violente orazioni che gli erano costate la vita,
note come Filippiche. I macabri resti dell’oratore vennero quindi inviati a
Roma e appesi sui rostri: un terribile monito per chiunque
pensasse di poter sfidare l’autorità dei triumviri.
Si narra che molti anni dopo l’imperatore Augusto, che era
stato in parte responsabile dell’omicidio, sorprese il
nipote mentre leggeva un libro di Cicerone. Temendo di
essere rimproverato, il giovane cercò di nascondere il testo
sotto la veste, ma Augusto lo vide, prese il libro e rimase
a leggerlo a lungo. Quando infine lo restituì, disse: “Era
un saggio, ragazzo mio, un saggio; e amava la patria”
(Costantino Andrea De Luca, “Pillole di storia antica”, Roma, 2019, n. 248, p. 236 s.).
Storia della colonna infame
Alessandro
Manzoni nasce a Milano il 15 marzo 1785 da Giulia Beccaria e
Giovanni Verri, riconosciuto da Pietro Manzoni, marito della
madre; muore a Milano il 22 maggio 1873. Dal 1840 al 1842
pubblica a dispense la stesura definitiva de “I promessi
sposi”, con, in appendice, la “Storia della colonna infame”.
Di
quest’ultimo lavoro (editrice Demetra, 1995) si riportano,
testualmente, taluni brani, che riassumono in parte l’iniqua
vicenda.
La mattina del 21 di giugno 1630, verso
le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa,
trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia
che allora c’era sul principio di via della Vetra de’
Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese
(quasi dirimpetto alle colonne san Lorenzo), vide venire un
uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una
carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione,
metteua su le mani,
che pareua che scrivesse.
Ai giudici che, in Milano, nel 1630,
condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver
propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che
orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di
memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata,
in aggiunta de’ supplizi, la demolizione della casa d’uno di
quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio
s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame,
con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia
dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono:
quel giudizio fu veramente memorabile.
Non di rado le verità troppo evidenti,
e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate.
Que’ giudici condannarono degl’innocenti, e che anzi, per
trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva
ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con
caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare
continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’
quali non potevano ignorar l’ingiustizia.
È stato
significato al Senato che hieri mattina furno onte con
ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra
de’ Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale
che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole,
già piene d’una deplorabile certezza, e passate senza
corruzione dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati,
s’apre il processo.
Il sospetto e l’esasperazione, quando
non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la
trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati,
sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.
La colonna infame fu atterrata nel
1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in
quell’occasione, fu anche demolito il cavalcavia.
17 aprile 2020
Fogli sparsi di un recluso (cioè in quarantena, pur
godendo di ottima salute)
di Domenico Giglio
Movesi il vecchierel canuto e stanco……
Quando Francesco
Petrarca ( 1304 – 1374), scrisse questo delicatissimo
sonetto, dove un vecchierello lascia la casa, “il dolce
loco” per recarsi in pellegrinaggio a Roma, non poteva
sapere che, circa settecento anni dopo al vecchierello
questo viaggio sarebbe stato vietato per motivi sanitari! E’
di questi giorni infatti la notizia della proposta di un
trattamento tutto particolare per gli ultra settantenni,
ritardando per gli stessi il ritorno ad una vita quasi
normale e ad una libertà di movimento, che, ad esempio,
consentisse loro di andare a respirare nei mesi estivi,
quando specie nelle città, la calura può diventare
soffocante, l’aria più salubre marina, campagnola, boschiva
e montanara.
Vorrei vedere il
volto del Presidente della repubblica, quando il Presidente
del consiglio arrivasse per la firma del decreto contenente
questa discriminazione, che si aggiungerebbe alle tante
altre già esistenti (pensioni di piombo, ferme da anni,
pagamento di ICI per proprietari immobili catastalmente in
A1 ed altre). Firmerà o da ultra settantenne rifiuterà la
firma ad un decreto che lo colpisce anche personalmente? Ed
all’obiezione che gli venisse posta del grande palazzo dove
risiede (che i Pontefici avevano appunto costruito per
trasferircisi nel mesi estivi), e dei grandi, ombrosi
giardini annessi, potrebbe rispondere democraticamente che
non tutti i “vecchierelli” italiani hanno una simile
residenza, restituendo il decreto.
Pudicizia o impudicizia politica
E’ ormai ben noto
che la grande stampa, la televisione di Stato e giornalisti,
sedicenti storici, cerchino di non parlare, se non male,
della Monarchia Sabauda, dei suoi Re, anche quando trattano
eventi che li videro protagonisti e non comparse, e di
ignorare coloro che, dopo il 1946, si batterono, ed ancor
oggi si battono, per questo istituto e per la storia, cioè i
monarchici, che paiono non essere mai politicamente
esistiti.
Uno dei tanti
esempi, in una trasmissione, riproposta il 14 aprile su
RAISTORIA, relativa alla vicenda del bandito Giuliano, che
nel referendum del 1946, è bene sottolinearlo, votò e fece
votare per la repubblica, parlando delle prime elezioni
regionali siciliane del 1947, si afferma che la Democrazia
Cristiana, duramente ridimensionata dal voto popolare, che
aveva premiato il blocco social comunista, fece il governo
con “le forze di destra”, senza altre specificazioni. Ora,
nel 1947 e particolarmente in Sicilia ed in tutta l’Italia
Meridionale tra queste forze di destra era determinante il
Partito Nazionale Monarchico, simbolo “Stella e Corona”, e
qui si dovrebbe aprire un lungo discorso sulla collocazione
a destra dei monarchici, fondato appena un anno prima, la
cui base elettorale era in gran parte popolare. Perciò il
primo governo regionale fu un governo, presieduto da un
democristiano, Giuseppe Alessi, a cui nel 1949 subentrò, un
altro democristiano, Restivo, con il PNM, che ebbe nello
stesso due importanti assessorati, l’Industria assegnata
all’onorevole Annibale Bianco, e l’istruzione all’on. Pietro
Castiglia che li ressero per tutta la legislatura fino al
1951. Questo avrebbe dovuto dire il conduttore della
trasmissione per quella precisione che un vero storico deve
avere e che invece evidentemente, spesso, non ha.
Dante ed i suoi indovinelli
Chi fece per
viltà il gran rifiuto? E’ un altro punto controverso della
Divina Commedia anche se quasi tutti gli studiosi, per primo
l’ignoto autore, quasi contemporaneo, delle “Chiose”, lo
attribuiscono al povero Celestino V, al secolo Pietro da
Morrone (1210 ?- 1296), per essersi dimesso da Pontefice
aprendo la strada alla elezione papale di Benedetto Caetani
(1234- 1303), che prese il nome di Bonifacio VIII, il grande
avversario di Dante, che lo definì “Il principe dei nuovi
farisei” (Inferno – c.XXVII – v.85 ). E proprio questa
avversione, che porta Dante a condannarlo all’Inferno, prima
che morisse effettivamente nel 1303. L’immaginario viaggio
dantesco è datato nella Settimana Santa del 1300, mentre
nella realtà il poema fu scritto anni dopo, quando
effettivamente Bonifacio era defunto, ma la polemica non era
cessata per cui molti sono stati indotti a questa
identificazione con Celestino V. Ma, anche qui ragioniamo: è
possibile che Dante disistimasse tanto il povero Pietro da
Morrone, il Pontefice della “Perdonanza”, e non conoscesse
la sua precedente esemplare vita eremitica? Fermiamoci ed
osserviamo quanti personaggi sono citati nel poema. Sono
centinaia: imperatori, re, regine, ecclesiastici, politici,
filosofi, scienziati, condottieri, letterati ed altri, prima
e dopo la venuta di Cristo, ma manca stranamente proprio un
nome, quello di Ponzio Pilato! Giuda, traditore è nelle
fauci di Satana, insieme con Bruto e Cassio, quindi è ben
chiara per Dante la colpa e la massima pena per chi consegnò
il Cristo nelle mani dei suoi nemici del Sinedrio, ma la
condanna a morte doveva essere ratificata dall’autorità
romana, impersonata appunto da Pilato, il quale, malgrado la
supplica della moglie, si fece portare dell’acqua e se ne
lavò le mani. Quale maggiore viltà, non avendo trovato in
Gesù alcuna colpa, di restituirlo al potere giudaico perché
fosse crocifisso. Forse il timore fisico delle reazioni
anche violente del popolo di Gerusalemme che aveva preferito
che fosse concessa la libertà a Barabba invece che Gesù!
Perché Dante non mette allora Pilato nell’Inferno ? Ci aveva
messo dei Papi ed esitava per un proconsole romano? Perché
ignorarlo del tutto ? In fondo Pilato non condannò Gesù per
cui questa processione di spiriti di persone “che visser
senza infamia e senza lodo” (Inferno –c.III- v.35), ben si
adattava alla sua figura, tanto che ancor oggi si dice “pilatesca”,
la mancanza di una decisione chiara e netta!
16 aprile 2020
La
Macchina dello Stato
di Domenico Giglio
Questo il titolo
di una interessantissima mostra tenutasi diversi anni or
sono a Roma, nei locali dell’Archivio Centrale dello Stato,
per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione
del Regno d’Italia e che riguardava leggi, uomini e
strutture che hanno fatto l’Italia. La Mostra non ebbe il
successo di pubblico che meritava, forse anche per
l’ubicazione all’EUR, ma essendo stato pubblicato un
catalogo con lo stesso titolo, “La Macchina dello Stato”,
uscito nel 2011, edito da Mondadori Electa, ricchissimo di
dati, di fotografie, di tavole e tabelle, di documenti, è
sperabile che lo stesso possa trovarsi tramite internet od
in qualche libreria specializzata od antiquaria. Farne oggi
una recensione approfondita non appare possibile per il
numero e l’ampiezza dei temi e la personalità degli autori
dei vari capitoli, tutti di un estremo interesse per testo e
documentazione. Basti pensare alla sua strutturazione da “Il
primo quarantennio” dello Stato unitario, periodo sul
quale ci soffermeremo successivamente, a “Da Giolitti al primo dopoguerra“, al “Fascismo“, in cui sono state messe in luce sia le realizzazioni
positive in tanti settori - dalle opere pubbliche,
all’architettura, all’istruzione, al lavoro e dopolavoro -
sia l’apparato poliziesco e repressivo e le discriminazioni
razziali - a dimostrazione che non si possono cancellare
venti anni di storia, fermo restando il giudizio che dello
stesso periodo ciascuno può liberamente dare proprio in
virtù di tutti i dati e gli elementi esposti -, per chiudere
con il breve periodo “Verso
la Repubblica” dal 25 luglio 1943 alla promulgazione
della attuale Costituzione. Questi periodi, suddivisi in
brevi capitoli riguardanti i singoli problemi, sono stati
preceduti da alcuni saggi: fra questi ne citiamo ad esempio
uno, intitolato “La Pubblica Amministrazione
italiana da Cavour a Giolitti”, di Giuseppe Galasso,
estremamente completo ed obiettivo, dove fra l’altro - in
sottile polemica con chi contesta l’abrogazione di leggi e
regolamenti degli stati preunitari - rileva che negli anni
napoleonici, in cui
“...quasi tutta l’Italia era stata o annessa all’impero
francese o unita al Regno d’Italia, o aveva continuato a far
parte del regno di Napoli …con il fratello Giuseppe e poi
..con Gioacchino Murat…, alla stessa erano stati imposti la
legislazione napoleonica, - con il Code Napoleon in testa –
e ordinamenti politici ed amministrativi... e grandi
provvedimenti, quali la secolarizzazione dei beni
ecclesiastici…, riforme che non svanirono… nel 1815, con la
restaurazione... e ad esse si aggiunse il grande patrimonio
costituito dalle esperienze amministrative e militari fatte
nei quadri dell’Italia napoleonica…”, per cui “lo
stato italiano non sorgeva su una base di totale. estraneità
e diversità delle sue parti..”, afferma, dopo un’ampia
disanima delle vicende risorgimentali, che “…è
sorprendente che nelle storie politiche ed anche
istituzionali del paese non sia stato abbastanza colto
questo... risalto della monarchia come punto di riferimento
nella vita politica nazionale e come suo strategico e
impreteribile snodo istituzionale...”, concludendo con
un riferimento alla Pubblica Amministrazione, al suo ruolo “di
modernizzazione e di dinamismo di una società che, nella
massima parte della penisola, appariva … nel 1861 più legata
a equilibri e logiche di antica tradizione che a pressanti
istanze di movimento e di trasformazione…, basti pensare
alla parte avuta dallo stato italiano … nella dotazione di
infrastrutture moderne, a cominciare dalle ferrovie e della
pubblica istruzione, oppure dalla grande opera di amalgama
nazionale svolta dallo stesso Stato con le sue forze armate,
scuola della nazione, come furono definite“ e questo
grazie a quella leva obbligatoria tanto criticata dai
nostalgici borbonici, che forse preferivano che si
spendessero i ducati per pagare i reggimenti mercenari
svizzeri o bavaresi.
Un altro saggio “I
prodromi dell’Unità“, di Romano Ugolini, è
egualmente interessante perché dedica ampio spazio ad uno
dei “dimenticati“
del Risorgimento, insieme con Carlo Alberto, e cioè a
Massimo d’Azeglio, al quale attribuisce il grande merito di
aver saputo indirizzare il giovane Sovrano, Vittorio
Emanuele II, sulla strada del costituzionalismo e di avere
aperto le porte del Piemonte “all’esulato
nazionale, senza guardare troppo alla fede politica di
appartenenza. Non solo: a quell’esulato non offrì unicamente
un libero asilo, ma cercò, …di inserire le personalità più
illustri e preparate nelle strutture dello stato, conferendo
da un lato stipendi, ma guadagnando …l’apporto di una
cultura umanistica e scientifica il cui innesto nei gangli
vitali della vita piemontese poteva già far parlare di un
vero e proprio laboratorio nazionale“; di questo
particolarmente si giovò Cavour, per cui nel 1859 “allo
scoppio del conflitto, nessuno dei principali collaboratori
di Cavour era piemontese. Parliamo di Farini, Minghetti,
Mamiani, Gualterio, Massari e La Farina..” e Gabrio
Casati.
Venendo a “Il primo quarantennio“, dopo un breve accenno allo sviluppo degli
uffici postali passati dai 2220 del 1862 ai 2799 del 1873,
incrementati particolarmente nelle regioni meridionali “le
più carenti al momento dell’ unificazione“, si passa
alle “Misure dell’Unità d’Italia“ con la scelta del sistema metrico
decimale che, già effettuata dal Regno di Sardegna, dallo
Stato Pontificio e dal Ducato di Modena rispettivamente nel
1845, 1848 e 1849, fu estesa prima alla Lombardia ed alle
altre regioni con legge 28 luglio 1861, “fatta eccezione per le province napoletane e siciliane, che avrebbero
beneficiato di una dilazione per l’effettiva entrata in
vigore del sistema fino al primo gennaio 1863”. Le
tavole di ragguaglio ufficiali furono pubblicate e
distribuite successivamente e sono alla base dell’unico
sistema metrologico, “potente fattore di unificazione del paese dal punto di vista economico,
tecnico-amministrativo e culturale“ per cui il Regno
d’Italia poté partecipare ed aderire a pieno titolo alla
Conferenza Internazionale del Metro, tenutasi a Parigi il 20
maggio 1875.
Di non minore
importanza ed urgenza era “l’unificazione
Monetaria“ in quanto “nei
territori che formavano nel 1861 il Regno d’Italia circolavano 263 diverse monete
metalliche….” per cui “l’intralcio
agli scambi commerciali era enorme e si sommava a quello
prodotto dai dazi doganali..”: alla vigilia dell’unità
esistevano ben nove banche di emissione che dopo l’unità
furono concentrate in una unica banca nazionale, anche se
“…accanto ad essa
restarono in vita le due banche toscane e i due banchi
meridionali“ fino al 1894, quando quelle toscane e la
banca romana si fusero per dare vita alla Banca d’Italia”,
mentre sopravvissero
“…i due banchi meridionali…come banche di emissione fino al
1926…”.
E “L’ unificazione legislativa ed amministrativa“ del Regno? Bisogna
attendere il 1865, data la delicatezza del problema con
riferimento alle legislazioni degli stati preunitari, e
precisamente il 20 marzo per la pubblicazione della legge
relativa (la legge n. 2248), anche se per la Corte dei Conti
e per la Cassa Depositi e Prestiti, fondata nel Regno di
Sardegna nel 1840, vi erano state delle leggi precedenti nel
1862 e 1863, data l’urgenza di poter disporre di queste
istituzioni, ancora oggi vive, vitali e fondamentali per il
controllo delle spese e per lo sviluppo economico.
In tutta questa
vicenda volta a costruire uno stato moderno, almeno per
l’epoca, si inseriscono alcuni fenomeni che frenano lo
sviluppo, distolgono energie e fondi: parliamo, ad esempio,
de “Il
brigantaggio”, al quale è pure dedicata una sezione della Mostra,
che, per essere debellato, richiese una legislazione
speciale (Legge 1409 del 1863), la quale prese nome dal
deputato abruzzese Pica e rimase in vigore fino al 1865,
quando il fenomeno - che era storicamente endemico nel
meridione d’Italia ed al quale si erano aggiunti, dopo
l’unità, elementi di legittimismo borbonico e di rivolta
rurale - fu finalmente debellato.
Quanto alla
educazione scolastica, dopo la fondamentale legge Casati,
abbiamo “La scuola di Coppino“, con la legge 3961 del 1877 che dà
“...una risposta più
forte alla problematica dell’alfabetizzazione del paese…”
rafforzando “...l’autorità dello Stato sulla scuola, facendo della istruzione
elementare gratuita, obbligatoria e laica uno dei suoi
fondamenti...”, riuscendo a portare già alla fine
dell’anno scolastico 1886-1887 la sua applicazione in 8178
comuni su 8267 e riducendo l’analfabetismo dal 78% del 1861
al 56% del 1900. Nel campo della istruzione pubblica è da
considerare pure “...il ruolo importante delle
scuole reggimentali nella riduzione dell’analfabetismo tra i
coscritti...”, a conferma anche da questo punto di vista
della opportunità della leva obbligatoria.
Ed il territorio
di questa Italia unita? Ecco il grande lavoro “Dai
catasti preunitari al catasto italiano“: erano 22 i
catasti degli stati preunitari, di cui 8 di tipo
geometrico-particellare ed i restanti di tipo descrittivo,
che dovettero fatalmente ancora sopravvivere per diversi
anni prima di poter essere unificati nel tipo
geometrico-particellare con la legge del 1 marzo 1886
n.3682, legge Messedaglia, la quale produsse circa
trecentomila fogli di mappa ed i corrispondenti registri
catastali, opera colossale terminata nel 1956, per la quale
dal 1934 fu di aiuto la aerofotogrammetria.
Questa conoscenza
del territorio, “Conoscere
per Amministrare“, fu una esigenza sentita dal nuovo
stato e questa idea trovò
“...il suo punto di
forza nella creazione, già nel 1861,
di una divisione di Statistica generale presso il Ministero
dell’Agricoltura, Industria e Commercio (R.D. 9 ottobre 1861
n.294)”, grazie alla quale “nel
primo decennio postunitario, nonostante le difficoltà
burocratiche, legislative e l’ inesperienza degli uomini e
delle cose, come spiegherà Maestri (primo direttore, medico
ed uomo del Risorgimento), furono svolte indagini di
fondamentale rilevanza”, dai censimenti ai bilanci di
comuni e province, delle casse di risparmio, delle società
commerciali ed industriali, alle statistiche delle società
di mutuo soccorso (1862), che in pochi anni “fecero
guadagnare all’Italia il riconoscimento internazionale. Già
nel 1867 fu infatti prescelta per ospitare, in Firenze, la
sesta sessione del Congresso internazionale della statistica“.
Non dimentichiamo la inchiesta Jacini sulle condizioni
dell’agricoltura e l’impostazione di un’altra opera
fondamentale per la conoscenza approfondita del territorio,
e cioè la compilazione della Carta Geologica della Stato, in
quanto all’epoca della unificazione “si
poteva disporre solo di carte parziali, anche se preziose,
realizzate –soprattutto per la Toscana, l’Emilia, il
Piemonte e la Lombardia- da distinti geologi che avevano
operato isolatamente nei diversi stati…”, mentre
esistevano vistose lacune per l’Italia centrale e
meridionale. E a questo si aggiunga l’istituzione del
Servizio Meteorologico, per cui anche in questo settore il
giovane Stato italiano entrava a far parte di organismi
internazionali ed a partecipare a congressi, quale quello di
Vienna del 1873, dove il nostro fisico Giovanni Cantoni fu
eletto membro del Comitato permanente. Negli anni dal 1880
si imposta anche il lavoro sui corsi d’acqua realizzato, tra
l’altro, per introdurre in agricoltura moderni sistemi di
irrigazione, particolarmente opportuno in un paese soggetto
a periodiche alluvioni. Sempre dopo il 1880 si pongono le
basi di quello che oggi chiamiamo “stato
sociale“, da un lato regolando il preesistente sistema
delle società di mutuo soccorso, esistenti da decenni
particolarmente nel Piemonte Sabaudo e che nel 1894 avevano
raggiunto il numero di 6722, dall’altro per quanto riguarda
la legislazione a favore dei lavoratori, partendo dal 1859
con la legge n.3755 sulla sicurezza dei lavoratori delle
miniere, proseguendo nel 1873 con la legge n.1733 sul
divieto dell’impiego dei fanciulli nelle professioni
girovaghe, nel 1881 con la legge n.134 sulla Cassa pensioni
per impiegati statali, nel 1886 con la legge n.3657 sul
divieto del lavoro dei fanciulli negli opifici e nelle
miniere, e arrivando alla legge 17 marzo 1898 n.80 sulla
assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro nella
industria -con contributi a carico dei datori di lavoro- ed
alla successiva legge del 17 luglio 1898 n.350, creatrice
della Cassa di previdenza per gli operai, con la quale si
introdusse il principio dell’ assicurazione sussidiata di
invalidità e vecchiaia, firmate dal Re Umberto I del quale,
così scrisse Giolitti nelle sue memorie, “non
notai in Lui prevenzioni di sorta contro una politica
liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di
responsabilità la sua funzione e si informava moltissimo
delle cose dello Stato, interessandosi di tutto…”.
Questo il quadro
complessivo, anche se forzatamente incompleto, dell’enorme
lavoro svolto in tutti i settori della vita nazionale nel
primo quarantennio dello stato unitario, i più complessi e
difficili data la disparità dei punti di partenza e le
manovre e le azioni poste in atto dagli avversari della
Unità, nonché da quelle frange mazziniane che non
sopportavano il raggiungimento della unità ottenuto con -e
grazie alla- Monarchia dei Savoia, lavoro che consentì le
ulteriori conquiste politiche, economiche e sociali del
periodo giolittiano, con il pieno consenso del giovane Re
Vittorio Emanuele III, che ebbe il suo culmine nelle
celebrazioni del cinquantenario del Regno nel 1911 e nel
successivo completamento dell’ unità nel 1918.
La domanda
conclusiva è: “tutto
questo lavoro sarebbe stato possibile con una diversa
articolazione dello Stato“? Noi crediamo, in opposizione
con chi diceva “noi
credevamo“, che lo Stato doveva essere necessariamente
centralizzato, in modo da utilizzare al meglio tutte le
energie, le competenze, le conoscenze che altrimenti si
sarebbero disperse, provenienti da tutte le regioni e le
province, smentendo nei nomi e nei fatti la volgare accusa
di “piemontesizzazione“,
dal momento che le regioni meridionali dettero un contributo
fondamentale di uomini, come poteva vedersi in un’altra
iniziativa - di cui dovremmo ricercare la documentazione -
presa nell’ambito della Pubblica Amministrazione sempre
nell’anno del centocinquantenario- e cioè la raccolta dei
profili di 150 amministratori provenienti da tutte le
regioni del nuovo Regno, che dalla nascita, nel 1861, hanno
onorato l’Italia e le cui figure dovrebbero essere
conosciute a memoria ed a monito nel grigiore dell’età
presente.
15 aprile 2020
Frammenti di Riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che, in assenza
di specifica istanza di autorizzazione al superamento dei
limiti dimensionali, non possono essere presi in
considerazione i rilievi svolti nell’atto di appello per
violazione di tali limiti, stabiliti con decreto del
Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016: ne
consegue la non esaminabilità della parte di appello con cui
si reiterano i motivi aggiunti formulati in primo grado.
La Sezione ha, inoltre, dichiarato inammissibile la
domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in
sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei
confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta
nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del
consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di
cassazione (Cons. Stato, Sez. IV, 9 marzo 2020, n. 1686).
L’era delle pandemie
“L’età della globalizzazione potrebbe diventare
quella delle pandemie? Certo che sì. Come un collasso
finanziario in un nodo del sistema contagia l’intero in
tempi infinitamente più rapidi che nel passato, come una
guerra, una carestia, una crisi mettono in movimento interi
popoli che premono su frontiere sempre più virtuali, lo
stesso è inevitabile avvenga per le malattie infettive.
Natura matrigna perciò? No, cecità culturale e politica. Non
eravamo stati forse avvisati del trauma finanziario che
blocca lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente dal
2007 – 2008?... È diverso ora per il coronavirus? Fino a un
certo punto. L’Organizzazione mondiale della sanità da molti
anni ha lanciato l’allarme… Solo l’emergenza la fa da
padrona, come per le crisi finanziarie e sociali, e per
l’immigrazione… Nessuna analisi di lungo periodo, nessuna
coscienza dei pericoli (così come delle grandi opportunità)
che fisiologicamente appartengono all’epoca in cui ci tocca
di vivere. Strategie totalmente inadeguate. Si attende che
il male arrivi, e poi a caccia di cure e vaccini. Gli
scienziati prevedono e ammoniscono invano. Voci che chiamano
nel deserto. Se ne invoca l’aiuto nell’emergenza, e poi via
a tagliare di nuovo per formazione, ricerca, posti letto,
ecc. Tanto nessuno sa e quel che si sa si dimentica”
(Massimo Cacciari, “De profundis Europa”,
L’Espresso, n. 13/2020, 60 ss.).
“Smascherati”
Tutti, o quasi tutti, ci siamo spesso domandati “quali
identità si celano dietro alcuni dei più celebri ritratti” e
quali storie e segreti hanno segnato la loro vita.
A questa domanda si sono impegnati a rispondere
Francesca Bonazzoli e Michele Robecchi con “Smascherati” (Roma, 2018), indagando sugli eventi che hanno
coinvolto quei “volti immobili”.
La lettura del volume è agevole e coinvolgente ed alcuni
“smascherati” non rivelano ancora, in modo certo, le vicende
della loro esistenza terrena.
Tra questi, ancora in parte avvolta nel mistero, è la vita
di Margherita Luti (p. 28), meglio conosciuta come “La
Fornarina”, figlia
di Francesco, fornaio senese, poi trasferitosi a Roma, in
Via del Governo vecchio n. 48, nel quartiere di Trastevere,
la donna che il grande pittore Raffaello amò
appassionatamente.
Ma il volto di un’altra fanciulla, “La
Velata” di Palazzo Pitti, “è perfettamente
sovrapponibile” a quello de “La
Fornarina”. Trattasi della stessa persona? I più
propendono per il sì.
Per gli autori del volume è necessario recarsi al Pantheon,
dove venne tumulato Raffaello, con accanto una lapide
recante la seguente dicitura: “A Maria Bibbiena di lui
fidanzata che con la morte prevenne il lieto imeneo e prima
delle faci iniziali fu portata via, ancora fanciulla”. Maria
era la nipote del cardinal Bibbiena che l’avrebbe voluta
sposa di Raffaello, premorta al pittore.
Sembrerebbe, però, che Raffaello fosse già unito a “La
Fornarina” con
matrimonio segreto.
E cosa accadde a Margherita? Si ritiene che sia la donna
così registrata nei libri del convento di Sant’Apollonia, in
Trastevere, quattro mesi dopo la morte di Raffaello. “Al dì
18 agosto 1520. Hoggi è stata ricevuta dal nostro
Conservatorio MA Margherita vedoa figliuola del quodam
Francesco Luti di Siena”.
Il ritratto de “La
Fornarina” è conservato in Roma, presso la Galleria
nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini.
Estinzione del processo
“Fino dai tempi di Giustiniano, quando
si escogitavano i mezzi processuali per impedire che le liti
diventassero paene
immortales, il processo era immaginato come un organismo vivente, che nasce,
cresce e alla fine si estingue per morte naturale col
giudicato, quando non sia intervenuta, a farlo morire prima,
quella specie di infanticidio processuale che è la
conciliazione, o quell’anemia perniciosa che è la
perenzione” (Piero Calamandrei, ”Elogio
dei giudici scritto da un avvocato”, rist., Milano
2001,153).
“Cleopatra”
La lettura di un libro può
provocare sensazioni positive ed un arricchimento culturale.
È quanto si verifica con “Cleopatra
la regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità” di
Alberto Angela (Milano, 2018).
Cleopatra, ultima regina
d’Egitto, che esce dall’opera di Angela è una Cleopatra se
non nuova, sicuramente innovatrice.
È, infatti, la vita di
“una donna capace di influenzare come poche altre il corso
della storia. Una donna moderna proiettata nell’antichità”.
“Più che il corpo, il suo
asso nella manica è stato il cervello, con le sue idee, la
sua abilità strategica, i suoi progetti”.
Non possono di certo
negarsi il suo fascino e la sua sensualità, né sottovalutare
la sua capacità intellettuale, la sua scaltrezza, “abile nel
gioco delle alleanze e persino cinica nella gestione del
potere”.
Con il suo libro Angelo
svolge una accurata indagine storica che muove
dall’uccisione di Giulio Cesare, evento che segna la fine
della Repubblica, fino alla morte di Antonio e Cleopatra e,
quindi, alla nascita dell’Impero con Augusto al potere.
Un libro senz’altro da
leggere e, come accaduto a chi scrive, anche, in più parti,
da rileggere.
8 aprile 2020
Straordinario
discorso della Regina Elisabetta, sicura, rassicurante, da
leader indiscusso del suo popolo
di Salvatore
Sfrecola
Il volto sereno,
rassicurante per la sicurezza che trasmette nelle difficoltà
del momento, Elisabetta II ha parlato agli inglesi e al
mondo intero. Pochi minuti, senza enfasi ha dimostrato che,
quando le certezza sono messe in discussione un Sovrano
riesce, come nessuno, a rappresentare il proprio popolo nel
presente e nelle prospettive del difficile futuro che si
prospetta.
Nel
“time of disruption” la Regina ha offerto l’immagine della
fiducia nel futuro perché, ha detto ai suoi compatrioti,
“United and resolute then we will overcome it”, uniti e
determinati, vinceremo. Ed ha precisato che “l’orgoglio in
chi siamo non fa parte del nostro passato come Paese ma
definisce ancora il nostro essere oggi e definirà il nostro
futuro”.
Chiunque avrebbe potuto parlare con le medesima serena
autorevolezza? Con la medesima consapevolezza della storia
di un popolo che, nelle più gravi difficoltà, mai si è
lasciato andare allo sconforto? No. Un uomo di parte, sia
pure autorevole, come siamo abituati a vedere alla testa
delle repubbliche deve fare i conti con la propria storia
personale, con le vicende della propria esperienza politica,
con l’orientamento del proprio partito e di quelli che hanno
concorso alla sua elezione. Vale sempre questa
considerazione, sia che ad eleggere il presidente sia stato
il Parlamento, sia che lo abbia eletto il popolo, perché
comunque l’orientamento dei partiti è determinante.
Un Sovrano, e la Regina Elisabetta ne è consapevole, esprime
la storia e l’identità di un popolo, non è “di parte”. Re e
popolo sono una stessa cosa, come dimostra l’esperienza
delle monarchie democratiche d’Europa in nazioni molte delle
quali sono tali solo per la presenza del Sovrano, dal Belgio
che non sopravviverebbe all’antica tensione tra fiamminghi e
valloni, alla Spagna che ha sofferto della sanguinosa
rivolta dei baschi ed oggi è scossa dalle pulsioni
autonomistiche dei catalani.
Un Re attraversa la storia,
dura
nel tempo perché lungo il tempo della Nazione c’è stato
sempre, con un nome diverso scandito dai numeri ordinali che
seguono al momento dell’assunzione al trono, come Giorgio VI
il padre di Elisabetta. Un Re è patrimonio della Nazione,
rappresenta in patria e nel mondo il suo popolo al quale può
chiedere impegno solidale quando la Patria chiama, sia una
guerra, come tante e sanguinose ne ha conosciute, sia una
infezione che dilaga spargendo morte e fiaccando l’economia.
Si è detto che la Regina Elisabetta dà un significativo apporto
al PIL del Regno Unito. Si comprende facilmente, perché è
un’icona della Nazione per i suoi concittadini e per quanti
si recano a visitare l’Inghilterra. Qualcuno, con
espressione che può sembrare irriguardosa, ha detto che la
Regina è un “brand” sul mercato. Del resto io uso un tè che
si gloria di essere fornitore della Regina, “by appointment
to Her Majesty Queen Elisabeth II, come un tempo, da
ragazzo, leggevo sulle etichette di alcuni vini e liquori
“fornitore della Real Casa”.
Quale, dunque, il segreto di un Sovrano? La straordinaria
capacità di tutti di saper rappresentare la nazione nel
tempo che scorre, cambiando ma nel senso della continuità.
Cosa che non può un presidente di repubblica che vive nel
timore di scontentare i partiti che lo hanno eletto e che
spera lo confermeranno ancora a scadenza del mandato.
Un Re è per sempre. E non è differenza da poco.
6 aprile 2020
Un grande prestito nazionale per far
ripartire l’economia
di Salvatore Sfrecola
Siamo alla
vigilia della riunione dell’Eurogruppo che ha all’ordine del
giorno la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (M.E.S.)
e le possibili misure da adottare in favore dei paesi che
stanno subendo danni gravi a seguito del blocco delle
attività industriali, manifatturiere e commerciali in
conseguenza delle misure restrittive adottate dai governi
per far fronte all’epidemia da coronavirus. Il Fondo “Salva
Stati” nasce a seguito degli esiti non proprio felici della
politica attuata dall’Unione per far fronte alla crisi
finanziaria degli anni 2010-2011 nei quali alcuni stati
membri si sono trovati sull’orlo del tracollo finanziario.
L’esperienza della Grecia “aiutata” con forte penalizzazione
di stipendi, pensioni e posti di lavoro ha dato luogo al
M.E.S. che può contare su un robusto capitale costituito dai
versamenti degli stati membri. Con queste risorse il M.E.S.
può concedere prestiti ai paesi in difficoltà i quali sono
tenuti ad adottare – sulla base di un memorandum d’intesa
(MoU) - provvedimenti capaci di tagliare il deficit/debito
ed attuare riforme strutturali ritenute necessarie per la
ripresa dell’economia del paese.
La polemica nei
confronti del M.E.S. è forte, sia con riferimento alle
modalità prevedibili di finanziamento del paese che richiede
l’intervento sia, per l’Italia, con riguardo alla mancata
autorizzazione del Parlamento. Così almeno la vede Salvini
che non manca, giorno dopo giorno di polemizzare con il
Presidente del Consiglio Conte e con il Ministro
dell’economia Gualtieri. Per cui si fa strada, soprattutto
tra le forze di opposizione, con il consiglio di alcuni
economisti, di affrontare la crisi economica facendo ricorso
alle risorse interne, al risparmio degli italiani. Non,
tuttavia, nelle forme predatorie che ricordano il Governo
Amato o certe ventilate iniziative che sanno tanto di
imposta patrimoniale, come può trasparire dalle parole del
Viceministro dell’economia Misiani. E neppure attraverso
contributi di solidarietà da imporre a dipendenti e
pensionati.
La strada
maestra è quella di chiedere agli italiani di sottoscrivere
un grande prestito pubblico di centinaia di miliardi
destinato al rilancio dell’economia attraverso uno
straordinario piano di interventi infrastrutturali che
riguardino strade, autostrade, ferrovie, metropolitane e poi
porti e aeroporti per dotare questo Paese dei mezzi
essenziali per aiutare le imprese a crescere ed a competere
sui mercati limitando i costi del trasporto e favorendo
quell’altra straordinaria risorsa, sempre evocata e mai
concretamente sfruttata, il turismo che ha uno straordinario
indotto, proprio di questa nostra Italia costituito
dall’artigianato e dall’enogastronomia.
Anche i porti
meritano di essere potenziati per favorire il trasporto
delle merci dall’Europa verso l’Oriente. Lo diceva già nel
1846 (occhio alla data) Camillo Benso di Cavour auspicando
che Napoli e Palermo diventassero la porta d’Europa sul
Mediterraneo. Poi c’è un problema di acquedotti e fognature,
espressione della civiltà che ancora stenta ad affacciarsi
in molte aree del Paese, soprattutto nel meridione e nelle
isole.
Un po’ di storia
di Roma insegnerebbe a molti che per crescere l’economia ha
bisogno di infrastrutture viarie e portuali, puntualmente
realizzate dalla Repubblica e dall’Impero ovunque nel mondo
allora conosciuto.
Un piano
straordinario è quello che si propone, per crescere e
favorire i consumi interni e l’occupazione, anche con un
ritorno fiscale non indifferente.
Lo si è fatto in
altri tempi, secondo le indicazioni della scienza economica
in tempi di crisi, come ha ricordato il Professore Sapelli
in una recente intervista a
La Verità. Opere pubbliche da manutenere e incrementare,
finanziate con un prestito a lunga scadenza, naturalmente
capace di attirare l’interesse dei risparmiatori. Lo si è
fatto durante la Grande Guerra quando gli italiani hanno
risposto con entusiasmo, proponendosi sottoscrittori per
cifre molto superiori a quelle dei buoni offerti. Lo
racconta con dovizia di particolari Luigi Einaudi nei suoi
magistrati commenti sul
Corriere della Sera
insistendo su un fattore che in economia ha sempre
contato, la fiducia degli italiani nello Stato e nei Governi
che emettevano i buoni del tesoro.
È forse
richiamando quei precedenti che in comunicato stampa di oggi
l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), movimento di opinione
che non è un partito politico, nel manifestare “viva
preoccupazione per possibili decisioni del Governo che, in
assenza di un voto del Parlamento, aderisca ad una ipotesi
che, sulla base della analisi della sostenibilità dei debiti
nazionali, si risolva in un prestito limitato ma con pesanti
oneri per i contribuenti italiani”, propone un grande piano
di investimenti infrastrutturali, nella certezza che gli
italiani vorranno “aiutare la Patria in questo grave momento
di crisi economica e sociale”.
5 aprile 2020
Fogli sparsi
di Domenico Giglio
Dividendi
La richiesta alle
banche di sospendere l’erogazione dei dividendi, già
previsti, è partita giorni or sono dalla Norvegia, felice
monarchia dove il bilancio dello stato è in attivo, grazie
al petrolio del Mare del Nord, ed il reddito pro capite è
tra i primi in Europa e nel mondo, quasi doppio rispetto a
quello dell’Italia. Alla Norvegia sono seguiti altri paesi
ed ora anche in Italia si chiede e si ottiene dagli istituti
bancari, tra i primi, la sospensione dei dividendi,
“remunerazione del capitale”. Frase esatta, ma non completa
perché per centinaia di migliaia di italiani quei dividendi
sono una integrazione di pensioni modeste o ferme da anni
(le pensioni di piombo), e frutto di investimenti mobiliari
di risparmi di tutta una vita. Il tutto deciso da burocrati,
“burosauri”, sicuri dei loro emolumenti, con gli scatti
contrattuali ed altri benefici, ed accolti da amministratori
dai compensi annuali a sei zeri, che, come i giocatori di
calcio, potrebbero ridurre sensibilmente, e qualcuno pare lo
stia facendo, senza finire sul lastrico! Che queste
decisioni dipendano dalla attuale pandemia d’accordo, ma tra
l’azzeramento ed una riduzione di questi compensi c’era e
c’è spazio, non dimenticando che i dividendi si riferiscono
al 2019 e sugli stessi i piccoli azionisti contavano per
ripianare il loro modesto bilancio. “Est modus in rebus :
sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit
”-(Orazio : Satire –lib. I – sat. I )-
Macro problemi micro stati
Le misure
sanitarie prese in tutto il mondo per cercare di bloccare
questa pandemia causata da un nuovo virus, le difficoltà di
mettere insieme dei provvedimenti non solo sanitari, ma
anche economici, nell’ambito dell’Europa la cui unione
collega attualmente ben 27 stati dimostra che “tot capita,
tot sententiae”. Ora se questi accordi sono difficili dato
il numero delle teste, e solo l’unione di scienziati di
tutti questi paesi mettendo in comune mezzi ed esperienze
può trovare e produrre delle soluzioni ai problemi, a questo
punto soprattutto economici e sociali, per riprendersi in
tempi brevi, pena un’altra forse peggiore pandemia di
povertà e disoccupazione, si deve necessariamente trovare
punti d’incontro e sinergie. Ora più che mai, l’idea
perseguita da minoranze secessioniste che vogliono creare
nuovi stati, logicamente di piccole dimensioni, appare
perciò fuori della realtà. Non è più tempo per sogni di
ambiziosi che si rifanno a storie e storia di più secoli or
sono. Lo stesso discorso vale per combattere il terrorismo
di cui oggi si parla meno o nulla perché tutto lo spazio è
preso dalla notizie sul corona virus, ma che non possiamo
pensare o sperare che sia debellato e che dall’Afganistan,
alla Siria e altri posti ha provocato più morti della
attuale morbo ed ha messo in ginocchio intere nazioni, con
città distrutte e milioni di profughi. Si afferma
giustamente che quando sarà bloccata questa pandemia non si
potrà tornare integralmente alla vita precedente e che
dovremo fare tesoro dell’attuale esperienza, forse
eccessivamente enfatizzata, e questo dovrà valere sia nei
rapporti tra gli stati, particolarmente della indispensabile
Unione Europea, che, a tutt’oggi non ha dato una grande
prova di efficienza e solidarietà, sia a far rientrare
definitivamente le richieste referendarie per la separazione
della Scozia o della Catalogna.
Il Veltro dantesco
Alcuni amici e conoscenti mi hanno chiesto perché fossi così
sicuro che la (Divina) Commedia fosse proprio il veltro
indicato da Dante. Premetto che ho fatto il liceo classico,
con un grande professore d’italiano, il gesuita Padre
Raffaele Salimei, mi piaceva la storia e la letteratura
italiana, ma poi ho scelto ingegneria affascinato a mia
volta dalla architettura e dai progetti e poi dalle foto,
anche in fase costruttiva, dei numerosi palazzi della Banca
d’Italia, progettati e diretti da mio padre (Imperia, San
Remo, Savona, La Spezia, Cremona, Viterbo, Livorno, Rieti,
Civitavecchia, Ragusa, Enna e Trapani). Quindi non sono un
professore di lettere, ma mi sono limitato, oltre a leggere
Dante, a soffermarmi sui commenti ai versi in diverse
edizioni, con diversi commentatori, a studiare alcune storie
della letteratura, tra cui Francesco Flora, ma su alcuni
punti controversi ho cercato semplicemente di ragionare.
“Cogito ergo sum”. Allora mi sono posto il quesito di ordine
generale sulla Divina Commedia: perché Dante la scrisse?
L’Alighieri era un poeta già conosciuto ed apprezzato, era
un importante scrittore in prosa, latina ed italiana, poteva
scrivere di tutto, anche un poemetto dedicato a Beatrice, ma
perché proprio nelle difficoltà dell’esilio ha posto mano al
“poema sacro” che “m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso
- c. XXV- v. 1-3), rischiando anche l’accusa di eresia con
tutte le eventuali gravissime conseguenze?
Dante, a mio avviso, lo scrisse perché voleva adempiere ad una
“missione”, e non certo solo a schivare le tre belve ed a
rendere postumo omaggio a Beatrice, ed una missione è ben
diversa da una “profezia”. La missione è “immediata”,
contemporanea anche se il suo effetto può continuare nel
tempo. Ancora oggi leggiamo testi di grandi predicatori, ed
anche il semplice, ma stupendo “Cantico” di San Francesco o
lettere di Santa Caterina da Siena, per cui la lettura della
Divina Commedia è proseguita nei secoli ed il suo studio
sono giustamente materia d’insegnamento scolastico, da
quando l’Italia ha raggiunto la sua unità con il Regno
d’Italia il 17 marzo 1861, e questa unità era effettivamente
un vaticinio dantesco. Quindi una missione poteva anche
essere svolta, ma il testo, ripeto, lo esclude, da un
personaggio contemporaneo, ma di cui in quel secolo non vi è
tracia e Dante era buon conoscitore degli uomini del suo
tempo per pensare ad un Cangrande della Scala (1291-1329), o
ad un imperatore. Pensare che fosse un personaggio di secoli
dopo è di una tale illogicità, che meraviglia avere alcuni
aprile scrittori in epoche successive attribuito a
personalità anche importanti, e sempre italiani, il ruolo
del veltro, ma di cortigiani, “vil razza dannata”, è piena
la storia. Pensare alla terza età dello Spirito Santo, del “calavrese
abate Gioacchino, di spirito profetico dotato” (Paradiso –
c. XII. v. 140), è egualmente assurdo perché il tra “feltro
e feltro” indica sempre dei fogli di carta e quindi una
opera scritta. E se opera scritta doveva essere è appunto la
Commedia.
Ecco perché “la sua nazion “, e la “sapientia, amore e virtute”,
sono i cento canti della Divina Commedia e la sua missione
contro cupidigia, corruzione, avarizia, ricchezza e potere
temporale della Chiesa (questo però cessato il 20 settembre
1870) è sempre valida ed attuale.
4 aprile 2020
JOANNES
PAULUS P. P. II SANCTUS:
UN PAPA NELLA STORIA
di Gianluigi Chiaserotti
Il 2 aprile scorso, sono trascorsi
quindici anni dalla scomparsa del grande Pontefice Giovanni
Paolo II.
Con questo mio pensiero, desidero
ricordarlo e condividerlo.
§ 1. Note biografiche
Karol Jósef Wojtyla nacque a Wadowice,
città a cinquanta chilometri da Kraków, Cracovia (Polonia),
il 18 maggio 1920.
Era l’ultimo dei tre figli di Karol
Wojtyla e di Emila Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo
fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932, e suo
padre,
sottufficiale dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era
morta prima che egli nascesse.
Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella
Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote Franciszek
Zak; a nove anni ricevette la Prima Comunione ed a diciotto
anni la Cresima.
Terminati gli studi nella Scuola
Superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 Karol
Wojtyla si iscrisse alla Università Jagellónica di Cracovia.
Quando le forze di occupazione naziste
chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò
(1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica
chimica Solvay al fine di potersi guadagnare da vivere, ma
soprattutto per evitare la deportazione in Germania.
A partire dal 1942, sentendosi chiamato
al sacerdozio, il Nostro frequentò i corsi di formazione del
seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto
dall’Arcivescovo [futuro Cardinale (creato il 18 febbraio
1946)] Adam
Stefan Stanislaw Bonifacy Jósef Sapieha (1867-1951).
Nel contempo,
Karol Wojtyla fu uno dei promotori del “Teatro
Rapsodico”, anch’esso clandestino.
Dopo
la Seconda Guerra Mondiale, continuò i suoi studi nel
Seminario Maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella
facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla
sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Cracovia il giorno 1
novembre 1946, proprio per le mani dell’Arcivescovo,
cardinale Sapieha.
Successivamente don Karol fu inviato a Roma, dove, sotto la
guida del domenicano francese padre Réginald
Garrigou-Lagrange (1877-1964), conseguì, nel 1948, il
dottorato in teologia, con una tesi sul tema della fede e
delle opere di San Giovanni della Croce (“Doctrina
de fide apud Sanctum Iannem a Cruce”)
(Juan de la Cruz, 1542-1591), il fondatore
dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, beatificato nel 1675,
canonizzato nel 1726 e dichiarato Dottore della Chiesa nel
1926.
In quel periodo, nel corso delle sue
vacanze, il Nostro esercitò il ministero pastorale tra gli
emigranti polacchi in Francia, Belgio ed Olanda.
Nel 1948 il Wojtyla ritornò in Polonia e
fu coadiutore, dapprima, della parrocchia di Niegović,
vicino a Cracovia, eppoi in quella di San Floriano, in
città.
Divenne quindi cappellano degli
universitari fino al 1951, anno in cui riprese i suoi studi
filosofici e teologici.
Nel 1953 il Nostro presentò
all’Università Cattolica di Lublino la tesi: “Valutazioni
sulla possibilità di costruire l’etica cristiana sulle basi
del sistema di Max Scheler”.
Più tardi, Egli divenne docente di
teologia morale ed etica nel Seminario Maggiore di Cracovia
e quindi nella Facoltà di Teologia di Lublino.
Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII
[Eugenio Pacelli (nato nel 1876), 1939-1958] lo nominò
Vescovo titolare di Ombi ed Ausiliare di Cracovia.
Il Nostro ricevette l’ordinazione
episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale di Wawel
(Cracovia), dalle mani dell’arcivescovo Eugenisz Baziak
(1890-1962).
Il 13 gennaio 1964 il Wojtyla fu
nominato Arcivescovo di Cracovia dal Papa San Paolo VI
[Giovanni Battista Montini (nato nel 1897), 1963-1978] che,
in seguito, lo creò e lo pubblicò anche Cardinale nel
Concistoro del 26 giugno 1967, del Titolo di San Cesareo in
Palatio, Diaconia “pro
illa vice” elevata a Titolo Presbiteriale.
L’Arcivescovo Wojtyla partecipò al
Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Concilio che fu
fortemente voluto da San Giovanni XXIII [Angelo Giuseppe
Roncalli (nato nel 1881), 1958-1963] con il suo famoso,
vibrante e pieno di commozione discorso pronunciato nella
Basilica di San Paolo il 25 gennaio 1959. Concilio quindi
inaugurato il giorno 11 ottobre 1962, con il celeberrimo
discorso “Gaudet
Mater Ecclesiae”.
E fu proprio il Nostro a giustamente
beatificare Giovanni XXIII il 3 settembre 2000.
Il Wojtyla, in questo contesto, dette un
validissimo ed importante contributo nell’elaborazione delle
costituzioni “Gaudium et Spes” e della “Dignitatis
Humanae”, due dei documenti storici più importanti ed
influenti pubblicati dal Concilio.
In particolare, nel settembre 1964,
intervenne allo schema preparatorio sulla libertà religiosa,
evidenziando che nel testo veniva meno di dire che “solo
la verità rende liberi”. Nel 1965 diede quindi
ulteriormente il suo contributo allo schema preparatorio
della “Gaudium et
Spes”, pronunciando, il 28 settembre, un ulteriore
importante discorso in difesa dell’antropologia
personalistica.
Fu nel corso dei lavori delle sessioni
conciliari che il futuro Papa conobbe, apprezzò e divenne
sincero amico di un giovane teologo bavarese: Josef
Ratzinger (1927- ), suo futuro prezioso collaboratore quale
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
nonché suo naturale Successore al Soglio Petrino.
Il Cardinale Wojtyla prese parte anche
alle cinque assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al
suo Pontificato.
Ma la grossa svolta della sua missione
pastorale si ebbe nel 1978. I Cardinali, riuniti in
Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978, nel giorno
della Santa polacca Edvige.
Qualcuno pensa che la sua elezione, come
quella del suo predecessore, sia stata frutto di un
compromesso. Il Conclave infatti, secondo quanto emerso dai
racconti di alcuni cardinali, vide una netta divisione tra
due candidati particolarmente forti quali il Cardinale
Giuseppe Siri (1906-1989), Arcivescovo di Genova, votato
dalla parte dell’ala conservatrice, ed il Cardinale Giovanni
Benelli (1921-1982), Arcivescovo di Firenze, molto vicino al
Papa Giovanni Paolo I [Albino Luciani (nato nel 1912), 26
agosto-28 settembre 1978] e sorretto dall’ala più riformista
del Collegio dei Cardinali.
Sembra che nei primi ballottaggi il
Benelli sia arrivato a nove voti dall’elezione, ma il
Nostro, in parte grazie al supporto ottenuto da cardinali
come Franz König (1905-2004), Arcivescovo di Vienna, ed
altri che avevano in precedenza appoggiato il cardinale
Siri, venne eletto con grande stupore di tutto il mondo, e
ciò con 99 voti su 111 (Giovanni Paolo I ne aveva ottenuti
98).
Quindi, come si diceva poc’anzi, il 16
ottobre 1978, all’età di cinquantotto anni, Karol Wojtyla
succedette a Papa Giovanni Paolo I.
Al momento dell’elezione il Nostro
avrebbe voluto assumere il nome di Stanislao I in onore del
Santo Patrono della Polonia. Tuttavia, poiché i cardinali
gli fecero notare che era un nome
non rientrante nella tradizione romana, Wojtyla
scelse quello di Giovanni Paolo, in ricordo del suo insigne
predecessore, ed al fine di tener viva la sua memoria. Al
riguardo disse: “Scelsi
gli stessi nomi, che aveva scelto il mio amatissimo
predecessore Giovanni Paolo I.
(…) un binomio di
questo genere era senza precedenti nella storia del papato –
ravvisai in esso un chiaro auspicio della grazia sul nuovo
pontificato. (…)” e “Scegliondoli” (i due nomi) “(…)
desidero esprimere il mio amore per la singolare eredità
lasciata alla Chiesa dai Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI,
e insieme la personale mia disponibilità a svilupparla con
l’aiuto di Dio”.
L’annuncio della sua elezione (l’”Habemus papam”) fu dato dall’allora cardinale protodiacono
Pericle Felici (1911-1982).
Pochi minuti
dopo il neo-Papa si presentò alla folla riunita in piazza
San Pietro, affacciandosi dalla loggia che sovrasta
l’ingresso della Basilica. Nel suo breve discorso egli si
definì come “il nuovo Papa chiamato di un paese lontano” e superò
immediatamente le diffidenze degli italiani, che vedevano,
per la prima volta da lungo tempo, un pontefice straniero, e
ciò dai tempi in cui ascese al pontificato l’olandese
Adriano Florensz, Adriano VI (nato nel 1459), che fu papa
dal 1522 al 1523.
Prese, come abbiamo detto, il nome di
Giovanni Paolo II, ed il 22 ottobre iniziò solennemente il
ministero Petrino, quale CCLXII Successore dell’Apostolo.
Egli, devoto alla Madonna, iscrisse la
cifra mariana nella sua vita e nel suo pontificato. “Totus
tuus”, fu il motto dell’Arcivescovo di Cracovia e del
Papa (unitamente allo stemma con una “M”
sotto la croce, che fece scandalo tra gli araldisti
vaticani), proveniente dalla formula di affidamento a Maria
di San Luigi Maria (Louis-Marie) Grignion de Montfort
(1673-1716) (beatificato nel 1888 e canonizzato nel 1947),
che inizia con le seguenti parole: “Totus
tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia.
Praebe mihi cor Tuum, Maria”.
Il suo
pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della
Chiesa ed è durato quasi ventisette anni. Comunque è il
terzo pontificato in assoluto più lungo dopo quelli di San
Pietro (martirizzato nel 67), del beato Pio IX
[Giovanni Battista Mastai Ferretti (nato nel 1792),
1846-1878],
quasi trentadue anni (beatificato, tra l’altro, dal Nostro
il 3 settembre 2000), e prima di quello di Leone XIII
[Vincenzo Gioacchino Pecci (nato nel 1810), 1878-1903] oltre
venticinque anni. Al riguardo nel testamento di Giovanni
Paolo II è riportato un vaticinio del cardinale Stefan
Wyszyńsky (1901-1981), l’allora Primate di Polonia, e cioè:
“Il compito del
nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”.
E sappiamo che così è stato.
Il nuovo Papa fu immediatamente
innovativo.
Infatti volle iniziare il suo
pontificato rendendo omaggio ai due Patroni d’Italia. E così
il 5 novembre 1978 visitò Assisi, per venerare San
Francesco, e successivamente si recò anche nella Basilica
romana di Santa Maria sopra Minerva, al fine di venerare la
tomba di Santa Caterina da Siena.
Il 12 novembre
Giovanni Paolo II prese possesso, come Vescovo di Roma,
della Cattedra di San Giovanni in Laterano, ed, in codesta
Sua veste, il 5 dicembre compì la prima, di una lunga serie
di visite, alle parrocchie della Diocesi di Roma, iniziando
con quella di San Francesco Saverio nel popolare quartiere
della Garbatella.
§ 2. Il
Pontificato ed i suoi motivi fondamentali
Il lungo, intenso, ma anche innovativo
Pontificato di Giovanni Paolo II ha tanti motivi su cui
riflettere sia per la personalità eclettica del Papa, sia
per i momenti storici avvicendatisi attraverso gli anni, sia
anche per la natura del Pontificato, tradizionale per certi
aspetti e temi, ma in continua evoluzione per altri.
Vediamo quindi di cercar di analizzare
alcuni dei motivi fondamentali che hanno caratterizzato, ma
anche evidenziato l’opera pastorale del Nostro.
Ma codesti motivi fondamentali hanno,
senza dubbio, il loro naturale prologo nel bellissimo
pensiero che Giovanni Paolo II pronunciò nel Suo discorso di
inizio del Pontificato il 22 ottobre 1978:
“Non
abbiate paura (…). Aprite, anzi, spalancate le porte a
Cristo!
Alla sua
salvatrice potestà aprite i confini degli Stati,
i sistemi
economici, come quelli politici,
i vasti campi
della cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate
paura!
Cristo sa cosa
è dentro l’Uomo. Solo Lui lo sa!”
Ed Egli fu fedele sino alla fine a detto
pensiero.
Innanzitutto il Pontefice ribadì
ripetutamente la dignità dell’uomo ed il diritto alla vita,
come fondamento di tutte le posizioni assunte in tema di
morale.
Ogni individuo è “unico
e irripetibile” ed ogni persona, in quanto è ad “immagine e somiglianza di Dio”, ha una dignità che non è
acquisita con meriti, ma è data fin dalla nascita.
Il diritto naturale secondo San Tommaso
d’Aquino (1225-1274) discende dal diritto divino, da un
volere del creatore che ha imposto tali leggi alla natura
creata.
La vita è un diritto in quanto dono di
Dio, il Solo che può darla e toglierla.
Il diritto alla vita è per il pontefice
il fondamento di ogni altro diritto: della persona,
dell’esistenza di una giustizia e di un sistema di diritti a
suo riguardo.
Il 10 gennaio
2005, nel corso dell’ultimo incontro di inizio d’anno con il
Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
Giovanni Paolo II
antepose a tutti i problemi dell’umanità, compresa la
fame, il tema della “sfida
della vita” contro quella che definì come “cultura della morte”, rappresentata da aborto,
fecondazione artificiale,
clonazione,
eutanasia,
unioni civili
e
matrimoni omosessuali,
dichiarando che “lo
Stato ha come suo compito primario proprio la tutela e la
promozione della vita umana”.
Il tema della
“cultura della
morte” e la condanna di essa ricorre in numerosi
pronunciamenti del Nostro.
La sua
dottrina ha difeso fortemente la vita umana dal
concepimento
fino alla
morte
naturale. Questa posizione è stata per qualcuno di stampo
conservatore, mentre altri l’hanno considerata un baluardo
nella difesa dei più deboli e della vita.
Nell’Enciclica
“Evangelium
vitae”
del
25 marzo
1995
definì “democrazie
totalitarie” gli stati democratici che consentono l’interruzione
volontaria della gravidanza.
Il Papa si è
espresso contro l’ordinazione al sacerdozio di donne e tale
posizione fu ribadita con la lettera apostolica “Mulieris dignitatem”
il
15 agosto
1988
e successivamente il
22 maggio
1994
nella lettera “Ordinatio sacerdotalis”.
Sull’ipotesi
che per tale pronunciamento si fosse avvalso dell’infallibilità
papale
intervenne dapprima la Congregazione per la Dottrina della
Fede, con il suo “Responsum”
in data
28 ottobre
1995,
a firma dell’allora Prefetto,
cardinale
Joseph Ratzinger.
In questo documento si afferma che la
suddetta dottrina “proposta
infallibilmente dal magistero ordinario e universale”,
è proposta dalla Lettera Apostolica “Ordinatio Sacerdotalis”
con una dichiarazione formale e deve essere considerata come
appartenente al deposito della fede.
In seguito lo
stesso Giovanni Paolo II, nel discorso ai vescovi tedeschi
del
20 novembre
1999
(n. 10), affermò: “l’insegnamento
sul sacerdozio riservato agli uomini riveste il carattere di
quella infallibilità che è legata al Magistero ordinario e
universale della Chiesa”.
Come Paolo VI,
anche Giovanni Paolo II intervenne più volte in difesa del
celibato ecclesiastico nel rito latino, dichiarando che
mantenerlo sarebbe stato positiva soluzione al calo delle
vocazioni. Tra i motivi elencati in favore del celibato, il
Pontefice citò il maggior tempo da dedicare alla
parrocchia/comunità, e il fatto che il sacerdote debba non
pensare ai beni terreni.
Ha confermato
la posizione della Chiesa contraria all’ammissione di
cattolici
divorziati
risposati o conviventi con altri, al sacramento dell’eucaristia
nell’esortazione
apostolica
“Familiaris consortio”
del
22 novembre
1982.
Il 22 novembre 2001 il Nostro ha
nuovamente espresso tale posizione ai presuli dell’Oceania,
dopo che erano stati sollevati dei dubbi nel corso del loro
Sinodo, tenutosi nell’Urbe nel 1998, e nella Enciclica “Ecclesia
de Eucarestia” del 2003.
Il
15 agosto
1997,
con la lettera apostolica “Laetamur Magnopere”,
il Papa approvò e promulgò in modo ufficiale il
Catechismo della Chiesa
Cattolica,
e ciò alla luce della Tradizione, ma anche autorevolmente
interpretata dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Il nuovo
Catechismo fu però
accolto con diverso umore dai vari ambienti
cattolici.
Uno dei temi
più controversi riguardava la
pena di morte.
Pur essendovi una decisa condanna di tale pena, questa non è
totale. Una successiva riscrittura ha eliminato molti dubbi,
coniugando il rispetto della dottrina precedente (nello
Stato Pontificio
si praticava la pena di morte, così come in quasi tutti gli
stati dell’epoca) con l’affermazione secondo cui al giorno
d’oggi i casi in cui tale pena è lecita sono
praticamente
inesistenti.
Più volte il
Sommo Pontefice si è espresso contro le sperimentazioni
nella liturgia, in un chirografo del
22 novembre
2003
dichiarò che “il
sacro ambito della celebrazione liturgica non deve mai
diventare laboratorio di sperimentazioni o di pratiche
compositive ed esecutive introdotte senza un’attenta
verifica”, posizione ripetuta nella
lettera apostolica
“Spiritus et Sponsa” del
4 dicembre
2003 in occasione del quarantesimo anniversario della
costituzione sulla liturgia del
Concilio
Ecumenico Vaticano II.
In precedenza
il
24 maggio
il cardinale
Darío Castrillón Hoyos
(1929-2018) aveva celebrato, a nome del Papa, una
messa
con rito
tridentino nella
basilica di Santa Maria Maggiore
in Roma.
Al riguardo desideriamo ricordare anche
l’atteggiamento del Nostro nei confronti del vescovo Marcel
Lefebvre (1905-1991), al quale il Papa concesse
essenzialmente di poter celebrare la Santa Messa secondo il
rito precedente al Concilio, quello tridentino appunto. Il
vescovo, grazie anche alla mediazione dell’allora cardinale
Ratzinger, sembrò accordarsi con la Santa Sede. Purtroppo il
Lefebvre, incapace di ritornare nel quadro della Chiesa, nel
1988 ordinò quattro nuovi vescovi
senza l’autorizzazione di Roma, considerando, tra
l’altro le concessioni fattegli scarse.
Per la Santa Sede fu un “atto
scismatico”, che portò automaticamente alla
scomunica.
Papa Giovanni
Paolo II ha viaggiato estesamente ed è entrato in contatto
con molte diverse fedi, senza mai cessare di ricercare con
esse un terreno comune, etico, dottrinale o dogmatico. Ha
stabilito contatti con
Israele,
ed inoltre è stato il primo pontefice romano, dopo
San
Pietro, a pregare in una
sinagoga
visitando il
13 aprile
1986
quella di Roma.
Giovanni Paolo
II ha scritto e parlato molto sull’argomento delle relazioni
della Chiesa con gli ebrei, ed ha spesso reso omaggio alle
vittime dell’olocausto
in molte nazioni.
È stato il
primo Papa ad aver visitato il
campo di concentramento di
Auschwitz
in
Polonia,
nel
1979.
Fu uno dei pochi papi ad essere cresciuto in un clima di
fiorente cultura ebraica, che era tra le componenti chiave
della Cracovia dell’epoca pre-bellica. Il suo interesse per
la cultura ebraica risaliva quindi alla prima gioventù,
nella sua Wadowice, Karol infatti era, sin dall’infanzia,
amico di molti ragazzi di religione ebraica in quanto
considerava cattolici ed ebrei “tutti
figli dello stesso Dio”.
Ed anche nel suo Testamento così ricorda il Rabbino
Capo di Roma Elio Toaf (1915-2015): “con grata memoria (…) anche tanti fratelli cristiani – non cattolici! E
il rabbino capo di Roma (…)”.
Nel marzo
2000,
il Nostro si recò nel memoriale dell’olocausto di
Yad Vashem
in
Israele
e toccò il
Muro occidentale
di
Gerusalemme,
uno dei luoghi più sacri del popolo ebraico, promuovendo la
riconciliazione tra cristiani ed ebrei.
La
Lega Anti-Diffamazione
ha recentemente dichiarato: “La Lega Anti-Diffamazione si congratula con papa Giovanni Paolo II in
occasione del 25º anniversario del suo pontificato. Il suo
profondo impegno nella riconciliazione tra la Chiesa
cattolica ed il popolo ebraico è stato fondamentale per il
suo pontificato. Gli ebrei di tutto il mondo sono
profondamente grati al Papa. Egli ha sempre difeso il popolo
ebraico, come sacerdote nella sua natia Polonia e durante il
suo pontificato... Preghiamo che rimanga in salute per molti
anni a venire, e che ottenga molto successo nella sua opera
santa e che le relazioni tra cattolici ed ebrei continuino a
prosperare”.
Nel febbraio
2005,
l’agenzia
Reuters
pubblicò estratti dal nuovo libro del pontefice, il suo
quinto, “Memoria e identità”. In esso, il Papa sembra comparare l’aborto
all’Olocausto, dicendo: “C’è ancora, tuttavia uno sterminio legale di esseri umani che sono stati
concepiti ma non sono ancora nati. E questa volta stiamo
parlando di uno sterminio che è stato permesso da, niente di
meno, parlamenti scelti democraticamente dove normalmente si
sentono appelli per il progresso civile della società e di
tutta l’umanità”. Un dirigente del
Consiglio centrale ebraico
tedesco definì il confronto inaccettabile. Il cardinale
Joseph Ratzinger
mise da parte le sue cariche, dicendo che il papa “non
stava provando a mettere l’Olocausto e l’aborto sullo stesso
piano” ma soltanto stava avvertendo che la malvagità
alligna dappertutto, “anche nei sistemi politici liberali”.
In codesto
spirito di dialogo, anche il
Dalai Lama,
guida spirituale del
Buddhismo tibetano,
ha avuto incontri con Giovanni Paolo II, più di ogni altro
singolo dignitario, trovandosi spesso di comune opinione.
Il
27 ottobre
1986
si svolse ad
Assisi
una giornata di incontro tra le grandi religioni, indetta da
Giovanni Paolo II. In tale circostanza, le differenti
religioni “si
sono dichiarate concordi nel riconoscere che, per diverso
che sia il nome di Dio da esse invocato, la ricerca della
pace
per le vie della
nonviolenza
è la pietra di paragone dell’obbedienza alla sua volontà”.
Ma sicuramente, una direttrice costante
del pontificato del Nostro è la Sua non comune attenzione
rivolta ai paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, in
quanto aveva anche una visione particolare e tradizionale
dell’Europa medesima.
Il Nostro era una personalità non
facilmente classificabile al momento dell’elezione. Oltre a
non essere italiano, Egli era slavo in quel 1978, anno in
cui l’Europa occidentale era più che lontana da quella
Orientale.
Comunque se Egli non era italiano, era
almeno europeo. Tra i papi del Secolo XX Giovanni Paolo II è
quello che gode il più vasto interessamento sulle vicende
dell’Europa non solo per la lunghezza del pontificato, ma
anche per un Suo particolare interesse specifico. Sin dai
primi Suoi discorsi (Polonia 1979) ha sempre insistito sulla
dimensione naturalmente unitaria dell’Europa. Egli parla di
una grande Europa, nonostante gli accordi di Jalta, come
solo il generale Charles de Gaulle (1890-1970) aveva osato.
Il Nostro sogna una grande Europa e ne
rivendica le naturali radici cristiane, fondamento della sua
unità, quasi come quella Carolingia che Pio XII salutò con
partecipazione. Il Wojtyla restò sempre convinto che l’unità
del Vecchio Continente è un obiettivo epocale, che puo’
sostenere e non indebolire la medesima fede cristiana, anche
nel confronto con i paesi extraeuropei.
Ma codesta Sua fede nell’Europa ha un
retaggio antico. Infatti il padre del Sommo Pontefice,
nativo della Galizia, fu un cittadino dell’impero absburgico
e che lo servì quale militare. Al riguardo è bene ricordare
che le reminiscenze papali absburgiche non sono negative.
Infatti nel corso della visita in Vaticano dell’ultima
imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria, Zita di
Absburgo-Lorena (1892-1989), vedova dell’ultimo imperatore
Carlo (1887-1922), il Papa, fuori dal rigido protocollo,
accompagna per le stanze del Palazzo Apostolico la sovrana,
confusa da tale cortesia, motivando appunto questo nobile
gesto con il fatto che il padre del Papa aveva servito
l’esercito absburgico.
E fu Giovanni Paolo II a proclamare
beato, nel 2004, lo stesso Carlo I d’Absburgo-Lorena, e ciò
nello stupore generale soprattutto per chi considerava non
sopite le responsabilità di tale Dinastia nella Prima Guerra
Mondiale.
Ecco,
quindi, come l’azione decisa dal Papa al fine di rafforzare
la Chiesa ha fatto considerare di grande importanza il Suo
contributo alle vicende, ormai storiche, che hanno portato
nel 1989 alla caduta dei regimi comunisti, estranei alla
tradizione europea, ed al ristabilimento in codesti paesi
della gerarchia cattolica e del rispetto per la stessa.
Il papa chiaramente non ha mai approvato che il
cristiano possa schierarsi con la sinistra (per una serie di
motivi, tra cui l’uso della violenza, il marxismo,
l’influenza sovietica), ma non fu anche mai disposto a fare
della Chiesa un baluardo ed un sostegno dei regimi
conservatori.
Ma
questa polemica serrata contro il comunismo, seguì anche la
critica della logica disumanizzante del capitalismo e della
pura economia di mercato avviata alla globalizzazione.
Per queste Sue
doti di grande democrazia e vocazione europeista, il Papa ha
ricevuto il prestigioso Premio “Carlo Magno” in Acquisgrana
il 24 marzo 2004.
Altra
direttiva fondamentale del pontificato del Beato è senza
dubbio la Sua particolare e spettacolare attenzione per i
giovani, i c. d. “Papa
Boys”. Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad
iniziare, nel 1985, le Giornate Mondiali della Gioventù. Le
diciannove edizioni che si sono tenute nel corso del Suo
Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in ogni
parte del Mondo, con il Papa, giovane fra i giovani. Infatti
per il Lui, i giovani hanno il dovere di continuare “la
missione messianica di Cristo”, come scrive nel suo “Carissimi giovani” (Milano 1995) in quanto saranno i cristiani di
domani, a cui spetta di porre le basi per un mondo migliore.
E
furono essenzialmente i c. d. “Papa
Boys” che, nel corso delle esequie del Nostro, il
giorno 8 aprile 2005, più volte lo invocarono come “Santo
subito”.
Altro
primato del Beato Giovanni Paolo II fu il 14 novembre 2002,
in occasione della prima visita assoluta di un romano
Pontefice al Parlamento Italiano riunito in seduta comune
nell’Aula del Palazzo Montecitorio, con la Sua chiara e
limpida presa di posizione in merito all’eventualità di un
indulto per alleggerire la congestionata situazione delle
carceri italiane.
Il
13 maggio
1981
il Nostro subì un
attentato,
quasi mortale, da parte di
Mehmet Ali Ağca,
un killer professionista
turco,
che gli sparò due colpi di pistola in piazza San Pietro,
pochi minuti dopo che Egli era entrato nella piazza per
un’udienza generale, colpendolo all’addome. Wojtyła fu
immediatamente soccorso, e sopravvisse, ma ciò solo a
seguito di un delicatissimo intervento chirurgico.
Due giorni
dopo il
Natale
del
1983,
il Papa volle andare in prigione per incontrare il suo
attentatore e porgergli il suo perdono. Il Papa disse poi
dell’incontro: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello, al quale ho perdonato
e che gode della mia fiducia. Quello che ci siamo detti è un
segreto tra me e lui”. L’attentatore era stato
condannato alla pena dell’ergastolo.
Nel
2000
il presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi
gli concesse la grazia: Ali Ağca, estradato dall’Italia, fu
condotto nel carcere di massima sicurezza di Kartal
(Turchia). Ali Ağca non ha mai voluto rivelare in modo
chiaro la verità, ed ha ripetutamente cambiato versione
sulla dinamica della preparazione dell’attentato, a volte
suggerendo di aver avuto aiuti dall’interno del Vaticano. I
documenti analizzati dalla
commissione Mitrokhin
dimostrerebbero che l’attentato fu progettato dal
KGB
in collaborazione con la polizia della
Germania Orientale
(Stasi) e con l’appoggio di un gruppo terroristico bulgaro a
Roma,
che a sua volta si sarebbe rivolto ad un gruppo turco di
estrema destra, i
Lupi grigi.
Una relazione di minoranza della stessa commissione negò
questa tesi; tuttavia, altri documenti scoperti negli
archivi sovietici e resi pubblici nel marzo
2005
sostengono la tesi che l’attentato sia stato commissionato
dall’Unione
Sovietica.
Le motivazioni
che avrebbero portato l’URSS a preparare l’attentato non
sono state mai chiarite; probabilmente, l’Unione Sovietica
temeva l’influenza che un Papa polacco poteva avere sulla
stabilità dei loro Paesi satelliti dell’Europa Orientale, in
special modo la
Polonia.
Un’altra
ipotesi (non necessariamente contraddittoria alla prima) è
quella del coinvolgimento della
mafia
nell’attentato, suffragata dal memoriale di un pentito.
Tutte codeste informazioni vanno
considerate alla stregua di ipotesi, perché ad oggi non sono
state comprovate le circostanze e le motivazioni
dell’attentato stesso.
Un documento
della Congregazione per la Dottrina della Fede analizza
l’attentato, mettendolo in relazione con l’ultimo dei
Segreti di Fatima.
L’attentato è avvenuto nel giorno della ricorrenza della
prima apparizione della Madonna ai pastorelli di Fatima, e
Giovanni Paolo II, convinto che fu la mano della Madonna a
deviare quel colpo ed a salvargli la vita, volle che il
bossolo del proiettile fosse incastonato proprio nella
corona della statua della Vergine. Ciò accadde appunto a
Fatima il 13 maggio 1982, esattamente un anno dopo il vile
attentato.
E fu nel corso di tale viaggio che il Re
Umberto II di Savoia (1904-1983), di già sofferente, volle
egualmente incontrare (come fu, nel 1967, con Paolo VI) il
Papa nella Nunziatura Apostolica di Lisbona. In
quell’occasione il Re decise di donare al Papa stesso la
Sacra Sindone, di proprietà della sua Casa sin dal 1453.
Senza dubbio l’attentato fu anche il
prologo dei problemi di salute del Nostro, il quale cominciò
il suo pontificato in ottima forma fisica e morale.
Era un uomo
relativamente giovane che, diversamente dai suoi
predecessori, faceva abitualmente escursioni, nuotava e
sciava. Tuttavia, dopo oltre venticinque anni trascorsi
intensamente sul seggio papale, l’attentato appunto ed un
gran numero di traumi fisici, la sua salute cominciò a
declinare. Fu vittima di un
tumore
al
colon
che gli venne rimosso nel
1992,
si slogò una spalla nel
1993,
si ruppe il femore nel
1994
e subì l’appendicectomia
nell’ottobre del
1996.
Nel
2001
venne stabilito, nel corso di una visita ortopedica, che,
come alcuni osservatori internazionali sospettavano da
tempo, Giovanni Paolo II soffriva del
morbo di Parkinson.
Ciò venne ufficialmente confermato dal Vaticano nel
2003.
Oltre all’evidente tremore alla mano, cominciò a pronunciare
con difficoltà più frasi di seguito, e vennero notati anche
alcuni problemi uditivi. Soffriva anche di un’artrosi
acuta al ginocchio destro, che aveva sviluppato in seguito
all’applicazione di una protesi all’anca. Nonostante questi
disagi, continuò a girare il mondo. Disse di accettare la
volontà di Dio che lo faceva Papa, e così rimase determinato
a mantenere la Sua missione fino alla morte, o finché non
sarebbe diventato mentalmente inabile in maniera
irreversibile. Coloro che lo hanno incontrato dicono che,
sebbene provato fisicamente, sia sempre stato perfettamente
lucido.
Nel settembre
2003,
il cardinale
Joseph Ratzinger
disse “dovremmo pregare per il Papa”, sollevando serie preoccupazioni
circa lo stato di salute del Pontefice.
Il giorno
1 febbraio
2005
fu ricoverato all’Ospedale
Gemelli
di Roma, e ciò fino al
10 febbraio;
successivamente fu costretto a saltare gran parte degli
impegni previsti per l’aggravarsi delle sue condizioni di
salute.
Il
27 marzo,
giorno di Pasqua, apparve alla finestra su piazza San
Pietro, ma per poco tempo.
L’allora
Segretario di Stato, cardinale
Angelo Sodano
(1927- ), già Decano del Sacro Collegio Cardinalizio, lesse
il messaggio “Urbi
et Orbi”
ed il Papa benedisse la folla di mano sua. Tentò di parlare,
ma, fra la commozione generale, non vi riuscì.
Il
30 marzo,
mercoledì, il Papa apparve alla finestra su piazza San
Pietro nuovamente per poco tempo. Tentò inutilmente di
parlare. Fu l’ultima volta che si mostrò in pubblico prima
di morire.
Il
Papa morì in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21,37,
mentre volgeva al termine il sabato e si era di già entrati
nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua, la Domenica della
Divina Misericordia
(quella che era denominata “in
Albis”), da Lui stesso istituita (2000), e ciò
secondo il messaggio della Suora polacca Faustina Kowalska
(1905-1938), che Egli beatificò (1993) e canonizzò (2000).
Il messaggio testualmente dice: “Voglio
che l’immagine (…) venga solennemente benedetta nella prima
domenica dopo Pasqua: questa domenica deve essere la festa
della Divina Misericordia”.
Da
quella sera e fino al 8 aprile, giorno in cui ha avuto luogo
il rito delle Esequie del Sommo Pontefice, più di tre
milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere
omaggio alle sue Spoglie Mortali, attendendo in fila fino a
ventiquattro ore pur di poter accedere alla Basilica di San
Pietro. E’ morto, senza dubbio, un grande della storia
nell’accezione corrente e, quindi, i grandi del mondo non
poterono mancare alle sue esequie, e ciò per un totale di
centosettantadue paesi ed organizzazioni internazionali.
Scrive al riguardo il professor Riccardi: “(…)
Il funerale cattolico di Wojtyla raccoglie tanti mondi
diversi, pur divisi dai conflitti. Riunisce i grandi del
mondo con i rappresentanti delle religioni. Ma anche
commuove tanta gente, cattolici e non. L’evento è, in un
certo senso, l’epifania della sua vita. (…).”
Il 28
aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso
la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la
morte, per l’inizio della causa di beatificazione e
canonizzazione del Suo Predecessore.
La
causa è stata aperta ufficialmente il 28 giugno 2005 dal
cardinale Camillo Ruini (1931-), allora Vicario Generale per
la Diocesi di Roma, il quale, il 2 aprile 2007, a due anni
dalla morte del Pontefice, ne ha dichiarata conclusa la
prima fase diocesana del processo di beatificazione. Il
miracolo attribuito al Papa, necessario per il
riconoscimento di qualunque beato, è stata la guarigione dal
morbo di Parkinson (di cui, come ho poc’anzi ricordato, lui
stesso soffriva) della religiosa francese suor
Marie-Simon-Pierre Normand (1961- ), della Congregazione
delle Piccole Suore della Maternità.
Giovanni Paolo II fu beatificato il giorno 1 maggio 2011 dal
Suo Successore Benedetto XVI e canonizzato, unitamente a
Giovanni XXIII, da Papa Francesco [Jorge Mario Bergoglio
(nato nel 1936) 2014- ] il 27 aprile 2014.
San
Giovanni Paolo II fu l’unico Papa nella storia ad essere
beatificato dal Suo Successore, nonché canonizzato alla
presenza di due Papi: l’Emerito (Benedetto XVI) ed il
Regnante.
§ 3.
Considerazioni finali
Il secolo scorso ha assistito al trionfo
ed alla caduta di grandi speranze e di grandi ideologie che,
nel nome di radicali trasformazioni dell’assetto sociale e
con l’appoggio degli armamenti offerti dai progressi
dell’industria bellica, avevano promesso paradisi terrestri.
Nel nuovo ordine sociale sarebbero stati completamente
eliminati mali reali, come la miseria o la fame, e nemici
immaginari, uomini e donne appartenenti ad altre etnie e ad
altre nazioni, ad altri partiti e ad altre confessioni. Ma
il ‘900 è anche il secolo che ha visto, accanto ad abissi
d’infamia (l’Olocausto!) ed accanto a slanci di grande
generosità individuale e sociale, la graduale affermazione
della democrazia e dei diritti degli uomini e dei popoli,
senza altri aggettivi, in buona parte dei paesi del mondo.
E’ a codesti uomini che, nell’ultimo
quarto del XX Secolo ed agli inizi del nuovo millennio, ha
parlato San Giovanni Paolo II. Ha parlato “in
nomine Patris”, da uomo del secolo, ad altri uomini
suoi contemporanei.
Il Santo ha esercitato il suo ministero
con instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue
energie sospinto dalla sollecitudine pastorale per tutte le
Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera.
I suoi viaggi apostolici nel mondo sono
stati ben centoquattro, di cui numerosi, ed anche ripetuti,
nella sua Europa.
Più di ogni Predecessore ha incontrato
il Popolo di Dio ed i responsabili delle Nazioni: alle
udienze generali del mercoledì (millecentosessantasei nel
corso del Pontificato) hanno partecipato più di
diciassettemilioni e seicentomila pellegrini, senza contare
tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose
(più di ottomilioni di pellegrini solo nel Grande Giubileo
del 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso
delle visite pastorali in Italia e nel Mondo. Numerosissime
anche le personalità governative ricevute in udienza.
Sotto la Sua illuminata guida la Chiesa
si è avvicinata al Terzo Millennio dell’Era Cristiana ed ha
celebrato il Grande Giubileo del 2000, secondo le linee
indicate dalla Lettera Apostolica “Tertio millennio adveniente”. La Chiesa stessa poi si è
affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella
Lettera Apostolica “Novo
millennio ineunte”, nella quale si
mostrava ai fedeli il cammino del tempo futuro.
Il Papa, con l’Anno della Redenzione
(1983-1984), l’Anno Mariano (1987-1988) e l’Anno
dell’Eucarestia (2004-2005), ha promosso intensamente il
rinnovamento spirituale della Chiesa. L’Anno Mariano ha
avuto un ulteriore seguito nel 2002, inizio del
venticinquesimo anno del Suo Pontificato, in cui il Papa si
impegnò a rilanciare la pratica della recita del Santo
Rosario, che considerò “un
tesoro da riscoprire” nella Lettera Apostolica “Rosarium
Virginis Mariae” del 16 ottobre 2002.
Egli ha dato impulso straordinario alle
canonizzazioni ed alle beatificazioni, al fine di mostrare
innumerevoli esempi di santità di oggi, che fossero di
incitamento agli uomini del nostro tempo.
Ha notevolmente allargato il Collegio
dei Cardinali, creandone ben duecentotrentuno in nove
Concistori.
A San Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono
anche cinque libri: “Varcare
la soglia della speranza” (ottobre 1994); “Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio”
(novembre 1996); “Trittico
romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003);
“Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004), e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).
Tra i suoi documenti principali si
annoverano quattordici Lettere Encicliche, tredici
Esortazioni Apostoliche, undici Costituzioni Apostoliche e
quarantacinque Lettere Apostoliche.
San Giovanni Paolo II è stato, senza
dubbio, il Pontefice dei records, se vogliamo usare una
parola sportiva. Ma non poteva non essere così, perché tutto
ciò era insito nella sua personalità, come l’innovazione di
nominare, quale Direttore della Sala Stampa Vaticana, un
laico nella persona di Joaquín Navarro y Valls (1936-2017).
Una personalità che è si è manifestata
immediatamente, cioè appena eletto. Disse di Lui ai
giornalisti all’inizio del Pontificato: “Il
papa non puo’ rimanere prigioniero del Vaticano. Io voglio
andare da tutti (…) dai nomadi delle steppe ai monaci e alle
suore nei conventi (…) voglio attraversare la soglia di ogni
casa”.
Sulla figura e sull’opera di Giovanni
Paolo II non è sufficiente un pensiero come il presente in
quanto svariati sono i temi di cui si è occupato
direttamente ed indirettamente come anche di cultura, di
poesia, e, soprattutto, di pace. Al riguardo celeberrimo è
l’assioma in cui definì la guerra nel discorso del Santo
Natale 1990, e ciò alla vigilia della prima guerra del
Golfo: “La guerra è
un’avventura senza ritorno.”
Eppoi “Con
la ragione, con la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto
dei diritti inalienabili dei popoli e della genti, è
possibile individuare e percorrere le strade dell’intesa e
della pace”.
Prima di concludere veramente, molti
sarebbero, sicuramente, i momenti e le situazioni che
affiorano alla memoria come ricordi personali del Santo. Ma
la mia memoria va’ immediatamente al 16 ottobre 1978, giorno
dell’elezione, in cui ero in Piazza San Pietro ed assistetti
al Suo primo discorso e ricevetti la prima benedizione. Non
avevo ancora 18 anni. Sedici anni prima, la sera del giorno
11 ottobre 1962, ero nel medesimo luogo,
in braccio a mio padre, e ricevetti, come tutti i
bambini, “una
carezza (…). la carezza del Papa”. Di un altro
grandissimo Papa, San Giovanni XXIII.
Con
il Nobile Collegio Nazareno dei padri Scolopi, mia scuola,
ci recavamo annualmente in udienza del Papa. In una di
codeste (era forse il primo anno di Pontificato) volle
venire con noi anche mia madre (scomparsa come il Papa nel
2005), la quale disse al Santo Padre: “Ella
è trainante”. Fu profetica?
Altro
ricordo è senza dubbio quando il Papa, nel corso di una
visita ad una Parrocchia Romana, volle fermarsi all’Istituto
San Giuseppe Calasanzio della via Cortina d’Ampezzo,
istituto anch’esso scolopico e, grazie all’allora Rettore,
ebbi l’onore di salutare il Papa unitamente alla Comunità
Religiosa. Fu come parlare con uno di noi.
Ha detto di Lui il Suo Successore al
Soglio Petrino, papa Benedetto XVI: “Veniva
da un popolo sofferente, quello polacco, sottoposto a tante
prove nella storia. Da questo popolo sofferente, dopo tante
persecuzioni, si sviluppò la forza di sperare (…). L’ho
visto sofferente, ma mai triste. Egli, fin dall’inizio del
suo pontificato, parlava di un nuovo Avvento. Sperava che,
nella storia, si affermasse un tempo di gioia e di
cristianesimo”.
Termino con
con due pensieri ancora del Santo:
il
primo “Quando il 22 Ottobre 1978 pronunciai in Piazza San Pietro le parole «Non
abbiate paura!»,
non potevo rendermi del tutto conto di quanto lontano
avrebbero portato me e la Chiesa intera”,
ed
il secondo, conclusivo del Suo Testamento: “(…)
A misura che si
avvicina il limite della mia vita
terrena ritorno con la memoria all’inizio, ai miei
Genitori, al Fratello e alla Sorella (che non ho conosciuto,
perché morì prima della mia nascita), alla parrocchia di
Wadowice, dove sono stato battezzato, a quella città della
mia giovinezza, ai coetanei, compagne e compagni della
scuola elementare, del ginnasio, dell’università, fino ai
tempi dell’occupazione, quando lavorai come operaio, e in
seguito alla parrocchia di Niegowić, a quella cracoviana di
San Floriano, alla pastorale universitaria, all’ambiente… a
tutti gli ambienti… a Cracovia e a Roma…
alle persone che in modo speciale mi sono state affidate dal
Signore.
A tutti voglio dire una sola cosa: «Dio
vi ricompensi»!
«In
manus Tuas, Domine commendo spiritum meum»
A. D. 17.III.2000”.
4
aprile 2020
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La
retrocessione parziale di beni espropriati è subordinata ad
una determinazione amministrativa discrezionale di
inservibilità degli stessi all’opera pubblica. Soltanto dopo
l’adozione della dichiarazione di inservibilità i soggetti
espropriati divengono titolari, così come avviene per la
retrocessione totale, di un diritto soggettivo che consente
di chiedere la restituzione dei beni non utilizzati.
La
retrocessione parziale interviene quando, dopo l’esecuzione
totale o parziale dell’opera pubblica, taluni fondi
espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione,
onde rispetto agli stessi può ancora essere esercitata una
valutazione discrezionale circa la convenienza di
utilizzarli in funzione dell’opera realizzata. Pertanto,
tali beni possono essere restituiti quando l’amministrazione
abbia dichiarato che non servono più alla realizzazione
dell’opera nel suo complesso (Cons. Stato, Sez. IV, 2
gennaio 2019, n. 22).
Coronavirus imperversa
Salvatore
Sfrecola (“Prevedere per prevenire”, in questa
Riv., 15 marzo 2020), con sicura competenza e consueta
obiettività, è intervenuto sulla deleteria infezione da Coronavirus che ha messo drammaticamente in
luce alcune carenze del sistema sanitario nazionale.
Tali carenze
“sono l’effetto di errori di programmazione che risalgono
nel tempo e sono la conseguenza di due condizioni negative
consuete in questo Paese, la mancata previsione di un evento
futuro e incerto, ma non assolutamente improbabile, e la
tradizionale disattenzione della politica per la
prevenzione, come avviene del resto nella manutenzione delle
opere pubbliche, delle infrastrutture o del territorio”.
“È evidente la
responsabilità di chi ha il compito di gestire la sanità in
sede regionale e di chi, al centro, ha ridotto
progressivamente, nel corso degli anni, gli stanziamenti di
bilancio destinati al Servizio Sanitario Nazionale. È
mancata, così, una ragionevole percezione di una emergenza,
da affrontare mediante la disponibilità di strutture idonee
ad essere rapidamente riconvertite e adattate
all’occorrenza. In sostanza sarebbe stato necessario
prevedere che, oltre ai locali specificamente destinati alla
terapia intensiva, ve ne fossero altri facilmente adattabili
disponendo già di impianti necessari. Logicamente gli
ospedali dovrebbero anche sapere dove acquistare le
apparecchiature eventualmente occorrenti, preferibilmente da
imprese italiane. Ugualmente per le mascherine che mancano e
che si è sentito dire vengono acquistate all’estero.
Non è una
novità per l’Italia l’incapacità di prevedere le occorrenze.
Invito a rileggere il libro di Antonio Salandra, il
Presidente del Consiglio che si trovò a gestire l’ingresso
dell’Italia in guerra nel 1915. Nel volume
L’intervento
racconta delle gravi carenze dell’esercito italiano, dai
cavalli alle garze per i reparti di sanità che noi
compravamo all’estero. Per non dire dei cannoni che
acquistavamo dalla tedesca Krupp che, fino alla vigilia, era
una potenza legata all’Italia dalla Triplice Alleanza
ma che si poteva prevedere, mentre montava l’irredentismo
antiaustriaco, che potesse diventare un nemico. Prudenza
avrebbe consigliato di disporre se non di fornitori
nazionali almeno di industrie di più paesi, in modo da
garantirsi i materiali occorrenti”.
Il resto,
purtroppo, è storia vecchia, che si ripropone
sistematicamente nei momenti di particolare difficoltà per
il nostro Paese.
Il peggio deve ancora venire
“Escono in silenzio dal turno in terapia intensiva e
dai reparti Covid-19. Lo stesso sguardo stravolto degli
italiani dentro le trincee del Carso o sul montacarichi che
saliva dall’inferno di Marcinelle. La stessa faccia piagata
di soldati e minatori, la pelle solcata dall’elastico della
mascherina, i lividi sul naso, il cuore a pezzi. Infermiere,
infermieri, rianimatori, medici: giustissimo chiamarli eroi,
ma la loro dedizione è quella di sempre. Lavoravano già così
in Lombardia, anche quando i posti venivano tagliati, le
cure ridotte, i bilanci degli ospedali depauperati. La
battaglia per Milano che si sta combattendo in queste ore
non è diversa da quella per Bergamo e Brescia, Lodi e
Cremona. Più che una guerra, sembra una prova generale per
il resto d’Europa: vedere come si resiste al virus in una
regione di dieci milioni di abitanti. Magari senza
abbastanza respiratori né protezioni, che ci sarebbero, ma
li hanno bloccati per settimane nei magazzini in Germania e
Turchia. L’Unione Europea ci osserva, l’alleanza della Nato
tace. Ogni ora che si perde, aumentano morti e malati. E con
loro anche il numero di medici e infermieri contagiati, che
per questo devono mettersi in quarantena e abbandonare il
campo” (Fabrizio Gatti, “Come
soldati in trincea”,
L’Espresso, n.
13/2020, 15 ss.).
Per risanare l’economia
Il primo, determinante passo per
risanare l’economia: rifondare la burocrazia, eliminare il
codice degli appalti.
Ma questo è soltanto l’inizio.
“La giustizzia”
Tiè in mano
uno spadone e una stadera:
Carca un
agnello sotto a li stivali:
E sta
bennata co una benna nera,
Quann’io pe
me, je metteria l’occhiali.
Ma come,
cristo!, ha da trovà la strada
Cusì orba la
povera Giustizia,
De contà
l’once e de calà la spada?
Da un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli (“La Giustizzia”,
1833), pubblicato su “‘Sta povera giustizzia”,
sonetti scelti e commentati da Mauro Mellini (Rubbettino
Editore, 2008, 49).
2 aprile 2020
I nove mesi del 1943 -1944
di Domenico Giglio
L’articolo del
professore Sfrecola, “ E’ peggio di una guerra”, ha aperto
il vaso di Pandora dei ricordi, dalla sera del 25 luglio del
1943 al successivo 4 giugno 1944. Credo che la mia
iniziazione politica sia avvenuta quella sera alle 22,48,
quando incaricato da mio padre di ascoltare il segnale
dell’ultimo giornale radio e di avvertirlo, ascoltai la
notizia delle dimissioni di Mussolini e della nomina, da
parte del Re Vittorio Emanuele III, del Maresciallo d’Italia
Badoglio a capo del nuovo governo.
Appena finita la
trasmissione gli squilli del telefono. La mia nonna materna,
nonna Bianca, che abitava a via Modena 5, ci dava notizia
della folla che usciva di casa con le bandiere tricolori
“scudate”, dirigendosi verso il Quirinale gridando “Viva il
Re” e poi dei carissimi amici di famiglia, i Porporati,
abitanti a via Bruxelles 55, proprio di fronte all’ingresso
della villa di Badoglio, che ci dicevano della gente che
stava affluendo nella via e ci invitavano ad andare da loro.
Ricordo la prima nostra risposta negativa perché stavamo
apprestandoci ad andare a letto, ma di fronte alle loro
insistenze ci rivestimmo ed uscimmo. Il percorso da via
Mercalli, dove abitavamo (ed abitiamo), a via Bruxelles fu
fatto a passo svelto, perché incominciava a far freddo,
essendo ormai mezzanotte e mentre camminavamo vedevamo
persone alle finestre, sui balconi che vociavano, gridavano
“Evviva” e molti buttavano dall’alto (è testuale e quando lo
scrissi anni or sono ci furono dei nostalgici ad
offendersi), i distintivi del PNF ed i medaglioni dei
Balilla, che cadendo sull’asfalto venivano calpestati spesso
volontariamente. Arrivammo a via Bruxelles rigurgitante di
persone, con interi nuclei familiari, che aspettavano il
ritorno del Maresciallo non stancandosi di gridare “Viva
Badoglio, viva il Re”, accalcandosi verso il cancello, per
cui risuonò secca una voce “Carabinieri del Re, fate
arretrare la folla”, mentre noi eravamo sul balcone con gli
amici, dopo esserci abbracciati e baciati. Poi venne la voce
veritiera che quella notte Badoglio non sarebbe rientrato
per cui alle due passate cominciammo a defluire. Così poi
mio Padre più tardi mi spiegò il significato degli
avvenimenti, come poi la sera dell’8 settembre mi spiegò
chiaramente il significato delle ultime parole del messaggio
radio di Badoglio annunciante l’armistizio sul dover
respingere attacchi provenienti da parti diverse, cioè i
tedeschi. Questo che apparve così chiaro a mio padre,
volontario di guerra dal 1917, prima che chiamassero la
famosa “classe 1899”, la sua classe, poi sottotenentino
d’artiglieria sul Monte Grappa (Monte Grappa tu sei la mia
patria, sei la stella che additi il cammino……), che poi
ingegnere civile pur non avendo più rivestita l’uniforme,
era rimasto nell’anima un soldato, non fu invece chiaro
nella mente di tanti militari in servizio che non capirono
cosa dovevano fare! Iniziarono così, dopo la breve e
significativa resistenza dei granatieri a Porta San Paolo, i
famosi nove mesi della occupazione tedesca, ma nei giorni
immediatamente successivi all’8 settembre, avvenne un fatto
vicino alla nostra abitazione che ricordo e voglio
raccontare. Il nostro appartamento ha un balcone che si
affaccia sulla via Giovanni Antonelli, per cui, data anche
la stagione vi stavo spesso a leggere o a giuocare, quando
vidi salire da via Ponzi diversa gente con pacchi.
Meravigliato chiamai mia madre (mio padre era nel suo
ufficio, a via Mazzarino, al settore Beni Immobili della
Banca d’Italia) che pregò il portiere di informarsi. Detto
fatto il portiere disse che a via Manfredi era stato
scoperto un magazzino di generi alimentari dell’esercito
germanico ed apertolo gli abitanti della zona stavano
svuotandolo, al che mia madre, io ero al suo fianco, disse
“ma questo è rubare”, al che un condomino il conte Agostino
Sacconi, ingegnere ed Esente delle Guardie Nobili di Sua
Santità, (corpo militare vaticano poi sciolto), che tornava
carico di roba, contravvenendo al galateo, disse “Signora,
con quello che ci hanno fatto i tedeschi (e non sapevamo
quello che facevano e quello che ci avrebbero fatto!), Lei
si fa scrupolo di queste cose!”. Così anche mia nonna
paterna, nonna Giulia, mandò a prendere qualcosa (era
rimasto poco o niente e nessuno si era accorto perché il
locale era buio che appesi al soffitto vi erano anche
salumi) e la cameriera (colf) ritornò con delle boatte che
contenevano pane di segale. Meglio di niente visto qual’era
il pane, poco, che si prendeva con la “tessera”, e che messo
sul fuoco, bruciava come fosse fatto di segatura !
Ad ottobre
ricominciarono normalmente le lezioni ed io che studiavo al
“Massimo”, girando per i meandri dell’Istituto, oggi Museo,
incontravo dei giovani con la tonaca, che cercavano di
sfuggire, e che non avevo mai visto prima, e non capivo chi
fossero, ebbi la risposta all’indomani della Liberazione
quando gli stessi scomparvero. Erano giovani renitenti ai
bandi di chiamata di Graziani che avevano trovato rifugio
nell’Istituto (forse ex alunni o simili) per sfuggire alle
conseguenze del loro rifiuto (non fecero per viltà il gran
rifiuto). Passarono i mesi, l’inverno passò senza
riscaldamento (allora era a carbone), la corrente elettrica
mancava e le candele si esaurirono ben presto, ricorremmo
all’acetilene ed al petrolio, anch’esso introvabile, di cui
in casa avevamo vecchi lumi da antiquariato, e sopratutto
scarseggiava il cibo, specie dopo l’infelice sbarco
americano di Anzio (i generali inetti o incompetenti
esistono in tutti gli eserciti!). C’era il timore delle
“retate” tedesche, specie per chi, come mio padre e mio
nonno materno, nonno Spartaco, dovevano andare a lavorare
attraversando tutta Roma per cui attendevamo con ansia il
loro ritorno a casa ed ogni loro ritardo ci faceva venire i
brividi (i cellulari non esistevano!). Intanto ero diventato
l’esperto della radio, una Phonola, per cui avevo
individuato “Radio Bari” e potei ascoltare i messaggi del Re
Vittorio Emanuele III, ed i notiziari, di cui uno
specialmente “L’Italia combatte”, che dava notizia
dell’attività del ricostituito Regio Esercito e della
attività dei primi gruppi di “patrioti” non partigiani,
termine venuto ingiustamente dopo ed ormai purtroppo
acquisito, che operavano nelle zone soggette al governo ed
alla occupazione germanica! Ci vedevamo con alcuni amici che
abitavano vicini, Arminio Conte, figlio di un Colonnello dei
Bersaglieri, e Vanni Beltrami, orfano di un giovane
brillante Generale della Regia Aeronautica, Aiutante di
Campo del Sovrano, mancato anni prima in un incidente aereo,
scambiandoci le visite e così potei assistere, da un
terrazzo sulla Piazza Santiago del Cile, il tardo pomeriggio
del 4 giugno, all’esodo abbastanza non ordinato di reparti
tedeschi che abbandonavano Roma, dove, dalla parte opposta
entravano le truppe americane. Ed allora, come il 25 luglio,
il popolo romano si riversò plaudente per le strade e quando
qualche giorno dopo ricomparvero i Reali Carabinieri, che
avevano pagato nella Resistenza ed alle Fosse Ardeatine un
pesante contributo di sangue, ed un reparto di bersaglieri
che passando per via Venti Settembre (io c’ero),
riprendevano il servizio al Quirinale, dove era arrivato il
Principe Umberto, quale Luogotenente Generale del Re, gli
applausi e i baci dalla folla furono superiori a quelli per
i “liberatori”! Et de hoc satis !
31 marzo 2020
Morire di inefficienza ai tempi del Coronavirus
di Salvatore Sfrecola
Non c’è dubbio
che il pericolo da infezione da Coronavirus sia stato
ampiamente sottovalutato dalle autorità del governo,
nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.)
avesse deliberato lo stato di emergenza internazionale
sanitaria fin dal 30 gennaio. Ed è altrettanto indubbio che
l’O.M.S. deve avere messo in preallarme il nostro come altri
governi ben prima, già da quando il virus è identificato con
il numero 19, perché isolato nel 2019.
Non solo, il
governo, che il 31 gennaio ha deliberato lo stato di
emergenza sanitaria per sei mesi, ha atteso ben 22 giorni
prima di emanare il primo dei cinque decreti legge con i
quali ha dettato norme per contrastare l’infezione, ma non
ha approfittato di quel tempo per fare mente locale sulla
disponibilità di mascherine per limitare il contagio e dei
ventilatori necessari ai malati più gravi, quelli destinati
ad essere ricoverati nei reparti di terapia intensiva,
eventualmente per provvedere ad acquistarli tempestivamente
e nel numero occorrente. Nessuno, dal 31 gennaio, si è preso
la briga di prevedere all’occorrente che, infatti, non è a
disposizione degli operatori sanitari e dei cittadini che
volessero tutelarsi.
Venuti i nodi al
pettine, evidenziati dall’elevato numero dei contagiati, dei
ricoverati e dei morti, è cominciato il balletto delle
responsabilità che è inevitabile si concluderà con
l’affermazione che tutti hanno fatto il possibile ma che,
come ha detto il Capo del Dipartimento della Protezione
Civile, si è arrivati tardi negli ordini di acquisto e
comunque le procedure non hanno consentito tempi rapidi per
la macchinosità delle norme del Codice degli appalti e per
l’intermediazione necessaria della Consip. Dimenticando che,
in ogni emergenza, c’è chi occulta i beni necessari per
farli comparire di nuovo sul mercato a prezzi maggiorati.
Sullo sfondo chi polemizza afferma che la difficoltà della
normativa sarebbe aggravata dalla presenza di due
istituzioni, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e la
Corte dei conti, l’una e l’altra spauracchio dei pubblici
amministratori. Tanto che si è proposto l’abolizione del
Codice degli appalti, dell’ANAC e della CONSIP ed un
ridimensionamento dei poteri di controllo preventivo di
legittimità della Corte dei conti. Non solo, qualcuno ha
proposto anche che nell’accertamento delle responsabilità
per danno erariale la Corte dei conti non ricerchi la colpa
grave ma solo il dolo, senza pensare che culpa lata
(cioè la colpa grave) dolo aequiparatur, dicevano i
romani che di diritto se ne intendevano.
Posto che l’ANAC
non si può abolire, perché l’Italia ha ratificato un
trattato internazionale per la lotta alla corruzione, che
prevede un organismo statale in funzione di prevenzione del
fenomeno, e che la Corte dei conti è una magistratura
prevista dalla Costituzione, se si vuole snellire le
procedure e non salvare chi ha operato in disprezzo delle
regole della buona amministrazione, è molto più funzionale
operare a monte sul sistema legislativo intervenendo sul
Codice degli appalti, quel codice nella stesura del quale si
è manifestata tutta la libidine del cavillo che caratterizza
alcuni studiosi di diritto amministrativo alla ricerca della
norma che, per ogni fattispecie, sia capace di impedire la
penetrazione del malaffare nella gestione dei contratti.
Cavilli che finiscono, invece, per ostacolare le imprese
serie senza creare difficoltà alcuna ai corruttori che sanno
bene come ottenere l’aggiudicazione di un contratto, a
cominciare dalla gara e dalle specifiche tecniche delle
forniture, da un bando costruito a misura dei requisiti di
un determinato bene perché a vincere sia quella determinata
impresa che lo produce. Poi i collaudi dei lavori e delle
forniture sono il più delle volte un inutile orpello, come
dimostra il fatto che presto si scoprono le magagne delle
opere, dei servizi e delle forniture.
Il Codice degli
appalti va dunque riformato e semplificato. E non è che non
si sappia come fare perché se nel Regno Unito si sono
limitati a tradurre in inglese le direttive europee in
materia di appalti, l’Italia ha avuto la possibilità di
assicurare opere e servizi di prim’ordine alle pubbliche
amministrazioni attraverso le disposizioni che in materia di
contratti sono state disciplinate per 150 anni dalla legge
di Contabilità generale dello Stato. Poche norme ma
chiarissime, che non hanno ostacolato l’attività
contrattuale delle pubbliche amministrazioni. La chiarezza è
il primo requisito di una norma, in assenza della quale si
lascia mano libera alla fantasia dell’interprete con
l’effetto dell’incertezza del diritto.
Semplificare è,
dunque, necessario e urgente perché non è possibile morire
di inefficienza che è la causa prima dei decessi di quanti
sono giunti al termine della loro esistenza perché mancava
la mascherina o la bombola di ossigeno o qualche altro
presidio medico dei quali gli ospedali non si sono potuti
approvvigionare per la farraginosità delle leggi e il
conseguente timore di incorrere nelle sanzioni dell’ANAC o
nelle censure della Corte dei conti.
L’Italia è un
grande Paese con una storia amministrativa di prim’ordine,
costruita subito dopo la formazione dello Stato nazionale
quando, in pace e in guerra e nei dopoguerra, è stato
possibile edificare in tempi ragionevolmente brevi immobili
d’interesse pubblico, strade, ferrovie, infrastrutture.
Quella virtù abbiamo perso per strada a causa di una classe
politica progressivamente decaduta che ha trascinato nel
baratro dell’inefficienza anche la burocrazia il cui
ordinamento ha annullato il merito che avrebbe dovuto
costituire il riferimento del buon governo, merce rara come
la responsabilità delle scelte e della verifica delle
realizzazioni.
Il risultato è
un picco di inefficienza. Della quale, in questa stagione,
si muore.
30 marzo 2020
EUGENIO DI SAVOIA (1663-1736)
Difensore della Tradizione e della Cristianità
di Gianluigi Chiaserotti
In questo
particolare momento della nostra Europa in cui tutto è
fuorché un’Unione, voglio ricordare Eugenio di Savoia, un
mitico personaggio che ha interessato intere generazioni di
storici [uno del secolo XIX è senz’altro un suo omonimo: il
toscano d’adozione Eugenio Albéri (1807-1878)], di politici
e di diplomatici.
Personaggio dal quale molto si dovrebbe apprendere, come
accennavo poc’anzi, contro il grigiore del nostro periodo
attuale.
Ma prima
di delineare la figura del Nostro ritengo fondamentale
ricordare la battaglia di Lepanto
in quanto è il vero e reale antefatto;
è l’inizio della decadenza della potenza ottomana,
che sarà completata, come vedremo, da Eugenio di Savoia.
I fatti
della battaglia di Lepanto, combattuta il 7 ottobre 1571,
tra la Lega Santa comandata da Don Giovanni d’Austria
(1547-1578) contro i turchi di Alì Pascià sono più che noti.
L’idea di San Pio V [Antonio (Michele) Ghisleri (nato nel
1504), 1566-1572]; le trattative tra il nunzio papale ed il
Re di Spagna, Filippo II (1556-1598); la sua determinante
adesione; la chiamata alle armi quasi con l’antico spirito
di crociata di tutti i principi europei desiderosi di
apprendere l’arte della guerra: dal genovese Gian Andrea
Doria (1539-1606), nipote del grande Andrea (1466-1560),
dallo spagnolo Santa Cruz, dal piemontese Andrea Provana di
Leynì (1511-1592), primo Ammiraglio di Casa Savoia sotto il
ducato di Emanuele Filiberto (1528- 1580)
a Don Cesare Cavaniglia (+ nel 1580 ca.), comandante
della flotta inviata dal Granducato di Toscana e dal S. M.
O. di Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, da Marcantonio
Colonna (1535-1584) al Priore Pietro Giustiniani (1490-1576)
del S. M. O. di Malta; la battaglia in se stessa; la
vittoria; il giubilo dell’Europa cristiana e tradizionale.
E’ una
pagina di storia da non dimenticare poiché è l’ultima, vera
ed autentica crociata da tramandare.
E’ quindi
codesto medesimo spirito che si incarnò in Eugenio di
Savoia.
Ma, come
sappiamo, Lepanto non fu la definitiva uscita di scena e la
sconfitta della potenza turca. Essa fu la vittoria morale
con risultati politici e materiali immediati molto modesti.
Infatti
pochi anni dopo i turchi ebbero nuovamente ragione e lo
spirito di San Pio V non c’era più.
La pagina
di Lepanto, praticamente, rappresentò lo scontro tra due
mondi e due civiltà.
E’ il
significato cristiano del bene che deve emergere, cercandolo
e mettendolo in evidenza!
Quando si
parla di Eugenio di Savoia-Soissons, si intende delineare la
figura e le gesta di un grande generale, di un moderno uomo
di stato, di un politico e diplomatico finissimo, di un
europeista “ante
litteram”, di uno dei più grandi condottieri
moderni, di un cattolico fervente, di un crociato nel suo
etimo tradizionale (ispirato dalla Madonna).
Ma prima
di tracciarne la biografia,
cerchiamo di inquadrarlo nell’albero genealogico
della Real Casa di Savoia.
Emanuele
Filiberto di Savoia, detto “Testa
di Ferro”, il secondo Fondatore dello Stato Sabaudo,
ebbe – come unico erede legittimo – Carlo Emanuele I
(1562-1630), il quale sposò Caterina d’Absburgo (1567-1597),
figlia del Re di Spagna Filippo II, dalla quale il Duca
Sabaudo ebbe dieci figli: il nono di codesti, Tommaso
(1596-1656) - Capostipite della Linea di Carignano ed
attuale Linea principale del Casato – e dalla consorte –
Maria di Soissons – ebbe, fra l’altro, Eugenio Maurizio
(1633-1673), creato conte di Soissons (titolo
derivatogli dalla madre), il quale, a sua volta, sposò la
romana Olimpia Mancini (1638-1708), figlia di Geronima
Mazarino (1614-1656) [sorella del famoso Cardinale Giulio
Mazarino (1602-1661)]; da questo ultimo matrimonio nacquero
ben otto figli: il quarto è il nostro personaggio: Eugenio
di Savoia-Soissons.
Passato
alla Storia come “Prinz
Eugen”, Eugenio-Francesco, Principe di Savoia
Carignano Soissons nacque a Parigi il 18 ottobre 1663.
Destinato,
perché cadetto, alla carriera ecclesiastica (per questo
motivo fu soprannominato “le petit abbé de Savoy”), a vent’anni, “sua sponte”, chiese udienza a Luigi XIV (1638-1715) il “Re
Sole” per esporgli la sua ferma volontà di deporre
l’abito talare e per chiedere il comando di una compagnia di
cavalleria; la risposta del Sovrano fu un netto rifiuto, di
cui più tardi il Re si pentì considerandolo il più grande
errore del suo regno.
Eugenio,
quindi, decise di arruolarsi volontario in un reggimento
austriaco di dragoni impegnato nelle operazioni al fine di
liberare Vienna dai turchi.
Iniziava
così il suo “status” di Principe
Imperiale, combattendo al fianco di Giovanni III Sobieskj
(1624-1696) , Re di Polonia, accorso in ausilio a Vienna!
Fu la
mitica prima volta che Eugenio vide la città alla quale sarà
legato per tutta la vita.
Fu
promosso colonnello dei dragoni, tenente generale (1687) e
(1690) generale di cavalleria.
Nel 1691,
dopo aver promosso l’alleanza imperiale con il re Vittorio
Amedeo II (1666-1732), primo Re di Sardegna, contro la
Francia, Eugenio liberò la città di Cuneo assediata.
Vienna
1697: è un altro momento glorioso della sua vita contro i
turchi.
Eugenio ha
trentaquattro anni e, cessata la lunga guerra tra la Francia
e l’Austria, viene nominato comandante supremo dell’Armata
Imperiale contro gli Ottomani che tendevano a preparare
un’avanzata verso l’Occidente.
Il giorno
11 settembre, vigilia della Festa del SS. Nome di Maria, il
Nostro riporta una vittoria sfolgorante contro il sultano
Mustafà a Zenta, sul fiume Tibisco. Più di diecimila turchi
periscono nel fiume, oltre ventimila sul campo. Le perdite
dell’esercito imperiale non superano i trecento morti. Il
sultano è costretto a sottoscrivere la pace di Carlowitz.
Ungheria e Transilvania passano sotto la Corona absburgica.
La
formidabile vittoria dette al Principe Eugenio fama europea!
Il 12
settembre, il Beato Innocenzo XI [Benedetto Odescalchi (nato
nel 1611), 1676-1689] lo consacrò al nome di Maria e da
festeggiarsi in tutta la Chiesa per commemorare la vittoria
attribuita alla Sua intercessione; l’immagine della quale,
su fondo rosso e cosparso di stelle, formava la bandiera del
Re Vittorio Amedeo II, che stimava il Principe Eugenio, lo
favoriva ed al quale egli si rivolgeva con la commovente
inesperta fiducia dei giovani.
E fu
proprio per questa fiducia ed al sacrificio di Pietro Micca
(1677-1706) che Torino, il 7 settembre 1706, fu liberata da
parte del Principe Eugenio.
E, in
ringraziamento di ciò, venne eretta la Basilica di Superga
per un voto che fece Vittorio Amedeo II alla Madonna.
Vediamo
come ci si arrivò. Sul colle di Superga, esisteva, sin dal
secolo decimoquinto, una piccola chiesa dedicata alla Beata
Vergine o Nostra Signora di Superga. La sua fama deriva
dall’intercessione della Madonna in un momento drammatico
per la storia di Torino, e cioè, come abbiamo visto, il
1706.
Le sorti
di Torino, assediata dai francesi, non erano delle migliori.
Il 28 agosto 1706
avvenne l’incontro tra il Principe Eugenio ed il Duca
Vittorio Amedeo. I due strateghi ascesero al colle di
Superga al fine di esaminare al meglio, da quell’altura, il
campo di battaglia. Constatarono che lo schieramento nemico
presentava diversi punti deboli nella zona tra la Dora e la
Stura. Giunsero alla conclusione che convogliando gli
attacchi in quella zona poteva esserci una possibilità di
successo.
Alcuni
storici asseriscono che Vittorio Amedeo ed Eugenio si
recarono sul colle di Superga una seconda volta, e cioè il 2
settembre, e fu l’occasione in cui entrarono nella
chiesetta. Celebrata la S. Messa, i due principi si
accostarono ai sacramenti; si cantò solennemente l’”Ave
Maris Stella”. Giunti al versetto “(…) monstra Te
esse matrem”, il Duca di Savoia si prostrò ai piedi
della statua (quella tutt’oggi venerata nella cappella c. d.
“del voto”) e fece voto che se la Madonna gli avesse
fatto ottenere la vittoria avrebbe costruito sul colle un
magnifico Tempio a Lei dedicato.
Fu
vittoria!!
La
popolazione, venuta a sapere del voto del Duca, attribuì la
stessa all’intercessione della Madonna. Ed ancora una volta,
l’intercessione della Madonna fu determinante.
E’
un’intercessione che più volte, nella Storia, ci ha abituato
a porre in evidenza.
Il 7
settembre 1706, data gloriosa per Torino, è anche la vigilia
del giorno 8 settembre, che la Chiesa dedica alla Natività
di Maria.
Sono
coincidenze o la forza mariana è immensa?
Il voto di Vittorio Amedeo ci fu
sicuramente. Infatti nella parte interna della Cappella c.d.
“del voto”, c’è la seguente epigrafe: "Virgini
Genitrici/Victorius Amedeus, Sardiniae Rex/Bello Gallico,
vovit/Et
pulsis hostibus fecit, dedicavitque".
Eugenio
aveva giurato che sarebbe rientrato in Francia solo con la “spada
lucente” in
pugno, e non risparmiò sconfitte al Re Sole: Blenheim nel
1704; Audenarde nel 1708; Malplaquet nel 1709. Nel luglio
1710, insieme all’inglese Duca di Malborough [John Churcill
(1650-1722)], espugna Tournal, la fortezza più munita di
Francia, la “Maginot” dell’epoca, progettata da Sébastien Le Preste de Vauban
(1633-1707) per difendere Parigi.
Ma il
capolavoro militare del Principe Eugenio fu, nel 1715, a
Belgrado!
In tale
occasione nuovamente i Turchi tentano un supremo attacco
contro l’Occidente. Questa volta il Papa è Clemente XI
[Giovanni Francesco Albani (nato nel 1649), 1700-1721]. Egli
si ispira ai suoi predecessori: San Pio V (Lepanto) ed
Innocenzo XI (Vienna) e lancia un appello ai principi
europei e cattolici per difendere la Cristianità, così come
fece appunto San Pio V per la battaglia di Lepanto.
Il
vincitore di Zenta riprende il supremo comando.
Eugenio di
Savoia ha cinquantadue anni e lo accompagnano, come si è
detto, i giovani principi di tutte le Case d’Europa per
apprendere, ed al meglio, l’arte della guerra.
I Turchi
assediano Peterwadein, presso il Danubio, e sono comandati
dal Gran Visir in persona. La mattina del 5 agosto 1715,
festa della Madonna della Neve, il Principe Eugenio offre
battaglia in campo aperto ad un nemico tre volte superiore.
E’ una
nuova, splendida vittoria, ed ispirata – ancora una volta –
dalla Madonna.
Tutta
l’Europa giubila.
A Roma,
per volontà papale, furono suonate
tutte le campane ed illuminata a festa la città.
Clemente XI concesse ad Eugenio di Savoia l’onore del “pileo
e dello stocco” . Si trattava di una berretta e di una
spada benedetta che investivano l’insignito della dignità di
Generale della Santa Chiesa. Eugenio volle che codesta
cerimonia si svolgesse con la massima solennità militare e
liturgica. Fu l’onore più grande
che ottenne ed il più significativo.
Il 13
ottobre 1715 egli libera la fortezza di Temesvar.
L’entusiasmo a Vienna sale alle stelle. La fortezza era
stata nelle mani turche per ben 164 anni.
Il 22
agosto 1717 conquista Belgrado e l’imperatore d’Austria,
in tale occasione Carlo VI (1685-1740), consegna al
Principe Eugenio di Savoia il bastone di Maresciallo. Tale
riconoscimento segna
la nascita del detto: “che bel grado a… Belgrado”.
Il 21
aprile 1736, settantadue anni, il Principe Eugenio di Savoia
Carignano Soissons moriva in Vienna nella sua residenza di
Himmelpfortgasse, il Castello del Belvedere. Moriva nel
sonno, lui che fu guida insonne di tante battaglie. Nessuno
gli avrebbe mai preconizzato una vita tanto lunga (per
l’epoca) dato il suo gracile aspetto ed una gioventù
contrassegnata da malattie che aveva saputo vincere con una
eccezionale vitalità ed una forza di volontà che andava
oltre l’umano.
In questo
aspetto egli ci ricorda un suo antenato. E’ Emanuele
Filiberto di Savoia. Pure lui era cadetto e destinato alla
vita ecclesiastica. Era gracile e macilento. Salì al trono
ducale dello Stato Sabaudo per la prematura scomparsa del
fratello maggiore Ludovico (1523-1536). Sappiamo che Eugenio
prese il posto del fratello Luigi Giulio (1660-1683) (detto
“il Cavaliere di
Savoia”), caduto contro i Turchi e dalla parte imperiale
austriaca. Ed anche Emanuele Filiberto si mise dalla parte
imperiale con Carlo V (1500-1558) e regnò a lungo e con
grande gloria.
Nel
ricordare la scomparsa del Principe Eugenio, gli storici
narrano anche un fatto, insieme misterioso e commovente:
nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1736, in cui, come
abbiamo visto, il Principe spirò, il magnifico leone del suo
zoo del Palazzo del Belvedere, affezionatissimo al Nostro,
fu udito ruggire a lungo lamentosamente e dalla mattina
seguente non volle più prendere cibo e si lasciò morire.
Soffermiamoci ora brevemente in alcuni aspetti della vita di
Eugenio di Savoia e sul significato delle sue gesta eroiche.
Eugenio di
Savoia-Soissons fu, come già ricordato, un europeista, un
condottiero, un mecenate, un politico finissimo, uno spirito
cristiano e fu soprattutto sopranazionale quanto a “forma
mentis”. Tra l’altro amava firmarsi in tre lingue: “Eugenio
Von Savoy”. Disse di lui,Federico II “il
Grande” di Prussia (1712-1786): “(…) se sono buono a
qualcosa, se capisco qualcosa del mestiere e soprattutto di
certe complicate finezze, lo debbo al Principe Eugenio; egli
era l’Atlante della Monarchia, che resse con il suo genio
militare e politico.”
Al
riconoscimento del sovrano prussiano, a quelli dei
contemporanei e dei posteri, alle opere monumentali e
scientificamente rigorose a lui dedicate, alla grande stima
di cui godette presso Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)
e Voltaire [François-Marie Arouet (1694-1778)] è bene
ricordare i giudizi di Napoleone I (1769-1821) e di Otto
d’Absburgo (1912-2011), il discendente degli imperatori che
il Nostro servì con tanta intelligenza e lealtà. Scrive
Nicolas Henderson nella prefazione del suo “Eugenio
di Savoia”, riportando un passo di una lettera di
Napoleone alla prima moglie Giuseppina:
“Sette sono i
grandi condottieri del mondo: Alessandro, Annibale, Cesare,
Gustavo Adolfo, Turenne, Eugenio di Savoia e Federico II di
Prussia”.
Ecco che ritorna qui il concetto di condottiero, nel suo
etimo tradizionale.
Un giudizio limitato alle doti militari quello del Grande
Còrso. Più attento a quelle politiche per Otto d’Absburgo,
che limpidamente scrisse: “Guida e stratega delle grandi
battaglie, in esse non si esaurì. Più importanti, infatti,
ci appaiono oggi la lungimirante capacità politica, le
straordinarie doti di statista che consentirono al Principe
Eugenio di subordinare le azioni belliche ad una ben più
ampia concezione e di porre alla politica absburgica
obiettivi lontani, obiettivi senza tempo. Eugenio riuscì a
scorgere, oltre i limiti della sua epoca, ciò che noi
cominciamo a capire soltanto ora, provati come siamo dalle
catastrofi del nostro secolo: la visione di un’Europa
naturalmente unitaria pur nelle sue diverse articolazioni”.
Eugenio credeva che lo spirito prettamente europeo e
cristiano si dovesse manifestare nei campi più diversi:
dalla solidarietà sovrastatale delle “elites”
del tempo; all’arte, che, nel Barocco, aveva trovato
un’espressione così omogenea ed armonicamente articolata, da
poter comprendere architettura, musica, pittura e scultura;
alla costante e giusta preoccupazione di anteporre alla
guerra per la guerra la ricerca della stabilità, della
sicurezza, della pace europea, delle alleanze durature per
equilibri duraturi.
A codesto proposito è bene ricordare che la pace… Chi la
desidera? Dove vi è un uomo; dove vi è un cuore che batte,
vi è un desiderio di pace. Anche chi fa la guerra non
desidera altro che la pace. Celebre è (e non sta a noi
commentarlo) l’assioma di colui che Dante (1265-1321)
nel IV canto
dell’Inferno, verso 131, definisce “lo maestro di color
che sanno” Aristotile (384 a. C. – 322 a. C.): “lo
scopo della guerra è la pace”.
E San Tommaso d’Aquino (ca. 1221-1274), nella sua “Summa Theologiae” (scritta tra il 1267 ed il 1274) spiega come non
vi è uomo che non tenda al bene, o meglio ad un bene, e la
pace ha appunto per oggetto il bene: è il riposo delle
nostre facoltà nel bene conquistato.
Ma torniamo al nostro personaggio.
Le espressioni “salvezza
dell’Europa” e “sicurezza
dell’Europa” ricorrono spesso nelle sue lettere
all’imperatore Carlo VI dal 1712 al 1723, e questi concetti,
così moderni ed attuali, sono stati predominanti nella
stesura della pace di Utrecht (11 aprile 1713), di Rastadt
(7 marzo 1714) e di Baden (6 febbraio 1715).
Nell’Impero egli non vedeva le nazioni, bensì la
realizzazione dell’idea dell’Impero come concezione modello
per l’Europa fondata sui principi comuni, quelli cristiani,
sulla coesistenza di popoli diversi, su concezioni
sopranazionali armonizzate con le realtà particolari di
ciascun stato.
Di già Carlo V ricollegava il suo mandato sopranazionale
alla concezione dell’Impero di Carlo Magno, degli Ottoni,
degli Hohenstaufen, nel tentativo di indirizzare la
cristianità verso un programma d’impegno comune che
l’avrebbe vista mobilitata, unita e vittoriosa, come abbiamo
visto, contro il Turchi a Lepanto prima, successivamente a
Vienna ed infine a Belgrado.
Contro l’egemonismo ed il nazionalismo della Francia,
Eugenio credette nella naturale sovranazionalità
dell’Europa; ai particolarismi preferì obiettivi universali
ignorando ogni mediocrità e stabilendo, anche nelle
relazioni diplomatiche e quindi nelle amicizie, da
Giambattista Vico (1668-1744) a
Leibniz, da Federico II il Grande all’inglese Duca di
Malborough, al Voltaire, che disse di lui: “(…) scosse la
grandezza di Luigi XIV e della potenza ottomana (…) governò
l’impero nonostante tutte le vittorie e gli incarichi
ricoperti (…) sdegnò le tentazioni del fasto e della
ricchezza”,
quale confronto delle intelligenze fra uomini
sostanzialmente superiori.
Egli immaginava ad una federazione di stati, ed in una sua
lettera Duca di Malborough, datata 22 maggio 1717,
chiaramente scriveva: “(…)
le alleanze prodotte solo dal caso o da un interesse
momentaneo non ispirano grande fiducia. Ma se le potenze
marittime decidono concordemente che la pace europea dipenda
dall’esistenza della Germania e dell’Italia allora si
puo’ dire che un interesse comune sia il momento unificatore
di una confederazione di stati da cui ci si puo’ aspettare
anche una buona solidità per l’Europa.”.
Nel
momento in cui decise di lasciare la Francia per il rifiuto
del Re Sole, si incontrò nei pressi del Danubio con
l’imperatore Leopoldo I (1640-1705) ed il 20 agosto 1683,
neanche ventenne, così solennemente giurò:
“Prometto la
integra fedeltà costante di sacrificare in tutti, anche i
maggiori pericoli della guerra, tutte le mie forze fino
all’ultima goccia di sangue, per il benessere e la potenza
della Sua Maestà e della somma Casa d’Austria. Dio e la
Madonna me ne siano testimoni”.
Praticamente, in codesto giuramento, c’è tutta la fede ed il
sacrificio del Principe Eugenio di Savoia-Soissons.
Infatti,
se analizziamo le di lui origini, egli è la personificazione
dell’Europa tradizionale cristiana e mariana: aveva sangue
dei Borbone, attraverso l’ava paterna, ma anche sangue
absburgico poiché il suo avo era nipote di Filippo II e
pronipote di Carlo V.
Ancora
qualche pensiero per concludere questa bella pagina di
storiografia europea, cristiana e mariana.
Eugenio
era un uomo solitario ed andava in battaglia indossando
un’armatura bruna su panni quasi scarlatti e, dopo una
brevissima preghiera, prima dell’azione, sembra gridasse “avanti”,
accompagnando il grido con un unico breve movimento della
mano. A codesto proposito, ho trovato, in un antico libro
del Secolo XIX una nota a piè di pagina, che accenna a ciò:
“(…)
le preghiere che il
principe Eugenio recitava prima della battaglia erano l’Ave
Maria e “impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad
expugnandos diabolicos incursus” (…)“.
Quest’ultima, propriamente, nell’accingersi ad indossare
l’elmo, ed è la medesima orazione che recitavano i sacerdoti
nell’imporsi il paramento sacro denominato amitto, che è il
“galeam salutis” cioè l’elmo della salvezza, quasi al
fine di rendere invulnerabile il sacerdote nei suoi
combattimenti contro l’infernale nemico. Questa preghiera,
senza dubbio, Eugenio la fece sua date le origini di
destinato alla vita religiosa.
Il
Principe Eugenio di Savoia-Soissons è sepolto in Vienna,
nella Cattedrale di Santo Stefano, come un re. Infatti
anch’egli fu un re: “le roi des honnets hommes” (“il
re della gente onesta”).
Il
Principe Eugenio era di media statura, longilineo, con viso
affilato, di colore olivastro, con naso aquilino e con occhi
nerissimi e penetranti.
La Sua
immagine fisica ci è giunta da descrizioni di contemporanei
e riprodotta in vari quadri e sculture, fra i quali: il
quadro del pittore Jacob Van Schuppen (1670-1751),
conservato nella Pinacoteca di Torino, che lo raffigura sul
cavallo bianco, con spada al fianco e bastone di comando,
dopo la vittoria sui turchi; mentre nel quadro del pittore
Jan Kupetzki (1667-1740), in cui è ritratto con corazza, e
quindi quello donato dal Re Umberto II (1904-1983), il 28
febbraio 1970, al Museo “Pietro
Micca” di Torino.
Sempre a
Vienna, nel cuore della città, l’imperatore Francesco
Giuseppe d’Absburgo (1830-1916) gli fece erigere
(1859) un monumento equestre modellato dal Anton
Dominick Ritter Von Fernkorn (1813-1878) proprio di fronte
al palazzo imperiale nella Heldenplaz. Vi è un monumento
anche a Budapest, dinanzi all’entrata principale del Palazzo
Reale ed affacciato sul Danubio. Sul basamento del monumento
viennese, nelle tre targhe di bronzo, si legge:
“Al saggio consigliere di tre imperatori”,
“Al glorioso vincitore dei nemici dell’Austria”, “Al
Principe Eugenio, il Nobile Cavaliere”. I tre imperatori
furono: Leopoldo I, Giuseppe I (1678-1711) e Carlo VI.
Una
cantabile melodia, nata sul campo – durante l’assedio di
Belgrado – recita: “Prinz Eugen, der edle Ritter….. (il
Principe Eugenio, il nobile cavaliere…….)”.
Tuttora
l’inno ufficiale della nostra cavalleria è la “Marcia
del Principe Eugenio”, composta, nel 1914.
Scrive di
lui un grande storico della Chiesa: “terminava la serie
delle Crociate, da Goffredo di Buglione sino ad Eugenio di
Savoia”.
Lo storico, generale Carlo Corsi (1826-1905)-, nel 1884,
scrisse di Eugenio di Savoia che “(…) sovrastò gli altri
Capitani dei suoi tempi per l’ingegno strategico e per la
severa osservanza della militare disciplina. Tolse regola a’
suoi atti dalle qualità del terreno e del nemico e fu
altrettanto pronto e vigoroso nell’eseguire quanto audace
nell’immaginare, sicchè potè condurre a buon esito imprese
che apparvero temerarie (…) Lo si addita come sommo nel
condurre le marce e nello scegliere il punto ed il momento
opportuno per gli assalti decisivi. Oltre la nobiltà del
sangue e dei modi, concorsero a procacciargli il rispetto e
la devozione dei capi e delle milizie la severità dei
costumi, la maestà della parola ed il freddo coraggio
veramente meraviglioso, ch’era attestato dalle ferite
toccategli in tredici battaglie.”
Ed ancora, il poeta e drammaturgo austriaco Hugo von
Hoffmannsthal (1874-1929), nel 1914, scrisse di lui, fra
l’altro, parole divenute
famose: “(…) rimanere alla testa di un esercito,
come egli rimase, conducendolo a battaglie e poi ancora a
battaglie, ad assedi e poi ancora ad assedi, per trentanove
anni. Tirarlo fuori dal fiume Sava, condurlo in Lombardia e
poi indietro, attraverso il Tirolo verso la Baviera e sul
Reno e poi di nuovo giù nel Banato e su, un’altra volta,
nelle Fiandre. Cadere ferito per tredici volte e poi di
nuovo sul cavallo, di nuovo in tenda, di nuovo in trincea.
Ed i suo sguardo d’aquila su tutto, sull’esercito e sulle
salmerie, sull’artiglieria e il territorio e il nemico. E la
brevissima preghiera prima dell’azione” come prima
abbiamo ricordato “quel
di lui “Mon
Dieu!”, con uno sguardo verso il
cielo, eppoi il segno “Avancez!”,
con un unico breve movimento della mano. Spingere tutto ciò,
sempre avanti, con la sola forza della volontà. E mantenere
ogni cosa in vita, imporre tutto con forza vitale,
compensare, nutrire, penetrare tutto col suo spirito, e per
trentanove anni. Quale fatica d’Ercole!”.
Il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
giudicò Eugenio di Savoia: “(…) un filosofo
guerriero, che considera con indifferenza la sua dignità e
la sua gloria, discorre degli errori che ha commesso con la
massima schiettezza, come se parlasse di un altro e che è
più caldo ammiratore delle altrui virtù che delle proprie.”
Il
Principe Eugenio, nel corso del lungo esilio dei nostri
Sovrani, fu ricordato almeno due volte, ed a Vienna. La
prima fu nel 1963, Terzo Centenario della nascita, alla
presenza del Principe Adalberto di Savoia-Genova, Duca di
Bergamo, (1898-1982), in rappresentanza del Re Umberto II, e
la seconda nel settembre 1986, duecentocinquantesimo
anniversario della scomparsa, alla presenza del Principe
Vittorio Emanuele di Savoia, ci si è recati nel Duomo di
Santo Stefano nella Cappella dedicata al Nostro, e dove si è
provato, innanzi all’”urna”
del “forte”
Eugenio, una rinnovata patriottica scintilla foscoliana.
Sulla vita
privata del Principe Eugenio di Savoia, ben poco si conosce.
Possiamo dire solo che era un uomo occupatissimo, modesto
nel vestire – solitamente indossava una giubba di panno
scuro, senza distinzioni – non si sposò e non si creò una
propria famiglia. Ma un unico fatto conosciuto, che dia la
sensazione di un omaggio profondo e duraturo alla
Femminilità, è la sua lunga, costante, palese amicizia con
la contessa Lori (Eleonora) Batthyani, splendida dama e
gentildonna di grande intelligenza e di eccezionale cultura,
alla quale il Principe rendeva visita nel di lei palazzo in
Vienna, e ciò anche il 20 aprile 1736, ultima sera della
vita del Nostro.
Non
abbiamo altresì accennato a’ diversi e multiformi aspetti
della sua vita pubblica, ma solo e soltanto sottolineato i
maggiori titoli della sua grandezza: la difesa dell’Impero,
dell’Europa e della Civiltà Cristiana. Grandezza che trae la
sua fonte dalla lotta, dal sacrificio, da una forza messa al
servizio dei grandi ideali. Se questi ideali non sono morti,
se vera grandezza fu quella di Eugenio, non sarà grandezza,
non sarà nobiltà, non sarà eroismo, quello di chi,
confidando nell’aiuto di Dio, vorrà dedicare le sue energie
a difendere anche oggi, nel Terzo Millennio dell’Era
Cristiana, l’Europa e la Civiltà Cristiana dai suoi nemici,
in una lotta che non è militare, ma prima di tutto
ideologica e morale?
L’Europa
del Nostro era romana, cristiana e libera in campo politico,
militare, scientifico, letterario ed artistico in un’epoca
in cui – fra l’altro – netta era ancora la distinzione fra
il bene ed il male, fra le virtù ed i vizi e fra la verità e
la menzogna.
Ed Eugenio
è la personificazione di ciò!
Eugenio,
il grande “defensor christianorum” – emulo dei grandi
da Lepanto a Belgrado (vittorie tutte ispirate dalla
Madonna, come più volte abbiamo detto e scritto) – solo con
la sua fede in Dio e nella Madonna potè arrivare a tanto e
fare tanto per la Chiesa e contro gli infedeli. Egli è la
personificazione dell’uomo che respinge la tentazione della
mediocrità e della resa per la resa e pone innanzi a tutto
la fedeltà, il dovere, il sacrificio e la lotta.
Rodi,
Lepanto, Vienna, il filo conduttore è sempre lo stesso:
combattere, in nome di un’ispirazione, il male e gli
infedeli.
Eppoi la
visione dell’Europa che il Principe Eugenio ha ispirato (per
il futuro), si è concretizzata nel 1989 con la caduta dei
regimi estranei che da oltre quarant’anni imperversavano
nell’europeissimo est europeo.
Ed ecco
che si torna a parlare di Monarchia: di sentimenti
tradizionali, di interesse per le nobili figure dei Re:
Michele (1921-2017) per la Romania, Simeone (1937- ) per la
Bulgaria. Si torna a parlare di Monarchia nei paesi che,
fino al 1918,
erano il cuore dell’Europa tradizionale e sopranazionale.
Perché
coloro che hanno redatto la Costituzione Europea -
solennemente sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004 - non
hanno tenuto conto nel c.d. “Preambolo”
di questi valori?
I valori
cristiani e tradizionali che hanno rappresentato, che
rappresentano e che rappresenteranno il nostro Continente.
I valori
fatti propri da Eugenio.
Valori,
come ho già detto, che poi sono gli stessi da Lepanto in
poi.
In ogni
epoca, come abbiamo ampiamente visto e commentato, l’umanità
ha dovuto combattere contro il c.d. “male”,
che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli
ai tempi delle Crociate, la cupidigia, che sotto
l’allegorica forma di una lupa, Dante, nella sua “Commedia” al Canto I dell’Inferno, 100-102, di essa dice:
“Molti
son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro
verrà, che la farà morir con doglia.”
E’ una profezia “ante eventum”, l’unica tale nella Divina Commedia.
Sarà venuto codesto “Veltro”.
Con una libera interpretazione potrebbe essere stato Eugenio
di Savoia Carignano Soissons?
Ed egli aveva tutte le credenziali per esserlo.
29 marzo 2020
Povera e nuda vai filatelia
di Domenico Giglio
In questi giorni di segregazione è riesplosa una vecchia
passione: i francobolli. Penso che risalga almeno a quando
avevo dieci anni ed a scuola quasi tutti collezionavamo
questi pezzettini di carta facendo fra noi i famosi “scambi”
di “libretti” (i classificatori non esistevano), dove erano
“appiccicati” con le “linguelle” i francobolli nuovi e
usati, cioè “timbrati”, per cui, per meglio operare, ci
asserragliavamo negli ultimi banchi. Quindi una storia
antica, ma le cui origini sono ancora più antiche, quando
cioè mio padre, anche lui decenne, fu “iniziato” a questa
materia, forse da un ufficiale del 31° Reggimento di
Fanteria, di cui era comandante mio nonno, il colonnello
Domenico Giglio, per cui la pur modesta “Collezione Giglio”
, ha 110 anni di vita (1910- 2020).
Quindi ero stato “iniziato” da mio padre, il dr. ing. Rocco
Giglio, che nella catalogazione di questi pezzetti si basava
su di un catalogo universale Yvert-Tellier, scritto in
francese ed ancor oggi esistente, usando la stessa
meticolosità ed attenzione di quando svolgeva la sua
attività professionale di progettista, direttore lavori,
collaudatore e via discorrendo. Ed era una scuola di storia,
di geografia, di politica e delle guerre ed anche di lingua
francese, all’epoca ancora lingua diplomatica universale, di
cui imparavo le sottigliezze dei colori che differenziavano
i francobolli anche simili fra loro. Ed oltre ai colori si
imparava a conoscere e valutare le dentellature, con
l’odontometro, perché anche qui vi potevano essere
differenze di valutazione, cioè il valore (sempre teorico)
dei francobolli , ma utile nei già citati scambi che
avvenivano “alla pari”. Poi vennero gli album con le caselle
predisposte che si riempivano, ma al tempo stesso
segnalavano i vuoti, per cui si preparavano le “mancoliste”
da diffondere tra gli altri collezionisti, o per andare da
uno degli allora numerosi negozianti, comprese diverse
cartolerie, per vedere di trovare i francobolli mancanti.
Una variante negli anni del dopoguerra venne per i
francobolli nuovi: linguellati od illinguellati con pesante
diversità di valutazione, facendo strappare i capelli ai
vecchi collezionisti che avevano appiccicato i francobolli
sugli album. Anche gli album, o forse proprio i fabbricanti
degli album corsero ai ripari predisponendoli con le
taschine trasparenti, e predisponendo anche taschine sciolte
per meglio conservare gli esemplari più interessanti. Però
negli anni le mode aumentavano e con essi i costi per
mantenere aggiornate le collezioni: la quartina (4
francobolli in forma quadrata), poi gli angoli di foglio,
poi le buste timbrate il primo giorno di emissione (FDC –
first day cover -
in omaggio alla lingua inglese anche in campo filatelico), e
poi le cartoline “maximum”, cioè il francobollo applicato su
di una cartolina avente soggetto analogo, ed altro ancora,
dai foglietti ai libretti e via discorrendo per spillare
sempre più soldi.
Nel frattempo per motivi vari aumentavano i “doppi” o “doppioni”,
cioè più copie dello stesso esemplare, tanto che fui
autorizzato a fare con gli stessi una seconda più modesta
collezione mia personale, mentre mio padre proseguiva quella
base da me proseguita dal 1983. Passando poi dalla
paleofilatelia alla neofilatelia si affermavano i cataloghi
italiani per i paesi italiani, cioè Italia, (ex) Colonie
Italiane, SCV (Città del Vaticano), San Marino e buon ultimo
lo SMOM (Ordine di Malta), ed i collezionisti, noi compresi
, restringevamo a pochi paesi gli interessi filatelici per
questioni di spazio, di tempo e di costo! Oggi, forse o solo
la Regina d’Inghilterra se ha mantenuto la passione
filatelica della famiglia potrebbe permettersi questo lusso,
sia perché sono notevolmente aumentati i paesi emittenti,
sia per le emissioni anch’esse enormemente aumentate a scopo
propagandistico e ancor più speculativo , mentre l’effettivo
uso postale sta sempre più diminuendo. Si va all’assurdo che
più piccoli sono gli stati, più francobolli emettono! e
mentre poi, specie da noi in Italia diminuisce il numero dei
collezionisti, non essendo gli studenti ed i giovani
interessati a questa intelligente ed istruttiva forma di
collezionismo, che richiede pazienza ,senso dell’ordine ,
attenzione e delicatezza.
Tornando a me questa rivisitazione si era resa necessaria per
avere trascurato i pezzettini per altre attività per cui
necessitava mettere le cose a posto, negli album,
raccoglitori, classificatori, per ridare quell’aspetto
ordinato che fino alla fine aveva mantenuto mio padre. Ma
che serenità, che riposo dello spirito ho ritrovato. Nulla
dei fatti esterni mi interessa, non mi pesa la segregazione,
non c’è telegiornale o altro televisivo che turbi il mio
lavoro. Una pinzetta per non toccarli, una bella luce ed una
lente per meglio osservarli, perché oltre alle differenze
già indicate può essere necessario anche vedere la
“Filigrana”, ovvero in trasparenza quegli elementi
caratteristici che ogni paese aveva inserito contro le
contraffazioni e falsificazioni, come per tutto il periodo
del Regno d’Italia era stata la bella “Corona Reale”.
29 marzo 2020
Riflessioni minime sulla vita in casa ai tempi del
Coronavirus
È peggio di una guerra
di Salvatore Sfrecola
È “come una guerra” si sente dire sempre più spesso a proposito
dell’emergenza dovuta all’infezione da Coronavirus. È chiaro
il senso del ricorso ad una parola che evoca un nemico da
battere, una lotta nella quale è a rischio la vita. Per un
nemico invisibile e subdolo, che non sappiamo dove né
quando, chi e come colpirà. Le modalità di diffusione del
contagio sono individuate, con una buona dose di incertezza
che naturalmente influisce sulle modalità di risposta al
virus, sia nella prevenzione che, ancor più, nella terapia.
Oltretutto sappiamo, questo sì con certezza, che la
strumentazione a disposizione degli ospedali è in molte
realtà gravemente insufficiente, specialmente nelle fasi
acute che richiedono la degenza in un reparto di terapia
intensiva.
Per far fronte al dilagare del contagio sono state adottate
limitazioni progressivamente più severe della libertà di
movimento delle persone ancorata a casi di necessità per
gravi motivi di lavoro, sanitari e di approvvigionamento
alimentare. Sono le limitazioni che marcano una netta
differenza rispetto alla “guerra” tanto spesso evocata, come
potrebbero dire i più anziani l’hanno conosciuta.
L’infezione che ci impegna è peggio, molto peggio di una
guerra. Nell’ultima, quella 1940-1945, i cittadini hanno
sperimentato una condizione di vita certamente migliore di
quella di oggi. Non sembri un paradosso, considerato che in
ogni caso forte era la paura della morte che, il più delle
volte, veniva dal cielo in forma di bombe di grande capacità
distruttiva. C’era, comunque, in quella difficile stagione,
una vita pressoché ordinaria, di relazioni personali e di
lavoro, se questo non si svolgeva in una delle strutture
industriali possibile obiettivo dell’aviazione nemica. Per
il resto, pur tra mille difficoltà e privazioni, anche dal
punto di vista degli approvvigionamenti alimentari
progressivamente sempre più insufficienti le giornate
trascorrevano secondo i ritmi consueti, se si esclude il
suono sinistro delle sirene che di tanto in tanto, e non
dappertutto, imponevano di abbandonare la propria abitazione
per riparare nei rifugi. Ma c’era la possibilità di lasciare
le città per uno dei tanti piccoli borghi dei quali è
disseminato il nostro Paese, in campagna, in montagna o al
mare, utilizzando una casa di famiglia o di vacanza dove
c’era una certa sicurezza e, soprattutto, lì era più facile
approvvigionarsi di prodotti alimentari. Insomma, voglio
dire che la guerra, pur tragica, lasciava alle persone e
alle famiglie una condizione sia pur minima di socialità,
esplicitamente esclusa, invece, dalle misure restrittive
indicate dal governo e dalle autorità regionali come
necessarie per impedire il diffondersi dell’infezione.
Costretti a rimanere in casa. Uscire è possibile solamente
per i motivi che si è detto legati a necessità urgenti, che
non è altrimenti possibile soddisfare.
Reclusi in casa, dunque, con evidenti condizionamenti che ben
presto possono creare problemi di convivenza, specie quando
gli spazi sono limitati, come accade per gran parte delle
famiglie. È la condizione nella quale emergono
incomprensioni che nella vita ordinaria neppure si
manifestano,
considerato che la convivenza obbligatoria nell’arco
dell’intera giornata pone questioni di compatibilità delle
rispettive esigenze, anche tra persone legate da solidi
affetti che possono essere messi alla prova da interferenze
reciproche nel corso della giornata. E quindi gli spazi a
disposizione sono essenziali, nel senso che se una persona
desidera leggere, ascoltare della musica, curare la propria
collezione di francobolli o dedicarsi al bricolage può
essere disturbato da altri che sono intenti in altre
attività, ugualmente per chi pratica il “lavoro agile”, in
collegamento con il proprio ufficio. Purtroppo nelle case
moderne spesso gli spazi sono angusti ma questo disagio è
mitigato nella vita ordinaria scandita da assenze più o meno
lunghe per lavoro, studio e relazioni sociali, motivo di
soddisfazione per i componenti della famiglia. Un po’ come
accade con le minicrociere in barca a vela, vacanze iniziate
con entusiasmo, spesso terminate con musi lunghi a
testimonianza che in quei pochi giorni la convivenza ha
incrinato, sia pure momentaneamente, rapporti di amicizia e
di affetto. Gli spazi piccoli, come noto, determinano
amplificazione dei contrasti. Ci vuole molta disponibilità
per convivere un’intera giornata e con la prospettiva di un
lungo periodo, come si deduce dalle prescrizioni stabilite
dalle autorità e dalla prevista durata (sei mesi dal 31
gennaio) dello stato di emergenza.
Fatta questa ricognizione delle difficoltà della convivenza,
dovute essenzialmente agli spazi a disposizione e alle
attività svolte, per non smentire la mia propensione a
vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, non c’è dubbio che,
almeno per una persona delle mie abitudini, la permanenza in
casa offre anche importanti occasioni di recupero di
interessi che nell’impegno quotidiano spesso sono
parzialmente trascurati. La lettura, innanzitutto, di un
libro rimasto troppo a lungo su uno scaffale, l’ascolto
della musica, per chi ne appassionato, la cura degli hobby,
la collezione di francobolli o di monete, il bricolage. C’è
anche, in questo popolo di artisti, chi può dedicarsi alla
scrittura o alla pittura o ad altre arti. Per parte mia ho
approfittato di questa sosta forzata per riordinare i libri
che spesso erano disseminati tra i vari scaffali, non sempre
con ordine. Se si esclude i libri di uso professionale, i
codici, i manuali e i trattati di diritto, ben sistemati
nella libreria del salone studio, mi sono dedicato a
riordinare i volumi su materie di interesse storico
sistemati negli scaffali delle varie stanze (i libri sono
dappertutto tranne in bagno), a seconda del periodo di
riferimento, la Grecia, Roma, il medioevo, il Rinascimento e
poi la Rivoluzione Francese, Napoleone. Un ruolo rilevante
hanno i testi sul Risorgimento italiano con i suoi
protagonisti, da Carlo Alberto a Garibaldi, da Vittorio
Emanuele II a Mazzini. Uno spazio rilevante è dedicato a
Camillo Benso di Cavour, il grande statista ammirato anche
da Clemente Lotario di Metternich, il potente Cancelliere
austriaco. Vi sono anche altri protagonisti di
quell’importante periodo storico, come Marco Minghetti e
Quintino Sella.
Naturalmente c’è uno scaffale con molti ripiani dedicato alla
guerra 1915 1918 con commenti, approfondimenti e biografie
dei protagonisti da Vittorio Emanuele III ad Armando Diaz,
da Francesco Giuseppe a Guglielmo II, a Nicola II, lo Zar di
tutte le Russie e alla tragedia della famiglia Romanov. C’è
poi tutta una ricca letteratura sulla seconda guerra
mondiale, con riferimento alle vicende politiche e a quelle
militari. Anche la storia del pensiero politico occupa molti
spazi insieme ai temi del diritto pubblico. È stato un
bell’impegno ancora non concluso, anche perché non mi è
stato possibile avvalermi del mio nipotino Leonardo Pirozzi
che in altra occasione si è prestato ad aiutarmi a
sistemarmi i libri per materia e per autore. È in corso la
sistemazione degli ulteriori accessi per i quali, non
potendo frequentare librerie, sono ricorso all’acquisto
on-line di volumi che mi vengono puntualmente e rapidamente
consegnati.
Alcuni volumi che ho esigenza di consultare per articoli, note e
commenti sono sistemati insieme nella libreria più vicina
alla scrivania dove affronto un determinato argomento. In
questo periodo, ricorrendo il 200º anniversario della
nascita di Vittorio II, ho messo insieme alcuni testi che mi
sono stati utili per scrivere articoli ed un capitolo del
libro “L’Italia in eredità - il Re galantuomo”, pubblicato
in questi giorni da Historica. Non nascondo che vorrei
scrivere qualcosa di più sul Padre della Patria, per
delineare la personalità e l’azione di questo straordinario
sovrano ingiustamente trascurato dalla storiografia.
Quello che ho appena descritto è un esempio di come si può
occupare il tempo con soddisfazione, senza interferire,
almeno finora così è stato, con chi vive con me, che
peraltro conosce le mie abitudini e sa che, ad esempio, io
ascolto la musica classica praticamente tutto il giorno.
Perché quella musica mi ha sempre accompagnato nel lavoro,
in auto, mentre mi sposto in città o viaggio fuori Roma. A
basso volume, per non disturbare.
Quando non leggo e non scrivo guardo la televisione per acquisire
notizie sull’epidemia e sulle misure adottate dalle autorità
per contrastare la sua diffusione. Alla tv mi affido anche
per qualche bel film scelto dalla ricca opzione offerta
dalla Rai, dalle tv private, da Sky e da Netflix. Infine
faccio un po’ di ginnastica, consigliata per mantenere il
tono della muscolatura, e, non lo nascondo, per contribuire
ad un dimagrimento che è stato costantemente consigliato. Mi
avvalgo anche di un tapis roulant che, devo dire,
faccio con piacere in due turni da 30 minuti ciascuno
guardando la televisione cosicché il tempo passa più
facilmente. Sulle prime avevo anche pensato di trasferirmi
al mare o in montagna, dove ho tutti i comfort e potrei
leggere e scrivere avendo anche una disponibilità di un
giardino nel primo caso di un bosco nel secondo. Tuttavia
per quanto le due case siano funzionali ho pensato che
comunque è più comodo rimanere a Roma. E qui sono rimasto.
28 marzo 2020
Dante… un politico di “genio”
di Dora Liguori
Il Consiglio dei Ministri, interessandosi per una volta di Arte,
nel presente caso di poesia, ha istituito il “Dantedì”
(giorno di Dante), individuandolo nel 25 marzo, giorno che
si presuppone nel 1300 (la data non è certa), il poeta abbia
dato inizio al cantico dell’inferno, della sua “comedia”. Va
inoltre rammentato che il prossimo anno -20 settembre 2021-
ricorreranno i 700 anni dalla morte del sommo poeta e che,
da oggi sino al prossimo anno, sarà compito degli esperti
(storici e letterati) cimentarsi con la figura di Dante; ne’
dovrebbero mancare (almeno si spera, visto che per Leonardo
ci ha surclassato la Francia) delle celebrazioni, adeguate
all’immensità di un poeta e di un uomo che rappresenta, nel
mondo, il più grande degli italiani.
Fatta questa doverosa premessa e non volendo, ci mancherebbe,
esprimermi sulla poesia dantesca, è mio desiderio, invece,
porre un brevissimo accenno a quella che fu la vera,
chiamiamola così, professione di Dante: la politica.
Infatti, nel Medio-Evo, la poesia, qualunque fosse la
professione perseguita, faceva parte del bagaglio culturale
e delle esercitazioni dell’anima di un uomo colto, ottima
abitudine coltivata soprattutto fra la gioventù di un certo
lignaggio, e, che, oggi, verrebbe definito un hobby sia pure
di altissimo livello.
Tornando a Dante, egli apparteneva ad una famiglia abbiente, con
ascendenze aristocratiche sia pure non di primissimo piano;
sull’argomento la sua famiglia amava vantare origini romane
ma alla fine, tra gli avi accertati, gli Alighieri
disponevano solo di un cavaliere che aveva partecipato alla
seconda crociata.
Aristocrazia o meno, in Firenze, dalla famiglia degli Alighieri,
come detto, famiglia dell’alta e più che agiata borghesia
fiorentina (il padre era un cambiavalute e pare, ma potrebbe
essere un pettegolezzo dei nemici, a volte anche un
usuraio), nasceva, tra il maggio e il giugno del 1265,
Durante, figlio di Alighiero degli Alighieri, anzi Durante
Alagherii de’ Alagheriis che sarà poi, per merito di
Boccaccio, anni dopo, chiamato semplicemente Dante
Alighieri. Nell’infanzia, Durante, come tutti i pargoli
delle famiglie per bene, viene affidato, per l’educazione e
lo studio, al solito “Doctor puerorum” (maestro dei
fanciulli) per, di seguito, frequentare anche le cosiddette
Arti liberali (quadrivio e trivio) assorbendo, visti i
risultati, una buona preparazione. A determinare, però, la
sua costruzione culturale e politica fu, in anni
adolescenziali, il suo incontro con ser Brunetto Latini,
uomo di grande spessore culturale e già ambasciatore in
Francia, e che, con ogni probabilità, ebbe ad avviarlo anche
all’arte della politica.
Giovanissimo, essendo vicini di casa, Dante ha il suo fatale
incontro con Beatrice Portinari di appena nove anni (Dante
era di pochissimo più grande) e dopo un solo sguardo, il
giovane, restando incantato dalla sua grazia e forse dalla
sua non usuale bellezza, per la malia che gli ebbe a
provocare, rimase, a fortuna dei posteri, segnato per tutta
la vita. E’ probabile che i due non ebbero mai modo di
parlarsi e ciò non deve di troppo meravigliare poiché, nel
basso Medio-Evo, le donne di un certo lignaggio non potevano
essere importunate per la via e nemmeno altrimenti. Infatti,
le fanciulle, vivevano più o meno una condizione da recluse,
in attesa di un matrimonio che, combinato, quasi sempre, per
interessi di famiglia o quant’altro, le rendesse almeno
padrone di una casa, con qualche facoltà di movimento.
Prima, invece, non era neppure ipotizzabile che parlassero
con degli estranei; solo in prossimità del matrimonio,
veniva loro concesso (se pure) di conoscere e parlare con il
promesso sposo. Pertanto, vuoi o non vuoi, Dante molte
occasioni d’incontrare e parlare con Beatrice, non avrebbe
potuto averne… la poteva solo sognare, cosa che fece per
tutta la vita.
Da giovane colto, verso i
18 anni, Durante, compone due poemetti e non manca di
partecipare vivamente alle appassionate discussioni dei,
definiamoli, circoli letterari e poetici che, in quegli
anni, si tenevano a Firenze, tutte vertenti tra quanti si
dichiaravano sostenitori (fonderanno a Firenze una scuola
siculo–toscana) della poesia di “scuola siciliana”, con
tematiche amorose provenienti dalla lirica provenzale, una
poetica professata anni prima alla corte di Federico II (il
cosiddetto Stupor mundi) e altri, quali il poeta Guido
Cavalcanti, sostenitori, sempre a Firenze, dell’avanzante
“stil novo”.
Dante (da questo momento lo chiameremo così), è affascinato dal
Cavalcanti, del quale si professa estimatore e amico e,
perfezionando le tesi e le rime di questo poeta, diverrà, in
seguito, il vero creatore della lingua italiana, allora
definita “volgare”. A detta lingua (un latino deteriorato),
la denominazione di volgare proveniva da quanto, si dice,
primariamente, venisse parlato a Capua e dintorni, appunto
dal volgo.
A quindici anni, e la cosa non deve aver fatto piacere a Dante,
Beatrice viene data in sposa a Simone de’ Bardi mentre
Dante, a circa venti anni, sposerà Gemma Donati. Da questo
matrimonio, pare non troppo riuscito, nasceranno tre figli:
due maschi e una femmina. In contemporanea, Dante ritiene
d’aver terminato la sua intensa preparazione per accedere
alla vita politica, ma, prima, come impongono le regole
fiorentine deve assoggettarsi ad una norma fondamentale che
così recita: per assumere qualsivoglia impegno
istituzionale, occorre che si risulti iscritti ad una
“Corporazione delle Arti e Mestieri”, ossia, a una specie di
sindacato… esattamente il contrario di quanto viene imposto
oggi.
A proposito di politica e cariche istituzionali va anche
sottolineato, come, a prescindere dell’appartenenza ad una
corporazione, a Firenze e altrove, quanti desideravano
accedere alle forme di governo della città, essendo ritenuta
la “res publica” (cosa pubblica o attività politica) un
fatto estremamente serio, a somiglianza di quanto avveniva
nella società romana (basti pensare a Cesare, Germanico o
l’imperatore Claudio), l’aspirante politico doveva
dimostrare di possedere un bagaglio culturale notevole e
magari anche una levatura morale (ma quella in tutti i tempi
è sempre rimasta un optional). Comunque, il buon Dante,
scelse d’iscriversi alla Corporazione (in Toscana chiamata
“Arti”) dei Medici e Speziali; ovviamente non era né un
medico e neppure uno speziale ma, avendo nel trivio studiato
fisica e nozioni di chimica, forse ritenne di poter
affermare di avere qualche nozione in quest’ultimo mestiere.
Fra un’aspirazione politica e l’altra, Dante porta avanti il
componimento de’ la“ Vita nova”
(Vita nuova perché
rinnovata dall’amore), un insieme di poesia e prosa che,
iniziato a diciotto anni (avrà termine nel ’93), riassume la
sua vita e soprattutto, il suo amore per Beatrice.
Famosissimo l’ “incipit” del sonetto
“Tanto gentile e tanto
onesta pare la donna mia, quand’ ella altrui saluta”,
che molto deve ai cantori provenzali (esiste un canto molto
simile composto cento anni prima), e con i cosiddetti razos
(ragioni iniziali) propri appunto della poesia provenzale,
la quale inizia sempre con un’esposizione di quanto si andrà
dopo a narrare. Va osservato che Dante, nel suo amore per
Beatrice, in certo qual modo, si pone in diretta
competizione con le sue già professate idee poetiche.
Infatti, egli, seguace del “dolce stil novo”, una poesia
che, detta in soldoni, quando parla d’amore lo fa spesso
dando anche un senso concreto a questo sentimento, poetando,
invece, sul suo amore per Beatrice, egli percorre la via
dell’amore sublimato rispondente, in massima parte, alla
concezione dell’ “amor cortese” (un’amata irraggiungibile),
cantato dai “trovatori” della poesia provenzale, lingua che
Dante conosceva.
E allora? Dante era un seguace dell’amore sublimato dei
provenzali o delle rime, in fatto di amore, a volte intime e
dolorose, del dolce “stil novo” del Cavalcanti? Mah!
Importanti restano le sue rime.
Nel frattempo, ad appena 24 anni, fra il 1290 o ‘91, muore
Beatrice e il disperato Dante sente il bisogno, per
filosofeggiare sul mistero della vita e della morte, di
andare a frequentare lezioni di filosofia presso i
Domenicani di Santa Maria Novella.
Poesia a parte, nel 1290, Dante, inizia, pienamente, l’attività
di politico assumendo varie cariche, da quelle militari alla
partecipazione ai vari Consigli cittadini, sino ad essere
eletto nel consiglio dei Cento (specie di Parlamento), con
l’incarico, essendo si presuppone un ottimo affabulatore, di
far parte delle varie ambascerie inviate da Firenze in altre
città. Nel 1300 diviene, carica importantissima, uno dei
sette priori di Firenze.
Purtroppo, in merito alla sua attività politica, occorre subito
dire che, per sua sventura, non fu un opportunista, anzi
fece il grande affare di mettersi dalla parte sbagliata.
Infatti, fra le due fazioni di Guelfi (seguaci del papa) e i
Ghibellini (seguaci dell’imperatore), Dante aveva scelto,
sì, di stare dalla parte del papa, ossia era un guelfo, ma,
essendosi, costoro, divisi in due parti: guelfi neri
(sostenitori dell’aristocrazia) e guelfi bianchi (di chiara
matrice popolare), Dante parteggiò per quest’ultimi,
scontrandosi, subito, con Papa Bonifacio VIII, che, poi, per
vendetta postuma, scaraventerà all’inferno. Detto Bonifacio
VIII, rappresentava per Dante il massimo esempio
dell’imperante malcostume della Chiesa e del quale, vizi a
parte, non condivideva, neppure la politica. Le cose
peggiorarono ulteriormente, allorché, in Firenze, le fazioni
dei bianchi e dei neri, decisero d’azzuffarsi violentemente
e il papa, con la scusa di voler sedare i tumulti cittadini,
inviò a Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta, cosa
ritenuta da Dante, una pesante e illecita ingerenza. Per
ridimensionare il papa e il suo inviato, Dante e gli altri
sei priori, decidono, onde a parer loro dare una lezione
esemplare, di firmare un provvedimento di esilio per i capi
delle due fazioni: otto esponenti dei guelfi neri e sette
dei bianchi, fra i quali proprio l’amico poeta, Guido
Cavalcanti.
In sintesi, provvedimento più deleterio Dante e gli altri priori,
non potevano firmare, in quanto così facendo ebbero, è il
caso di dire, il genio di mettersi contro bianchi e neri. La
cosa finì per irritare tutti e fini che Bonifacio VIII, filo
angioino, prese subito l’occasione, scatenando le ire
soprattutto dei guelfi bianchi, di chiamare il conte, Carlo
di Valois, fratello del re di Francia, Filippo IV, detto il
bello, a entrare in Firenze per sedare, con l’esercito, i
tumulti, o meglio per… conquistare Firenze.
Giunti in quel punto, la Repubblica fiorentina, cercando di
bloccare il papa e trovare magari un accomodamento, per fare
cosa opportuna, inviano subito a Roma un’ambasceria della
quale faceva parte anche Dante. Ma, proprio come da lui
previsto, il Valois, prendendo a pretesto uno dei soliti
tumulti, decide di mettere a ferro e fuoco la città e con un
colpo di mano impone, nella carica di potestà, Cante
Gabrielli da Gubbio che, come voleasi dimostrare in fatto
d’imparzialità del francese, apparteneva alla fazione più
violenta dei guelfi neri. Purtroppo, sbaragliati i guelfi
bianchi, la città è ora completamente alla mercé dei guelfi
neri che, senza perdere tempo, trascinano a processo i
rivali politici, fra i quali Dante degli Alighieri. Con una
serie impressionante di accuse, compresa la pederastia, che
pare Dante non abbia mai frequentato, l’alighieri viene
condannato all’esproprio di tutti i beni e al rogo;
trovandosi, però, a Roma, la condanna è in contumacia e il
poeta, fortunosamente, riesce a scampare alla morte.
Da qui, si deduce l’“obiettività” dei processi politici in ogni
tempo e luogo!
Per il poeta, dolorosamente, si apre la via di un lungo esilio e
che, nonostante alcuni tentativi, non gli consentirà di più
rivedere Firenze. Nel corso di un soggiorno presso i Conti
Guidi, il 25 marzo del 1300 (la data non è certa), Dante,
chissà avendo molto tempo a disposizione, inizia il primo
cantico dell’inferno per la sua “comedia” (allegoria del
viaggio degli umani verso la salvezza). Sempre esule, nel
1310, pur non essendo Ghibellino, con la speranza di
rientrare a Firenze, si schiera con l’imperatore Arrigo VII
che, sceso in Italia, il poeta incontrerà personalmente. Per
disgrazia nel 1313, a Buonconvento, muore
improvvisamente l’imperatore e Dante, per forza di cose,
abbandonate le speranze, deve riprendere il suo peregrinare.
In ogni caso, per merito della conquistata solida fama di
politico, è un esiliato di lusso, sempre ben accolto, fra i
grandi signori del tempo, ad iniziare dai Della Scala di
Verona che spesso lo invieranno quale ambasciatore nelle
vicine corti.
Nel 1318, Dante, per motivi non del tutto noti, lascia Verona,
per trasferirsi con i suoi due figli maschi (la femmina era
entrata in convento), presso Guido Novello da Polenta,
signore di Ravenna, appassionato delle Arti e lui stesso
poeta. In quella città, Dante apre un cenacolo letterario,
frequentato anche dai figli e, come dire, riesce a godere di
una certa pace. Purtroppo per lui, apertosi un conflitto fra
Ravenna e la Repubblica di Venezia, che vede l’Ordelaffi,
signore di Forlì alleato dei veneziani, il da Polenta,
memore dell’amicizia di Dante, proprio con l’Ordelaffi, lo
invia, in qualità d’ambasciatore, a trattare la pace con
Venezia.
Dante non è più giovanissimo (ha 55 anni, tanti per il tempo), ma
è ancora un abile politico e ottiene, nonostante che il
torto fosse dei ravennati che insidiavano le navi della
Serenissima, la pace. Al ritorno, il poeta o meglio il
politico, presso le paludi di Comacchio, trova ad attenderlo
l’ultimo appuntamento della sua travagliata esistenza;
contrae la malaria e, subito dopo il suo rientro a Ravenna,
nel settembre del 1321 muore. Il compianto dell’intera città
è grande e, Ravenna, quando i fiorentini rivendicheranno i
resti del poeta, gelosamente risponderanno che, non
avendolo, essi, amato in vita, non lo meritano in morte.
Fatale, dunque, al sommo
poeta, fu la sua “professione” di politico ma possiamo anche
ipotizzare (solo ipotizzare) che, senza l’ ingiusta
condanna, se fosse rimasto a Firenze, continuando, per così
dire a tempo pieno, la carriera politica, forse il signor
Alighieri non avrebbe mai avuto il tempo di scrivere la
Comedia, poi definita “divina” da Boccaccio. Fatto si è che,
per Dante, fare il politico fu una gran disgrazia ma, se poi
il dolore dell’esilio divenne, per lui, motivo anche
d’ispirazione, noi posteri non possiamo che benedire le sue
sventure, avendoci, esse, donato di godere i frutti del più
grande miracolo dell’ ingegno poetico di tutti i tempi.
Infine, ci piace pensare che, essendoci, come da lui descritto:
inferno, purgatorio e paradiso, a sollevarlo dalle pene e,
ancora una volta, ad accompagnarlo nel suo estremo e non più
solo poetico viaggio, alle porte del paradiso, ci sia stata
la sua Beatrice, poiché, di qualunque peccato si fosse, in
terra, reso responsabile il politico Dante, avendolo
meravigliosamente cantato questo paradiso, il buon Dio,
nella sua pietà, non gli avrebbe mai potuto negare il dono
di, compiutamente, farne parte.
27 marzo 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La Sezione IV ha così deciso:
a)
il provvedimento del giudice che
dichiara la interruzione del giudizio ha natura meramente
dichiarativa di effetti che si producono ope legis
con decorrenze che variano a seconda del tipo di fatto
interruttivo, con la conseguenza che il processo si
interrompe anche a prescindere dal provvedimento del giudice
che lo dichiara, provvedimento che ha indole non decisoria e
come tale non è impugnabile;
b)
in caso di decesso del difensore della
parte, la norma enucleabile dal combinato disposto degli
artt. 299 e 301 c.p.c. è univoca nel senso della
immediatezza dell’effetto interruttivo, a decorrere cioè dal
decesso, e senza alcuna necessità di comunicazioni legali o
declaratorie da parte del giudice, tanto è vero questo che,
se il processo prosegue, tutti gli atti successivi sono
invalidi e il vizio può essere rilevato in appello;
c)
il termine per proseguire il giudizio
a carico della parte nei cui confronti si è verificato
l’evento interruttivo è di tre mesi e decorre da quando si è
avuta la conoscenza legale dell’evento;
d)
l’unica ma essenziale formalità
richiesta per la prosecuzione è la presentazione
dell’istanza di fissazione di udienza nel termine perentorio
di tre mesi decorrenti dalla conoscenza legale dell’evento
interruttivo (Cons. Stato, Sez. IV, 20 gennaio 2020, n.
447).
Una tragica pandemia
“La notte, il silenzio, il coprifuoco.
Nessuno cammina più sui ponti sul Tevere o scivola
nelle viuzze attorno al quartiere del ghetto ebraico, ma a
Roma non è l’Ottocento papalino del film di Luigi Magni o
del secondo dopoguerra, nel 1945, quando ‘nel deserto
notturno delle case’, scriveva Carlo Levi, si potevano
sentire ruggire i leoni. Nell’anno del Signore 2020 Roma è
città chiusa, l’Italia una nazione sbarrata, con i morti che
crescono, le rivolte nelle carceri, le borse che
precipitano. Il capovolgimento agli occhi del mondo: la
fontana di Trevi della dolce vita offlimits, il
Brennero sbarrato, le piccole imprese che affondano in crisi
di liquidità, i paesi confinanti che chiudono frontiere e
aeroporti, il rischio che l’Europa abbandoni l’Italia, uno
dei paesi fondatori, nel mezzo della crisi sanitaria e
economica più grave. La Repubblica è di fronte alla prova
estrema, come mai successo nella sua storia (Marco Damilano,
“Una nuova resistenza”, L’Espresso, n.
12/2020, 10 ss.).
“La cosa va”
Tutti lo sanno, ormai, che il conte di Cavour, sul letto di
morte, esclamava: “…Abbiamo fatto abbastanza, noialtri:
abbiamo fatto l’Italia, sì, l’Italia: ‘e la cosa va’…”
“La cosa va”: in quelle tre parole, a pensarci su, a
ripetersele col tono di voce di chi sta per rendere l’anima
a Dio, c’è un ottimismo contenuto che non persuade, che
resta lì, a mezz’aria, a dirci che il povero conte di
fiducia non ne aveva troppa nelle nostre capacità di tener
in piedi l’Italia.
Sì: “la cosa va”. È sempre andata dalla morte del conte; la
cosa “va” ancora… Ma è una “cosa” misteriosa, una misteriosa
cosa “che va”, e non se ne sa il perché (testualmente, “Il
mio Leo Longanesi”, a cura di Pietrangelo Buttafuoco,
Milano, 2016, 125 s.).
Leo Longanesi (1905 – 1957) è stato un innovatore, scrittore
di grande rilievo - nonché pittore e disegnatore - e nel
volume curato da Buttafuoco sono stati raccolti momenti
particolarmente significativi della sua produzione.
Le mani nei capelli
In occasione della recente “Festa del
papà” (festività, forse e senza forse, ormai obsoleta,
complici il coronavirus e le c.d. famiglie allargate) ho
ricevuto in omaggio il volume di Vittorio Sgarbi, “Le
mani nei capelli”, edito da Mondadori nel 1993. È una
raccolta di testi, vari per argomento, taluni inediti, tutti
datati tra il 1991 e il 1993.
La lettura
è piacevole, con non poche considerazioni condivisibili.
Particolarmente apprezzabile mi è parso “Morandi è la
cosa giusta” (pag. 129), relativo alla donazione di 118
opere di Giorgio Morandi al Comune di Bologna, da collocare
nel Palazzo d’Accursio, nel centro della città.
Questa
scelta della sorella del grande artista è atto di coraggio
che “merita elogio in tempi in cui perfino le istituzioni
private vacillano… ma la città non può essere tradita: e il
centro è l’anima della poesia di Morandi, che aveva lo
studio in via Fondazza”.
“Le opere
rimaste nello studio sono idee utili per l’umanità, non si
possono nascondere e disperdere. Ed è giusto che siano in
centro, nella stessa area in cui furono concepite. Perché i
musei respingono, atrofizzano, paralizzano l’opera d’arte.
Morandi sta da solo perché parla per tutti e, pur non
potendovi rinunciare, allontana Bologna da se stessa. La
rende più grande”.
La preparazione dei discorsi di Cicerone
Nel I secolo a.C. Marco Tullio Cicerone, in vista dei suoi
discorsi, si esercitava assiduamente per non lasciare nulla
al caso. Ogni tanto, tuttavia, a causa degli incessanti
impegni che affliggevano la sua vita, non riusciva ad avere
il tempo per essere pronto, e pare che in un’occasione venne
salvato dal rinvio all’ultimo momento di un processo. Come
racconta Plutarco, metteva tanta cura nella preparazione dei
discorsi, che una volta, quando un suo servo di nome Eros
gli annunciò che una causa fissata per quel giorno era stata
rimandata all’indomani, gli donò la libertà (Costantino
Andrea De Luca, “Pillole
di storia antica”, Roma 2019, n. 219, p. 213).
26 marzo 2020
Considerazioni dantesche
di Domenico Giglio
Aver deciso di dedicare annualmente una giornata, il 25 marzo, a
ricordare il nostro sommo poeta Dante è una delle iniziative
commemorative e celebrative, con cui concordiamo, non solo
per il valore letterario, “mostrò ciò che potea la lingua
nostra”, di tutta la sua opera poetica, ma anche per le
considerazioni storiche sull’Italia, della cui unità
politica e spirituale è stato senza dubbio il maggiore
precursore, ma anche della sua vita tumultuosa. Queste
giornate speriamo portino al rinnovato piacere della lettura
dei suoi versi, a studi ed approfondimenti che facciano
risaltare la bellezza dei suoi componimenti e l’attualità di
tante intuizioni, ma faranno anche aprire o riaprire le
polemiche particolarmente su alcuni punti della “Commedia”,
a cui gli immediati posteri aggiunsero giustamente “Divina”,
termine con il quale da secoli ed in tutto il mondo è
conosciuta.
Cominciamo dalla sua posizione politica : la famiglia Alighieri
era “guelfa”, per cui Foscolo chiamando Dante “ghibellin
fuggiasco”, confonde la scelta “monarchica imperiale” di
Dante, con la sua posizione fiorentina, che ne fece un
guelfo “bianco”, contrapposto ai guelfi “neri” secondo una
tendenza “scissionistica” di cui abbiamo tanti esempi
attuali, che quindi ha origini ben antiche. Seconda
considerazione l’uso politico della giustizia per eliminare
un avversario. Infatti mentre era a Roma, per una ambasceria
ufficiale del comune fiorentino presso Bonifacio VIII,
Dante, non potendo tornare a Firenze viene processato in
contumacia e condannato con sentenza del 27 gennaio 1302, ad
un esilio biennale, con multa di 5000 fiorini piccoli e
bando perpetuo da ogni ufficio pubblico, per “fama publica
referente” di baratteria, estorsione ed altri delitti. Nel
frattempo a Firenze i “civili” avversari guelfi corsero alla
sua casa e fu rubata ogni cosa. Di questo processo è da
notare un’altra caratteristica negativa, che, purtroppo è
stata ripresa anche ai nostri giorni, e cioè la
“retroattività” delle leggi, in quanto come scrisse Leonardo
Aretino in una “Vita Dantis poetae carissimi”, di poco
posteriore a “Della vita, costumi e studi del carissimo
poeta Dante”, del Boccaccio, “fecero legge iniqua e
perversa, la quale si guardava indietro, che il Podestà di
Firenze, (Cante de’ Gabrielli di Gubbio!) potesse e dovesse
conoscere i falli commessi per l’addietro nell’ufficio del
priorato (Dante era stato Priore dal 15 giugno al 15 agosto
1300), contuttoché assoluzione fosse seguita. A questa
“benevola” sentenza ne seguì nel marzo, sempre contumace,
quella di essere “arso vivo”, per non parlare poi delle
colpe dei padri che si fanno ricadere sui figli, quando nel
1303 sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi
figli al compimento del quattordicesimo anno! E che dire
della ulteriore sentenza del 6 novembre 1315 quando avendo
Dante rifiutata l’umiliante proposta fiorentina di modifica
della pena, viene confermata la pena di morte, estesa questa
volta anche ai figlliuoli rei di essere nati da un
rivoltoso. Dal che si vede come la passione politica o
meglio partitica, perché tali erano stati ghibellini, guelfi
e poi palleschi e piagnoni, quando supera un certo livello e
non è bloccata dalla libertà che lo stesso Dante, assegnando
a Catone l’Uticense, pur suicida, la funzione di Giudice del
Purgatorio, ebbe a definire “sì cara, come sa chi per lei
vita rifiuta (Purgatorio, canto primo, versi 71-72),
stravolge ogni certezza del diritto ed il concetto stesso
della giustizia. E questa anticristiana, e non solo
antigiuridica, condanna di figli per colpe (ammesso che lo
fossero!) dei padri non era, è triste dirlo, solo a Firenze,
ma anche a Pisa il che consente a Dante la famosa invettiva
per i figli del conte Ugolino della Gherardesca, “Ahi
Pisa…chè se il conte Ugolino aveva voce di aver tradito…non
dovei tu i figliuoi porre a tal croce” (Inferno, canto
trentesimo terzo, versi 79-87).
Ancora più triste della divisione delle popolazioni della città
in partito è quella legata a persone o famiglie e la
condanna di Dante è inesorabile e nella citazione di queste
famiglie vediamo quei Montecchi e Cappelletti (Capuleti),
che secoli dopo ispirarono la grande tragedia scespiriana,
come pure è netta la condanna dei tiranni, di qualsiasi
origine popolana o nobiliare, per cui l’appello dantesco è
rivolto ad un potere superiore, al di sopra e al di fuori di
queste divisioni, potere di cui all’epoca accusa la
mancanza, e di cui ben tratteggia il suo carattere nei versi
finali del canto sesto del Purgatorio, da leggere e
meditare. E sempre netta è la sua posizione contraria al
potere temporale dei Papi, risalente alla donazione
originaria di Costantino, che all’epoca era ritenuta
veritiera, mentre la sua falsità fu dimostrata secoli dopo,
nel 1440, dall’umanista Lorenzo Valla (1405-1457), nella “De
falso credita et emanata Constantini donatione”. Di tutti
questi mali risalenti alle tre belve incontrate all’inizio
del cammino dantesco, e particolarmente alla lupa, la fine
verrà con il “ Veltro, che la farà morir di doglia. Questi
non ciberà terra né peltro, ma sapienza ed amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro” ( Inferno, canto
primo, versi 101-105).Questo è uno dei punti della “Divina
Commedia” che più hanno dato motivo di diverse
interpretazioni, da chi lo considerava una profezia od un
auspicio o addirittura la figura di qualche contemporaneo e
la vicenda si è trascinata fino al Risorgimento ed oltre,
considerando Dante l’iniziatore di quella dietrologia che ci
compiacciamo di vedere in tanti fatti ed eventi anche a noi
più vicini. Credo che la lettura pacata di queste righe non
abbia portato fin dall’inizio alla loro esatta
interpretazione, che si celava nelle parole stesse del
poema. Il veltro è qui un termine metaforico relativo ad un
cane da inseguimento e da presa, che univa velocità e forza,
adatto a combattere un altro animale, ma il fatto che non si
ciberà di cose materiali, cioè non sarà avido di territori e
di ricchezze, già di per sé esclude uomini d’arme per
grandissimi che fossero, dovendo avere delle doti tutte
spirituali ben difficili a trovarsi in condottieri. Forse
potrebbero riferirsi ad un nuovo Salomone o Giustiniano, ma
nemmeno loro sarebbero all’altezza. E poi il luogo di
nascita, il feltro vorrebbe alludere al Montefeltro? Le
risposte negative ci sembrano ovvie. Eppure inserita tra
feltro e feltro nasce qualcosa e chi conosce la
fabbricazione della carta comprende l’importanza di questa
pressatura. Allora il veltro è la “Commedia” scritta appunto
sulla carta! Il grande poeta latino Orazio, che Dante
incontra nel castello degli spiriti magni, nel Limbo, non
aveva forse scritto che la sua poesia avrebbe sfidato il
tempo, come poi effettivamente è stato, “exegi monumentum
aere perennius” ed allora anche Dante è così superbo da
ritenere la sua opera capace di tanto ? No, non è superbia,
ma con serena coscienza, la convinzione di aver scritto
qualcosa che supera i limiti dello spazio e del tempo, cioè:
“il Poema Sacro al quale ha posto mano e cielo e terra”.
(Paradiso, canto ventesimo quinto, versi 1-9 ).
26 marzo 2020
25 MARZO 2020: IL DANTEDI’
di Gianluigi
Chiaserotti
Scrisse Niccolò Tommaseo (1802-1874),
linguista, scrittore e patriota: «Leggere
Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; sentirlo è
presagio di grandezza.».
Infatti, dal 25 marzo 2020, questa data
sarà dedicata annualmente a Dante Alighieri (1265-1321).
E’ stata istituita in vista del 2021,
settecentesimo anniversario dalla morte del Sommo Poeta.
E’ stato scelto il 25 marzo in
quanto, secondo alcuni studiosi, è in giorno in cui Dante
iniziò il suo fantastico viaggio nell’Oltretomba [25 marzo
1300 (Anno Giubilare) giorno dell’Annunciazione, quindi
dell’Incarnazione di Gesù]. Mentre per altri studiosi, tra
cui lo scolopio Luigi Pietrobono (1863-1960), il “viaggio”
iniziò nella notte tra il 7 ed il giorno 8 aprile 1300
(Giovedì e Venerdì Santo) per terminarlo alla mezzanotte del
14 aprile (Giovedì dopo la Santa Pasqua).
Infatti il Poeta impiega: una notte
ed un giorno nella “Selva
Oscura”; una notte ed un
giorno nel visitare l’”Inferno”;
una notte ed un giorno nel “passaggio
dal centro della terra alla spiaggia del “Purgatorio”
(superficie dell’altro emisfero); tre notti, tre giorni e la
metà d’un altro giorno nel “Purgatorio”,
e ventiquattrore nel “Paradiso”.
In tutto: ore 174, cioè 7 giorni e 6
ore.
Finalmente, dopo tante giornate dedicate
a temi spesso e volentieri inutili, si è dedicato e si
dedicherà una giornata al vero ed autentico Padre della
Lingua Italiana, Dante Alighieri.
Ad egli che fu il più grande Poeta che l’Italia abbia mai
avuto.
Poeta, appunto, Scrittore, Saggista, Storico, Filosofo,
Umanista, Cronista.
Uomo Politico che seppe cosa fosse
l’esilio. Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del
Paradiso (58-60) in cui il suo trisavo Cacciaguida degli
Elisei prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…]
Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro
calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]».
Dante Padre dell’Italia Unita.
Senza dubbio l’idea di una Italia unita era molto, ma molto
antecedente ai Secoli XVIII e XIX.
La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta
in considerazione. Quindi
le grandi
e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto
alle loro ambizioni.
L’Italia era considerata una semplice espressione
geografica.
Tutti si erano
lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile
preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi
intere provincie: le due più
grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute
in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati Italiani,
anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di
fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai
pianeti europei.
Gli Italiani non erano più nessuno in casa propria.
Ed è veramente triste affermarlo!
Per lunghi, lunghissimi anni (più di trecento), nelle più
fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli vi
comandavano.
In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano
levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la
libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che
testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del
paese.
Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non
bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.
Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente
nell’animo della nazione.
Era necessario che gli italiani si trasformassero, si
facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la
libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio e
quell’esigenza di libertà.
Per raggiungere l’unità, era opportuno superare le
divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica
famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere
l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere
quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a
lottare, a combattere, a morire per la loro causa.
Scriveva
Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad
Italiam”:
«O nostra
Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai
buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni
altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare,
famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e
di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di
eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte
e la natura e fecero maestra del mondo».
Il sogno dell’Unità
politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla
Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da
generazioni successive di giovani e di intellettuali,
convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai
trovato pace e prosperità. Diviso politicamente, sarebbe
stato, come lo è stato per secoli, debole e fragile, facile
preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi,
più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta
fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e
l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come
abitanti della Penisola, siamo stati - come recita il nostro
inno nazionale – per secoli «calpesti,
derisi, perché non siam popolo, perché divisi».
Una terra di antichissima civiltà e
cultura, che era stata teatro di eventi divenuti nel canto
di Omero non solo alta poesia ma modello di vita civile; e
che, con il filosofo-matematico Pitagora (in lingua greca “Πυθαγόρας”,
570
a. C. ca.-495 a.C. ca.)
ed
il medico Alcmeone (in lingua greca “Аλκμαίων”) in Crotone, con la poetessa Nosside (IV-III
sec. a. C. ca.) in Locri, con il filosofo Archita (in lingua
greca “Аρχύτας”,
428 a. C.-360 a. C.)
e
il musicista Aristosseno (in lingua greca “Αριστόξενος”, 375 a. C.
ca.-322 a. C.)
in
Taranto, con i filosofi Empedocle (in lingua greca “Εμπεδόκλñς”,
495 a. C.-430 a. C.)
in
Akragas (gr. “Ακράγας”) (l’attuale Agrigento), e Parmenide (in lingua
greca “Παρμενίδης”, 515/510 a. C. ca.-544/514 a. C. ca.) in
Elea,
aveva fatto scuola nella più antica civiltà greca, era
divenuta terra di saccheggio.
Era, come si afferma «il
paese più frequentemente invaso del mondo».
Considerata dai patrioti del Secolo XIX, voluta da Dio come
Nazione unitaria, per avere confini naturali, per il mare
che l’avvolge per tre lati e per la protezione delle Alpi al
Nord, l’Italia sembrava incapace di trasformare la
molteplicità delle diverse città e piccole patrie in fattore
di unità e di prosperità.
Il primo “italiano”
ad avere chiaro nella mente la necessità e l’utilità di
utilizzare il modello dialettico dell’unità e della
molteplicità sul piano politico, è stato Niccolò Machiavelli
(1469-1527). E lo ha applicato a una realtà geograficamente
molto più vasta che non la Penisola italiana. La
molteplicità degli Stati all’interno dell’Europa, indicata
come unica entità geografica e culturale, per il Segretario
Fiorentino è fonte e garanzia di virtù, di libertà e di
umanità della storia.
«Chi
considererà adunque la parte d’Europa»
– scrive l’autore del
Principe -,«la
troverà essere piena di repubbliche e di principati, i
quali, per timore che l’uno aveva dell’altro, erano
costretti a tener vivi gli ordini».
A garantire la libertà e, quindi,
l’equilibrio tra i diversi Stati in Europa erano le stesse
tensioni che li garantivano nella Roma repubblicana,
laddove, come annota ancora il Segretario Fiorentino, «i
tumulti intra i Nobili e la Plebe […] furono prima causa del
tenere libera Roma» perché «le
leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla
disunione».
Era «l’Europa
esaltata dal conflitto, sale della politica».
Era proprio questo far convivere
dialetticamente la molteplicità di tante piccole patrie
nell’unità di un’unica grande Patria il sogno millenario
degli Italiani, realizzato poi a prezzo di sacrifici e di
vite donate da giovani e talvolta giovanissimi, che hanno
vissuto sofferto e glorificato il Risorgimento Italiano. Era
il desiderio di realizzare di nuovo l’Italia unita e
pacificata dagli antichi Romani, come è testimoniato dalle
parole con le quali
Augusto
(63 a. C. – 14 a. C.) nel suo testamento, riassunse il
plebiscito del 32 a. C.:
«L’Italia tutta mi giurò
fedeltà, spontaneamente»
Era l’Italia che voleva risorgere e ritornare alla sua
antica grandezza e prestigio.
Era l’Italia
considerata da Dante Alighieri come una, pur
nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi
abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel
suo “De
vulgari eloquentia” (I,
X).
I Siciliani, gli Apuli, i Calabri,
i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i
Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante
nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro
grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra
il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare,
illustre, cardinale, regale e curiale»,
che sembra non appartenere
a nessuno perché deve essere comune a tutti.
Era l’Italia che Alessandro Manzoni
(1785-1873)
nella
poesia “Marzo 1821”
dedicata
a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della
indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che
combatterono per difendere o per conquistare una patria),
circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di
sangue e di cor»,
un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una
sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola
memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.
Un’Italia dove «non
fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai
più».
Un’Italia «che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di
Scilla».
Un’Italia che ritorna al
patrimonio spirituale dei suoi avi, al suo retaggio, e «il suo suolo riprende».
Nell’ode manzoniana è contenuta una fortissima carica
emotiva e sentimentale verso una patria largamente
vagheggiata ma mai, fino a quel momento, progettata avendo
in prospettiva concrete possibilità di realizzazione.
La
coscienza unitaria nel tempo intercorso tra Dante e Manzoni
non si appannò, non cessò di essere vigile e operativa.
L’anelito a vedere l’Italia politicamente unita in un solo
Stato, dopo il 1494, cioè dopo la discesa di Carlo VIII di
Francia (1470-1498) nella penisola senza incontrare
resistenza, era molto forte.
Machiavelli, nel cap. XXVI del Principe dal titolo
eloquente “Esortazione
a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”,
fa vibrare in maniera energica il potente sentimento di
italianità.
Incita i Medici a compiere l’opera di unificazione della
Penisola, attraverso i versi
della canzone Italia mia di Petrarca: «Vertù contra furore/ prenderà l’arme; et fia ‘l
combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’
non è anchor morto».
Ma
torniamo a Dante.
La grandezza dell’Italia nel
passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi
portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il
nostro Paese. Nel Canto VI del Purgatorio, l’affettuoso
incontro di due concittadini mantovani,
i
poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70
a. C.- 19 a. C.), suscita in Dante una amara e spietata
apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni,
di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano
nel mare in tempesta: «Ahi,
serva Italia, di dolore ostello, […]/nave sanza nocchiere in
gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello!
» (Purg. VI, 76-78).
Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano
e non c’è pace in nessuna zona.
L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate
leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non
vengono fatte rispettare.
Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si
appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità
politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia,
simile ad una cavalla selvaggia.
Manca l’autorità imperiale, perché Rodolfo d’Absburgo
(1218-1291) e suo figlio Alberto (1255-1308) non si
interessano all’Italia, giardino dell’Impero.
Dante quindi invita il suo successore, Enrico VII di
Lussemburgo, a venire a vedere la discordia che regna in
Italia, un paese che, come una sposa abbandonata, lo attende
piangendo notte e giorno.
Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un
bene maggiore futuro.
L’invettiva contro l’Italia si conclude con un’ironica
sferzata a Firenze, la quale legifera con leggi che non
durano da ottobre a novembre.
La sferzata all’Italia nasce da uno
sconfinato amore dell’Alighieri per quello che proprio lui
ebbe a definire “Il Bel Paese”,
e ciò nel Canto XXXIII, v. 80, dell’Inferno («del
bel paese là dove ‘l sì sona»).
«Che
Dante non amasse l’Italia»
spiega Ugo Foscolo (1778-1827) «chi mai vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come
qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a
flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì
che ne senta vergogna».
L’Italia (“umile”)
sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria
vergine guerriera, di cui parla il Libro IX dell’Eneide di
Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea,
Giuturna la sorella di Turno amata da un Dio, la saracena
Clorinda, la puzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco
(412-431).
Emula di Diana, alla quale il padre
la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo
italico che lotta per la propria libertà e Dante le rende
onore nella “Divina
Commedia” (Inf. I,
106-107) ricordandola come la prima martire della nostra
Patria: «[…]
di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine
Cammilla».
Ed eccoci, come dicevo poc’anzi, al
Risorgimento
che rappresentò, come sappiamo, il riscatto di un popolo
diviso al suo interno ma profondamente unito dalla lingua,
dalla tradizione, dalla cultura. Per la risoluzione di tale
processo storico fu di fondamentale importanza il contributo
ideologico, passionale e romantico che la letteratura e la
filosofia profusero.
Il
primo indiscusso precursore dell’Unità d’Italia non puo’ che
essere considerato il Sommo Poeta.
Dante non aveva il concetto di stato nazionale secondo i
parametri che si sarebbero andati definendo nella storia
moderna.
La
sua teorizzazione dell’Italia risentiva ancora
dell’esperienza, mitizzata nel Medio Evo, dell’Impero
Romano.
Benché gli studiosi siano molto discordi sull’argomento, in
lui non è difficile cogliere il desiderio di unità
nazionale. Dante idealizza l’Italia, la presenta in numerose
opere e soprattutto nella Divina Commedia, con le formule
più disparate, lascia presagire un certo qual immaturo
desiderio di unità tra le varie componenti della Penisola.
Nell’Epistola XI, inviata ai
cardinali in conclave, Dante parla di «Italia
nostra» e idealizza la
proposta di un idioma unitario rispondente a quattro
caratteristiche: illustre, aulico, cardinale e curiale.
Al riguardo il Poeta vi ritorna nel
suo “De
vulgari eloquentia”
quando, con fare frasi da profeta dell’unità linguistica
italiana, al capitolo XV sostiene l’adozione di una parlata
che sia l’estrema sintesi di quelle migliori presenti nella
Penisola.
Il Poeta non viene meno di
accennare anche ad altri importanti aspetti che
caratterizzano ed unificano il potenziale popolo italiano
nei capitoli XVI, XVII e XVIII del Libro I.
Dante non si limita, come fin qui ho cercato di far notare,
ad esempi o teorie fittizie che quasi vogliono esplicitare i
tratti comuni degli italiani.
Nella Commedia è particolarmente ricorrente un modo di
vagheggiare l’Italia che ha quasi sempre un sapore
romantico, proprio dell’innamorato più che del patriota.
Nel canto VI del Purgatorio, come detto, l’Alighieri dice
senza mezzi termini che emerge in maniera chiara e nitida
una visione dell’Italia molto, ma molto a carattere ideale e
certamente prematura, ma sicuramente già recante in sé
tratti importanti su cui la tradizione successiva poté
trovare un terreno alquanto fertile.
L’idea della nazione italiana
compresa nei suoi confini geografici era di già maturata
nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino Fiore (1130
ca.-1202) definito dal Nostro «[…]
il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato»
(Par. XII, vv. 140-141), che ne aveva rilevato il primato
fra le nazioni essenzialmente per la presenza della Chiesa
Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti
(1801-1852) (una confederazione di Stati con a capo il
Papa).
La “renovatio”
auspicata da Fiore per l’umanità, ma soprattutto per
l’Italia e fatta propria da Dante, in realtà preludeva ad
un’altra rinascita bramata da tanti e tanti personaggi.
Ecco nuovamente il Risorgimento.
Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’Unità d’Italia.
Per questo motivo nell’’800 il suo culto veniva proibito da
certi governi tirannici della Penisola, specialmente da
quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti
furono arrestati ed imprigionati solo perché nelle loro case
possedevano ed esponevano qualche ritratto dantesco.
Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime
austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione
ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con
la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso
monumento a Dante (1896), nell’iconografia che lo
arricchisce posero in evidenza l’incontro già ricordato con
Sordello da Goito e ciò per proclamare a gran voce che
Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana,
come dimostra anche il sovrastante mausoleo di Cesare
Battisti (1875-1916) poi eretto in vista del monumento
dantesco.
Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento
offende anzitutto Dante, come offende tutti gli altri
intellettuali (da Petrarca a Machiavelli, da Foscolo al
Manzoni ecc….) che con il loro magistero morale e civile
contribuirono a formare una coscienza nazionale e
propiziarono un’unificazione politica.
Gli ideali ed i valori danteschi sono quelli dell’Italia: e
Dante medesimo è un grandissimo valore per l’Italia.
In tutto il mondo Dante è
considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante”
significa dire “Italia”.
Egli indicò chiaramente i confini
nazionali della nostra patria, includendovi già nel ‘300
l’Istria ed il Tirolo Meridionale. Celebri i versi nel Canto
IX dell’Inferno: «[…]
sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi
termini bagna, […]».
Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale. Ne
deplorò le divisioni interne. Portò la lingua e la
letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura
tuttora.
Faccio ora concludere al Poeta
questo mio pensiero sul primo “Dantedì”
(neologismo creato dal Presidente Onorario dell’Accademia
della Crusca, prof. Francesco Sabatini), che certamente ha
debuttato in un momento molto triste e particolare per la
nostra Italia, e precisamente con le parole di Ulisse, che
esorta i suoi,
in
Inf., XXVI, 118-120: «[…]
Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come
bruti/ma per seguir virtute e canoscenza.»
L’Italia è forte, è una Nazione solida, e supererà, ed alla
grande, questo momento inatteso, inaspettato e non voluto.
In ogni epoca, l’umanità ha dovuto
combattere contro il c.d. “male”,
che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli
ai tempi delle Crociate, la cupidigia anche, un’epidemia
come in questi giorni.
Ma verrà il “Veltro”?
Ed ora ci sia permesso un ben modesto
consiglio. Ciascuno di noi abbia a consultare un’edizione,
anche tascabile, della “Divina
Commedia” e, rileggendola, applichi i versi
alla nostra vita
giornaliera, ma anche analizzi, confronti quanto l’Alighieri
è attuale, e quanto egli aveva previsto, e con netto
anticipo, per i secoli dopo di lui.
25 marzo 2020
Coronavirus: metodi cinesi e italiani a
confronto
di
Salvatore Sfrecola
Il Presidente
della Repubblica ha invitato alla concordia. In particolare
ha richiamato i partiti di opposizione a non assumere
atteggiamenti che possano nuocere all’azione del Governo
impegnato in un severo contrasto alla diffusione
dell’infezione da Coronavirus e nell’assistenza a quanti
hanno contratto la malattia. Giustamente preoccupato
dell’andamento dell’infezione, che non sembra recedere,
Sergio Mattarella si è rivolto anche agli italiani con
pressante invito a rispettare le indicazioni provenienti
dall’Autorità. I numeri, impietosi, dicono che molti sono i
colpiti dal virus. Di questi, un numero significativo è in
rianimazione, molti sono i morti. Tuttavia è lecito ritenere
che ve ne siano di più, che molti preferiscano curarsi a
casa, come dimostra il fatto che il Sindaco di Bergamo,
Gori, intervistato da un telegiornale, ha detto delle
difficoltà che nei giorni scorsi hanno interessato le
forniture di bombole di ossigeno presso le abitazioni dei
pazienti. Dunque a casa vengono curati anche soggetti in una
fase sub-acuta.
Viene, dunque,
spontanea la riflessione se il metodo di affidare la
prevenzione a successive misure progressivamente sempre più
limitative delle possibilità di movimento degli italiani sia
stata una scelta saggia, considerate le dimensioni
dell’epidemia e l’esperienza della Cina, dalla quale il
virus proviene. In quel paese il governo ha dettato norme
rigidissime ed attuato immediatamente una generalizzata
quarantena che ha impedito a chiunque di lasciare la propria
abitazione se non per motivi di approvvigionamento
alimentare, una volta la settimana, da parte di un solo
componente della famiglia. Ogni altra attività è stata
interdetta. Ne consegue che non hanno tardato gli effetti
sperati. Per cui, mentre in Cina non ci sono nuovi
contagiati in Italia questi crescono e i morti sono in
numero superiore a quelli riscontrati nel grande paese
asiatico. È la conseguenza, da un lato, della scarsa
chiarezza di alcune regole in rapporto a possibili deroghe
e, dall’altro, della ben nota e, pertanto, prevedibile
indisciplina degli italiani abituati a non temere le
sanzioni minacciate, anche in ragione della scarsa vigilanza
e comunque della consueta “bonomia” di chi è deputato ai
controlli. So di persone che si sono recate in altre città,
distanti centinaia di chilometri, senza che nessuno li abbia
fermati in uscita da Roma, in autostrada, nelle aree di
servizio, all’ingresso della città di destinazione.
È un fatto che
molti italiani devono aver pensato: “io non rischio, sono
giovane e forte e sto attento; mi lavo le mani, sto a
distanza di sicurezza dai miei vicini”. Basti pensare che ho
saputo di genitori e nonni che, al primo giorno di chiusura
delle scuole, programmavano di far distrarre figli e nipoti
invitandoli a casa o in qualche centro sportivo, come
d’estate. Hanno pensato evidentemente che fosse una vacanza,
neppure sfiorati dal dubbio che, opportunamente, le autorità
avevano chiuso le scuole perché i giovani, soprattutto i più
piccoli, studiano o giocano stando tutti insieme in spazi
spesso angusti, sicché avrebbero potuto diffondere
l’infezione.
È giusto quindi
non polemizzare e non far venir meno la tensione morale del
governo, ma non si può neppure rimandare “a dopo” alcune
osservazioni sul modus operandi di chi ha
responsabilità gravi nella difficile gestione
dell’emergenza, quando appaia inadeguata rispetto agli
obiettivi. O privo di criterio logico, come nel caso del
blocco dei voli da e per la Cina, come sei i cinesi,
potenzialmente portatori di contagio, non potessero giungere
in Italia da Parigi o da Mosca, come puntualmente è
avvenuto. E mi chiedo: se il ministro competente è uno
sprovveduto come mai la dirigenza ministeriale non ha fatto
il proprio dovere segnalando alla politica l’incongruenza
della scelta effettuata?
21 marzo 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La partecipazione alla procedura di stabilizzazione non è
consentita ai dipendenti già in servizio a tempo
indeterminato presso altra pubblica amministrazione, in
quanto una tale evenienza entra in contraddizione con la
ratio della norma, alterandone il carattere speciale di
reclutamento ristretto alla platea dei dipendenti in
servizio “precari”, in quanto titolari di contratti a tempo
determinato.
Ha chiarito la Sezione che, sebbene la persistenza del
rapporto precario all’atto della partecipazione alla
procedura riservata non costituisca una condizione di
ammissione alla selezione, la legge è chiara
nell’individuare la platea degli aspiranti alla
stabilizzazione tra i soggetti precari, così intesi in
quanto titolari, ad oggi o in passato, di soli rapporti non
stabili. La stabilizzazione non può essere intesa,
viceversa, come una forma di riconoscimento degli anni di
lavoro a tempo determinato già espletati e, dunque, come uno
strumento di mera valorizzazione dell’esperienza acquisita
quale titolo per l’inquadramento (Cons. Stato, Sez. III, 3
febbraio 2020, n. 872).
Il contagio avanza nel mondo
Meritano condivisione le considerazioni di Maurizio
Belpietro apparse su “La Verità” del 10 marzo 2020.
“Quello che sta succedendo non ha paragoni negli ultimi 75
anni di storia. Sì, dal 1945 a oggi abbiamo assistito a
un’infinità di eventi tragici, di conflitti o di choc
economici, ma nessuno ha minato così in profondità le nostre
sicurezze e il nostro stile di vita. Perfino la stagione
delle stragi, quella degli anni di piombo e del terrorismo
islamico, non è riuscita a farci chiudere in casa, impauriti
alla sola idea di incontrare qualcuno e di finire vittime di
un nemico invisibile. Chernobyl e Fukushima ci avevano
spaventato per i pericoli di una contaminazione nucleare, ma
mai con la rapidità e la virulenza del coronavirus.
L’epidemia colpisce al cuore le certezze con cui noi ci
affidiamo alla scienza e alla medicina e dà una mazzata
devastante alla stabilità economica e al sistema di welfare
conquistato nei Paesi occidentali, perché a prescindere
dalla crisi tutto sembra più fragile e insufficiente a
fermare quello che sta succedendo”.
La sua Villa
Per
ricordare l’indimenticabile Alberto Sordi, Francesca De
Sanctis (“La sua
Villa, l’amore d’una vita”,
L’Espresso, n.
11/2020, 81) ha preferito condurci, con competenza e
apprezzabile partecipazione, nella Villa di piazzale Numa
Pompilio, dove il compianto attore visse per quasi 50 anni
con le sue amate sorelle Savina ed Aurelia.
La
Villa fu acquistata nel 1954 e dalla “terrazza rivolta verso
le Terme di Caracalla, chissà quante volte Alberto Sordi si
sarà perso con lo sguardo tra il verde dell’Appia antica e
le rovine della sua Roma”.
Viene ripercorsa, con tratti stringati ma eloquenti, la vita
privata del grande attore e, in particolare, il suo amore
per l’arte, le belle donne, i viaggi, nonché per i lussuosi
arredi.
Villa Sordi, in occasione del centenario (1920 – 2020),
doveva aprire al pubblico per ospitare una grande mostra, ma
il coronavirus ne ha purtroppo provocato il rinvio.
Emergenza carceraria
La popolazione carceraria è in subbuglio.
I
motivi, oltre il coronavirus, sono più d’uno e, primo fra
tutti, le condizioni di spazio dove i reclusi vengono
alloggiati.
Luigi Marconi (“I
centimetri del carcere”,
la Repubblica, 10
marzo 2020) scrive che “il carcere è il perimetro degli
spazi angusti, del respiro che manca, del fiato che si fa
corto, cortissimo, dei letti a castello, dove chi dorme
sulla branda superiore sbatte il capo contro il soffitto. È
il luogo dell’asfissia, dell’aria viziata, della tosse,
dell’affanno, della saliva e del catarro, degli odori acidi
che si fanno spessi e grevi”.
In
molteplici istituti di pena è innegabile che la vita scorre
tra mille angustie e patimenti, poco o nulla concedendo al
recupero morale e materiale dei condannati. Comunque, è
improcrastinabile una riforma
funditus del nostro sistema carcerario, capace di restituire alla
vita civile individui il cui patrimonio umano non sia stato
definitivamente compromesso. D'altronde, il numero dei
detenuti annualmente suicidatisi è la migliore diagnosi per
valutare i nostri istituti di pena, onde non può non destare
seria preoccupazione la rivolta in atto nelle carceri, con
morti, evasioni e devastazioni delle strutture.
Sarebbe errore imperdonabile sottovalutare ancora la estrema
pericolosità del problema, pur se non è assolutamente il
caso di parlare di amnistia o indulto, ma piuttosto di
provvedere anche ad una più efficace tutela della polizia
penitenziaria.
Genere
“Anche
quest’anno celebriamo l’8 marzo per ricordare il genere
penalizzato, senza fare nulla, ma proprio nulla, perché le
donne siano considerate prima di tutto come individui con
capacità, intelligenza e uno sguardo necessario, a volte
rivoluzionario, sul mondo. Mimose e auguri, dopotutto,
impegnano di meno” (Giulia Blasi, “genere”,
L’Espresso, n. 11/2020, 7).
19 marzo 2020
Prevedere per prevenire
di Salvatore Sfrecola
l’infezione da Coronavirus ha messo drammaticamente in luce
alcune carenze del sistema sanitario nazionale che tuttavia
hanno una rilevanza diversa a seconda delle regioni. Mancano
letti nei reparti di terapia intensiva
e non è sempre facile riconvertire a quei fini locali
destinati ad ordinaria diligenza. Mancano anche le
mascherine che sono indicate come necessarie per contenere
il propagarsi dell’infezione in quanto proteggono chi le usa
da eventuali virus provenienti da persone presenti
nell’ambiente. E, di contro, questi soggetti sono al riparo
da colpi di tosse o starnuti di chi, indossando la
mascherina, non sparge i virus. Le mascherine mancano, in
molti casi, anche per medici ed infermieri, in questo modo
esposti all’infezione che possono contrarre o trasmettere.
Naturalmente monta la polemica, che qualcuno vorrebbe rinviare
alla fine dell’emergenza, perché non venga meno quello
spirito di collaborazione che si è realizzato tra autorità
dello Stato e delle Regioni che giustamente è visto come un
fatto positivo. Aspettiamo a polemizzare, dunque,
considerato che non è dubbio che le carenze denunciate,
quelle di cui si è detto, e le altre, come l’insufficienza
di medici e infermieri che denuncia una straordinaria
incapacità di programmazione (dopo anni in cui le università
sono ricorse al numero chiuso dicendo che i medici erano
troppi) ovviamente non addebitabile a questo governo o a
quello immediatamente precedente. Sono l’effetto di errori
di programmazione che risalgono nel tempo e sono la
conseguenza di due condizioni negative consuete in questo
Paese, la mancata previsione di un evento futuro e incerto,
ma non assolutamente improbabile, e la tradizionale
disattenzione della politica per la prevenzione, come
avviene del resto nella manutenzione delle opere pubbliche,
delle infrastrutture o del territorio. In termini politici
la prevenzione non paga, è poco visibile soprattutto per un
difetto di comunicazione, perché si potrebbe certamente far
percepire all’opinione pubblica l’utilità immediata e futura
delle opere di manutenzione. Anche perché quei lavori
impiegano risorse che giovano a molte imprese e creano
occupazione. Inoltre, se si spende per manutenzione è
prevedibile che occorrano meno risorse per far fronte a
quelle emergenze ambientali ricorrenti che il nostro Paese
conosce bene. Insomma, la spesa per manutenzioni libera
risorse che dovrebbero essere impiegate per interventi di
salvaguardia di persone e di ripristino di realtà civili o
industriali danneggiate da gravi disastri ambientali.
Fatta questa premessa, è evidente che i nostri ospedali non
potrebbero essere organizzati in modo da disporre di un
numero di unità di terapia intensiva quanti ne richiederebbe
una grave epidemia come quella che stiamo affrontando in
questa stagione, ma è certo che essi sono già in via
ordinaria inadeguati. Lo si è sentito dire con riguardo ad
alcune realtà come nel caso clamoroso delle Isole Eolie, un
gioiello del Mediterraneo, una straordinaria meta turistica
che, è stato detto in questi giorni in televisione, dispone
di una sola unità di terapia intensiva, evidentemente del
tutto insufficiente senza che occorrano ulteriori
specificazioni.
È evidente la responsabilità di chi ha il compito di gestire la
sanità in sede regionale e di chi, al centro, ha ridotto
progressivamente, nel corso degli anni, gli stanziamenti di
bilancio destinati al Servizio Sanitario Nazionale. È
mancata, così, una ragionevole percezione di una emergenza,
da affrontare mediante la disponibilità di strutture idonee
ad essere rapidamente riconvertite e adattate
all’occorrenza. In sostanza sarebbe stato necessario
prevedere che, oltre ai locali specificamente destinati alla
terapia intensiva, ve ne fossero altri facilmente adattabili
disponendo già di impianti necessari. Logicamente gli
ospedali dovrebbero anche sapere dove acquistare le
apparecchiature eventualmente occorrenti, preferibilmente da
imprese italiane. Ugualmente per le mascherine che mancano e
che si è sentito dire vengono acquistate all’estero.
Non è una novità per l’Italia l’incapacità di prevedere le
occorrenze. Invito a rileggere il libro di Antonio Salandra,
il Presidente del Consiglio che si trovò a gestire
l’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915. Nel volume
“L’intervento” racconta delle gravi carenze dell’esercito
italiano, dai cavalli alle garze per i reparti di sanità che
noi compravamo all’estero. Per non dire dei cannoni che
acquistavamo dalla tedesca Krupp che, fino alla vigilia, era
una potenza legata all’Italia dalla Triplice Alleanza
ma che si poteva prevedere, mentre montava l’irredentismo
antiaustriaco, che potesse diventare un nemico. Prudenza
avrebbe consigliato di disporre se non di fornitori
nazionali almeno di industrie di più paesi, in modo da
garantirsi i materiali occorrenti.
Per alcune circostanze compensammo con produzioni affidate ad
enti militari, come del resto si è detto nei giorni scorsi
avrebbe avuto intenzione di fare il Presidente del Consiglio
ricorrendo all’Istituto chimico farmaceutico di Firenze, che
un tempo forniva le Forze Armate perfino del dentifricio
destinato alle rivendite militari. Anche le lenti degli
occhiali venivano realizzate in una istituzione
dell’esercito con ottimi risultati. Forse la gestione non
era economica o forse disturbava la concorrenza. Sta di
fatto che quelle realtà sono state in parte smantellate, in
parte ridimensionate.
La situazione degli ospedali e degli approvvigionamenti dimostra,
come si è verificato in altri casi, che in determinati
settori strategici è necessaria una qualificata presenza di
pubblico e di privato, da gestire con rispetto delle regole
dell’economia e con la saggezza di chi è deputato a
valutare, nella prospettiva di eventi possibili o
ragionevolmente prevedibili, come far fronte ad una
emergenza di rilevante impatto sociale.
In questo modo sarebbe anche possibile contenere le speculazioni
che accompagnano sempre la gestione delle emergenze. È un
fatto ricorrente. Terremoto, alluvione, frana, oggi
infezione, spariscono i ben di cui si ha bisogno, per
ricomparire di lì a pochi giorni a prezzi maggiorati. La
fretta e l’esigenza di assicurare efficienza spinge a
comprare a quei prezzi. Di solito se ne occupa un
Commissario governativo che si glorierà di aver fatto tutto
subito e bene. E nessuno gli chiederà conto dei prezzi
maggiorati. Quando lo Stato avrebbe potuto ricorrere alle
requisizioni, magari risarcendo le imprese ai prezzi
precedenti all’emergenza.
15 marzo 2020
A Vittorio Emanuele II, Re d’Italia nel duecentesimo anniversario
della nascita
Auguri Maestà, buon compleanno! Con alcuni amici avremmo
voluto festeggiare la ricorrenza a Torino, se non lo avesse
impedito il diffondersi del Covid-19. E, con l’occasione,
presentare un agile volume che raccoglie i contributi di
alcuni di noi. Il titolo, “L’Italia in eredità – Il Re
galantuomo”, per dire che gli italiani di oggi devono a
Vostra Maestà la realizzazione dello stato unitario
proclamato quel 17 marzo 1861, quando ha assunto “per sé e
per i suoi successori il titolo di re d’Italia”. Con una
formula, re “per grazia di Dio e per volontà della nazione”,
che ne fa un “re eletto” – come scrive il repubblicano
Giovanni Spadolini – il quale ricorda anche come Vostra
Maestà ambisse essere “soprattutto il re degli italiani, nel
senso orleanista del termine, il risultato e quasi il
simbolo dello sforzo congiunto dell’iniziativa diplomatica e
dell’iniziativa rivoluzionaria”. Cioè di Camillo Benso di
Cavour e di Giuseppe Garibaldi, uno straordinario statista e
un condottiero capace, come nessun altro, di trascinare in
battaglia giovani e vecchi, nobili e borghesi, intellettuali
e popolani, provenienti dalle città e dai borghi di ogni
angolo d’Italia. Senza dimenticare Giuseppe Mazzini, che
ebbe l’onestà intellettuale di riconoscere il ruolo che V.M.
aveva assunto negli eventi grandiosi di quella stagione
della vita italiana: “Io, repubblicano, e presto a tornare a
morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la
fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei
fratelli di patria: preside o re, Dio benedica voi come alla
nazione per la quale osaste e vinceste”.
È quello che
scrive di V. M. un testimone autorevole e disinteressato, il
Conte Karl Friedrich Vitzthum von Eckstädt, Ministro
plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore
dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele.
Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la
maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume
di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a
questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour,
Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non
eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si
curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi
ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute
inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così,
personificando il principio nazionale, dominò la situazione…
Sacrificò sua figlia e la culla della sua casa, ma tenne al
battesimo per sé e per il figlio la nuova Italia, a dispetto
del Papa e dell’imperatore”.
Auguri Maestà,
che ho imparato a conoscere dal “Sussidiario”, il libro
delle scuole elementari che mi ha avvicinato alla storia del
Risorgimento, che avrei poi approfondito sui libri della
biblioteca di famiglia, costantemente arricchita negli anni
della mia maturità.
Il Risorgimento, anzi “il Miracolo del Risorgimento”, come
titola un bel libro di un illustre politologo dei miei
tempi, il professore Domenico Fisichella. Né altrimenti si
potrebbe definire quella prodigiosa combinazione di idee e
di azioni, politiche e militari che fu possibile guidare
verso l’obiettivo dell’unità nazionale solo grazie
all’azione di V. M.. Un miracolo che è impossibile
immaginare oggi con una classe politica che appare priva di
riferimenti ideali, timorosa perfino di nominare le parole
“Patria” o “Nazione”, che richiamano storia e identità, le
radici comuni di un popolo la cui grandezza si è nel tempo
alimentata della varietà delle esperienze politiche,
culturali e umane che hanno portato gli uomini e le donne
provenienti dalle più diverse aree del Paese a credere e
desiderare di far parte di uno stato unitario, dopo che
eravamo “da secoli calpesti, derisi.. perché divisi”. E di
esserne orgogliosi.
Nessun popolo,
Maestà, può vantare la nostra storia. L’Italia è una grande
Nazione. Da Roma, dispensatrice di civiltà, non con la
spada, ma con le strade, gli acquedotti e con il diritto,
attraverso i secoli nei quali artisti, letterati, uomini di
stato e di Chiesa, di pensiero e d’azione si sono imposti
all’attenzione del mondo intero.
Concludo questo
mio augurio con il ricordo, sinceramente affettuoso, di una
donna straordinaria, Vittoria di Hannover, Regina
d’Inghilterra che l’ebbe ospite nel dicembre del 1855 per
molti giorni nel castello reale di Windsor: “quando lo si
conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così
franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha
molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e
si può fare assegnamento su di lui”.
Non so se le
autorità della Repubblica, che hanno dimostrato costante
insensibilità per le radici culturali e spirituali del
nostro popolo, avranno modo di ricordare il Re che fece
l’Italia, con una cerimonia pubblica, una corona d’alloro,
un francobollo.
Me lo auguro
sinceramente perché un popolo senza storia non è capace di
immaginare neppure il suo futuro.
Auguri Maestà.
Duecento anni portati bene, perché l’insegnamento politico
di un Capo di Stato che sappia far convergere con orgoglio e
fiducia verso obiettivi comuni la naturale pluralità delle
idee, è ancora validissimo.
14 marzo 2020
Salvatore Sfrecola
1820-2020
IL BICENTENARIO DEL RE VITTORIO EMANUELE II DI SAVOIA
di Gianluigi Chiaserotti
Cade nel corrente anno il secondo
centenario della nascita del primo Re d’Italia, Vittorio
Emanuele II di Savoia.
Una delle fondamentali Figure nella
storia del Casato e del Risorgimento Italiano.
Vittorio Emanuele (Maria Alberto Eugenio
Ferdinando Tommaso) nacque a Torino il 14 marzo 1820, figlio
primogenito del Re Carlo Alberto (1798-1849)
e di Maria Teresa d’Absburgo Lorena (1801-1855).
In seguito ai moti del 1821 i Principi
di Carignano si trasferirono in Toscana, ove, il 16
settembre 1822, nella villa granducale di Poggio Imperiale,
per poco venne
meno che il piccolo Vittorio perdesse la vita nelle fiamme
appiccatesi per l’imprudenza della nutrice, Teresa Zanotti
Racca, alla zanzariera del suo letto.
Fu salvo per il sacrificio della nutrice
medesima.
Sorse quindi la leggenda che il piccolo
principe fosse morto e che fosse stato sostituito da un
bambino di origini popolane.
Ciò, a nostro modo di vedere, non poteva
assolutamente essere
in quanto la madre, Maria Teresa, aspettava il
secondo figlio, Ferdinando Maria Alberto (1822-1855), che
sarebbe venuto al mondo il 15 novembre 1822.
Vittorio Emanuele II, come detto, è una
fondamentale figura per la Storia d’Italia, ma è per il
decennio ‘48-’59 che va certamente ricordato.
Dopo la “Fatal Novara” [dalla poesia “Miramar”
di Giosuè Carducci (1835-1907)], il Re Carlo Alberto abdicò
in favore del figlio Vittorio Emanuele, ed il
29 marzo 1849 il
nuovo Re si presentò davanti al Parlamento per pronunciare
il giuramento di fedeltà, quindi, il giorno successivo, lo
sciolse, indicendo nuove elezioni.
Tali elezioni non espressero una buona Camera, quindi il Re,
dopo aver pronunciato il famoso “proclama
di Moncalieri”
(20 novembre 1849), con cui si invitava il popolo a
scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello
Stato, sciolse nuovamente il Parlamento, per fare in modo
che i nuovi eletti fossero di idee più pragmatiche.
Il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da
moderati favorevoli al governo di Massimo
Taparelli d’Azeglio
(1798-1866) e quindi il 9 gennaio 1850 il
trattato di pace con l’Austria (a cui il Re teneva molto)
venne, infine, ratificato.
Ma
ecco che, in questi anni, sorse un astro illuminato.
Fu Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), già
candidatosi al Parlamento nell’aprile 1848,
ma, non eletto, lo fece nuovamente nelle
elezioni suppletive del 26 giugno 1848, e lo fu in ben
quattro collegi elettorali, ma optò per quello di Torino.
Il 4 luglio, prese, per la prima volta,
la parola alla Camera del Parlamento Subalpino.
Da quel momento la vita del Cavour
nuovamente cambiò.
Da gentiluomo di campagna e giornalista, finalmente si
immerse nella vita pubblica del suo Piemonte ed, appunto,
nel Parlamento Subalpino.
Il Conte vi entrò, pur mantenendo una linea politica
indipendente, cosa che non lo escluse da critiche ma che lo
mantenne in una situazione di anonimato fino alla
proclamazione delle leggi
Siccardi
[dal nome del Senatore del Regno, Giuseppe (1802-1857) che
le propose], che prevedevano l’abolizione di alcuni
privilegi relativi alla Chiesa, già abrogati in molti Stati
europei.
Vittorio Emanuele fu sottoposto a pesantissime pressioni da
parte delle gerarchie ecclesiastiche, affinché non
promulgasse quelle leggi considerate “sacrileghe”.
Il
Re, che pur non essendo bigotto come il padre era molto
superstizioso, dapprincipio promise che si sarebbe opposto
alle leggi, scrivendo addirittura una lettera al Papa nella
quale rinnovava la sua devozione di cattolico e si ribadiva
fiero oppositore di tali provvedimenti.
Tuttavia quando il Parlamento approvò le leggi, si disse
dispiaciuto, ma lo Statuto non gli consentiva di opporvisi.
L’attiva partecipazione del Cavour alla discussione sulle
leggi ne valse l’interesse pubblico, ed alla morte di Pietro
de Rossi di Santarosa
(1805-1850), egli divenne nuovo ministro dell’Agricoltura,
cui si aggiunse la carica, dal 1851,
di ministro
delle Finanze del
governo d’Azeglio.
Promotore del cosiddetto “connubio”
(tra il centrodestra ed il centrosinistra in senso
liberale), Cavour divenne il 4 novembre 1852 Presidente
del Consiglio del Regno, nonostante l’avversione che
Vittorio Emanuele II e d’Azeglio nutrivano nei suoi
confronti.
Malgrado l’indiscusso connubio politico, fra i due mai corse
grande simpatia, anzi Vittorio Emanuele più volte ne limitò
le azioni, arrivando persino a mandargli in fumo svariati
progetti politici, alcuni dei quali anche di notevole
portata.
Però in tutto questo decennio la
storia è più che nota.
Fu, da parte del Cavour, un tessere,
giorno per giorno, momento per momento, occasione per
occasione, le maglie diplomatiche per l’unificazione
dell’Italia sotto la fulgida guida del Re di Sardegna,
Vittorio Emanuele II.
Le occasioni ed i momenti fondamentali furono, senza dubbio:
la guerra di Crimea (ottobre 1853-gennaio 1856) e quindi
l’appoggio piemontese alla Francia ed al Regno Unito di Gran
Bretagna ed Irlanda del Nord contro la Russia; il
conseguente congresso (25 febbraio/16 aprile 1856) e
trattato (30 marzo 1856) di Parigi, che sanzionò la
sconfitta russa nella guerra di Crimea, ed ove il Conte di
Cavour pose abilmente all’attenzione delle potenze europee
la questione italiana, ed, infine, gli accordi di Plombières
(les-Bains), conclusi il 20 luglio 1858 con l’imperatore dei
francesi Napoleone III (1808-1873), i quali prevedevano
l’aiuto della Francia al Piemonte per muovere guerra
all’Austria, con la cessione di Nizza e della Savoia alla
Francia medesima.
Prima della Guerra di Crimea però il
Re disse all’ambasciatore francese: «Se noi fossimo
battuti in Crimea, non avremmo altro da fare che ritirarci,
ma se saremo vincitori, benissimo! questo varrà per i
Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri
vogliono aggiungere al trattato [...] se essi non vorranno
marciare, io sceglierò altri che marceranno... ».
In un clima internazionale così teso, l’italiano Felice Orsini attentò alla vita
di Napoleone III (1808-1873)
facendo esplodere tre bombe contro la
carrozza imperiale, che rimase illesa, provocando otto morti
e centinaia di feriti. Nonostante le aspettative
dell’Austria, che sperava nell’avvicinamento di Napoleone
III alla sua politica reazionaria, l’Imperatore francese
venne convinto abilmente da Cavour che la situazione
italiana era giunta a un punto critico e necessitava di un
intervento sabaudo.
Fu così che si gettarono le basi per un’alleanza sardo-francese, nonostante le avversità di alcuni ministri di
Parigi. Grazie anche all’intercessione di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione (1837-1899) e di Costantino Nigra (1828-1907), i
rapporti tra Napoleone e Vittorio Emanuele divennero sempre
più prossimi.
La notizia dell’incontro di Plombières
trapelò nonostante tutte le precauzioni. Napoleone III non
contribuì a mantenere il segreto delle sue intenzioni, se
esordì con questa frase all’ambasciatore austriaco: «Sono
spiacente che i nostri rapporti non siano più buoni come nel
passato; tuttavia, vi prego di comunicare all’Imperatore che
i miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono
mutati.».
Dieci giorni dopo, il
10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele
II si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore», il cui testo
originale è conservato nel castello di Sommariva Perno: «Il nostro
paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli
d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le
simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di
pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non
siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti
d’Italia si leva verso di noi!».
In Piemonte, immediatamente, accorsero i volontari, convinti
che la guerra fosse imminente, ed il Re cominciò ad inviare
truppe sul confine lombardo, presso il Ticino.
Ai primi di maggio 1859, Torino poteva
disporre sotto le armi di 63.000 uomini. Vittorio Emanuele
prese il comando dell’esercito e lasciò il controllo della cittadella di Torino al principe Eugenio di Savoia-Carignano (1816-1888).
Preoccupata dal riarmo sabaudo, l’Austria pose un ultimatum
a Vittorio Emanuele II, su richiesta anche dei governi di
Londra e di San
Pietroburgo, che venne
immediatamente respinto.
Ritiratisi gli austriaci da Chivasso, i franco-piemontesi
sbaragliarono il corpo d’armata nemico presso Palestro e Magenta, arrivando a Milano il giorno 8 giugno 1859.
I Cacciatori delle Alpi, capitanati da Giuseppe Garibaldi (1807-1882), rapidamente occuparono Como, Bergamo, Varese e Brescia: soltanto 3.500
uomini, male armati, che ormai stavano marciando verso il Trentino. Ormai le forze
asburgiche si ritiravano da tutta la Lombardia.
Decisiva fu la battaglia di Solferino e San Martino.
Dopo questa battaglia, moti insurrezionali sorsero un po’ in
tutta Italia e Giuseppe Garibaldi, contro il volere del
Cavour, ma con l’appoggio del Re, il 5 maggio 1860 partì
(con il suoi “1000”) dallo scoglio di Quarto (Genova)
e giunse in Sicilia.
Si assicurò l’isola, dopo aver sconfitto l’esercito
borbonico, in nome di «Vittorio Emanuele Re
d’Italia».
Già in quelle parole si prefigurava il disegno del Nizzardo,
che non si sarebbe certo fermato al solo Regno delle Due
Sicilie, ma avrebbe marciato su Roma. Tale prospettiva era
contro i progetti piemontesi, che adesso vedevano incombere
il pericolo repubblicano e rivoluzionario e, soprattutto,
temevano l’intervento di Napoleone III nel Lazio.
Vittorio Emanuele, alla testa delle truppe piemontesi,
invase lo Stato Pontificio, sconfiggendone l’esercito nella Battaglia di Castelfidardo. Napoleone III non poteva tollerare l’invasione
delle terre papali, e più volte aveva cercato di dissuadere
Vittorio Emanuele II dall’invasione delle Marche,
comunicandogli, il 9 settembre, che:
«Se davvero le
truppe di V. M. entrano negli stati del Santo Padre, sarò
costretto ad oppormi [...] Farini mi aveva spiegato ben
diversamente la politica di V. M.».
L’incontro con Garibaldi, passato alla storia
come “incontro di Teano”, avvenne il 26 ottobre 1860: veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio
Emanuele II su tutti i territori di quello che fu il Regno
delle Due Sicilie.
Con l’entrata di Vittorio Emanuele a Napoli, la
proclamazione del Regno d’Italia divenne imminente.
Rinnovato il parlamento, con Cavour primo ministro, la sua
prima seduta, comprendente deputati di tutte le regioni
annesse (tramite plebiscito), avvenne il 18 febbraio 1861.
Ed il 17 marzo 1861, nella nobile e
suggestiva cornice dell’aula del Parlamento Subalpino di
Palazzo Carignano di Torino, fu proclamato il Regno
d’Italia.
La rivoluzione aveva dato forza alla
diplomazia, ma, senza quest’ultima, la rivoluzione non
avrebbe nulla concluso.
Però codesto spirito rivoluzionario,
imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l’anima di una
partito detto “di
azione” che, insofferente di indugi, pretendeva di
imporsi allo Stato e di trascinarlo alle più arrischiate
avventure.
L’Italia era
unificata, ma senza la capitale a Roma l’opera non poteva,
non doveva essere completa. Infatti il 25 marzo 1861, il
deputato di Bologna, Rodolfo Audinot (1814-1874), tenne alla
Camera un vibrante discorso sulla questione romana, che
dette lo spunto al Cavour per le sue celebri dichiarazioni e
per l’emanazione dell’ordine del giorno con il quale Roma
era proclamata capitale d’Italia [“(…)
non ci sarebbe stata l’Italia unita se Roma non fosse stata
la Capitale”].
Questa fu la formula assunta dal Parlamento per il Regno
d’Italia:
«Vittorio Emanuele II assume per sé
e per i suoi successori il titolo di re d’Italia. Gli atti
del governo e ogni altro atto che debba essere intitolato in
nome del Re sarà intestato con la formola seguente: (Il nome
del Re) Per Provvidenza divina, per voto della Nazione Re
d’Italia».
Dopo la proclamazione del regno non venne cambiato il
numerale “II” in favore del titolo “Vittorio
Emanuele I d’Italia”.
Il mantenimento del numerale è rimarcato da alcuni storici,
e alcuni di questi osservano che questa decisione, a loro
giudizio, sottolineerebbe il carattere di estensione del
dominio della Casa Savoia sul resto dell’Italia, piuttosto che la
nascita ex novo del Regno d’Italia.
A tale riguardo lo storico Antonio Desideri commenta:
«Il 17 marzo 1861 il Parlamento
subalpino proclamò Vittorio Emanuele non già re degli
Italiani ma «re d’Italia per grazia di Dio e volontà della
nazione». Secondo non primo (come avrebbe dovuto dirsi) a
sottolineare la continuità con il passato, vale a dire il
carattere annessionistico della formazione del nuovo Stato,
nient’altro che un allargamento degli antichi confini, «una
conquista regia» come polemicamente si disse. Che era anche
il modo di far intendere agli Italiani che l’Italia si era
fatta ad opera della casa Savoia, e che essa si poneva come
garante dell’ordine e della stabilità sociale.».
Altri storici osservano che il mantenimento della
numerazione era conforme alla tradizione della dinastia
sabauda, come accadde ad esempio con Vittorio Amedeo II (1666-1732) che continuò a chiamarsi così anche
dopo aver ottenuto il titolo regio (prima di Sicilia e poi
di Sardegna).
Quindi la Capitale del Regno fu trasferita da Torino a
Firenze.
Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele
lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto.
Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d’Italia ottenne comunque Venezia in
seguito ai trattati di pace succeduti alla vittoria
prussiana.
Roma rimaneva l’ultimo territorio (con l’eccezione di
Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) ancora non inglobato
dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l’impegno di
difendere lo Stato Pontificio e le sue truppe erano
stanziate nei territori pontifici. Vittorio Emanuele stesso
non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare o
no. Urbano Rattazzi (1808-1873), che era
divenuto primo ministro, sperava in una sollevazione degli
stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta riportata
nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi sull’effettiva
riuscita dell’impresa, che poté avvenire solo con la caduta,
nel 1870, di Napoleone III.
Il giorno 8 settembre fallì l’ultimo tentativo di ottenere
Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il
generale Raffaele
Cadorna (1815-1897) aprì una breccia nelle mura romane.
Vittorio Emanuele ebbe a dire: «Con
Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato
l’impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio
magnanimo genitore.».
Con Roma capitale si chiudeva la pagina del Risorgimento.
A fine dicembre dell’anno 1877 Vittorio Emanuele II, amante
della caccia ma delicato di polmoni, passò una notte
all’addiaccio presso il lago nella sua tenuta
laziale; l’umidità di quell’ambiente gli risultò
fatale.
Il 9 gennaio, alle ore 14:30, il Re morì dopo 28 anni e 9
mesi di regno, assistito dai figli ma non dalla moglie morganatica, cui fu impedito di
recarsi al capezzale, e dai ministri del Regno.
Poco più di due mesi dopo avrebbe
compiuto cinquantotto anni.
Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio che il suo
feretro fosse tumulato in Piemonte, nella Basilica di Superga, ma Umberto I (1844-1900), accondiscendendo alle richieste
del Comune di Roma, approvò che la
salma rimanesse in città, nel Pantheon, nella seconda cappella a destra di chi entra,
adiacente cioè a quella con l’”Annunciazione”.
Ed ora qualche
citazione conclusiva.
Scrive lo storico Francesco Cognasso (1886-1986) nel suo “Vittorio
Emanuele II” (Dall’Oglio 1986, pagg.
342ss.): «Vittorio Emanuele II, come altri
creatori del Risorgimento, conservò tutta la sua
individualità, la sua umanità, mentre perseguiva il
raggiungimento del programma giurato a Novara. Così, tutto
il suo regno fu una continua lotta.
Combattè con il d’Azeglio e col Cavour, col Ricasoli e col
Minghetti e con tutti gli altri ministri che ebbe sino al
1878, […]. Egli aveva le sue idee e sentiva il dovere di
difenderle e di imporle a tutti, non riconoscendo a nessuno
il diritto di sovrapporsi a lui, in nome di qualsiasi
principio o ideologia democratica o liberale. Egli era il re
e della sua sovranità aveva la più perfetta coscienza. Né in
lui questa era un’ideologia. Si sentiva superiore a tutti,
perché rappresentava la dinastia che da otto secoli
governava con l’indipendenza i suoi Paesi, perché sentiva di
essere l’erede e il prosecutore dell’opera degli Amedei, di
Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele, di Vittorio Amedeo,
di Carlo Alberto.
Non un’ideologia monarchica, ma tutta la concretezza della
tradizione dei re sabaudi.».
Scrisse il grande storico Gioacchino Volpe (1876-1971):
«[…]
La Monarchia, quella
Monarchia rappresentata da quel Casato di antica origine,
che nel ‘700 rimase l’unico Casato in certo senso “nazionale”
della Penisola, cominciò ad operare, anche senza proporselo,
per l’unità, sin da quando, nel ‘600 e ‘700, essa, per
difendere il suo Stato o per guadagnare qualche provincia o
città della Lombardia, ebbe a fronteggiare stranieri e
soltanto stranieri, Spagna o Austria o Francia, richiamando
su di sé l’attenzione, la simpatia e qualche speranza di
Italiani di ogni paese, stanchi di tanta sarabanda di
conquistatori e predoni, e diventando il punto di
convergenza loro. […]».
Ed
ancora:
«[…]
E il dualismo (Italia
monarchica e sabauda e l’Italia di popolo)
era poi destinato a scomparire, quasi risolvendosi in forza,
nel crescente riconoscimento che la Monarchia era l’unità,
era la continuità, era la forza necessaria in un paese che
aveva, e per di più poco benevolo, il Papato. […]».
Quindi la monarchia sabauda fu accettata pur di veder
realizzata l’Unità d’Italia.
E fu accettata anche in quella Sicilia borbonica, attaccata
alle sue tradizioni millenarie. Al riguardo è interessante
leggere quel capolavoro di romanzo che è “Il
Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957).
Da
ultimo espongo un concetto letterario/politico, che ritengo
fondamentale, per quanto ho cercato di scrivere fin qui. E’
di Francesco de Sanctis (1817-1883), storico della
letteratura italiana e ministro della Pubblica Istruzione
nel primo governo dell’Italia Unita presieduto da Camillo
Benso Conte di Cavour (23 marzo 1861/12 giugno 1861). Nella
sua opera “Storia
della Letteratura Italiana”, che è, pertanto, anche
storia dell’intera civiltà italiana dal Medio Evo agli inizi
del secolo XIX, vi si trova esposta la sua interpretazione
del Risorgimento come risultato della lotta delle due
scuole, liberale e democratica. Esse combattendosi
aspramente, furono gli elementi necessari di una dialettica
feconda dalla quale scaturì l’azione concreta per l’Unità
d’Italia.
Nel messaggio (alla Consulta dei Senatori del Regno) del Re
Umberto II (1904-1983) del 17 marzo 1961, centesimo
anniversario dell’Unità d’Italia, Egli brillantemente
scrisse: «[…]
L’epica impresa poté
grado a grado raggiungere l’altissimo fine, perché il re
Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour, aveva
assunto con mano ferma la direzione e la responsabilità del
moto nazionale, coraggiosamente superando difficoltà di ogni
genere.
Attorno ad essi sorsero da ogni parte d’Italia – magnifico
prodigio – falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei
nostri grati cuori.
L’apostolato di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono
l’opera meravigliosa, risultato di forze confluenti e
contrastanti, fuse dalla sintesi costruttiva della Monarchia
nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal
sentimento religioso della Patria: così sorse il Regno
d’Italia. […]».
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La IV Sezione del Consiglio di Stato ha chiarito che
la costante giurisprudenza amministrativa interpreta l’art.
102, comma 2, c.p.a. – secondo cui l’interventore “può
proporre appello soltanto se titolare di una posizione
giuridica autonoma” – nel senso che il soggetto
interveniente ad adiuvandum nel giudizio di primo
grado non è legittimato a
proporre appello in via principale e autonoma, salvo
che non abbia un proprio interesse direttamente riferibile
alla sua posizione, come nel caso in cui sia stata negata la
legittimazione all’intervento o sia stata emessa nei suoi
confronti la condanna alle spese giudiziali.
Questa regola di origine giurisprudenziale
costituisce il corollario del carattere dipendente
dell’interesse dell’interventore ad adiuvandum nel
giudizio principale. Tale interesse altro non gli consente
che aderire alle censure formulate dal ricorrente, poiché
diversamente opinando l’intervento in giudizio potrebbe
costituire uno strumento per l’elusione del termine di
decadenza (Cons. Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 567).
Come uscire dalla crisi
Salvatore Sfrecola in un suo recente articolo (“Per
uscire dalla crisi è necessario un Governo che goda di vasto
consenso”, in questa
Riv., 28 febbraio 2020), ha bene evidenziato che “parte da lontano
la crisi economica in questo Paese nel quale mancano
infrastrutture viarie, ferroviarie e quelle che l’antica
Roma ha insegnato essere espressione di civiltà, gli
acquedotti, perché l’acqua è la civiltà e oggi non viene
erogata nella stessa quantità in ogni contrada, soprattutto
al Sud e nelle isole. Per non dire delle difficoltà delle
imprese, soprattutto delle piccole e medie, appesantite
dalla burocrazia, quel male che tiene lontane dall’Italia le
imprese straniere. Così come la lentezza delle giustizia che
non dà certezze a chi vuole investire od operare nel nostro
Paese. La crisi indotta dal coronavirus trova,
dunque, un Paese in grosse difficoltà ed altre ne aggiunge
perché una gestione dissennata del pericolo sanitario, che
ha creato ansia e panico per le spesso improvvide iniziative
dei nostri governanti, al di là di ogni ragionevole
prudenza, ha aggravato settori dell’economia mai realmente
ed efficacemente sostenuti, come la piccola e media impresa
ed il turismo del quale si continua ad ignorare la capacità
straordinaria di sollecitazione di settori vasti della
economia. Oltre che di un apporto significativo
all’occupazione, non solamente stagionale”.
“Anche oggi, nonostante le tante delusioni, se un governo forte
di un ampio consenso presentasse un piano serio, condiviso e
comprensibile gli italiani risponderebbero con entusiasmo.
Come sempre è una questione di fiducia, che oggi non c’è
perché gli italiani hanno compreso che l’attuale dirigenza
politica e governativa, anche quando animata da buona
volontà, non è in condizioni di esprimere proposte e
programmi necessari al momento storico che il Paese
attraversa. Mancano idee, manca soprattutto la conoscenza
degli strumenti normativi ed amministrativi ai quali
ricorrere per realizzare le iniziative indispensabili allo
sviluppo economico del Paese e quindi a sostenere i consumi
e l’occupazione”.
Aderiamo toto corde
alle suesposte considerazioni.
Sanità in emergenza
“Non ci sono bombe e non ci sono trincee. Eppure è
una guerra. L’emergenza italiana provocata dal Coronavirus
sta mandando migliaia di soldati in camice bianco al fronte,
in corsia a combattere il nuovo virus, che fortunatamente
non è particolarmente aggressivo, ma ha la capacità di
diffondersi rapidamente e soprattutto sta creando il panico
fra la popolazione. Per questo ha bisogno di misure
sanitarie eccezionali, quindi di un’economia di guerra”.
“Chi ha amministrato il paese negli ultimi anni ha
fatto troppi tagli, mettendo a rischio la tenuta di un
servizio unico al mondo. Mancano 56.000 medici, 50.000
infermieri e sono stati soppressi 758 reparti in cinque
anni. Per la ricerca solo lo 0,2 % degli investimenti. Così
la politica ha dissanguato il sistema pubblico, che ora
viene chiamato alla guerra” (Gloria Riva, “Eravamo già in emergenza”,
L’Espresso,
n. 10/2020, 16 ss.).
Silenzio
“È il silenzio che propizia l’ascolto.
E dunque chi chiede ai politici di ascoltare dovrebbe anche
chiedere loro di tenere a freno l’eccesso di loquacità.
Infatti è proprio tutto quel parlare, accavallando di
continuo le voci, a rendere troppo distratto il loro
ascolto. Mentre il silenzio li renderebbe più attenti e
forse anche più simpatici.
Un proverbio spagnolo recita così: siamo schiavi delle
nostre parole e padroni dei nostri silenzi. Ma i potenti del
nostro tempo sembrano invece inebriati dalla schiavitù delle
loro parole. E assai poco padroni dei loro silenzi. Un
frastuono di argomenti invade ogni giorno il campo della
riflessione politica (e non solo). Con l’effetto di non
riuscire più ad ascoltare una voce che nel frattempo non sia
diventata anch’essa un rumore quasi molesto” (Marco Follini,
“Silenzio”,
L’Espresso, n. 8/2020, 7).
Gli intoccabili
Giorgio Meletti (il
Fatto Quotidiano, 4.2.2019) ha, con cognizione di causa, scritto
testualmente che il Consiglio di Stato è un piccolo mondo
antico dove poche decine di persone detengono la più
impressionante concentrazione di potere oggi esistente in un
Paese moderno. Palazzo Spada è un mondo fatato in cui un
gruppo di sacerdoti intoccabili le leggi se le scrive, se le
interpreta e se le applica.
Veni, vidi, vici
Nell’agosto del 47 a.C. Giulio Cesare venne a sapere che
Farnace II, re del Ponto, aveva sconfitto il governatore
romano della regione e stava tentando di espandere i propri
domini. Cesare avanzò quindi verso il nemico nei pressi
della città fortificata di Zela, pronto a dare battaglia. Lo
scontro che ne seguì fu segnato da un grave errore tattico
di Farnace, il quale, sperando di sorprendere il celebre
condottiero, si preparò ad attaccare i romani mentre questi
presidiavano un’altura. Inizialmente Cesare pensò che
Farnace stesse bluffando, poiché nessun nemico dotato di un
minimo di senno avrebbe scelto di affrontarlo in condizioni
così sfavorevoli. Ma il re pontico, ignorando la
conformazione del terreno a lui ostile e qualunque logica di
guerra, caricò
l’esercito romano a testa bassa, rimediando il totale
annientamento della propria armata. La vittoria di Cesare,
nel suo complesso, fu fulminea e definitiva e, come racconta
Plutarco, nell’annunziare a Roma la prontezza e la rapidità
di questa battaglia, Cesare scrisse al suo amico Mazio tre
sole parole: “veni, vidi, vici” (Costantino Andrea De Luca, “Pillole di storia antica”, Roma, 2019, n. 242, 232).
12 marzo 2020
Oltre la crisi economica in conseguenza
dell’infezione da Covid19
Un prestito nazionale per crescita e
sviluppo
di Salvatore Sfrecola
L’affacciarsi
del Coronavirus ha richiesto misure di contenimento
dell’infezione, probabilmente ancora da perfezionare, e di
gestione dell’emergenza sanitaria che ha dimostrato la sua
fragilità per quanto attiene all’assistenza ai malati più
gravi, soprattutto se bisognevoli di degenza in terapia
intensiva. La scriteriata riduzione dei fondi che ha
caratterizzato gli anni scorsi, con conseguente chiusura di
ospedali e l’eliminazione di posti letto, dimostra che la
nostra sanità, pur eccellente quanto a livello delle
prestazioni, non ha un piano per le emergenze, di nessun
genere, naturalmente da implementare all’occasione.
Una emergenza
delle dimensioni che ci fornisce giornalmente il bollettino
della Protezione Civile ci dice che la diffusione
dell’infezione ha conseguenze sull’economia, spesso
gravissime. Non solamente per il turismo, una realtà della
quale la politica stenta a percepire la reale portata sul
Pil e sull’occupazione, ma per vasti settori delle piccole e
medie imprese, che hanno dovuto ridurre le produzioni e
perduto commesse, con conseguenze gravissime perché la
clientela non si recupera facilmente.
Occorre, dunque,
un impegno rilevante del Governo per far fronte
all’emergenza economica e favorire la ripresa delle
produzioni e dei commerci quando l’infezione da Coronavirus
sarà passata. L’impegno finanziario straordinario che spesso
si sente evocare nei discorsi dei politici, rimane sempre
sulla carta, come gli stanziamenti dei quali si favoleggia,
trascurando che, anche quando disponibili, certe risorse non
sempre possono essere utilizzate in tempi brevi, in assenza
di progetti e contratti o, se esistenti, della loro concreta
realizzabilità, naturalmente conciliando celerità e
legalità.
Sul tema
dell’esigenza di un intervento straordinario dello Stato, da
tempo richiesto in considerazione che da anni l’economia non
cresce, è intervenuto in un’intervista a La Verità il
professore Giulio Sapelli. “In certi momenti, come ci
insegnano biblioteche intere si storia – ha spiegato -,
indebitarsi è l’unico modo per innescare il Pil per la
crescita. La crisi dei consumi interni non colpisce gli
ultimi, ma i penultimi”. Ma come indebitarsi e con quali
finalità? Nei mesi scorsi Matteo Salvini si è attirato molte
e pesanti le critiche per aver immaginato di recuperare
risorse per un grande piano di investimenti pubblici
ricorrendo alle somme che gli italiani tengono nelle
cassette di sicurezza, una ricchezza del Paese che, al
momento, non produce sviluppo e lavoro e, pertanto, neppure
considerata in sede di valutazione del peso
dell’indebitamento pubblico sugli equilibri finanziari del
Paese. Non spiegò allora Salvini se voleva tassare quelle
risorse, una ricchezza che esubera rispetto all’ordinario
risparmio con il quale gli italiani investono
prevalentemente comprando case per sé e per i figli, prime
case e case di vacanza.
Come far
emergere, dunque, senza ricorrere alle “maniere forti”
(tassandole), le disponibilità conservate in contanti per
farne la base di un grande investimento pubblico in
infrastrutture soprattutto viarie e ferroviarie, delle quali
alcune regioni meridionali e insulari sono da tempo
estremamente carenti. Ma anche nella manutenzione degli
acquedotti e nella tutela dell’assetto idrogeologico del
territorio che, trascurato, richiede di anno in anno spese
straordinarie per soccorrere in emergenza le persone che
hanno perduto le abitazioni e le aziende. Ugualmente
richiede risorse la tutela dell’immenso patrimonio boschivo,
necessario all’ambiente e all’economia, spesso devastato
dalle fiamme quasi mai spontanee.
Il Professore
Sapelli suggeriva di ricorrere alla storia, senza
fare un esempio specifico. Lo facciamo noi. È accaduto nel
corso della Grande Guerra, quando il governo chiese agli
italiani di sottoscrivere prestiti per le esigenze delle
forze armate e i nostri nonni non esitarono, già nel 1915 e
poi nel 1916, 1917 e 1918. Lo ricorda bene Luigi Einaudi,
sottolineando sul Corriere della Sera del 12 gennaio
1915 come quei prestiti siano stati prontamente sottoscritti
in misura di gran lunga maggiore rispetto ai titoli offerti,
a dimostrazione che nel Paese esistevano “ancora forti masse
di risparmio disponibile, costituenti una riserva, la quale
dovrà venir fuori in caso di bisogno”. “È stata la fiducia
dei molti, della gente che ha fede nella parola dello stato,
e che non teme di affidargli la propria piccola fortuna”,
precisava il grande economista. E lo Stato si addossò
l’onere della restituzione dilazionandola nel tempo in modo
che l’equilibrio della finanza pubblica non fosse
compromessa.
Si potrebbe
oggi, in una fase difficile della nostra economia, ferma da
anni e aggravata ulteriormente dalla crisi in atto, chiedere
ai cittadini di sottoscrivere un prestito straordinario per
un grande programma di investimenti pubblici per lo sviluppo
economico del Paese? Ne risentirebbe positivamente
l’industria delle costruzioni e sarebbero assicurati posti
di lavoro in misura rilevante. Lo Stato si gioverebbe anche
di significativi ritorni di carattere tributario, per l’Iva
sulle lavorazioni, per l’Irpef sui redditi dei nuovi
lavoratori e sugli utili delle imprese.
Con un grande
impegno nel settore delle infrastrutture l’Italia farebbe un
passo avanti straordinario. Ed ancora una volta giova
riandare alla storia, a quello straordinario articolo di
Camillo Benso di Cavour, pubblicato sulla parigina Revue
Nouvelle il 1° maggio 1846, nel quale auspicava che le
ferrovie non solo unificassero l’Italia, allora divisa in
sette piccoli stati, ma ne assicurassero lo sviluppo
mediante la facilitazione dei commerci dal Sud al Nord e da
qui in Europa e portassero ricchezza attraverso il turismo,
la cui importanza era già allora percepibile. Quel geniale
uomo di governo aveva anche immaginato che l’Italia, in
ragione della sua posizione geografica nel Mediterraneo,
sarebbe stata la porta dell’Europa sul medio e l’estremo
oriente. Aggiungendo che dai porti di Napoli e Palermo
sarebbero transitate le merci europee per la Cina. Profetico
e inascoltato!
Un grande
prestito dunque. Ma il governo oggi gode di quella “fiducia”
che i nostri nonni ebbero cento anni fa? I sondaggi ci
dicono che la fiducia nel Governo Conte sia in netto calo,
anche per il modo, a volte approssimativo e incerto, col
quale viene gestita l’emergenza Coronavirus.
11 marzo 2020
Orgoglio e pregiudizi
di Salvatore Sfrecola
Scrivendo sul
Corriere della Sera di ieri del “Senso di orgoglio di un
Paese ammalato”, a proposito di come gli italiani reagiscono
all’epidemia di coronavirus, Ernesto Galli della Loggia
sostiene che “siamo abituati a essere stigmatizzati, anche
perché siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi”.
Eppure siamo un grande popolo, non solo perché da
duemilacinquecento anni l’Italia “riesce a stare sul
palcoscenico della storia” per il genio dei suoi abitanti
che nel tempo si sono distinti come artisti, letterati,
uomini di Stato e d’armi, ma anche perché “ ancora oggi
siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre
ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e
necessari o semplicemente belli, che esportiamo
dappertutto”.
Non siamo
“nazionalisti”, anche perché le vecchie generazioni hanno
vissuto gli effetti negativi della esasperazione del culto
della Patria, al punto da doversene quasi vergognare, e alle
nuove è stato inibito anche di parlarne, di coltivare ed
esibire quella identità nazionale che in altre nazioni è
parte ordinaria del quotidiano, come nel Regno Unito o nelle
altre Monarchie democratiche d’Europa, o laddove accompagna
la ricostruzione di una identità storica perduta, come nella
Russia di Putin che offre ai giovani, inariditi dai troppi
anni di comunismo, l’epopea degli Zar e dell’impero che è
stato parte essenziale della storia del Continente.
Non siamo
nazionalisti, scrive Galli della Loggia, ma nei momenti
difficili, come quello che viviamo per effetto del
coronavirus che sta modificando le nostre quotidiane
abitudini di vita e di lavoro, emerge il “sentimento oscuro
di appartenenza ad una medesima storia la quale anche a
dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme,
non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno
stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia”. È un “sentimento di
identificazione con il nostro Paese” che, a lungo
“nascosto”, emerge nei momenti difficili. Galli della Loggia
non lo vuole definire “patriottismo”, che giudica parola
“grande e impegnativa”. Lo condizionano evidentemente i
lunghi anni nei quali la politica e la cultura, a tutti i
livelli, hanno volutamente ignorato o apertamente rimosso
parti fondamentali della nostra storia, principalmente di
quella a noi più vicina, che chiamiamo Risorgimento, e che,
sull’onda del pensiero liberale incarnato dai moti
rivoluzionari del 1821 e del 1848, ha condotto alla
formazione dello Stato nazionale che ardentemente
desideravano quanti, dopo secoli di servaggio, non volevano
più essere “calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché
siam divisi”, come recita il poeta Goffredo Mameli nel Canto
degli italiani, l’Inno nazionale.
Patria non si
può dire, dunque, meglio parlare di “sentimento oscuro di
appartenenza”, che gli somiglia ma non troppo, e così,
accanto all’orgoglio, nel quale di tanto in tanto gli
italiani ritrovano, magari solo perché l’Inno nazionale
accompagna un atleta sul podio, ci sono dei pregiudizi duri
a morire che dal 1946 hanno voluto cancellare una parte
della storia d’Italia, sicché, già prima che le cronache del
Coronavirus occupassero le prime pagine die giornali, sembra
passare in sordina il bicentenario della nascita di Vittorio
Emanuele II (14 marzo 1842), il Re che ha reso possibile
all’azione politico diplomatica di Cavour e all’impeto
patriottico di Garibaldi di concorrere efficacemente
all’unità, laddove in assenza del sovrano sabaudo i due si
sarebbero scontrati con effetti paralizzanti. Lo ha intuito
un fine diplomatico, Vitzthum von Eckstädt, Ministro
plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore
dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele.
Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la
maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume
di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a
questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour,
Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non
eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si
curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi
ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute
inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così,
personificando il principio nazionale, dominò la situazione
e rimase dittatore sino alla fine della sua vita”.
Per ricordarlo
occorre rimuovere un pregiudizio verso la monarchia e verso
un sovrano che piaceva allora e piacerebbe oggi agli
italiani perché era come molti di noi, coraggioso, spavaldo,
bravo cacciatore, ottimo cavallerizzo, un po’ donnaiolo, ma
attento alla famiglia ed alla religione.
9 marzo 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La Sezione, pronunciandosi sulla decorrenza delle
dies a quo
per impugnare un titolo edilizio, ha evidenziato che il
momento da cui computare i termini decadenziali di
proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia
deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si
sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato
sull’area ovvero laddove si contesti la violazione delle
distanze; viceversa decorre dal completamento dei lavori o
dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il
dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità
dell’erigendo manufatto
(Cons. Stato, Sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 962).
Durare per fare cosa?
“Sono le contraddizioni e le forzature di un sistema
politico bloccato e al tempo stesso litigioso, di un
frenetico immobilismo, si potrebbe dire, se non fosse che a
pagare, come sempre, è un paese bloccato sulla crescita, cui
si aggiunge il coronavirus che rischia di essere letale per
la produzione e per i commerci mondiali, oltre che per la
bassissima curva dell’economia italiana in questi primi mesi
dell’anno. Nel Palazzo va così in scena la resa dei conti
tra un leader ancora forte ma sconfitto come Salvini e un
premier come Conte che teorizza la staticità come condizione
per durare… Sì, ma poi durare per fare cosa? Questo governo
ha un orizzonte temporale, la fine della legislatura (2023)
o almeno l’elezione del capo dello Stato (gennaio 2022), ma
non ha un orizzonte politico. E non ha una missione di
governo, paragonabile a quella che fu l’ingresso nell’euro
dei governi dell’Ulivo o al salvataggio dei conti pubblici
della strana maggioranza che sorresse Mario Monti. Non è un
governo tecnico e neppure politico, è un governo di gestione
dell’esistente. Un governo di attualità immediata, e non di
attualità permanente… L’attualità immediata è ciò che
accade, il giorno per giorno, la superficie delle cose.
L’attualità permanente sono i problemi strutturali del
Paese: l’efficienza della pubblica amministrazione, la
produttività delle imprese, la qualità della classe
dirigente, il nostro sistema di istruzione. E poi la crisi
demografica, l’immigrazione che non è mai stata e non può
essere considerata un’emergenza ma è una grande questione
del secolo e l’emigrazione dei giovani italiani all’estero,
il ruolo dell’Italia nel mondo…In ognuna di queste
questioni, non esclusa l’emergenza coronavirus, il governo
Conte si muove spinto dall’attualità immediata, così
istantanea che si può addirittura rinviare, e non affronta
l’attualità permanente”. (Marco Damilano, “Un
frenetico immobilismo”,
L’Espresso,
n. 8/2020, 10 ss.).
In libreria
È stato di recente pubblicato il volume di Francesco
Borgonovo “Contro l’onda che sale” (Milano, 2020),
vicedirettore de La Verità.
Da
mesi non si parla d’altro che del movimento delle sardine.
Ma
chi sono questi movimentisti? “Ingenui, sognatori,
sopravvalutati o semplicemente eredi delle ormai vuote forme
partitiche”?
Francesco Borgonovo ne “svela le contraddizioni e l’assenza
di una vera e propria strategia politica. Il loro
protagonismo mediatico nasconde i contenuti, il loro essere
contro qualcosa li priva di una proposta reale e coerente,
che è quello su cui la politica investe, o dovrebbe
investire, i suoi sforzi”.
“Una cosa giusta e vera l’hanno detta, bisogna dargliene
atto. L’hanno proclamata la prima volta dal palco di piazza
San Giovanni, a Roma, il 14 dicembre 2019 e il capo
carismatico del movimento lo ha ribadito in più occasioni:
le sardine non esistono”.
La
verità, quindi, è che le sardine non esistono e non esistono
come fenomeno spontaneo. “Non stiamo assistendo a un nuovo
Sessantotto o a un Settantasette. Non c’è nemmeno,
nell’aria, l’elettricità rivoluzionaria che animava i
cosiddetti No Global nei primi anni duemila. C’è,
semplicemente, una fazione politica, la sinistra italiana o
quel che ne rimane… In fondo, tutto il caso sardine è frutto
di una gigantesca sopravvalutazione”.
“Le
sardine non esistono. Ma per mesi hanno continuato a
confondere le acque, rivelandosi una delle maggiori
mistificazioni degli ultimi anni”.
“Ma
se le sardine non esistono e sono così poco rappresentative,
perché scrivere un libro su di loro? Intanto perché la bolla
mediatica merita di essere sgonfiata. Ma la ragione più
rilevante è un’altra: le sardine non rappresentano il
popolo, ma sono comunque una delle più visibili
manifestazioni di tanti vizi antichi della sinistra
italiana. Sono l’espressione potente di una cultura basata
sulla demonizzazione dell’avversario, sulla superiorità
morale e intellettuale, sul pregiudizio elevato a pensiero
politico. Per questo vanno combattute. Le sardine non
esistono, ma fanno danni”.
Avanti, ma senza meta
“Il
Pd va avanti, ma senza meta, e gli allori con il tempo si
seccano. Quali che siano le sorti del Conte bis, che
insomma ci siano o no crisi e voto, Zingaretti non può più
eludere un chiarimento sui valori, sull’identità, sulle
priorità del partito, e sul presente e il futuro
dell’alleanza con i grillini: mentre 5S e Renzi possono
persino beneficiare dell’ambiguità, in questo pantano di
incertezze il Pd rischia di perdersi. Chiudendosi su se
stesso”.
Occorrono “messaggi forti e convincenti su lavoro, crescita
economica, migranti, diritti, tutela dei non garantiti. Temi
sui quali troppo spesso si tace, o si va a rimorchio” (Bruno
Manfrellotto, “Questo Pd va avanti, ma senza meta”,
L’Espresso, n. 8/2020, 42 s.).
Il coronavirus: questo sconosciuto
Il
coronavirus ha richiamato alla mente i primi indizi della
peste che funestò Milano e, poi, buona parte dell’Italia,
cui Alessandro Manzoni, ne “I promessi sposi”, dedicò
ampio spazio.
“La
furia del contagio andò sempre crescendo”,
senza che venissero adottate adeguate contromisure. “E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli
ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo
riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole;
s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che
a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si
provvedeva in nessuna maniera… La vastità immaginata, la
stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan
tutte le ragioni della fiducia reciproca… Non trovò che il
tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né
opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto
ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo,
ne indicavano il timore”.
Poi, com’è noto, la peste dilagò mietendo un gran numero di
vittime, fin quando una copiosa pioggia non portò via il
contagio.
Il
coronavirus, benché di origine non ancora meglio
identificata, confidiamo che venga presto e bene reso
inoffensivo, anche se i contagi, a tutt’oggi, non accennano
a diminuire.
Massimo Stipo non è più tra noi
Piangiamo, con profonda commozione, la scomparsa
dell’autorevole amico Prof. Massimo Stipo, ordinario di
diritto amministrativo nella Facoltà di Economia
dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.
6 marzo 2020
Cari Amici,
a causa della
direttiva del Governo, che sospende le manifestazioni e gli
eventi "svolti in ogni luogo, sia pubblico, sia privato, che
comportano affollamento di persone", la conversazione
programmata dal Circolo Rex per l'8 marzo alle ore 10,30 sul
tema “Vittorio Emanuele II, alla Corte di Londra, affascina
la Regina Vittoria”, nel corso della quale mi ripromettevo
di affrontare anche alcuni passaggi fondamentali del
Risorgimento, è rinviata. Auguro a tutti una splendida
domenica
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
72° Ciclo di Conferenze 2019- 2020 – Seconda Parte
***
“Nell’Inghilterra in mille anni è stato un susseguirsi di
dinastie, egualmente in Francia ed in Spagna, solo la
dinastia sabauda, prima Conti, poi Duchi ed infine Re ho
regnato ininterrottamente per mille anni , acquisendo un
prestigio superiore alle dimensioni territoriali dei loro
Stati. Questo prestigio è stato determinante nella soluzione
unitaria monarchica del Risorgimento e nella proclamazione
del Regno d’Italia. Di questo tratterà il
Professore Avvocato Salvatore SFRECOLA
Domenica 8 marzo alle ore 10,30
“Vittorio Emanuele II, alla Corte di Londra, affascina la Regina
Vittoria”
Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi
a Roma”
Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con
ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed
autobus “910”,”223”, e “52”
Nota: in sala saranno disponibili copie del recente volume “La
solitudine del RE”, edizioni Helicon, presentato al REX,
domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere
scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa,
Falcone Lucifero, nei lunghi anni dell’esilio, e di
“Dittatura e Monarchia - L’Italia tra le due guerre”,
editore Pagine, fondamentale opera storica del professore
Domenico Fisichella.
Per uscire dalla crisi è necessario un Governo che goda di vasto
consenso
di Salvatore Sfrecola
Parte da lontano la crisi economica in questo Paese nel quale
mancano infrastrutture viarie, ferroviarie e quelle che
l’antica Roma ha insegnato
essere espressione di civiltà, gli acquedotti, perché
l’acqua è la civiltà e oggi non viene erogata nella stessa
quantità in ogni contrada, soprattutto al Sud e nelle isole.
Per non dire delle difficoltà delle imprese, soprattutto
delle piccole e medie, appesantite dalla burocrazia, quel
male che tiene lontane dall’Italia le imprese straniere.
Così come la lentezza delle giustizia che non dà certezze a
chi vuole investire od operare nel nostro Paese.
La crisi indotta dal coronavirus trova, dunque, un Paese
in grosse difficoltà ed altre ne aggiunge perché una
gestione dissennata del pericolo sanitario, che ha creato
ansia e panico per le spesso improvvide iniziative dei
nostri governanti, al di là di ogni ragionevole prudenza, ha
aggravato settori dell’economia mai realmente ed
efficacemente sostenuti, come la piccola e media impresa ed
il turismo del quale si continua ad ignorare la capacità
straordinaria di sollecitazione di settori vasti della
economia. Oltre che di un apporto significativo
all’occupazione, non solamente stagionale.
Di fronte a questa situazione di generale sofferenza cosa fa il
governo? Balbetta e procede a tentoni sulla via di una
risposta all’infezione virale in termini di grande
incertezza e contraddittorietà. Dimostra di non avere un
piano predisposto, sia pure nelle grandi linee, per
affrontarla. E va a tentoni come riferiscono i giornali e le
televisioni. Non accade così all’estero. E, di fronte al
grido di allarme delle categorie produttive preoccupate per
il calo delle commesse, che nel turismo significa disdette
di prenotazioni alberghiere per le festività pasquali e già
anche per la stagione estiva, il Ministro dell’economia,
l’ineffabile Roberto Gualtieri, associato di storia
contemporanea, che si è inventato economista per aver
frequentato per alcuni anni la Commissione per gli affari
economici e monetari del Parlamento europeo, racconta di
risorse stanziate qua e là, gocce d’acqua nel mare di una
economia che da anni non cresce. È la solita politica degli
aiuti a pioggia che ben poco riescono ad incidere sulla
reale situazione del Paese. Eppure sarebbe possibile, da un
lato, presentare in sede di Commissione europea un piano
straordinario di interventi infrastrutturali dei quali
l’Italia ha estremo bisogno per sovvenire alle esigenze di
sviluppo di alcune aree, soprattutto al Sud e nelle isole
(una boccata d’ossigeno per l’ILVA, che produce
quell’acciaio che serve per ampliare la rete dell’alta
velocità e rafforzare ponti e viadotti), dall’altro,
mobilitare risorse private che potrebbero essere acquisite
al pubblico erario mediante un prestito straordinario al
quale certamente di italiani aderirebbero se ci fosse un
governo che fosse capace di stimolare fiducia nei cittadini.
Ricorda Luigi Einaudi che quando il governo chiese agli
italiani di sottoscrivere prestiti per far fronte alle spese
della Grande guerra i nostri nonni aderirono immediatamente
ed in misura maggiore rispetto alla richiesta. Quello Stato,
quel governo, riscuotevano la fiducia dei cittadini anche
nei momenti difficili, nonostante il protrarsi delle
operazioni militari e il grosso tributo di sangue che
coinvolse la maggior parte delle famiglie italiane. Anche
dopo Caporetto nelle città e nei borghi lungo tutto lo
stivale gli italiani corsero a sottoscrivere i prestiti per
assicurare le risorse necessarie ai padri e ai fratelli
impegnati al fronte. Sono certo che anche oggi, nonostante
le tante delusioni, se un governo forte di un ampio consenso
presentasse un piano serio, condiviso e comprensibile gli
italiani risponderebbero con entusiasmo. Come sempre è una
questione di fiducia, che oggi non c’è perché gli italiani
hanno compreso che l’attuale dirigenza politica e
governativa, anche quando animata da buona volontà, non è in
condizioni di esprimere proposte e programmi necessari al
momento storico che il Paese attraversa. Mancano idee, manca
soprattutto la conoscenza degli strumenti normativi ed
amministrativi ai quali ricorrere per realizzare le
iniziative indispensabili allo sviluppo economico del Paese
e quindi a sostenere i consumi e l’occupazione.
28 febbraio 2020
L’Inno nazionale, tra storia e realtà
di Salvatore Sfrecola
L’Inno nazionale non si tocca. “Le nazioni sicure di sé non
discutono il proprio inno”, scrive Aldo Cazzullo sul
Corriere della Sera di ieri in risposta ad un lettore
che lo ha intrattenuto sul ricorrente tema della
sostituzione dell’inno nazionale, l’Inno degli Italiani,
più noto come Fratelli d’italia, dalla prima strofa,
con altre musiche. Ricorda che era stato proposto dalla
Lega Nord “Va pensiero”, il famoso coro del Nabucco.
Concordo con Cazzullo, gli inni, il nostro, la
Marsigliese, God save the Queen, la Marcha
Real spagnola,
il Deutschland über alles, di Franz Joseph Haydn,
The Star Spangled Banner (la bandiere adorna le
stelle) sono parte della storia dei popoli, scritti e
diffusi in un momento particolare, forse lontano, ma
rimangono nella mente e nel cuore dei cittadini, almeno di
quanti hanno il senso della identità. Il lettore del
Corriere ricorda anche che fu suggerito l’Inno a Roma,
parole di Orazio Flacco Quinto, traduzione di Giovanni
Pascoli, musicato da Giacomo Puccini. Si sveglierebbe il
solito antifascista dal salotto per dire che quelle note
potrebbero ricordare il regime fascista. Orazio di certo non
lo era. Nato a Venosa il 65 a.C. non è dubitabile di
simpatie per Benito Mussolini, come Pascoli, socialista, che
ha tradotto il testo nel 1911, come Puccini. Ma quell’inno
fu valorizzato dal Duce e questo basta.
Quanto a Va pensiero, Giuseppe Verdi era sicuramente un
patriota a tutto tondo, a differenza di Umberto Bossi che
quella musica voleva elevare a simbolo degli abitanti del
Nord soggetti alla tirannia di “Roma ladrona”. Una melodia
bellissima, struggente, come può essere il canto degli ebrei
in esilio. Ma di una tristezza della quale non abbiamo
bisogno. Teniamoci il più modesto (sul piano artistico) Inno
scritto dal patriota Goffredo Mameli, musicato da Michele
Novaro nel 1847, perché fra l’altro ci ricorda che “Noi
siamo da secoli, calpesti derisi, perché non siamo popolo,
perché siamo divisi”. Forse possiamo trarne motivi per
rinsaldare il senso dell’unità, allontanando quelle assurde
diatribe tra savoiardi e borbonici, se non altro nell’anno
nel quale ricordiamo i 200 anni dalla nascita di Vittorio
Emanuele II il Re che ha fatto l’Italia. Perché è certo che
senza di lui il genio politico diplomatico del conte di
Cavour, l’impeto rivoluzionario e patriottico di Giuseppe
Garibaldi, il pensiero elevato alla religione della patria
di Giuseppe Mazzini non avrebbero portato all’unificazione
del nostro Paese. Eppure del Padre della Patria non si sente
dire che sarà celebrato ufficialmente dalle autorità dello
Stato repubblicano. Non si sa neppure se ne farà cenno
Sergio Mattarella magari dicendo del re “di allora”, per non
riconoscere quei meriti che la storia non ha fatto mancare
al primo Re d’Italia.
27 febbraio 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
Ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., si chiede
all’Adunanza Plenaria:
a) se i documenti reddituali (le
dichiarazioni dei redditi e le certificazioni reddituali),
patrimoniali (i contratti di locazione immobiliare a terzi)
e finanziari (gli atti, i dati e le informazioni contenuti
nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria e le comunicazioni
provenienti dagli operatori finanziari) siano qualificabili
quali documenti e atti accessibili ai sensi dell’art. 22 e
ss. della legge n. 241 del 1990; b) in caso positivo,
quali siano i rapporti tra la disciplina generale
riguardante l’accesso agli atti amministrativi ex lege
n. 241/1990 e le norme processuali civilistiche previste per
l’acquisizione dei documenti amministrativi al processo;
c) in particolare, se il diritto di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi della legge n. 241/1990 sia
esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione
probatoria previste dalle menzionate norme processuali
civilistiche, o anche, eventualmente, concorrendo con le
stesse; d) ovvero se, all’opposto, la previsione da
parte dell’ordinamento di determinati metodi di
acquisizione, in funzione probatoria di documenti detenuti
dalla Pubblica Amministrazione, escluda o precluda
l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo
la disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990;
e) nell’ipotesi in cui si riconosca l’accessibilità agli
atti detenuti dall’Agenzia delle Entrate, in quali modalità
va consentito l’accesso: se nella forma della sola visione,
ovvero anche in quella dell’estrazione della copia, ovvero
ancora per via telematica (Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio
2020, n. 888, con commento di Licia Grassucci, “Accessibilità ai documenti reddituali, patrimoniali e finanziari detenuti
dall’Agenzia delle entrate: quesito all’Adunanza Plenaria”, in
www.Italiappalti.it, 11 febbraio 2020).
Un Premier colibrì
“Il Grande Cratere della legislatura, il buco nero al centro
dell’emiciclo parlamentare rappresentato dalle anime morte
casaleggiane, è il punto interrogativo delle prossime
settimane e riguarda in prima persona il futuro del governo
e del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il voto in
Emilia Romagna lo ha rafforzato, almeno in apparenza, ma ha
fatto anche aumentare le contraddizioni della maggioranza.
Conte rischia di perdere il suo ruolo di mediazione e di
garante tra Pd e M5S, con il Movimento che tra Camera e
Senato è amorfo, non più vitale. Per questo si propone come
il capo del fronte anti-destre, ma rifiuta di rivelare per
chi avrebbe votato in ER, rifugiandosi nel voto disgiunto.
Mi è venuto da paragonarlo al Colibrì del romanzo di Sandro
Veronesi, che impiega tutte le sue energie nel restare
fermo, settanta battiti d’ala al secondo per rimanere già
dove si trova. Il premier Colibrì, però, restando fermo
rischia di precipitare” (Marco Damilano, “Chi ha
resistito”, L’Espresso, n. 6/2020, 10 ss.).
Un movimento in dissolvenza
“Mai successo: il partito di maggioranza in Parlamento non
esiste più nell’elettorato”. Inizia così l’arguto e
documentato articolo di Susanna Turco.
“Sono fantasmi. Sono come fuochi d’artificio. Ma cosa
faranno adesso? Stile incidente stradale. Lo sbando dei
Cinque stelle in mano al provvisorio duo Vito Crimi (ormai
gerarca minimo, date le percentuali) e Alfonso Buonafede
(acclamato capo-delegazione vista la sfolgorante prova da
Guardasigilli capace di confondere colpa con dolo, 41bis con
416bis), lo sbando si diceva è così spettacolare nelle
proporzioni da innescare un fenomeno nel fenomeno: mentre i
voti degli elettori crollano a picco, nei mondi che contano
non si parla d’altro. Si tratta d’altra parte del primo
partito in Parlamento, e non è mai accaduto che si
rimpicciolisse così tanto, in così poco tempo, senza eventi
traumatici esterni come fu Tangentopoli per i partiti della
prima Repubblica” (Susanna Turco, “Fuochi fatui a
Montecitorio”, L’Espresso, n. 6/2020, 42 ss.).
Nuovamente Bibbiano
La vicenda di Bibbiano non può assolutamente, data la sua
indubbia gravità, essere ridotta ad uno scontro elettorale
tra opposte fazioni.
La magistratura è già adeguatamente intervenuta e non
possiamo che attendere fiduciosi le decisioni finali.
La posta in gioco, cioè a dire la tutela dei minori, bene
primario di una società civile, non deve consentire
interferenze o sviamenti di sorta specie riguardo allo
spinoso problema degli affidi.
Metropolitana senza pace
La manutenzione degli impianti della metropolitana romana
lascia ancora molto a desiderare, anche se ciò non sorprende
più di tanto considerato lo stato di generale degrado in cui
versa la Capitale d’Italia, sommersa dai rifiuti e con un
sistema viario dissestato, cosparso di buche e cedimenti
pericolosi.
Vana attesa
L’attuale governo regge con l’incubo di nuove elezioni.
Chi governa
Quella che attualmente governa è una maggioranza di
minoranze.
27
febbraio 2020
La
vulnerabilità della Repubblica
di Domenico Giglio
L’elezione di Trump fu veramente condizionata dalla Russia?
La Clinton fu effettivamente penalizzata? Di questo si è
parlato anche troppo senza avere una risposta certa, ma
adesso, riproponendosi il problema negli USA delle elezioni
presidenziali si parla di appoggio russo a Sanders, il
candidato democratico più di sinistra, addirittura
“socialista”, la cui candidatura aiuterebbe indirettamente
Trump, allontanando dai democratici l’elettorato moderato. A
questo si aggiunge ora la notizia che i cinesi sono riusciti
ad impadronirsi di quarantacinque milioni di nominativi di
cittadini statunitensi di cui possono fare l’uso che
vogliono. Fermiamoci un attimo a riflettere. E se facessero
lo stesso in occasione delle elezioni presidenziali in
Francia o negli altri paesi dove l’elezione del capo dello
stato, non avviene in sede parlamentare, ma nella forma
diretta, pur considerando gli USA una elezione diretta,
mentre in realtà contano i voti degli “stati”, i cui
delegati vengono conquistati in forma “diretta” dagli
elettori. Questa vulnerabilità della elezione diretta del
capo dello stato, anche in paesi come l’Italia, dove viene
propagandata in alternativa alla forma attuale, ”camere
riunite più rappresentanti regioni”, potrebbe portare a
risultati imprevedibili per cui la proposta “monarchica”,
dimostra la sua validità. Si può cambiare un erede al trono?
Putin potrebbe boicottare l’ascesa di Carlo, il giorno in
cui la regina Elisabetta, decidesse di ritirarsi? Così per
gli altri regni esistenti. Certamente potrebbero essere
fomentate campagne di stampa denigratorie e pubblicazioni di
fatti incresciosi, ma il Principe Carlo rimarrebbe sempre
l’erede, o potrebbe, al massimo, passare il trono al
Principe Guglielmo, e la monarchia rimarrebbe integra e per
decenni, il Re resterebbe al potere e nessun pettegolezzo,
una volta subentrato potrebbe toccarlo, specie se
proveniente dall’estero, perché provocherebbe un maggiore
attaccamento da parte dei cittadini, che si stringerebbero
maggiormente intorno al Trono. Quindi anche nel ventunesimo
secolo le Monarchie hanno dei punti di forza, ai quali
qualche decennio or sono non si pensava, da non
sottovalutare.
24
febbraio 2020
Re e Parlamento
di Giuseppe Borgioli
Nella follia
della crisi politica italiana c’è una logica di fondo.
Il sistema repubblicano non funziona. Il Parlamento è
condannato alla paralisi. Il governo va rimorchio del
parlamento venendo meno alla funzione di propulsore. In
queste condizioni il leader di Italia viva Matteo
Renzi (per calcolo politico o in buonafede?) ha recentemente
rilanciato la proposta (non nuova) di eleggere direttamente
il presidente del consiglio, con la formula invitante del sindaco
degli Italiani. Va detto che la legge elettorale
in uso nei comuni è forse l’unica che funzioni riuscendo a
selezionare una classe dirigente di sindaci che, nel bene
come nel male, hanno mantenuto un filo diretto con i
cittadini al di fuori delle logore formule partitiche. Nel
caso in esame del presidente del consiglio cosa significa la
elezione diretta e quale rapporto si verrebbe a instaurare
con il parlamento? È lo stesso dilemma che riguarda il
presidenzialismo. Cosa cambierebbe con la elezione diretta
del presidente della repubblica? Veramente la elezione
diretta delle massime cariche dello stato colpirebbe la
partitocrazia dominante? Abbiamo qualche dubbio che ciò
possa avvenire e l’esempio di nazioni a noi vicine ci
conferma nel nostro scetticismo. Intanto l’elezione diretta
(del presidente della repubblica o del capo del governo)
spaccherebbe il paese. Ogni elezione riprodurrebbe il clima
politico del ’48, muro contro muro con l’esito di vincitori
e vinti. Non è demagogia prevedere che l’unità della patria
sarebbe ogni volta in pericolo. L’Italia ha bisogno di un
parlamento efficiente e rappresentativo dei territori e dei
settori professionali e sociali. Il Re è il luogo simbolico
(dando a simbolo un
significato forte) dell’unità nazionale. Il Re è l’arbitro del gioco a
cui partecipa come guardiano supremo delle regole. Tutte
le altre formule sono scorciatoie che possono aggravare i
problemi perché danno l’illusione di risolverli. Noi non
siamo monarchici perchè nostalgici delle cerimonie. Siamo
monarchici perchè siamo convinti che la Monarchia è l’unica
strada per restaurare la dignità dello Stato.
Sappiamo anche che questa strada sarà lunga e difficile. Ma
se l’abbandonassimo per una scorciatoia ci ritroveremo al
punto di partenza con più problemi e meno energie spirituali
(da www.unionemonarchicaitaliana.it)
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
72° Ciclo di Conferenze 2019 - 2020 – Seconda Parte
***
“Da anni imperversa una sistematica diffamazione del Risorgimento
e dell’Unità da parte dei cosiddetti neoborbonici, ai quali
si sono aggiunti nostalgici asburgici e del potere temporale
dei Papi, per non parlare di un movimento politico che,
all’origine, propugnava addirittura la secessione
dell’Italia del Nord. Nessun storico a conforto di queste
tesi, ma giornalisti improvvisati storici. In questo momento
in cui l’Italia ha bisogno di una scossa per riprendere il
suo cammino ed il suo sviluppo, il Circolo REX come Circolo
di Cultura riproporrà i valori ed il significato di questo
movimento che portò all’indipendenza ed all’unità nazionale
nel solo modo possibile affidando l’analisi al suo
Presidente
Dr. Ing. Domenico GIGLIO
Domenica 1 marzo alle ore 10,30
“Per un nuovo Risorgimento”
Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi
a Roma”
Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con
ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed
autobus “910”,”223”, e “52”
Nota: in sala saranno disponibili copie del recente volume “La
solitudine del RE”, edizioni Helicon, presentato al Rex ,
domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere
scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa,
Falcone Lucifero, e del volume “Dittatura e Monarchia -
L’Italia tra le due guerre” – editore Pagine, fondamentale
opera storica del professore Domenico Fisichella.
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001, la rinuncia abdicativa del proprietario del
bene occupato sine titulo dalla pubblica
amministrazione, anche a non voler considerare i profili
attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione
dell’illecito permanente dell’occupazione sine titulo.
L’orientamento affermativo circa l’ammissibilità della
rinuncia abdicativa, quale strumento alternativo di tutela
del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione
della domanda risarcitoria per equivalente del danno da
perdita della proprietà, non fornisce una soluzione certa e
univoca in ordine all’individuazione del titulus e
del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei
danni.
Inoltre, con riguardo al proprietario danneggiato, s’impone
il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è
elemento costitutivo del fatto illecito produttivo
del danno.
Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento
dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo
stesso danneggiato, in contrasto con i principi che
presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto
di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del
soggetto responsabile nella specie, invece, interrotto dalla
rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto –
secondo la tesi all’esame – determina l’effetto della
perdita.
Pertanto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica,
implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti
(compresa la parte pubblica), della fattispecie
ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza
dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà
dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito
permanente costituito dall’occupazione sine titulo
del bene di proprietà privata e della riconduzione della
situazione di fatto a legalità (Cons. Stato, Ad. plen., 20
gennaio 2020, n. 4, con nota di Licia Grassucci, “Occupazione
sine titulo, l’Adunanza plenaria indica le due opzioni
possibili: restituzione del bene o sua acquisizione”, in
www.Italiappalti.it, 30 gennaio 2020).
Leader a confronto
“Una doppia zavorra pesa sui due leader...A Salvini va
riconosciuto di aver fatto competere per la prima volta il
centrodestra in Emilia-Romagna, pezzo cruciale d’Italia
tradizionalmente a egemonia di sinistra… Ma Salvini non ha
voluto calcolare – dovrà farlo se davvero vorrà tornare
prima o poi al governo – che esiste un elettorato moderato
completamente refrattario agli show modello citofonata… In
più, il capo leghista ha proposto l’idea che il buongoverno
e l’amministratore serio non contino niente, perché devono
prevalere logiche agonistiche non legate al territorio, e
questa idea è stata smentita”
“Ma non ha molto da festeggiare il Pd. L’unica vera gioia di
partito in una vittoria che porta la firma di Bonaccini, è
quella di aver ripreso buona parte del voto grillino di
sinistra (in Emilia-Romagna, non in Calabria) e di aver
visto resuscitare il bipolarismo… Ma la foto del voto non
coincide con la foto del Parlamento. Lì il corpaccione un
po' decomposto di M5S ancora esiste, anzi è maggioritario, e
con questo il Pd deve fare i conti. Per Salvini lo sdrucìto
blocco parlamentare grillino è un ostacolo ad andare al
voto, perché nessuno dei 5 stelle vuole rinunciare al seggio
e tornarsene a casa … Il terzo polo inesistente in natura ma
sopravvivente nel Palazzo risulta un fattore che condiziona
e paralizza… Il bipolarismo in Parlamento non c’è, e mai
come adesso l’Italia reale, quella misurata nelle urne, è
diversa dall’Italia legale, quella rappresentata nelle
istituzioni”.
“Dunque il problema per Salvini è che scricchiola il format
della conflittualità e della campagna elettorale permanente…
Mentre il problema, per Zingaretti, è che non tutta l’Italia
è come l’Emilia… I due leader dovrebbero ricordarsi di
quanto diceva Winston Churchill: I problemi dei vincitori
sono meno dolorosi di quelli degli sconfitti, ma non meno
complicati” (Mario Ajello, “Leader a confronto. La
zavorra del vinto e quella del vincitore”, Il
Messaggero, 28 gennaio 2020).
Il buco del Fucino
“C’è una storia di malafinanza dietro i fuochi d’artificio
della battaglia legale che divide gli eredi della nobile
casata romana dei Torlonia. Anni di prestiti avventati,
acrobazie di bilancio, investimenti sballati si sono
mangiati reputazione e patrimonio della Banca del Fucino.
Una zavorra di operazioni ad alto rischio ha mandato a picco
l’istituto fondato a Roma nel 1923 dal senatore del regno
Giovanni Torlonia, erede della colossale fortuna di una
dinastia con oltre due secoli di storia alle spalle. Servono
200 milioni per evitare il crac e all’orizzonte è già
comparso un cavaliere bianco con le insegne della neonata
Igea Banca, partita da Catania per sbarcare in forze nella
capitale con Mauro Masi, già direttore generale della Rai,
sulla poltrona di presidente”.
“I soldi freschi andranno a coprire i buchi in bilancio e
rilanciare l’attività di un istituto di credito da
sempre legato a doppio filo al Vaticano, tanto da essere
considerato a lungo una sorta di succursale dello IOR, la
banca del Papa. Le grandi manovre per l’ingresso dei nuovi
azionisti sono partite da mesi, ma non sarà facile chiudere
i conti con un passato su cui gravano ombre e sospetti. Il
forziere dei Torlonia, per quasi un secolo stanza di
compensazione degli affari della borghesia capitolina, è
affondato nell’arco di soli tre anni, bruciando mezzi propri
per oltre 100 milioni. Ad alzare il velo sulla fallimentare
gestione è stata la vigilanza di Bankitalia. Dopo anni di
richiami formali e informali, gli ispettori hanno bussato
alla Banca del Fucino nel febbraio del 2017 e l’esito dei
controlli, terminati a fine aprile, è stato disastroso.”
“Per anni i vertici della Banca del Fucino sono rimasti
colpevolmente inerti mentre l’istituto accumulava crediti a
rischio e quando finalmente, messi alle strette dalla
Vigilanza, amministratori e dirigenti si sono decisi a
correre ai ripari, i conti erano ormai fuori controllo. In
sostanza, per anni è stata prassi comune elargire prestiti
senza verificare adeguatamente le garanzie presentate dal
cliente. Peggio ancora: i finanziamenti di difficile
rimborso sono stati iscritti a bilancio senza adeguate
svalutazioni”.
“A questo punto, il patrimonio dell’istituto è ormai ben al
di sotto del livello di guardia e la banca ormai prossima al
dissesto” (Emiliano Fittipaldi e Vittorio Malagutti, “Il
buco del Fucino”, L’Espresso, n. 5/2020, 50 ss.).
Raid vandalici nelle scuole
Un articolo a firma di Alessia Marani, apparso sulla Cronaca
di Roma del quotidiano Il Messaggero del 28 gennaio
2020, che desta profondo sconcerto, riferisce i continui
raid vandalici in alcune scuole romane (Peano, Primo Levi,
De Pinedo, Ruiz) da parte di studenti. Incursioni su
commissione, dietro compenso, al fine di evitare
interrogazioni o compiti in classe già programmati.
Inoltre, lo svuotamento degli estintori, nonché i danni
provocati nelle aule, impediscono, tra l’altro, il regolare
svolgimento delle lezioni.
“Le scuole hanno organizzato incontri con le famiglie ed
avviato le prime procedure di espulsione per gli studenti
identificati e denunciati”, ma è necessario disporre
interventi maggiormente drastici, anche con immediata
attivazione di telecamere per la repressione di siffatti
riprovevoli comportamenti.
Il programma dell’attuale governo
Nel corso di una recente trasmissione televisiva, l’On.
Bertinotti ha individuato il vero programma dell’attuale
governo: “tirare a campare”.
Triste ricorrenza
Ricordiamo, commossi, le vittime delle foibe.
19
febbraio 2020
Identità e libertà dei popoli. L’Italia, l’Europa e le sue Monarchie*
di Fabio Torriero**
Quando nelle trasmissioni, negli incontri pubblici, parlo di
valori, di tradizione, mi dicono medioevale. Io, al
contrario, ricordo gli aspetti positivi del Medioevo (la
nascita degli ospedali, delle università, le cattedrali che
hanno trasmesso la cultura classica, grazie agli amanuensi),
il tomismo, la Scolastica, Giotto, Dante, l’Impero
d’Oriente, che vide la sintesi tra cultura greca, diritto
romano e religione cristiana, il valore dell’economia
curtense, ancora oggi studiata come modello etc).
Spesso rispondo con una provocazione: dico che chi attacca
la tradizione, chi contesta i valori non negoziabili, ad
esempio, del cattolicesimo (diritto alla vita, matrimonio
non arcobaleno, centralità della famiglia naturale), è lui,
il vero partigiano dell’anacronismo. Dico che loro, i
sostenitori di questa tesi, sono quelli che stanno indietro,
in quanto “neo-pagani”, e che i medioevali di oggi sono più
avanti, in quanto il Medioevo storicamente è venuto dopo.
Del
resto, basta fare un parallelismo culturale tra la caduta
dell’impero romano d’Occidente, nel 476 d.c, e la società
odierna, per riscontrare pericolose ed inquietanti analogie:
il disprezzo per la vita, la promiscuità sessuale, la
pedofilia (la pratica del “puer” da iniziare), l’idolatria
degli animali resi divinità.
Per
non parlare delle fake news, di chi fa “ideologia della
storia” cioè il pregiudizio ideologico elevato a verità, e
non la storia, basata sui documenti, le testimonianze, le
fonti. Comunemente si dice che nel Medioevo c’era la cintura
di castità, lo ius primae noctis, venivano bruciate le
streghe. Quanta ignoranza. La cintura di castità non è mai
esistita, lo ius era semplicemente una tassa che i giovani
sposti pagavano al feudatario locale, e le prime streghe
sono state bruciate a partire dall’umanesimo, il periodo che
viene esaltato come il riscatto della civiltà umana rispetto
all’oscurantismo dei secoli bui, E come se non bastasse, le
guerre di religione sono scoppiate nel Cinquecento. Come
volevasi dimostrare.
Perché questa articolata premessa? Per dire come in
comunicazione, per pregiudizio ideologico, ignoranza,
strumentalizzazione politica, la Monarchia, come istituzione
subisce la stessa sorte della parola Tradizione. E se
bisogna, come doveroso, riaffermare la verità, il lavoro è
molto impegnativo, complesso e lungo: bisogna rimuovere
ostacoli, cambiare la neo-lingua, smascherare i luoghi
comuni e il pensiero unico dominante e alla moda.
Ci
sono infatti, da sempre, tante fake news sulla Monarchia. Le
principali le conosciamo tutti: è anacronistica,
dittatoriale, inutile, costa. Interessante anche la
contraddizione tra le stesse fake di stampo
giacobino-laicista. Se non conta nulla, come può venire
accusata di essere tirannica? Se è tirannica come si può
affermare che sia inutile?
In
quanto ai costi, basta comparare il costo della Monarchia
inglese con i costi del nostro Quirinale e in quanto
all’anacronismo, si può facilmente replicare che ciò che
è bene e ciò che è male non conosce le lancette della storia.
Valgono sempre.
Ma
veniamo alle risposte che è pedagogico dare ai nostri
avversari e alle persone che “ignorano”, perché non sanno, o
perché fingono di non sapere per malafede o per meri
interessi politici.
RISPOSTA COSTITUZIONALE
Visto
che la Monarchia è sinonimo di arretratezza, anacronismo,
tirannia, inutilità, i più grandi filosofi, scienziati della
politica, studiosi, intellettuali, da Aristotele a Hegel,
passando per San Tommaso, Sant’Agostino, che hanno definito
la Monarchia la migliore forma di governo, erano e sono
stati tutti folli? E tali fake news non insultano, offendono oggi la dignità di
popoli che da secoli vivono felicemente sotto le Monarchie
che, guarda caso, reggono i Paesi europei che offrono le
migliori garanzie in quanto a unità nazionale, stabilità,
continuità delle istituzioni, progresso e coesione sociale?
Ci
sono tante definizioni di Monarchia. Ne sceglierò solo
alcune. “La Monarchia è la proiezione della famiglia su
scala politica”, “la Monarchia è ordine e
movimento”, è “Progresso ereditario”, è - secondo una
felice e creativa intuizione dei monarchici francesi – “l’anarchia
più uno”. Per Salvator D’Alì, il famoso eccentrico
pittore, e artista a 360 gradi, “solo sotto una cupola
monarchica si può essere liberi, veramente anarchici”.
Quanta modernità in questa frase, un concetto-base che
stravolge l’ideologia moderna, l’attuale pensiero unico
basato sul mantra della libertà senza limiti, su
l’individualismo di massa. La vera libertà è quando
l’uomo è delimitato, con regole e valori superiori nei quali
si riconosce. Che condivide. Non quando l’uomo si
autodetermina su una base libertaria assoluta, secondo le
pulsioni dell’io che creano dipendenza, sudditanza, la vera
schiavitù (e uccidono la libertà vera). In tal modo la
società implode, muore, perde ogni senso della polis, della
res publica, della relazione.
Ogni cittadino si perde in una bolla
autoreferenziale, autocentrata, anaffettiva.
E
ancora: la Monarchia rimane sempre sé stessa, pur mutando
nelle sue forme storiche. Non a caso abbiamo avuto nella
storia europea, Monarchie assolute, costituzionali,
parlamentari, federali, sociali etc. Oggi tra le 10
Monarchie europee, abbiamo la Monarchia inglese, esempio di
democrazia basata sul diritto non scritto, le consuetudini
millenarie; le Monarchie nordiche sono sociali e
parlamentari; la Monarchia spagnola è una corona
autonomista, la Monarchia belga è federale. Cosa resta
fermo e cosa cambia? Resta ferma l’idea dello Stato,
espressione dell’identità storica, culturale, religiosa dei
popoli, la trasmissione ereditaria, il senso della dinastia,
la separazione tra lo Stato, che resta fermo e il governo
che invece, muta col mutare del voto, secondo la libera
scelta dei cittadini.
E
ancora: la Monarchia assolve ad una fondamentale funzione: è
una obbligata e indispensabile “precondizione” della
politica: fa essere, determina la sana e giusta
politica. Il fatto che un Re, simbolo vivente della patria,
sia indipendente dai partiti, non sia scelto da loro, né
subisca i ricatti, non agisca per la sua rielezione, o il
semplice e transitorio consenso, ma sia indipendente per
“missione, legittimità storica, vocazione e collocazione
istituzionale”, favorisce l’identificazione con i cittadini
che si sentono rappresentati e accolti. E ciò è una
naturale precondizione di unità nazionale, di continuità e
stabilità delle istituzioni. Valori centrali per lo
sviluppo pacifico di una nazione.
Infine, il ruolo “arbitrale” del sovrano. Ossia,
l’esercizio della terzietà. L’arbitro naturale non può che
essere un Re, non un presidente della Repubblica, eletto dai
partiti, che bene che vada, sembra un buon capo-ufficio,
male che vada non è arbitro, né può esserlo. Non si può
essere giudici e parte in causa al tempo stesso. E’ una
spiegazione semplice quanto naturale. E i vari presidenti
della nostra Repubblica che si sono avvicendati nell’arco
del tempo, sono stati e vengono apprezzati per quanto di
monarchico riescono e sono riusciti a fare.
La
funzione arbitrale vuol dire, infatti, promozione attiva
della legalità costituzionale, mediazione istituzionale,
intervento nei conflitti costituzionali, capacità di
intervento nello Stato di eccezione, e in momenti di gravi
conflitti sociali.
RISPOSTA VALORIALE
Le
ragioni della Monarchia non possono prescindere anche da
un’attenta analisi della odierna realtà culturale, sociale,
istituzionale, specialmente dell’Occidente. Cioè, dalla capacità di attualizzare e declinare tale
istituzione ponendola e proponendola come la migliore
risposta rispetto a due epocali domande: chi siamo e dove
andiamo come civiltà e come popoli?
Da
tempo le categorie politiche non sono più “destra-sinistra”,
ammesso che siano state sempre oggettive e non piuttosto,
usate come forzato linguaggio ufficiale del ceto politico,
che le ha deificate solo per dividere ed eccitare le
rispettive tifoserie (per fini elettorali), o come utopie
narrative degli intellettuali. Da tempo destra e sinistra
non corrispondono più alla realtà e alla verità. In Italia
poi, le ripartizioni, le definizioni sono sempre state più
complesse e trasversali rispetto ad altri Stati europei. Da
noi i liberali, i sociali, gli statalisti, i liberisti, gli
atei, i cattolici, gli europeisti, i nazionalisti, sono
sempre stati presenti in tutti e due gli schieramenti, sia a
destra che a sinistra. Noi siamo figli della destra storica,
che è stata liberale in politica, ma non liberista in
economia; siamo figli del fascismo che è stato un coacervo
di sensibilità e correnti; siamo figli della dottrina
sociale della Chiesa che ha rappresentato e rappresenta una
sorta di terza via tra il capitalismo e il marxismo.
Oggi
le nuove categorie sono “alto-basso”, popoli contro
caste, identità contro globalizzazione, sovranità contro
economie finanziarie cosmopolite; il civismo, come forma di
autorappresentazione territoriale della società,
patriottismo amministrativo;
e “antropologia contro ideologia”, ossia
diritto naturale, primato della vita, della famiglia
naturale, contrapposto al culto della libera, totale,
autodeterminazione dell’uomo, fino a scegliere chi deve
nascere (con l’aborto), quando bisogna morire (l’eutanasia),
a normalizzare il diritto a prostituirsi, drogarsi, comprare
figli (con utero in affitto), a costruire famiglie
arcobaleno (omosessuali), e a scegliere il proprio sesso (la
priorità dell’identità psichica), a prescindere
dall’identità biologica (sancita dalla natura).
In
estrema sintesi, lo scontro tra i limiti (morali, naturali,
storici, spirituali) che “delimitano” la vita degli uomini e
delle comunità organizzare, gli Stati, e un’idea illimitata
di libertà, nel nome e nel segno del nuovo dogma
contemporaneo, in base al quale ogni desiderio deve
diventare un diritto; mentalità che porta direttamente a
certificare, consacrare, l’individualismo di massa che
chiamano modernità, secolarizzazione, laicizzazione della
società, edificando obbligatoriamente una visione di
Repubblica intesa come mera espressione delle pulsioni
dell’io.
Con
tali basi, lo ripetiamo ancora una volta, la società che si
basa per costituzione, sulla relazione, sull’identità,
tramonta.
Una
società globale, del cittadino globale, del mercato globale,
senza limiti, senza confini, senza frontiere, senza
identità, non è e non sarà mai una società liberata, felice,
ma una società di esseri soli, chiusi in bolle
autoreferenziali, autocentrate e opposte all’empatia che
invece costituisce il cuore della cosa pubblica, del bene
comune, dell’interesse generale.
Forse
un continente di uomini senza identità storiche, culturali,
sociali, religiose (viste come nazionalismo, conflitti,
guerre, discriminazione, xenofobia, fascismo, omofobia etc),
potrebbe essere un continente più integrabile, più
armonioso, ma a che prezzo?
Eccolo: un mondo di “apolidi”, senza appunto,
identità culturali, statuali, religiose; un mondo di
“precari”, senza identità sociale e lavorativa; di
“liquidi”, senza identità sessuale. Stiamo descrivendo
il drammatico indebolimento culturale e biologico dei
popoli: col cosmopolitismo e il gender.
La
difesa e l’affermazione dei valori naturali e delle identità
storiche, culturali e religiose, è al contrario, il
perimetro dove si gioca e si giocherà in futuro, il ruolo,
la funzione, l’attualità della Monarchia.
Monarchia come presidio delle patrie, delle identità,
della storia, della cultura, dei valori e dei simboli
identitari dei popoli e delle nazioni, strettamente
connessi e all’interno di uno spazio storico,
geografico e culturale che si chiama Stato. Stato sovrano.
Il
suolo non è un semplice passaggio, dove popoli differenti e
indifferenziati, mettono i piedi per andare ovunque e
quindi, da nessuna parte. Per questo lo “ius soli” è un
pericoloso e clamoroso errore: un conto è l’accoglienza
che deve essere universalizzata, e parametrata alla capacità
degli ordinamenti di assorbire in termini lavorativi,
sociali, sanitari, normativi e abitativi, i migranti. Un
conto è la cittadinanza, che presuppone una scelta
volontaria, un percorso costituzionale, la condivisione dei
valori aggreganti e fondanti di un popolo.
Il
suolo non è un dettaglio, ma il luogo, il territorio, che
esprime una storia, una cultura, una mission. La vita non
nasce e muore con noi, ma c’era prima, prosegue con noi e
continua dopo di noi. Di “Padre in Figlio”, come in
Monarchia, dal Re che incarna la storia, la tradizione, il
quale passa il testimone al figlio, il Principe, che
assorbe, modifica, cambia la trasmissione ereditaria dei
contenuti e valori, esalta il passaggio di consegne.
Attualizza e modernizza il passato. Ecco come si spiega il
senso e il significato del concetto di Monarchia, secondo le
definizioni più efficaci e suggestive dei pensatori,
filosofi, costituzionalisti, politici che si sono
avvicendati nella storia. La Monarchia come la proiezione
naturale della famiglia, come ordine e movimento, come
progresso ereditario.
E
solo la Monarchia può difendere, custodire, preservare e
affermare in un mondo globalizzato le identità storiche,
culturali, sociali e religiose dei suoi popoli. Anzi, per
meglio dire, i Re sono gli ambasciatori naturali dei loro
popoli.
Oggi
lo scontro in atto e si vede, è tra sovranisti e
mondialisti, tra identitari e globalisti. Ma in realtà
sono due posizioni speculari che si rafforzano
reciprocamente.
Papa
Giovanni Paolo II aveva risolto egregiamente tale
contrapposizione. L’uomo deve far coesistere la dimensione
universale della fede, la visione dell’umanità con la
nazione, con la propria appartenenza. Se non si trova una
sintesi tra le due spinte naturali dell’uomo e dei popoli,
l’utopia del tutto e del niente, e la paura dell’ignoto (da
qui il bisogno di certezze), il messianismo democratico, il
governo mondiale dell’economia e i nazionalismi vissuti come
chiusura, fortezza, egoismo, si alterneranno pericolosamente
in una dialettica sbagliata e illusoria.
La
Monarchia può e deve inserirsi in questo duello tra
sovranisti e globalisti. Dando una solidità, un obiettivo,
agli Stati sovrani e uno sguardo alla vocazione dei popoli
più ampia, nel dialogo su valori comuni e condivisi dei
Continenti.
Esempio, l’Europa delle 10 monarchie. Ognuna rappresenta
peculiarità originali dei propri Paesi, diritti e dignità
nazionali, ma nello stesso tempo sono figlie di quell’idea
unitaria di Europa, che o è cristiana, recuperando il senso
e il valore delle sue radici millenarie, legittimate dal
Medioevo, o non è. Per concludere: Casa Savoia e Carlo
Magno sono i simboli, il richiamo e la riscossa della
Monarchia, di ieri, di oggi, di domani.
*Testo della conversazione tenuta al
Circolo di Cultura
Politica Rex il 16 febbraio 2020
**Giornalista
parlamentare, Docente Lumsa,
spin doctor di
politici e ministri
La Lega, come diventare “nazionale”
di Salvatore Sfrecola
Continua la
sostanziale stasi della Lega di Matteo
Salvini, evidente nei sondaggi che le attribuiscono un -1,
che nella coalizione di Centrodestra è recuperato da
Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. S’intravede una
ricomposizione delle forze politiche d’opposizione con il
concorso delle aspettative dei moderati, cattolici e
liberali, soprattutto, che considerano FdI un partito
coerente, radicato sul territorio, con aperture culturali
assicurate anche dalla Fondazione Fare Futuro diretta
da Adolfo Urso.
È una evidente
difficoltà della Lega, come dimostrano ricorrenti
chiusure verso il Centro e verso il Sud di ambienti
popolari, soprattutto del Veneto, quelli che si dicono
veneti e non italiani, che poi sono gli eredi dei contadini
che facevano pagare l’acqua (!) ai soldati dell’Esercito
italiano che avevano passato il Mincio per liberarli dal
giogo austriaco.
Quella Lega
prende voti al Centro e al Sud, come hanno dimostrato le
elezioni regionali in Abruzzo, Basilicata e Calabria, ma non
convince più di tanto le classi medie. Troppo aggressivo
Salvini, poco istituzionale come in quegli ambienti si
ritiene debba presentarsi un uomo di destra che dia conto di
una chiarezza di idee e di una forte determinazione nel
perseguirle. Che riesce più facile alla Meloni.
Lo conferma
l’analisi del voto in Emilia-Romagna, dove i consensi sono
venuti prevalentemente dai piccoli centri rispetto alle
grandi città, a conferma del fatto che la Lega parla
prevalentemente alla pancia degli elettori, che non è
certamente da trascurare ma che va integrata con la
consapevolezza delle classi medie le quali tendono ad
esprimere, insieme alle ragioni più immediate della
politica, anche aspirazioni di carattere ideale.
Per divenire
“nazionale” e conquistare altri consensi la Lega deve
fare un passo avanti, in primo luogo con la “conquista” di
Roma, dove il partito è debole, come dimostra la mancanza
una sede degna del suo ruolo. Roma che non è soltanto la
capitale d’Italia, la città dei ministeri, dell’università
più grande d’Europa, dei grandi enti pubblici, delle sedi
centrali degli ordini professionali, delle magistrature
superiori, Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti.
Roma, la città alla quale guardano le persone di cultura in
tutto il mondo, espressione della civiltà, non solo del
diritto ma della vita associata, delle grandi opere
pubbliche, delle strade che ancora oggi disegnano in Italia
e in Europa i percorsi dell’economia e della cultura. La
Roma degli acquedotti, cioè della civiltà, e della fede,”
onde Cristo è romano”, per dirla con Padre Dante.
Roma è il centro
amministrativo dello Stato. Ed è a Roma che si fa politica,
che è confronto, mediazione per il bene comune. Inoltre, la
conquista politica di questa città apre la strada al
Mezzogiorno, considerato che la maggior parte dei suoi
abitanti è di origine meridionale e qui ha raggiunto
posizioni di assoluto rilievo nelle professioni,
nell’amministrazione, negli enti e nelle imprese. Di questo
mondo variegato il partito di Matteo Salvini oggi non
presenta, a livello di dirigenza politica e parlamentare,
nessun esponente di rilievo. Un errore, certamente, non solo
per la città ma perché la valorizzazione dell’ambiente
dimostrerebbe a parenti e amici rimasti nelle regioni del
sud che effettivamente la Lega ha passato il Rubicone e si
appresta a rinnovare la sua rappresentanza politica e, c’è
da augurarsi, governativa dopo la modesta esperienza
dell’Esecutivo giallo-verde, in vista di un impegnativo
confronto con le sinistre, agguerrite e ben radicate,
invece, nel tessuto connettivo della capitale, e per dare un
apporto significativo alla coalizione di centrodestra dove
Giorgia Meloni il senso della nazionalità lo coltiva da
sempre sistematicamente favorendo anche quell’apertura ad
ambienti culturali conservatori dei quali ha estremo bisogno
per continuare a crescere.
(da
www.italianioggi.com)
Doveri di un Capo dello Stato
di Domenico Giglio
Il Capo dello Stato, sia un Imperatore, un Re o una Regina, un
Presidente di Repubblica, un Fuhrer, un Duce e via
discorrendo, a prescindere anche dai loro poteri che possono
essere più o meno ampi, ha un dovere di rappresentanza e di
simbolo della Nazione, della sua Unità, nonché del vertice
dello Stato e la sua mancanza, impedimento, scomparsa,
defezione e simili interrompe proprio il funzionamento della
“macchina dello Stato”. Ecco perché se Monarchia, il Sovrano
e l’Erede, in caso di spostamenti, anche in periodi
tranquilli, è bene siano separati, lo stesso vale per un
Presidente ed un suo Vice, oppure in altri casi nelle
Monarchie ha previsto l’istituto della Luogotenenza o della
Reggenza, o in Repubbliche sia costituzionalmente prevista
una scala di sostituti automatici. Se “morto il Re, viva il
Re”, così si può dire “morto il Presidente, viva il Vice
Presidente” o “viva il Presidente del Senato” per affermare
la continuità dello Stato.
In caso di guerre la questione diviene ancor più delicata perché
in molti casi il Capo dello Stato è anche il Capo delle
Forze Armate, anche se oggi è sempre più rara una effettiva
presenza ed un diretto comando. Pensare ad un Capo dello
Stato in mano al nemico apre una prospettiva gravissima di
crisi dello Stato. Lasciamo stare quindi Francesco I di
Francia, prigioniero di Carlo V, dopo la sfortunata
battaglia di Pavia del 1525, e guardiamo i casi nell’epoca
moderna che sono perciò rari e l’esempio più clamoroso è
quello di Napoleone III, preso prigioniero dai prussiani a
Sedan, il che portò alla immediata dissoluzione dell’Impero,
ed anche la tragica vicenda di un Massimiliano d’Asburgo
fucilato a Queretaro dai ribelli messicani di Benito Juarez
(in cui onore –sic - poi vennero tanti Benito anche in
Europa, nome prima inesistente) che assunsero il potere,
cancellando anche in questo caso, l’impero.
Preservare perciò la propria libertà, nell’interesse generale e
non della salvezza della propria persona è quindi un dovere
ineludibile. Ecco perché nel 1814 il Presidente degli USA,
Madison, lascia precipitosamente la Casa Bianca, con la
colazione già in tavola, per non essere preso prigioniero,
dagli inglesi che ivi banchettarono, incendiando poi il
palazzo presidenziale! Qualcuno ha mai parlato del fuggiasco
Madison? E poi perché lo Zar Alessandro lascia ed incendia
Mosca all’avvicinarsi di Napoleone, e Stalin fa lo stesso
all’avvicinarsi delle armate tedesche, nel 1941? Ed il
Presidente francese che, nel 1940, abbandona Parigi per
andare a Bordeaux, e Churchill, il quale afferma in caso di
sbarco tedesco che, con il Re, sarebbe andato, non fuggito,
in Canada a continuare la guerra fino alla vittoria.
Lasciamo poi stare la Regina d’Olanda, i Re di Norvegia, di
Grecia e di Jugoslavia, il Presidente della repubblica
polacca e cecoslovacca che abbandonano non solo la loro
capitale, ma il territorio nazionale, mentre l’unico che
rimane in patria, il Re del Belgio, poi divenuto prigioniero
di Hitler in Germania, viene successivamente accusato
proprio di questo e impedito a rientrare nel territorio
nazionale dopo la fine della guerra, da una assurda legge
nel 1945 aspettando il 1950 quando un referendum popolare dà
la netta maggioranza del 57,68% per il suo rientro e
riassunzione dei poteri regi!
Tutto ciò premesso, veniamo al caso italiano e cerchiamo di
seguirne la storia passo per passo. E’ notoria l’avversione
di Hitler nei confronti dei Savoia e la sua rabbia per
l’esautorazione dell’amico Mussolini, la decisione di
poterlo liberare ed averlo nuovamente al suo fianco, e
contemporaneamente punire il Re d’Italia per il cosiddetto
tradimento. Perciò è fuori da ogni realtà pensare che,
specie dopo l’armistizio, Hitler non avrebbe tentato di
impadronirsi di Vittorio Emanuele III, costasse quel che
costasse (l’anno dopo l’operazione tedesca, perfettamente
riuscita, fu quella condotta contro il Reggente ungherese
Horthy che aveva il 15 ottobre 1944 annunciato l’armistizio,
e preso prigioniero dai tedeschi aveva dovuto smentirlo
nello stesso giorno!). Di questa necessità che il Re non
fosse preso prigioniero, erano convinti anche gli
angloamericani, che avevano stipulato l’armistizio con il
Governo del Re, tanto che era stata ventilata l’idea di un
suo trasferimento in quel di Palermo, già da tempo nelle
loro mani, ma che avrebbe tolto al Re ogni libertà e
dignità. Quindi lasciare Roma capitale era una necessità
storica, istituzionale e costituzionale, non potendo
trasformare questa duplice capitale, pensiamo al Pontefice,
in un campo di battaglia come Leningrado, e simili, per cui
la sua difesa avrebbe potuto procurarle danni ancor maggiori
di quelli procurati dai due sciagurati bombardamenti del 19
luglio e 13 agosto. Con ciò non possiamo non dare atto del
nobile comportamento e del sacrificio dei nostri soldati che
si batterono valorosamente contro i tedeschi a Porta San
Paolo e dell’azione svolta a Roma da un tale generale Calvi
di Bergolo, guarda caso genero del Re! Sempre relativamente
al trasferimento vi era stata una ipotesi descritta in un
libro poco noto di Arturo Catalano Gonzaga “Per l’onore dei
Savoia”, edito da Mursia nel 1996, di un trasferimento del
Re, Famiglia Reale e Governo, in Sardegna, con partenza il
12 settembre, da Civitavecchia, su un cacciatorpediniere, o
il “Vivaldi” o il “Da Noli”, ed arrivo a La Maddalena,
quando, appunto si pensava fosse quella la data
dell’annuncio dell’armistizio. Perché, in questo balletto di
date, tra l’effettivo 8 e l’ipotetico 12 settembre, sta la
spiegazione degli eventi realmente accaduti. Quella del 12
settembre, anche se più logica, era stata una semplice
supposizione del generale Castellano in quanto in sede di
firma dell’armistizio, il 3 settembre, nulla di preciso al
riguardo avevano detto gli americani. Dico più logica perché
avrebbe giovato ad entrambe le parti, anche se in maggior
misura per noi, specie per ulteriori istruzioni
all’Esercito, a maggior chiarimento della famosa circolare
segreta OP 44, inviata da giorni. La comunicazione della
data dell’8, se, in ogni caso, fosse stata data con maggiore
anticipo avrebbe consentito migliori disposizioni
all’esercito ed una partenza da Roma meno turbinosa. Appresa
invece la stessa mattina dell’8 con obbligo di comunicare
l’avvenuto armistizio da parte del nostro Governo, nella
stessa giornata, il che avvenne alle 19,45 con il messaggio
radio del Maresciallo Badoglio, la scelta del trasferimento
dovette essere presa in tempi brevissimi. Infatti la famosa
colonna di automobili si mosse da Roma, Ministero della
Guerra, in Via Venti Settembre, alle 5,10 del mattino del 9
settembre. Il fattore rapidità era essenziale perché tutti
conoscevano le intenzioni hitleriane di bloccare il Re ed il
tempo giuocava a nostro favore solo nel caso di una
immediata decisione, presa dal capo del Governo ed
accettata, se non subita, dal Re ed ancor di più dal
Principe Umberto. Non dimentichiamo, mentre moltissimi o lo
hanno dimenticato o forse lo ignorano, che nella stessa
giornata dell’8 settembre l’aviazione americana aveva
effettuato un massiccio bombardamento della cittadina di
Frascati, a venti chilometri da Roma, in quanto sede del
Comando germanico, che distrusse la città, ma non uccise
Kesserling, comandante delle truppe tedesche. Kesserling non
si trovava quel giorno a Frascati dovendosi occupare della
difesa contro il contestuale sbarco americano a Salerno.
Questa assenza di Kesserling è la migliore smentita della
tesi sostenuta dallo Zangrandi di un accordo tra i due
Marescialli, Badoglio e Kesserling, per facilitare partenza
e viaggio del Re da Roma, verso Pescara sulla statale
Tiburtina-Valeria. Quando e come sarebbe avvenuto l’accordo
in quelle pochissime ore? Chi i plenipotenziari che si
sarebbero dovuti incontrare? Come e dove ? Fu solo il
fattore sorpresa che questa volta giocò a nostro favore a
consentire il lungo viaggio senza blocchi su di una strada
che specie fino ad Avezzano non permetteva alte velocità.
Trasferimento perciò e non fuga, con lunga sosta dei Reali a
Crecchio nel Castello dei Duchi di Bovino, la puntata di
alcuni componenti il convoglio a Pescara per valutare una
possibile partenza aerea, il loro ritorno a Crecchio e la
decisione definitiva dell’imbarco su una nave della Regia
Marina, la corvetta Baionetta, fatta venire ad Ortona dal
Ministro della Marina, ammiraglio De Courten, e
dell’incrociatore Scipione Africano, come scorta, con meta
Brindisi, porto e città saldamente nelle mani del nostro
esercito e della nostra marina, dove non erano né tedeschi
né angloamericani, e sul palazzo del Comando, tenuto
dall’ammiraglio Rubartelli, sventolava la nostra grande
bandiera. Con quel trasferimento, come hanno poi
riconosciuto storici seri, non monarchici, ed anche un
presidente della repubblica, Ciampi, si era conservata la
continuità dello stato e salvato Roma da altre distruzioni.
La sciagurata frase della “fuga di Pescara” (e non Ortona, errore
che dimostrava la scarsa conoscenza dei fatti) venne tempo
dopo e faceva parte della campagna denigratoria sul Re e
Casa Savoia che la repubblica di Salò scatenò per diciotto
mesi su giornali e sulla radio, campagna che contribuì
notevolmente al voto repubblicano dell’Italia del Nord, nel
referendum del 1946, sostituendo alla repubblica fascista,
la repubblica antifascista (!) e coloro che inventarono la
fuga, accusa ripresa successivamente dalla propaganda
repubblicana e divenuta un luogo comune, non pensavano certo
ad un altro ben triste viaggio lungo le rive del Lario.
Concludendo, i doveri per lo più sono amari, ma vanno assolti e
questo, con la partenza da Roma, dove, ipocritamente non gli
fu consentito di far ritorno, dopo il 5 giugno 1944, fece,
non per sé, ma per l’Italia, Vittorio Emanuele, come, dai
microfoni di Radio Bari, purtroppo poco potente e poco
conosciuta ed ascoltata, disse la sera dell’11 settembre:
“Per il supremo bene della Patria che è stato sempre il mio
primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell’intento di
evitarle più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho
autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la
salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i
miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari,
mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo
nazionale. Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per
ogni evento, come voi potete contare fino all’estremo
sacrificio sul vostro Re. Che Dio assista l’Italia in
quest’ora grave della sua storia”.
15 febbraio 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La rimessione all’Adunanza Plenaria della presente questione
trae origine da una controversia avente ad oggetto la
responsabilità dell’amministrazione sanitaria per danno
conseguente a trasfusioni infette e i moduli transattivi
definiti dal Ministro della salute, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, con d.m. 4 maggio
2012.
Ai sensi dell’art. 99 c.p.a., l’Adunanza Plenaria, è stata
investita della corretta interpretazione della lettera b)
dell’art. 5, comma 1, del d.m. 4.5.2012, al fine di
appurare, in particolare: a) a quali posizioni soggettive
tale disposizione faccia riferimento; b) se il termine
decennale ivi indicato risulti coerente con i principi
civilistici in materia di prescrizione; c) se il sistema
transattivo predisposto dalle leggi n. 222 e n. 244 del
2007, così come attuate dal d.m. n. 132/2009 e dal d.m. n.
4.5.2012, debba intendersi aperto ai soli diretti
danneggiati da trasfusione infetta e ai loro eredi che
agiscano iure hereditatis; ovvero anche ai congiunti
che agiscano per ottenere il ristoro dei danni patiti
iure proprio. (Cons. Stato, Sez. III, 11 dicembre 2019,
ordinanza n. 8435, con nota di Licia Grassucci, “Danni da
emotrasfusioni”, in www.Italiaappalti.it, 22 gennaio
2020).
L’Università è un bene comune
“Quanto valgono le Università italiane? Pochissimo.
L’investimento annuo per l’istruzione terziaria è dello 0,3%
del PIL, calcola l’Eurostat. Spendiamo meno della metà della
media europea e siamo ultimi in classifica. E secondo l’Ocse
l’Italia ha ridotto di 12 punti percentuali la quota di
spesa pubblica per l’istruzione universitaria tra il 2006 e
il 2016. Non c’è da stupirsi, quindi, se i laureati sono il
28% dei 25-34enni, contro una media Ocse del 44%. Colpa
della scarsa leva economica messa a disposizione delle
università per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo
della persona umana, come richiede la nostra Costituzione.
Al punto che la carenza di risorse spinge le università a
privatizzare i frutti dell’insegnamento e della ricerca,
finanziate però dai cittadini”.
“Solo dando alle università la possibilità di misurare i
cambiamenti prodotti sulla società renderà tutti più
consapevoli di quanto l’attività accademica sia fondamentale
per accrescere giustizia sociale e sviluppo sostenibile
(Patrizia Luongo, “L’università è un bene comune”,
L’Espresso, n. 3/2020, 59).
Harry e Meghan
Non ho ancora incontrato qualcuno interessato al loro
futuro.
Sulla motivazione delle sentenze
Non sempre sentenza ben motivata vuol dire sentenza giusta;
né viceversa. Talvolta una motivazione sciatta e sommaria
indica che il giudice nel decidere era talmente convinto
della bontà della usa conclusione, da considerar tempo
perduto il mettersi a dimostrar l’evidenza: come altra volta
una motivazione diffusa ed accurata può rivelare nel giudice
il desiderio di dissimulare a sé stesso e agli altri, a fora
di arabeschi logici, la propria perplessità (Piero
Calamandrei, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”,
Milano, 2001, 174).
Verso il bipolarismo?
Una volta superato l’equivoco M5S, l’Italia potrebbe tornare
a un serio bipolarismo, anche se il non esaltante livello
della nostra classe politica rende tale prospettiva
rischiosa o, quanto meno, remota.
In libreria
Peter Gomez, Valeria Pacelli e Giovanna Trinchella sono gli
autori de “La repubblica degli impuniti” (Roma,
2019), una ragionata rassegna di quanti negli ultimi
venticinque anni l’anno fatta franca “grazie alla
prescrizione e alle altre leggi ideate per salvare i
colletti bianchi”.
Tra questi “ci sono politici, religiosi, funzionari dello
Stato e industriali che rappresentano il meglio (ma per
alcuni il peggio) delle élite del Paese. A volte controllano
giornali, televisioni, siti internet. A volte li foraggiano
con le loro campagne pubblicitarie. Sempre, o quasi,
frequentano o hanno rapporti di amicizia con opinion
leader e con chi fa le leggi”.
Nell’ultima pagina di copertina una amara conclusione: “La
ragione per cui la prescrizione è stata ideata
è semplice e in teoria assolutamente condivisibile: dopo un
certo numero di anni lo Stato non ha più interesse a
indagare su un reato perché è passato troppo tempo. Inutile
lavorare per scoprire gli autori di un crimine che le stesse
vittime non ricordano più. In realtà in Italia accade una
cosa diversa: spesso i reati si prescrivono quando gli
imputati sono già stati individuati”.
Rimaniamo, comunque, in fiduciosa attesa di una
condivisibile legge su tale fondamentale istituto.
Le
solite Sardine
Le
Sardine in piazza a Bibbiano. Bene arrivate.
Restano o ripartono? Meglio se restano.
12
febbraio 2020
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
72° Ciclo di Conferenze 2019 - 2020 – Seconda Parte
***
“Sovranismo, populismo, sono tematiche attuali ed anche di
successo, ma la ipotesi per l’Europa, di diventare il vaso
di coccio tra i vasi di ferro degli USA, della Russia e
della Cina può diventare realtà se non si approfondiranno i
più veri, antichi e consistenti valori della nostra civiltà
millenaria. Il Circolo REX come Circolo di Cultura vuole
portare un contributo al necessario approfondimento
affidando l’analisi di questi valori al
Professore Fabio TORRIERO
Domenica 16 febbraio alle ore 10,30
“Identità e libertà dei popoli: l’Italia, l’Europa e le sue
Monarchie”
Sala Roma presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a
Roma”
Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con
ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed
autobus “910”,”223”, e “52”
Nota : in sala saranno disponibili copie del recente volume “La
solitudine del RE”,- edizioni Helicon- presentato al REX ,
domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere
scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa,
Falcone Lucifero, nei lunghi anni dell’esilio, e di
“Dittatura e Monarchia- L’Italia tra le due guerre” –
editore Pagine, fondamentale opera storica del professore
Domenico Fisichella.
Ladri di democrazia: a proposito del
taglio dei parlamentari
di Salvatore Sfrecola
Dovrebbe far
riflettere il fatto che il taglio dei parlamentari sia stato
fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, una organizzazione
politica che predica la “democrazia diretta”, che si ispira
a Jean-Jacques Rousseau, un filosofo svizzero autore del
Contratto Sociale (Du
contrat social: ou principes du droit politique),
pubblicato nel 1762, che avrebbe avuto successo ai tempi
della Rivoluzione Francese, al quale è intestata la
piattaforma informatica che raccoglie i desideri degli
iscritti i quali formulano anche scelte politiche. Non solo,
ma Davide Casaleggio, Guru del Movimento e ispiratore della
piattaforma, ha espressamente manifestato l’opinione che in
futuro il Parlamento possa anche essere ridimensionato nel
suo ruolo se non addirittura sparire. Infine ai fautori
della democrazia diretta, che evocano la Polis
greca, bisognerebbe ricordare che quella espressione della
guida politica delle comunità era quanto di meno democratico
possiamo immaginare con la mentalità di oggi. Ad Atene
nell’Agorà potevano partecipare tutti i cittadini per
definire le scelte di governo della Polis ma, in
realtà, quelle scelte erano appannaggio dei più ricchi, cioè
di coloro che si potevano assentare dalle attività
produttive senza che ne risentisse il loro reddito. Non
certo i contadini e gli operai i quali non recandosi al
lavoro avrebbero perso la paga.
Ai cittadini la
riforma è stata presentata al solito modo del M5S, come un
risparmio, come un taglio dei costi della “casta”. Che hanno
cercato di accreditare con l’esempio, con la restituzione di
parte delle indennità dei parlamentari (non tutti, come
abbiamo imparato) i quali compensano abbondantemente con
rimborsi spese. Anche di questo hanno parlato i giornali.
Appesi al filo
fragile di un consenso che di giorno in giorno diminuisce
Luigi Di Maio e compagni si gettano oggi sul referendum del
29 marzo nella speranza di recuperare qualche voto in vista
delle prossime scadenze elettorali. E ricattano anche gli
altri partiti che, di fronte al montare del discredito che
circonda la classe politica non hanno il coraggio di dire
che la riduzione del numero dei parlamentari è un vero e
proprio furto di democrazia perché risulteranno
ridotti gli spazzi della rappresentanza popolare,
soprattutto delle minoranze territoriali e linguistiche.
Ciò, in particolare, per effetto del naturale ampliamento
dei collegi elettorali (in relazione al minor numero di
parlamentari da eleggere) che allontanerà ancora di più gli
elettori che non saranno messi in condizione di scegliere il
proprio rappresentante, conoscendone la personalità e le
idee rispetto alle necessità del territorio.
Anche
l’affermazione che i parlamentari sarebbero troppi è una
balla solenne. Deputati e senatori in Italia sono meno che
in altri paesi. Abbiamo, ad esempio, di recente seguito le
elezioni nel Regno Unito. Lì la Camera dei Comuni è formata
da 650 deputati, 20 più che in Italia. E quel Paese è senza
dubbio un esempio di democrazia e di efficienza del sistema
elettorale: elezioni il 12 dicembre, risultati noti il 13,
in mattinata la Regina ha incaricato il leader del partito
di maggioranza di formare il nuovo governo.
In ogni caso
pensare che si possa decidere sulla formazione di un organo
di rappresentanza popolare solamente tenendo presente il
numero dei componenti di un’assemblea legislativa significa
non capire che la democrazia ha naturalmente dei costi, che
vanno certamente contenuti ma sempre nell’ottica del buon
funzionamento dell’istituzione. Questo deve preoccupare i
cittadini ed i politici, non il costo se l’apparato è messo
nelle condizioni di svolgere al meglio le proprie
attribuzioni.
Ma altre sono le
argomentazioni da portare al tavolo della discussione, sui
mezzi d’informazione e sulle piazze, quanto al
taglio dei parlamentari, pensando agli effetti della riforma
sulla nostra Costituzione.
Su Facebook, che accoglie le opinioni di
quanti propendono per il SI e di coloro che si oppongono
alla riforma – che, pertanto, voteranno NO – desidero
segnalare l’intervento della Professoressa Marina Calamo
Specchia, ordinario di Diritto costituzionale comparato
nell’Università di Bari, quindi con esperienza degli
ordinamenti stranieri, la quale, alla domanda se ne
risulterebbe stravolta la Costituzione, ha risposto:
“Assolutamente sì. Completato dall’iter di riforme
costituzionali in atto. Questa volta si vuole stravolgere la
Costituzione repubblicana con astuzia, spacchettando i
singoli interventi, dando l’idea che siano indipendenti. In
realtà c’è un filo che li lega tutti. Sul piatto delle
riforme costituzionali c’è: 1) la riduzione del numero dei
parlamentari, che produrrà l’effetto di
sotto-rappresentazione di intere aree del paese, in
particolare delle aree marginali che non vedranno più
rappresentati i propri interessi; e questo si pone in
collegamento diretto con la riforma delle autonomie, che i
partiti avranno più facilità di realizzare venendo meno la
funzione di opposizione della rappresentanza delle aree più
deboli; 2) l’autonomia differenziata, che così come
congegnata renderà una parte del Paese definitivamente
dipendente e lasciato al suo destino di sottosviluppo
economico e infrastrutturale e che sarà amplificata dal
taglio della rappresentanza; 3) la riforma del sistema
elettorale che se non fungerà da contrappeso - attraverso la
formula proporzionale puro - taglierà fuori dalla
rappresentanza le forze politiche minoritarie; 4) la riforma
sull’elezione diretta del capo dello stato avanzata dalle
destre; 5) l’introduzione del cd. referendum legislativo
approvativo, che confinerà il Parlamento nel ruolo di camera
di registrazione di decreti-legge e di disegni di legge in
modo molto ma molto più accentuato di quanto accada oggi e
concentrando il centro della decisione politica nelle mani
di due o tre leader di partito. Una riforma totale passando
per riforme parziali....”.
Non c’è dubbio che la Professoressa
Calamo Specchia abbia centrato il punto sottolineando le
conseguenze che deriveranno dal taglio dei parlamentari, a
cominciare da quella riduzione degli spazi riservati alle
minoranze che in democrazia devono essere oggetto di
particolare cura perché il diritto della maggioranza di
governare sia bilanciato dal controllo delle minoranze le
quali possono far valere le proprie idee e sperare di
divenire, a loro volta, maggioranza.
Questo è il quadro di riferimento, questo
occorre far capire agli italiani che il 29 marzo andranno a
depositare nell’urna il proprio voto, soprattutto al Sud e
dovunque la narrazione anticasta ha particolare presa,
alimentata dal disagio economico che produce invidia
sociale, e non dà spazio alle argomentazioni razionali,
basate su una corretta informazione critica essenziale in
democrazia.
Al Referendum Costituzionale, dunque, occorre votare contro
la distruzione del sistema parlamentare, al di là del fatto
che il risparmio, assolutamente irrisorio, avrebbe gli
effetti negativi innanzi indicati sul rapporto
con gli elettori, senza
trascurare, inoltre, che i lavori delle assemblee
legislative sono molto impegnativi, riguardano un numero
enorme di materie, e richiedono la presenza dei deputati e
dei senatori in aula e nelle Commissioni laddove si svolge
la parte più significativa, sotto il profilo degli
approfondimenti, dei lavori parlamentari.
9 febbraio 2020
Maleducazione istituzionale
di Domenico Giglio
Che ovunque
assistiamo alla decadenza, se non addirittura all’assenza di
buone maniere, anche ai livelli più alti delle istituzioni
nazionali ed internazionali è cosa nota, ma c’è sempre chi
batte i precedenti record come nel caso di Nancy Pelosi,
Presidente della Camera dei Rappresentanti degli USA, che ha
volutamente e volgarmente stracciato il testo del discorso
annuale sullo “Stato dell’Unione” che il Presidente Trump
aveva appena pronunciato, in modo che tutti potessero vedere
il suo gesto.
Spiace dover
notare questa scortesia, che non ha precedenti, da parte di
una persona, che dal cognome, denota le sue origini
italiane, in quanto ha offeso il Capo dello Stato e con lui
le decine di milioni di elettori statunitensi, che lo hanno
portato democraticamente alla presidenza. Forse le pesava lo
smacco avuto nella respinsione da parte del Senato, della
messa in stato d’accusa (impeachment)
del presidente, da lei fortemente voluta, nel mentre il suo
partito, il democratico, faceva una ridicola figura nei
caucus dello Jowa. Così facendo si semina, o meglio si
coltiva, perché la semina era già avvenuta nel 2016, in
occasione delle ultime elezioni presidenziali, l’odio
politico nei confronti dell’avversario, che si dovrebbe
combattere con le armi dei programmi di governo e di
soluzione dei problemi, mentre si preferisce la diffamazione
ed il dileggio, il che porta dall’altra parte a rendere “pan
per focaccia”, abbassando il dibattito politico a livello di
rissa da angiporto.
7 febbraio 2020
Notarella minuscola
Maleducatissima.
Ma va anche detto, per senso di giustizia, che quando la
Presidente della Camera ha cercato di dare la mano a Trump,
il Presidente si è girato volgendole le spalle. La Pelosi è
pur sempre una Signora.
Salvatore Sfrecola
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv.
Pietrangelo Jaricci
Giustizia
costituzionale
La Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non
esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli
artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme
in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del
proposito di suicidio, autonomamente e liberamente
formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di
sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile,
fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che essa reputa
intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni
libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le
modalità di esecuzione siano state verificate da una
struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo
parere del comitato etico territorialmente competente (Corte
cost., 22 novembre 2019, n. 242).
La casta è rimasta
È il recente volume
(Milano, 2019) di Marcello Altamura che individua, con
inchiesta scrupolosa e impietosa, privilegi, lucri, sprechi
della politica di oggi.
Nella premessa del
libro l’autore ricorda che “nel Gattopardo di Tomasi
di Lampedusa si trova una verità italiana che resiste ai
secoli: tutto cambia perché nulla cambi. Ossia: se tutto
cambia esteriormente, tutto rimane com’é. E così accade
anche nella politica italiana, dove il vento del cambiamento
resta (per ora) apparente. Dal 2007, anno in cui i privilegi
della casta politica vennero messi a nudo da La casta
di Stella e Rizzo, un libro che ha inciso non solo sul
mercato editoriale ma anche sulla stessa politica italiana,
quanto sono cambiate le cose? Pochissimo o nulla: anzi, per
certi versi, sono addirittura peggiorate”.
“Perché la politica,
in Italia, è soprattutto un colossale affare economico. Oggi
come dodici anni fa. Anzi, negli ultimi dieci anni i costi
non sono stati affatto abbattuti, al massimo limitati. Spese
enormi che includono anche voci decisamente superflue… Costi
altissimi e perlopiù ingiustificati. Costi che sono i
cittadini a pagare e che sono considerati quasi
indispensabili da chi ne usufruisce”.
“La casta dunque,
anche se moderna, è rimasta... Sono i privilegi la
continuità tra la casta di ieri e quella di oggi”.
Di Maio visto da
Susanna Turco
Di Maio, scrive
Susanna Turco (“Giggino va in trincea”,
L’Espresso, n. 3/2020, 30 ss.), genera altro Di Maio.
“Cambia giusto il vestito. I risultati si vedono. Pur
eccellendo come un camaleonte nella capacità di cambiare
forma a seconda del ruolo su cui si posa, infatti, l’ex
ministro del Lavoro e del Mise (non ha saputo chiudere un
tavolo, per tacere dell’Ilva), pur provando in ogni modo a
vestire i panni del ministro degli Esteri resta infatti il
ragazzo che faceva lo stewart allo Stadio San Paolo.
Zero esperienza internazionale. Zero formazione accademica.
Zero inglese – o comunque molto poco. E bisogna
immaginarselo, quando, ad esempio, a novembre il giovane Di
Maio ha incontrato il russo Sergej Lavrov, uno che fra le
altre cose fa il ministro degli Esteri di Putin da oltre tre
lustri… E del resto, per condurre i micidiali bilaterali,
gli speed date della diplomazia, ci vuole finissima
arte politica. Non post sul blog. Non dagli
alla casta. Non la piattaforma Rousseau. Tocca sbattere il
naso contro la realtà: in quei posti dove la retorica
finto-giovanilista di Giggino non l’applaude nessuno”.
“E questo, in fondo,
Di Maio lo sa. Tanto è vero che lui il ministro degli Esteri
non voleva farlo (voleva essere premier, vicepremier,
o magari ministro del Sud, ricordano le sciagurate cronache
di quei giorni). Tanto è vero che la sua principale qualità
sta appunto in questo: aver capito quali vasti territori non
possa nemmeno lambire. E, di conseguenza, non azzardarcisi
nemmeno: lasciar fare, piuttosto. Preferibilmente non
esserci. Stare altrove. Fino al necessario presenzialismo di
questi giorni, in effetti, il dato che saltava più
all’occhio era l’assenza di Di Maio: dai vertici mondiali,
all’inizio, dalla Farnesina anche dopo”.
Processo a Salvini?
Maurizio Belpietro in
un articolo apparso su La Verità del 22 gennaio 2020
precisa che “il capo della Lega quando decise di tenere più
di un centinaio di profughi a bordo della nave della Guardia
costiera lo fece coram populo senza nascondersi
all’opinione pubblica. Del resto, vi sono dichiarazioni di
vari esponenti dell’allora maggioranza gialloblu che
testimoniano di quanto fosse nota la faccenda e per
rendersene conto è sufficiente sfogliare le pagine dei
giornali… Nel corso di una recente trasmissione radiofonica
in onda sul servizio pubblico, il Presidente della Giunta
per le autorizzazioni a procedere ha dato pubblicamente del
bugiardo al Presidente del Consiglio, smentendo la
ricostruzione fatta da quest’ultimo sulla vicenda di cui
trattasi… e di essere comunque pronto a sfidare
pubblicamente il capo del Governo”.
Le solite Sardine
Le Sardine in piazza
a Bibbiano. Bene arrivate.
Restano o ripartono? Meglio se
restano.
4 febbraio 2020
In margine ad un intervento del Cardinale Parolin
Cittadinanza e integrazione: l’equivoco
dello ius culturae
di
Salvatore Sfrecola
“La cittadinanza è la parola chiave per favorire il processo
di integrazione di coloro che sbarcano sulle nostre coste ed
evitare fenomeni di ghettizzazione”. Lo ha detto il
Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua
Santità, intervenendo alla presentazione dei volumi de La
Civiltà Cattolica “Essere mediterranei e fratellanza”.
Ad una lettura “benevola” la frase si può prestare ad una
duplice interpretazione. La cittadinanza come presupposto
dell’integrazione, la cittadinanza come effetto
dell’integrazione, come avveniva nell’antica Roma dove
ottenere la cittadinanza, dirsi civis romanus sum,
era una conquista, un obiettivo raggiungibile sempre che
fosse nell’interesse della res pubblica della quale
il candidato doveva condividere i valori essenziali ai quali
essere fedele. In sostanza qualunque straniero poteva
diventare cittadino ma doveva dimostrare di esserne degno. È
così che dal Campidoglio hanno governato re ed imperatori
provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto. Avevano ben
meritato. Per i militari la cittadinanza si otteneva dopo 25
anni di onorato servizio. E quando la richiesta di
cittadinanza avesse riguardato gruppi di stranieri la
concessione doveva fondarsi sul consenso dei cittadini
romani. Rispetto delle leggi, dunque, e condivisione della
romanità. E comunque chi si fosse dimostrato indegno veniva
accompagnato senza tanti complimenti ai confini, come nel
187 A.C. quando venero rimandati a casa 12 mila latini “dal
momento che una moltitudine di stranieri era diventata un
peso insopportabile per Roma”, scrive Tito Livio.
Ho detto, a proposito delle parole del Cardinale Parolin, di
una lettura benevola, considerato il ruolo dell’Autore. In
realtà, così come formulata, l’espressione sembra indicare
un ruolo della cittadinanza propedeutico al processo di
integrazione. Il tema, da tempo centrale nel dibattito
politico sull’immigrazione, torna di grande attualità a
seguito dell’evidente rafforzamento del governo giallo-rosso
e, al suo interno, del Partito Democratico che non
passa giorno senza che richiami la battaglia sull’estensione
della cittadinanza agli immigrati, presentata in forma di
ius culturae, come si sente dire, quale riconoscimento
di un sorta di conoscenza dell’italianità derivante dalla
frequenza di un percorso scolastico in una scuola italiana.
Il tutto con gran cassa della stampa e delle televisioni.
Sarebbe “integrato” e, pertanto, meritevole della
cittadinanza italiana chi avesse, ad esempio, frequentato le
scuole elementari. Lontano, dunque, dall’esperienza romana,
dal riconoscimento di una utilitas per i cittadini
italiani che dovrebbero accogliere gli stranieri, come del
resto hanno fatto e fanno alcuni paesi europei. In Germania,
infatti, abituati a considerare la patria sopra ogni cosa (uber
alles), hanno costantemente cercato di scegliere i
migranti da accogliere, come nel caso dei siriani, cristiani
e mediamente acculturati anche professionalmente. Quindi
facilmente integrabili
Integrazione è parola che esprime un concetto complesso. Il
Dizionario Treccani la definisce “assimilazione di un
individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un
ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità
etnica, in una società costituita (contrapposto a
segregazione)”. Assimilazione, cioè il “fatto di farsi
simili” evidentemente agli italiani. È sufficiente per
l’integrazione un ciclo elementari di studi? Ora non è
dubbio, al di là delle espressioni usate dai siti che
illustrano il contenuto degli insegnamenti ed il metodo
didattico, che non si esce dalla quinta elementare con un
sentimento di condivisione della italianità in un Paese nel
quale da anni, neppure in famiglia, s’insegna il minimo
della nostra storia, fondamentale per la formazione del
cittadino, tanto che in quell’ambito didattico è inserita
l’educazione civica. Nei programmi si parla pomposamente di
riferimento alle fonti, di elaborazione di “informazioni tratte da fonti differenti,
per ricostruire fenomeno storici”, di “confrontare le
caratteristiche delle diverse società, anche rapportandole
al presente”. L’alunno “comprende aspetti fondamentali del
passato dell’Italia dal paleolitico alla fine dell’impero
romano d’occidente, con possibilità di apertura e di
confronto con la contemporaneità”.
Tutto questo è sufficiente per favorire l’integrazione di
uno straniero, che ha una propria cultura atavica, spesso
elementare ma fortemente percepita come guida dei rapporti
con la società cui appartiene e con gli altri soggetti che
ne fanno parte, una cultura trasmessa dalla famiglia e dal
clan e vissuta nell’esperienza quotidiana? Un giudice
italiano, con decisione che ha riscosso grandi consensi di
persone e di organizzazioni sociali favorevoli
all’accoglienza indiscriminata per motivi umanitari, ha
perdonato lo stupratore sostenendo che nella sua “cultura”
quel comportamento, che a noi fa orrore, non è vietato. Se
avesse fatto le elementari sarebbe comunque da considerare
integrato e meritevole della cittadinanza? Avrebbe, nel
frattempo, maturato la convinzione che la sua “cultura” di
origine è diversa dalla nostra, che lo stupro non è
solamente un reato ma un’ignobile prevaricazione di una
persona che ha la nostra stessa dignità? Ricordo che in una
scuola media italiana, quindi ad un maggiore livello di
istruzione, le ragazze di fede islamica si sono rifiutate di
alzarsi in piedi per un minuto di silenzio in ricordo delle
vittime del Bataclan, giovani di poco più grandi, perite in
un attentato terroristico, non un atto che potrebbe essere
controverso. Secondo il PD meriterebbero la
cittadinanza.
L’accoglienza, dunque, per motivi umanitari va tenuta
distinta dalla integrazione/assimilazione all’esito della
quale è consentita la concessione della cittadinanza, sempre
che risulti verificato l’interesse della comunità nazionale
ad acquisire quel determinato soggetto. La cittadinanza,
dunque, con tutto il rispetto dovuto al Segretario di Stato
di Sua Santità, non è la premessa dell’integrazione ma ne è
la conseguenza. D’altra parte sembra evidente che non basta
frequentare una scuola negli Stati Uniti d’America, neppure
una delle più prestigiose università, per “sentirsi”
americani, per essere integrati in quella complessa società
nella quale convivono etnie diverse dove peraltro si sentono
tutti americani, statunitensi, come dimostra l’impegno dei
giovani sui fronti di guerra e l’ossequio che riservano alla
bandiera a stelle e strisce, ovunque, anche fuori delle
abitazioni private.
L’integrazione vera è anche favorita dall’ambiente, dalla
società nella quale ci si intende integrare. Quale esempio
possiamo dare noi italiani agli integrandi se non ricordiamo
neanche i rudimenti della nostra storia unitaria dell’epopea
risorgimentale nel corso della quale i migliori cervelli dal
Nord al Sud si sono impegnati col pensiero e l’azione per
favorire l’unità? Se le bandiere nazionali esposte al di
fuori delle scuole, dove si formano i cittadini e dove gli
stranieri dovrebbero assorbire la nostra “cultura” per
sentirsi integrati, sono spesso degli stracci dai colori
irriconoscibili? Ovunque, fino alle bandiere esposte dalla
Scuola Nazionale di Amministrazione lungotevere
Maresciallo Diaz, assolutamente improponibile. E pensare che
è una struttura della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
cioè del governo della Repubblica italiana.
È logico, dunque, che il coraggioso bambino egiziano che ha
salvato i compagni presi ostaggio in un pulmino da un
aspirante suicida, al quale abbiamo riconosciuto per il suo
eroismo la cittadinanza, si faccia fotografare avvolto nella
bandiera egiziana e probabilmente inneggi al grande Faraone
Ramses II, orgoglio della sua nazione, dal momento che i
suoi compagni non gli hanno detto, perché i più non lo
sanno, che per gli italiani il Padre della Patria è Vittorio
Emanuele II, il Re che rese possibile la convergenza delle
più diverse idealità nel moto unitario del Risorgimento, e
del quale ricorre quest’anno il 200mo anniversario della
nascita (14 marzo 1820).
3 febbraio 2020
Circolo di Cultura e di Educazione Politica
Rex
“Il più antico circolo culturale della Capitale”
72º ciclo di conferenze 2019-2020
2 febbraio, ore 11
Il Circolo REX è lieto ed
onorato di presentare,
primo in Roma,
un libro di estremo
interesse
“La solitudine del Re”
che raccoglie parte della corrispondenza
intercorsa nei lunghi anni dell’esilio di Umberto II, tra il
Re ed il suo fedele Ministro Falcone Lucifero. Un evento
eccezionale perché nella storiografia non vi era mai stata
una pubblicazione del genere. E questo è merito del nipote
del Ministro della Real Casa, il marchese avvocato Alfredo
Lucifero, al quale lo Zio aveva lasciato sia il suo diario,
sia questo carteggio.
Ad illustrarne la storia sarà lo stesso
Nipote , dopo una presentazione del professore Emanuele, ed
una analisi storica del professore Perfetti, e della
curatrice del volume Lia Bronzi.
Con l’occasione sarà presentato anche un
libro di poesie di Alfredo Lucifero da parte del critico
Carlo Motta.
Essere presenti significa onorare e
rinverdire la memoria del nostro amato RE e rendere omaggio
alla persona che Gli fu più vicina negli amari anni
dell’ingiusto esilio .
Sala Roma, presso “Associazione
Piemontesi a Roma”
Via Aldrovandi 16
(ingresso con le scale) o 16 B (ingresso con ascensore)
raggiungibile con le
linee tranviarie 3 e19 ed autobus 910, 223, 52 e 53
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del
Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia civile
In caso di accertamento della
responsabilità medico-chirurgica, attesa
l’innegabilità e l’indispensabilità delle conoscenze
tecniche specialistiche necessarie non solo alla
comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la
consulenza tecnica presenta carattere “percipiente”, sicché
il giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di
valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i
fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in
relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova
(Cass., Sez III civ., 15 novembre 2017, n. 26969, a cura di
Mario Piselli, in Guida dir., n. 12/2018, 62).
Andare oltre per cambiare
Da più parti si sostiene la necessità di “andare oltre per
cambiare e per vivere un cambiamento di epoca, non per
restare sé stessi.
Un atteggiamento inconsueto nella storia italiana, dove le
alleanze tra partiti e culture diverse sono state formate
per conservare, non per cambiare. Con una grande eccezione:
l’incontro tra democristiani e comunisti negli anni
settanta, nella versione di Aldo Moro, ben più che nel
compromesso storico immaginato da Enrico Berlinguer, avrebbe
lasciato alla fine del processo due partiti profondamente
cambiati. Forse per questo motivo non si è mai compiuto…
Nelle altre operazioni, a cominciare da quella da cui prese
l’avvio il Pd, si è cambiato per non morire, cambiare per la
necessità di farlo e non per una spinta di libertà, cambiare
per conservare: una pura occupazione di spazio. La manovra
dell’agosto 2019, l’abbraccio tra il Pd e M5S e la nascita
del governo Conte due, non è sfuggita a questa regola. Anzi,
la stessa personalità del presidente del Consiglio
suggerisce continuità, trasformismo, gattopardismo. Anche se
ora, per il segretario del Pd Nicola Zingaretti, è diventato
un punto di riferimento per tutti i progressisti...
Per la politica italiana, andare
oltre è una rigenerazione di quelle radici che non possono
essere tranciate, significa rischiare qualcosa di sé stessi
per far nascere qualcosa di nuovo. Nei prossimi mesi non ci
saranno più Pd e M5S così come li conosciamo. Il Movimento
fondato da Grillo e Casaleggio, e affondato da Di Maio, deve
riscrivere totalmente la sua presenza nel Palazzo e nella
società. Il Pd di Zingaretti uscirà trasformato
dall’incontro con quella che potrebbe essere l’unica
vittoria della sua storia, la difesa del fronte
emiliano-romagnolo”. (Marco Damilano, ”Cambiamento d’epoca”,
L’espresso, 29 dicembre 2019).
Pillole di storia antica
È una raccolta di aneddoti di tutto il mondo antico, curata
da Costantino Andrea De Luca (Roma, 2019).
Uno dei più gustosi è il seguente. Il 3 gennaio del 106 a.C.
nacque nel Comune di Arpino, nel Lazio, Marco Tullio
Cicerone. Suo padre apparteneva all’ordine equestre, ed era
quindi di rango inferiore rispetto alla grande maggioranza
dell’aristocrazia romana. Cicerone veniva quindi preso in
giro spesso dai colleghi per le sue “origini umili”.
Plutarco racconta che durante un’accesa discussione,
probabilmente a un processo, Metello Nepote, discendente da
una delle famiglie più nobili della città, soleva chiedere
all’Arpinate chi fosse suo padre. La domanda era volutamente
provocatoria, poiché sottolineava le origini inferiori del
suo interlocutore. Cicerone lasciò parlare Metello per un
po', poi gli rispose: “A te non posso fare la stessa
domanda, caro Metello, perché tua madre ha reso la risposta
alquanto difficile” (n. 207, 201 s.).
Era
infatti risaputo che la madre di Metello fosse una donna
molto dissoluta.
Sanremo
“Non vedo mai Sanremo.
Amnesty International dovrebbe
annoverarlo tra le torture”.
(Vittorio Sgarbi, “Diario della capra
2019/20”, Milano, 2019).
Un valente scrittore
ci ha lasciato
Il
12 gennaio è deceduto Giampaolo Pansa, suscitando unanime
rimpianto.
Scrittore colto, prolifico, autore di numerose opere di
successo, alla costante ricerca, nei suoi lavori, della
verità storica.
Bibbiano
Sia
fatta integrale giustizia. Senza sconti.
28 gennaio 2020
I
veri professionisti della politica
di Domenico Giglio
Se avevamo
definito i “Cinque Stelle”, dilettanti allo sbaraglio,
dobbiamo dare atto che l’attuale segretario del PD, nonché
presidente della Regione Lazio, Zingaretti, da vero
professionista della politica, ha saputo trasformare in
vittoria quella che in realtà è stata una mezza sconfitta.
Per oltre un quarto d’ora, domenica sera, ai primi risultati
delle elezioni regionali, a reti televisive unificate (Porta
a Porta, TG7,Sky,RaiNews,TG5), nemmeno fosse il messaggio di
Capodanno del Capo dello Stato, ha imperversato senza
interruzione sul significato storico della vittoria in
Emilia Romagna (poi vedremo come non sia stato così in tutte
le province), che è stata solo il mantenimento di quanto la
sinistra già aveva fin dalla nascita, mai troppo deprecata,
dell’Ente Regione, e snobbando (speriamo non si offendano i
calabresi) la disfatta storica del centrosinistra in
Calabria, che passava trionfalmente al centrodestra (55,71%
contro 30,26, cioè più del 25% !) dove il PD aveva fatto
ricorso ad un industriale indipendente, non avendo nemmeno
la faccia di presentare un candidato presidente iscritto al
Partito.
Questo
atteggiamento del segretario ex comunista, oggi
“democratico”, riprendendo una tradizione comunista di
trasformare in ”democratiche” tutte le associazioni
fiancheggiatrici è la prova di una scuola che preparava
funzionari e dirigenti del vecchio partito, e insegnava a
come utilizzare degli slogan di facile effetto, come è stato
in tutta la campagna elettorale parlare degli avversari,
come fomentatori d’odio.
Ma è possibile
che noi italiani abbiamo la memoria così corta! Dal 1945 in
poi se vi sono stati dei seminatori d’odio istituzionale,
politico, sociale questi non sono stati certo gli esponenti
del centrodestra di allora, ma gli esponenti delle varie
sinistre, sempre di matrice comunista. Tornando ai
“sovrumani silenzi”, zingarettiani e non leopardiani non
solo sui risultati della Calabria, anche per quanto riguarda
l’Emilia è opportuno sottolineare che ben 4 province, non
certo secondarie, hanno dato la maggioranza netta dei voti
alla non brillante candidata del centro destra, Piacenza con
il 59,60% contro il 36,8 % (più 22,8), Ferrara con 54,80
contro 40,70 (più 14,1), Parma con 49,6 contro 45,6 (più
4,00 - ritorna il Ducato di Parma e Piacenza ?!) ed infine
anche Rimini (forse in omaggio a Fellini?) con un ridotto
47,50 contro 46,40. Dei grillini e dei loro candidati non
parliamo perché non siamo dei Maramaldi.
27 gennaio 2020
Di Maio e il “fuoco amico”
di Salvatore Sfrecola
Si è dimesso
Luigi Di Maio, da Capo politico del Movimento 5 Stelle, con
un discorso, preparato da un mese, come ha tenuto a
precisare, fatto di recriminazioni, di denunce nei confronti
di chi all’interno del Movimento lo avrebbe sabotato.
Insomma, tutta colpa del “fuoco amico”, senza riconoscere
nessun errore alla sua azione politica, alle scelte che ha
portato avanti da quando, giovanissimo, ha assunto le
funzioni di Vice Presidente della Camera, gestendo il
delicato ruolo con indubbia compostezza ed equilibrio;
l’Assemblea di Montecitorio, un osservatorio straordinario
che avrebbe dovuto assicurargli quella conoscenza della
politica e della gestione del governo che non aveva potuto
fare in precedenza.
Invece non ha
imparato, non ha saputo trarre, dall’osservazione che quel
ruolo parlamentare gli assicurava, quella maturazione che
l’esperienza porta con se, sempre se hai il desiderio e
l’umiltà di imparare. E così, giunto al governo non solo ha
voluto il ruolo di Vice Presidente del Consiglio, che gli
spettava in quanto leader di una delle due componenti
dell’Esecutivo, ma ha preteso e ottenuto due ministeri di
grande importanza e di straordinario impegno, il lavoro e le
attività produttive, ciascuno dei quali, nelle attuali
condizioni di carenza di lavoro e di crisi aziendali di
grandi proporzioni e di rilevante impatto sull’economia non
solo del territorio, farebbero tremare le vene ai polsi di
politici di maggiore anzianità di servizio. Non Luigi Di
Maio che non conosce limiti, che ritiene basti avere qualche
opinione, anche solo generica, per ottenere ed imporre alla
struttura amministrativa di realizzare gli obiettivi.
Trascurando che sono obiettivi politici, spesso interferenti
nella competenza di altri ministeri. Si pensi all’ILVA che
riguarda una gestione la quale fornisce acciaio ad una vasta
gamma di attività ricadenti nelle possibilità operative di
altro comparto della Pubblica Amministrazione, ad esempio
delle infrastrutture perché, di fronte ad una crisi della
richiesta di acciaio, lo Stato avrebbe potuto rispondere con
un grande piano di opere infrastrutturali in un Paese
gravemente carente, in particolare di ferrovie, al Sud e
nelle isole, ferrovie necessarie per sviluppare le
rispettive economie.
Preso dalla sua
volontà di fare, incurante degli effetti di alcune misure,
alimentate solo da demagogia e da quella invidia sociale che
muove da sempre il popolo minuto giustamente indignato dalle
gravi trascuratezze della politica, ha preteso misure di
contenimento delle pensioni alterando principi fondamentali
di giustizia, che impone sia mantenuta la promessa fatta a
chi, in costanza di servizio, ha versato i contributi
previsti, e della gestione finanziaria dello Stato che
riserva al fisco la ricerca delle risorse necessarie per
finalità di giustizia nell’ambito di una società composita.
In questa bulimia
del potere Di Maio non ha studiato e immaginato le reazioni
che quelle misura avrebbero provocato ed ha continuato
affidando a parole ed a slogan rappresentativi del nulla la
ricerca del successo, senza preoccuparsi delle plurime
sconfitte elettorali e del forte malcontento che questo ha
provocato tra deputati e senatori. Questi, in costanza della
regola del divieto di un nuovo mandato dopo il secondo,
preoccupati dal calo dei consensi e dagli effetti della
riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei
parlamentari, hanno visto sempre più difficile continuare
una esperienza politica ricca di attrattive per persone
mediamente di scarsa professionalità, molte delle quali
senza alcune esperienza lavorativa. Questi, più di lui
attenti agli umori dei territori, hanno presto manifestato
dissenso rispetto ad una gestione verticistica del potere ed
a politiche pubbliche capaci di scontentare i più.
Ma Di Maio non ha
percepito questo disagio, l’insufficienza della proposta
politica, la inadeguatezza dei risultati anche rispetto a
misure di qualche interesse, sia pure assistenziale, come il
“reddito di cittadinanza”. Gravissimo limite per un Capo che
deve avere il polso della situazione anche nelle sue
prospettive. E così, di fronte al crollo dei consensi e
nella ragionevole ipotesi di ulteriori sconfitte in
Emilia-Romagna ed in Calabria, che il Partito Democratico
attribuirà alla conduzione della campagna dell’alleato che
gli ha fatto mancare voti presentando una lista ed un
proprio candidato presidente. Un tempo sarebbe stata
definita una lista di disturbo.
Se ne va, dunque,
Luigi Di Maio e si toglie la cravatta in un finale gesto di
sfida ai suoi ed a quanti avevano apprezzato il look
“ministeriale” che fin dall’inizio lo aveva caratterizzato.
Non è servito, sembra dire in questo finale gesto di
ribellione, quasi a mostrare il petto al “fuoco amico”. Che
se c’è stato lo ha provocato lui stesso con i suoi tanti
errori, frutto di ignoranza e di arroganza, che, infatti,
non riconosce. È il limite dell’uomo. La sua modesta
dimensione politica.
23 gennaio 2020
Autogol grillino
di Domenico Giglio
Sentendo parlare
delle dimissioni di un importante leader ho pensato a
Zingaretti, che tra Segretario PD e Presidente della Regione
Lazio avesse scelto una delle due cariche dimettendosi
dall’altra, cosa quanto mai logica ed opportuna. Mi
sbagliavo. Si trattava invece del pentastellato Di Maio,
l’elegante e raffinato capo politico del grillini, chiamato
tempo or sono a tale carica da ben 30.000 di loro.
Perché lo
definisco autogol? Perché avvicinandosi a delle importanti
elezioni regionali questa notizia non può che creare
ulteriori difficoltà all’elettore grillino, già
disorientato, che in fondo vedeva in Di Maio un esponente di
prestigio (Ministro degli Esteri!) ed ora rimane scioccato
in attesa di un nuovo capo assai meno conosciuto.
Nel calcio si
diceva “squadra vincente non si tocca”, e certo oggi come
oggi il Movimento
Cinque Stelle non era certo vincente, ma aveva con Di
Maio una certa visibilità. Ci si domanda: perché tanta
fretta. Aspettare il 26 gennaio cosa comprometteva? Forse si
è voluto evitare che il peso di una sconfitta ricadesse su
Di Maio. Anche dopo queste dimissioni ricadrà egualmente su
di lui e forse la sconfitta (che non ci farà certo piangere)
sarà ancora maggiore, ma cosa si può aspettare da un
movimento che mi ricorda “Dilettanti allo sbaraglio”.
22 gennaio 2020
Il taccuino del Direttore (22 gennaio 2020)
Dissoluzione del M5S tra arroganza e ignoranza della
storia nella personale esperienza di Luigi Di Maio
Già dal
pomeriggio di ieri correva voce che Luigi di Maio, capo
politico del Movimento Cinque Stelle e Ministro degli affari
esteri, avrebbe lasciato la carica politica mantenendo
tuttavia la direzione del dicastero che oggi appare tra i
più impegnativi in relazione alla crisi politica che
interessa vaste aree, tra le sponde del Mediterraneo,
davanti alle coste italiane, e lo scacchiere medio
orientale. I giornali di oggi commentano la probabile scelta
del leader del M5S e, insieme, si dilungano sullo stato di salute del movimento
che, dopo il boom del 2018, perde progressivamente consensi
e parlamentari, quasi quotidianamente.
Sarà certamente
effetto del desiderio di alcuni, che hanno provato l’impegno
politico in Parlamento, di essere confermati in una
condizione di obiettiva difficoltà dovuta al limite dei due
mandati in uno al ricordato calo dei consensi e alla
contemporanea decisione di ridurre il numero di deputati e
senatori, condizioni che limitano necessariamente le
aspettative di molti. Ma non è da trascurare, anzi è
probabile che in queste considerazioni si annidi la realtà
dei fatti, che il Movimento abbia esaurito la propria spinta
“rivoluzionaria”, la capacità di attirare consensi per
essersi presentato come “anticasta”, portatore di un vento
di rinnovamento nei confronti della classe politica che
aveva dimostrato tutta la sua inadeguatezza negli anni
precedenti. E qui va detto che la sicumera, l’arroganza che
ha contraddistinto nel tempo la propaganda politica, dalla
polemica nei confronti dei “competenti”, sicché “uno vale
uno”, anche se non sa usare i congiuntivi, e l’azione di
governo dei Grillini è dimostrazione dell’ignoranza della
storia la quale ci dice che i movimenti di protesta hanno
bisogno di assumere rapidamente un atteggiamento concreto,
costruttivo che si ispiri ad un ideale politico, ad una
filosofia, sia pure generica, che li consegni ad una ben
definita parte dello schieramento politico. Dire “non siamo
di destra né di sinistra”, ripetuto anche in questi giorni
nei quali la campagna elettorale per le elezioni regionali
rende surriscaldato il clima politico, è uno slogan che non
regge nel tempo. E se inizialmente aggrega, in quanto la
contestazione della classe politica facilmente accomuna
soggetti provenienti da posizioni ideali diverse, al momento
delle scelte di governo le indicazioni programmatiche non
possono essere del tutto asettiche rispetto alla filosofia
politica che contraddistingue ed identifica chi partecipa al
dibattito sui destini di una comunità politica.
Tuttavia la
carenza dimostrata dai Grillini non è soltanto ideale, è
anche culturale, storica, perché una minima analisi del
pregresso li avrebbe portati a considerare che, già
nell’immediato dopoguerra, un movimento politico di
protesta, quello dell’“Uomo
Qualunque”, guidato da un brillante commediografo,
Guglielmo Giannini, irrompendo nell’agone politico con
vivace determinazione, aveva contestato i partiti al governo
ma si era rapidamente disgregato dinanzi alla realtà delle
esigenze della governabilità. Sicché personaggi brillanti,
aggregati intorno al commediografo napoletano, in parte
lasciarono la politica, in parte aderirono ai partiti che
pure avevano duramente contrastato.
Ed in proposito,
uno storico raffinato, Lucio Villari, ricorda (Bella
e perduta, l’Italia del Risorgimento) come già
ai tempi dei moti del 1848 a Napoli si era andato
delineando, all’ombra del Borbone e dei suoi amici
“umanamente e politicamente vicini ai lazzaroni, alla plebe
e ai preti ignoranti (condividendo la loro volgarità, le
loro spesso ciniche battute di spirito, i razzi e le
buffonerie di un “napoletanismo” scherzoso ma
intellettualmente finto e disonesto) che non alla borghesia
in ascesa” un movimento politico che molto somiglia all’Uomo
Qualunque e al
Movimento Cinque
Stelle che “ritenevano non necessarie alla società le
persone istruite, tranne, dicevano, i medici per curare gli
ammalati e gli ingegneri per costruire le case”, con
l’effetto che rapidamente “il meglio della società
meridionale era sparito dall’orizzonte culturale del paese e
i superstiti sceglievano il silenzio e l’attesa”. Per la
verità molti si trasferirono in Piemonte attratti dalle
vivaci iniziative del governo sabaudo alimentato dalla
fantasia e dalla determinazione del conte di Cavour. “La
“mediocrità” amata dai Borbone – commenta Villari - non era
altro che la “mediocrità che regnerà sempre” scolpita nei
versi della Palinodia leopardiana… Nel regno persino una
struttura portante come forze armate risentiva della
diffidenza del re nei confronti di una possibile crescita
culturale dei militari. Scarsa cultura e nessun ideale del
di italianità dovevano illuminarli. Fu per questo che il
bene armato esercito borbonico, privo di supporti culturali
e di alte idealità, agì stupito fino al tradimento del 1860.
Un castello di carte che sarebbe crollato, tranne un estremo
guizzo di orgoglio, sotto l’impeto patriottico delle camice
rosse di Garibaldi”. Ma su questo torneremo ancora.
Se Conte si fa fotografare in seconda fila
Riflettevo
sull’immagine di Giuseppe Conte, il nostro Presidente del
consiglio dei ministri, relegato in seconda fila nella foto
di gruppo al termine della riunione sulla crisi libica. La
televisione ed i network lo hanno impietosamente ripreso
mentre scrutava il pavimento alla ricerca delle suo posto
che immaginava in prima fila, accanto ad Angela Merkel e ad
Emmanuel Macron. Invece il cerimoniale gli aveva riservato
un posto in seconda fila, al lato, obiettivamente del tutto
inadeguato al ruolo politico che nella vicenda libica
dovrebbe spettare all’Italia che sull’altra sponda del
Mediterraneo ha interessi economici antichi e, ancor più
antiche, relazioni culturali. È evidente che Conte sconta
errori della politica estera italiana non solo del suo
governo ma risalenti agli anni immediatamente successivi
alla conclusione dell’esperienza coloniale che i nostri
governi non hanno saputo gestire creando solidi, comuni
interessi economici assistiti da una consuetudine culturale
consolidata e resa evidente anche dalle testimonianze della
presenza romana, espressione altissima di civiltà, come
dimostrano, se non altro, i pozzi scavati del deserto per
sottrarre alla sabbia terre da coltivare a grano per le
esigenze dell’Impero.
Incertezze
politiche, modestia culturale, incapacità di assumere
iniziative coraggiose in politica e in economia pongono oggi
l’Italia ai margini del dibattito internazionale laddove si
decidono gli equilibri geopolitici e, in fin dei conti, le
sorti dell’economia dei singoli paesi. È veramente
deprimente la condizione politica che viviamo,
intollerabile, assolutamente, che non meritiamo.
Nel commentare su
Facebook la foto di Berlino Rinaldo Silvagni ha scritto
“fortuna per lui che le file erano solo 2”.
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia civile
La costruzione eseguita dal
comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai
sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune agli altri
comproprietari del suolo, salvo contrario accordo,
traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un
diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma
scritta ad substantiam. Il consenso alla costruzione
manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non
essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro
diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius
tollendi. Qualora quest’ultimo diritto non venga o non
possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono
tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in
proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese
sopportate per l’edificazione dell’opera (Cass., Sez. Un.
civ., 7 novembre 2017-16 febbraio 2018, n. 3873, in Guida
dir., n. 12/2018, 42 ss.).
Novità al Centro
“Forza Italia langue, ma Mara Carfagna
– con la neonata associazione Voce libera – sembra
intenzionata a costruire un’alternativa o una variante
rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo
poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora
governatore della Liguria, con la costituzione del movimento
Cambiamo. E un processo analogo, di distacco di ali
centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo
Renzi ha fondato Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha
creato Azione”.
“Il
consenso che le forze politiche di centro riescono a
catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri… La novità
è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono
diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia
e Cambiamo) e due a sinistra (Italia Viva e
Azione)”.
“Ma che cosa impedisce l’allargamento
del consenso ai partiti di centro?… Una ragione, ovviamente,
è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio
di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime
possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma
esiste anche una ragione più profonda, e come tale più
seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben
vedere, le quattro – cinque formazioni che si contendono
l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano
d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere
valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo
quando dal piano dei principi generali si scende a quello
delle proposte politiche specifiche” (Luca Ricolfi, “Giustizia
e tasse. Due idee spartiacque per il centro che verrà”, Il
Messaggero, 30 dicembre 2019).
Finalmente!
Pare che per la proprietà della Roma
calcio – pur se taluni particolari della cessione
sembrerebbero ancora da definire – dopo la fallimentare
gestione di Pallotta, personaggio ormai inviso alla
stragrande maggioranza dei tifosi giallorossi, siano in
arrivo uomini nuovi.
Dopo sette anni senza successi,
campagne acquisti e cessioni di assoluta e deplorevole
inconsistenza, l’allontanamento di due giocatori storici
molto amati dai tifosi quali Totti e De Rossi, la chimerica
attesa di un nuovo stadio, la proprietà della Roma passa,
per 790 milioni, nelle mani di un altro americano, Dan
Friedkin che, comunque vadano gli eventi, non farà
sicuramente rimpiangere Pallotta.
Ma anche l’intero direttivo necessita
di un accurato repulisti, che veda persone competenti e di
sicuro affidamento al timone societario.
Un libro da leggere (o da rileggere)
È l’interessante lavoro di Aldo
Cazzullo, “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della
Ricostruzione”, che, seppur edito da Mondadori nell’anno
2018, conserva ancora la sua integrale attualità.
Il volume inizia ricordando che “la
notte di Natale del 1948, accanto al presepio – l’albero non
si usava – la maggioranza dei bambini italiani trovò come
regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli…
Eppure eravamo più felici allora di adesso. Al mattino ci si
diceva: speriamo che oggi succeda qualcosa. Ora ci si dice:
speriamo che oggi non succeda nulla”.
“La Ricostruzione è uno dei grandi
momenti della storia d’Italia… L’Italia del 1948 era un
Paese a pezzi… Gli italiani avevano sofferto moltissimo…
Eppure un Paese così provato seppe rimettersi in moto con
una rapidità impressionante”.
“Anche oggi l’Italia è un Paese da
ricostruire… Abbiamo infinitamente più cose di allora… ma
siamo anche più depressi”.
“Molti giovani non hanno fiducia nel
loro Paese, e il loro Paese non ha fiducia in loro. L’Italia
investe troppo poco nelle cose per cui è importante: la
cultura, l’arte, la bellezza, lo spettacolo, la ricerca. Il
risultato è che migliaia di laureati, formati con il denaro
pubblico, vanno a esercitare il loro talento all’estero”.
“Si va facendo strada l’idea
pericolosissima per cui studiare non serve a nulla… E la
politica alimenta e collega i malcontenti, facendo promesse
impossibili”.
Ecco perché ci sentiamo di condividere
in pieno la frase riportata sul retro della copertina del
volume: “Anche oggi siamo un Paese da ricostruire. Vediamo
come abbiamo fatto l’altra volta”.
Lo stile narrativo è agile e
piacevolmente coinvolgente.
Si consiglia la lettura ai giovani e
ai meno giovani: ai primi perché abbiano adeguata conoscenza
di persone e fatti di un recente passato ed ai secondi
perché abbiano migliore consapevolezza di quanto attualmente
accade.
Un’ultima notazione. Alla pag. 149,
parlando di Giuseppe Dossetti, fondatore del gruppo meglio
conosciuto come “Comunità del Porcellino”, viene citata “una
senatrice bresciana”. Confortato dal parere di alcuni amici,
dovrebbe trattarsi dell’indimenticabile Prof. Laura
Bianchini, una delle 21 donne dell’Assemblea costituente e,
se così fosse, riteniamo che non meriti l’anonimato.
Rientrata, poi, nella scuola, dopo
l’esperienza politica, è stata impareggiabile docente di
storia e filosofia nel Liceo classico Virgilio di
Roma.
21 gennaio 2020
Zingaretti (non
Montalbano) uno, bino, trino
di Domenico Giglio
In una recentissima intervista lo
Zingaretti, politico, segretario nazionale del
Partito Democratico,
ha parlato di un nuovo partito o partito nuovo,
capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale,
impresa senza dubbio impegnativa in entrambi casi. Ma questo
Zingaretti non è anche il Presidente della Regione Lazio,
che comprende la capitale Roma, oltretutto la città più
popolosa e popolata d’Italia? E’ anche lo stesso che
colloquia su problemi del governo nazionale con il cinque
stelle (non quelle degli alberghi di lusso) Di Maio? Non è
anche quello che gira l’Italia per tutte le varie Regioni
dove si tengono elezioni, facendo anche pranzetti riservati
con il candidato della sinistra, dell’Emilia Romagna,
Bonacini, per non comprometterlo con il PD?
Insomma è uomo di multiforme ingegno
ed interessi e fra loro, compresa Regione Lazio, non c’è
contrasto di leggi o divieti di cumulo, ma rimane il fatto
incontrovertibile che governare una regione non richiede
molto tempo, se il titolare della presidenza può dedicarsi a
tutte queste altre attività. Questa duplicità è però strana
ed unica dal momento che tutti gli altri presidenti
regionali svolgono solamente il compito di governare la
propria regione e non ci sembra che abbiano tempo per altre
occupazioni. Meraviglia che gli esponenti del centrodestra
alla Regione Lazio, che oltre tutto rappresentano la
maggioranza degli elettori laziali, in quanto Zingaretti fu
eletto grazie ad una dispersione di voti del centrodestra,
provocati dalla lista di un personaggio che non volle
rinunciare a candidarsi praticamente da solo per una sterile
ambizione.
Chiedano perciò gli esponenti del
centrodestra laziale a Zingaretti di scegliere o Presidente
o Segretario e denuncino ai cittadini del Lazio questa
incredibile situazione per cui il suddetto debba
praticamente decidere, e non si fermino ai primi logici
dinieghi, ma sappiano insistere con quella costanza che la
sinistra saprebbe usare a parti invertite.
11 gennaio 2020
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv.
Pietrangelo Jaricci
Giustizia civile
Il giudicato implicito su una
questione pregiudiziale rispetto ad altra, di carattere
dipendente, su cui si sia formato giudicato esplicito
esterno, deve escludersi, allorché la prima abbia ad oggetto
un antecedente giuridico non necessitato in senso logico
dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le
stesse parti in relazione a ulteriori e distinte
controversie (Cass. civ., Sez. II, 9 novembre 2017, n.
26557, a cura di M. Finocchiaro, in Guida dir., n.
12/2018, 62).
Metodo sbrigativo per l’approvazione del bilancio.
Salvatore Sfrecola (“Escludere il
Parlamento sulla legge di bilancio è uno sfregio alla Carta”,
La Verità, 22 dicembre 2019) si è occupato, da
qualificato esperto e non da orecchiante, del bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020, di
recente approvato, col fiatone, dai due rami del Parlamento.
Trattasi, come è stato bene evidenziato, di “un impegno
inutile, perché quel documento è immodificabile. Non
giuridicamente, ma perché non vuole la maggioranza
giallo-rossa, paventando il ricorso all’esercizio
provvisorio”.
Operando in tal modo è stato assestato
un duro colpo alle prerogative parlamentari. Inoltre, “il
mancato approfondimento del bilancio nella apposita sessione
che le Camere riservano all’esame dei documenti finanziari,
costituisce una gravissima lesione della democrazia.
Insufficiente l’esame, impedito l’esercizio del potere
emendativo che spetta a ciascun parlamentare, il bilancio è
stato approvato sulla base di un maxiemendamento sul quale
il governo ha posto la questione di fiducia”.
Questo “è un nuovo, preoccupante
segnale di allarme per la democrazia rappresentativa. E non
è certo il pericolo dell’esercizio provvisorio che può
giustificare questa compressione dei diritti costituzionali
delle Camere perché previsto dalla Costituzione all’art. 81,
comma 2… All’esercizio provvisorio l’Italia è ricorsa per
anni senza che vi siano stati effetti negativi. Anzi, si può
dire che la spesa, in questi casi, è stata più prudentemente
diluita”.
Pertanto, “è indubbio che stiamo
assistendo, come in altri casi di abuso della questione di
fiducia, ad una limitazione delle prerogative dei
parlamentari e quindi della sovranità che appartiene al
popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione, come si esprime l’art. 1”.
Alleanze male assortite
“Per l’Italia è stato politicamente
l’anno dei due Giuseppi, il Conte uno e il Conte due, e
l’anno dei due Mattei, Salvini e Renzi. Prima paralleli,
quando il primo decise in modo ancora oggi misterioso e
suicida di muovere una situazione in cui aveva tutto da
guadagnare per far cadere il governo di cui faceva parte
senza avere un piano di riserva e quando il secondo ne
approfittò per rovesciare quanto aveva affermato fino a
poche ore prima e dare il via libera al governo con il Pd e
il M5S, oggi convergenti nel desiderio di smuovere la
situazione, ma di convergenza parallela, come si addice alle
alchimie della politica italiana, e dunque a distanza, e
senza fidarsi troppo uno dell’altro, e come potrebbe essere
altrimenti, guardinghi, sospettosi, degli altri e forse
anche di sé” (Marco Damilano, “Più in alto e più lontano”,
L’Espresso, n. 52/2019, 22 ss.).
Roma langue
Tra buche, rifiuti sparsi ovunque,
cartacce, topi, volatili imbrattatori, bus in fiamme e chi
più ne ha più ne metta, Roma barcolla.
È a dir poco inconcepibile che il
degrado e l’abbandono abbiano così duramente attanagliato la
capitale d’Italia. Per tacere del traffico caotico reso
vieppiù incontrollabile dallo stato inaccettabile di
numerose strade, causa anche di incidenti particolarmente
gravi.
Ma cosa si aspetta ad intervenire con
provvedimenti idonei a porre rimedio a siffatta situazione
preagonica?
Deficitaria risulta, altresì, la chiusura di alcune fermate
della metro che provoca non pochi intralci alla
movimentazione cittadina.
Programmare, rinviando sine die
la conclusione di ogni lavoro, è un virus
evidentemente contagiato dal Governo centrale.
Un libro da leggere
Deve essere segnalato un recente
volume di Corrado Augias, prolifico e profondo scrittore, “Questa
nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria”
(Torino, 2017).
Particolare apprezzamento meritano le
pagine su Palermo “Pieni gli occhi del ricordo di lei”,
dove si incontrano personaggi e luoghi ricordati con
avvincente partecipazione.
Identico elogio spetta al saggio “Il
natio borgo del genio” che narra in modo esaustivo e
approfondito la sofferta vicenda umana del grande poeta
Giacomo Leopardi.
Ma l’intero volume può essere definito
“una lettera d’amore di un raffinato uomo di lettere, che ha
imparato a guardare la sua patria da fuori senza però mai
smettere di amarla”.
Un libro tutto da leggere e da
meditare ed il calibrato stile narrativo dell’autore
contribuisce a coinvolgere intensamente il lettore.
9 gennaio 2020
Il taccuino del direttore (6 gennaio 2020)
Si assottiglia la pattuglia dei 5 Stelle
L’incontro tra Di
Maio e Zingaretti (“ che fa arrabbiare in Italia viva”, come
scrive Monica Guerzoni sul
Corriere della Sera),
enfatizzato senza che ne siano stati spiegati gli obiettivi,
è la prova della debolezza del leader del
Movimento Cinque
Stelle, alla ricerca di una visibilità e della
riconferma di un ruolo politico che sente sfuggirgli ogni
giorno di più all’annuncio di defezioni dai gruppi
parlamentari della Camera e del Senato, mentre altri sono
preannunciati o prevedibili a breve.
Le defezioni di
deputati e senatori sono l’immagine riflessa di un
elettorato che si assottiglia progressivamente in
conseguenza della mancanza di prospettive di rinnovamento
della politica da molti intravista nei giovani volonterosi
presentati nelle liste elettorali, pur nella consapevolezza
della mancanza di esperienza. Si consideri anche, tra le
ragioni dell’esodo, l’ipotesi di andare a votare con la
riduzione del numero dei parlamentari che determinerebbe la
somma di due fatti negativi: il calo del consenso e del
numero dei seggi disponibili, per cui forte è la tentazione
di chiudere rapidamente la legislatura per tentare di
mantenere una rappresentanza parlamentare di un qualche
rilievo.
“Né di destra né
di sinistra”, il M5S ha dimostrato di non avere un’anima
identitaria legata ad una filosofia politica che non fosse
basata sulla negazione della professionalità di alcuni, ai
quali sono stati ridotti i compensi e pensioni, e
sull’assistenzialismo di altri, così mortificando l’impegno
di studio e di lavoro, senza offrire prospettive concrete a
chi è rimasto ai margini del mercato del lavoro per
inadeguatezza dell’offerta o incapacità di corrispondervi.
Inevitabile, dunque, il declino del
Movimento, come è
stato sempre di tutti quelli che hanno cavalcato
esclusivamente la protesta, pur largamente condivisa, che
non è riuscita a divenire proposta concreta e perseguibile
in tempi brevi di crescita e sviluppo. E se ne vanno alcuni,
avanguardia probabile di molti. Grillo li vuole cacciare
tutti per restare nel fortino dei duri e puri, in quella
ridotta, come insegna la storia, che riduce un ruolo che non
si è saputo interpretare.
A chi la quarta sponda?
È evidente che da
troppi anni ormai l’Italia non ha saputo interpretare il
ruolo politico ed economico che la sua posizione geografica
nell’ambito del Mediterraneo suggerisce e impone da secoli,
da quando quel mare fu definito “Nostrum”, per dire che
tutte le sponde erano parte dell’impero romano che aveva
assicurato a quelle popolazioni prosperità economica in un
contesto di grande civiltà. Poi la definimmo “quarta sponda”
e, perduta come colonia, non abbiamo saputo riconquistarla
favorendo lo sviluppo di una democrazia che avrebbe potuto
accompagnarsi ad una partnership economica, industriale,
commerciale, turistica che poteva costituire un esempio per
altri paesi musulmani moderati. Come avremmo potuto fare per
la Somalia invece di vendere armi a questo o quello dei capi
tribù in lotta, promuovendo iniziative economiche legate a
imprese italiane e somale che avrebbero arricchito quelle
popolazioni, garantito pace e sicurezza a quelle aree
geografiche che nella incertezza politica diventano sempre
più appetibili per le potenze straniere e la criminalità
politica.
Viaggio in Tunisia
Reduce da un
tour delle oasi della Tunisia ho potuto conoscere luci ed ombre di
questo territorio e del suo popolo a un’ora di volo da Roma.
Un paese la cui economia si basa sull’agricoltura,
sull’industria olearia, sulla pesca, tradizionale attività
degli eredi dei Fenici e dei cartaginesi, e sul turismo che
offre belle spiagge, strutture ricettive di qualche pregio a
prezzi certamente concorrenziali. Così Hammamet, Monastir,
Djerba. Accanto a queste località ben curate il paese
denuncia il degrado di quelle ai margini del deserto dove la
povertà e la miseria la fanno da padrone insieme a
condizioni di abbandono rese evidenti dalle immondizie agli
angoli delle strade e sui marciapiedi. E questo contrasto
dimostra che quando si vuole si può fare, che nelle aree
dell’interno, caratterizzate da clima caldo, potrebbe essere
praticata, con adeguato impegno di moderni sistemi di
irrigazione, un’agricoltura che darebbe certamente lavoro ad
un popolo che in parte risente della sua storia di nomadismo
e quindi di mancata attenzione all’agricoltura che comporta
un’attività stanziale. Attività certamente impegnativa ma
che oggi è assistita ovunque dalla disponibilità di
macchinari che molto alleviano la fatica dell’uomo.
È terra dovunque
di contrasti la Tunisia, comunque splendida, che noi
sentiamo inevitabilmente vicina alla nostra storia per i
monumenti che l’occupazione romana ha lasciato e che sono,
ripeto, segno di civiltà perché l’acqua, distribuita dagli
acquedotti, è la civiltà, perché i territori soggetti al
dominio di Roma godevano degli stessi servizi, dalle strade
alle fognature, dai teatri alle terme, che l’Urbe metteva a
disposizione dei cittadini che vivevano sulle sponde del
Tevere.
Accoglienza e integrazione
di Salvatore Sfrecola
Ferruccio de
Bortoli oggi sul
Corriere della Sera richiama i nomi dei primi nati del
2020 (“Migranti cosa dicono i numeri”), una fotografia
impietosa del calo demografico in Italia. Infatti, sono in
prevalenza stranieri i nuovi nati, figli di immigrati che
abbiamo accolto con la generosità della quale gli italiani
sono capaci da sempre, fin dai tempi dell’antica Roma, che
inventò, all’atto della sua fondazione, il diritto di asilo.
Ovviamente questi
bambini frequenteranno le nostre scuole, a cominciare dalle
materne, seguendo quel corso di studi per cui avrebbero
diritto, secondo i fautori dello
ius culturae, di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. E
qui occorre mettere i puntini sulle “i”, come si dice,
perché studiare in Italia non significa automaticamente
integrarsi, sentirsi italiani, come studiare a Oxford o ad
Harvard non significa essere o sentirsi inglesi o americani.
Integrazione vuol dire ben altro. Significa condivisione
convinta di valori civili e spirituali comuni al popolo che
accoglie e del quale si vorrebbe entrare a far parte,
considerato che la legge sulla cittadinanza è costituita da
una normativa che ha lo scopo di individuare i membri di una
comunità, di un popolo, tale per la sua storia per quanto lo
accomuna e ne fa appunto una comunità. Il popolo, quale
elemento costitutivo di un ordinamento individua, “tra le
varie persone viventi nello Stato, quelle legate al medesimo
da un rapporto permanente, ed in virtù di questo capaci di
imprimere allo Stato una sua fisionomia, un proprio modo di
essere” (Mortati). Il popolo in questo senso comprende i
soli cittadini e si distingue pertanto dalla “popolazione”,
costituita dalle varie persone fisiche, anche se diverse dai
cittadini, le quali vivono in un determinato territorio.
Ora non è dubbio
che integrarsi significa condividere i valori che fanno di
una comunità di individui un popolo, caratterizzato da una
storia comune, dalla consapevolezza delle radici culturali e
spirituali che nel tempo si sono consolidate ed hanno
assunto una connotazione che distingue un popolo dagli
altri, anche se legati da una comune origine, come quando si
parla delle radici greco latine dell’Europa.
Così individuato
il concetto di integrazione, non può dirsi integrato, tanto
per fare un esempio pratico, colui che, in ossequio ad
usanze o della cultura del paese di provenienza, intendesse
impedire alla figlia di convolare a nozze con un italiano
perché di diversa religione, perché in Italia il credo
religioso non discrimina, come si legge nell’art. 3, comma
1, della Costituzione che ha recepito valori antichi, già
presenti nello Statuto del Regno d’Italia, a dimostrazione
che l’uguaglianza “senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione” è valore risalente nella cultura di
questo popolo. Né potrebbe dirsi integrato l’uomo che
impedisse a moglie e figli di vivere con i loro coetanei
italiani, né è da considerare integrate le giovani islamiche
che in una scuola italiana si sono rifiutate di onorare, in
piedi e in silenzio, le vittime del parigino Bataclan perché
quell’atteggiamento dimostra una mancanza di rispetto per
vittime innocenti di una violenza e nessun rifiuto della
violenza attuata dai terroristi inneggianti ad un Dio
vendicatore e aggressivo in nome di un desiderio di
conquista dell’Occidente Cristiano.
5 gennaio 2020
Ritorna l’Impero Ottomano?
di Domenico
Giglio
La recentissima decisione del premier turco,
Erdogan, di inviare un corpo di spedizione
di oltre 6.000 soldati in Libia, in appoggio
ad una delle due parti della guerra civile
in corso, non giunge improvvisa, né può
sorprendere, perché da anni nelle vicende
del Medio Oriente, nelle terre che, come del
resto la Libia, facevano parte fino al 1918,
o al 1912, dell’Impero Ottomano, la ormai ex
repubblica laica impostata e costruita di
Kemal Pascià, il mitico Ataturk, sta
cercando di riprendere, se non i territori,
il predominio.
Niente più Sultano e Califfo, di nome, ma,
malgrado gli eleganti vestiti occidentali
maschili, Erdogan ha rilanciato l’islamismo
all’interno, ed una politica imperiale
all’esterno, approfittando della consueta
divisione storica risalente al XIX e XX
secolo delle potenze europee ed occidentali
nei confronti dei territori che facevano
parte del vecchio impero. Fenomeno che si è
aggravato nel XXI secolo quando in queste
nazioni europee è venuta a mancare una
classe dirigente culturalmente e
storicamente colta, e politicamente
preparata, o, come nel caso del Regno Unito,
un tempo “lord protettore” dell’Egitto, del
Sudan “Anglo-egiziano”, dell’Irak, dello
Yemen e Sultanati vari e padrone di Cipro,
dopo il 1956 vi è stata una vera abdicazione
da questo ruolo storico, con relativa
eredità, che il successore statunitense, con
presidenti di entrambi i partiti non
all’altezza, particolarmente gli ultimi
democratici, non ha saputo raccogliere.
Evanescente l’ONU, nella Europa la Spagna da
tempo fuori dal giuoco, Germania e Benelux
altrettanto, non certo interessati i paesi
nordici o balcanici, rimangono Italia e
Francia, oltre agli USA, gendarmi del mondo,
e qui quella carenza di esperti e di classe
dirigente si sente in tutta la sua gravità,
nel mentre rinascono le antiche gelosie e
rivalità . Al momento vi è stata una
contrarietà a questo invio di soldati, ma
Erdogan non recederà facilmente e l’unica
opposizione, con consueto appello al popolo
libico (ma esiste questo popolo?), è venuta
da quella parte dei duellanti che si
troverebbe a combattere, con scarse
possibilità di vittoria, contro un vero
esercito efficiente, quale è quello turco.
5 gennaio 2020
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia penale
Il provvedimento di archiviazione per
particolare tenuità ex art. 131 bis c.p. non è
impugnabile in Cassazione, a esclusione delle ipotesi
previste dall’art. 409, comma 6, c.p.p. (casi di nullità per
violazione del contraddittorio previsti dall’art. 127, comma
5, c.p.p.), sia perché tale limitazione è espressamente
prevista dal citato art. 409, comma 6, c.p.p. e sia perché,
comunque, il provvedimento di archiviazione non risulta
iscrivibile nel casellario giudiziale, trattandosi di
provvedimento non definitivo e, pertanto, viene a mancare
l’interesse a impugnare, non risultando il provvedimento
lesivo di alcun interesse dell’indagato (Cass., Sez. III
penale, 26 gennaio – 20 giugno 2017, n. 30685, con nota di
G. Amato, in Guida dir., n. 38/2017, 69).
Divisivo
“Divisivo: che crea divisioni o
contrapposizioni, impedendo di preservare o di raggiungere
un’unità di punti di vista e di intenti (Treccani)”.
“Il sindaco di Predappio qualche
settimana fa aveva considerata divisiva l’iniziativa di
finanziare il viaggio di uno studente ad Auschwitz. Il
comune di Schio di recente ha rifiutato di installare pietre
di inciampo in memoria dei suoi cittadini deportati ad
Auschwitz considerando la proposta anch’essa divisiva.
Quale unità avrebbero incrinato la
visita ad Auschwitz e le pietre di inciampo?”
È la domanda che Sofia Ventura (Divisivo,
L’Espresso, n. 49/2019, 7) pone a sé stessa e ai suoi
lettori: domanda che anche noi riteniamo di condividere.
Ma nel nostro Paese esistono fin
troppe e insensate “contrapposizioni”, figlie evidenti della
diffusa cultura becera e acritica.
In tre mesi tre nuovi partiti
“Da quando il Partito democratico ha
deciso di fare un governo con il M5S, sono nati in Italia
due nuovi partiti (entrambi alla sua destra: quello di Renzi
e quello di Calenda) e un movimento di protesta che potrebbe
diventare anche un partito (alla sua sinistra: le cosiddette
“sardine”).
Per il Pd quest’effervescenza ai suoi
confini di sigle e proposte politiche, magari minoritarie e
in prospettiva effimere ma al momento ben intenzionate ad
affermare la propria autonomia e originalità, è un problema
serio: l’aumento della concorrenza politico-elettorale
nell’area in senso lato di sinistra implica necessariamente
la riduzione dei suoi consensi diretti e dunque il suo
progressivo indebolimento (come puntualmente certificato dai
sondaggi che ormai lo danno sotto il 20%).
Chissà, se si fosse corso il rischio
delle urne dopo la crisi agostana innescata da Salvini,
invece di imbarcarsi in un’alleanza improbabile con i nemici
mortali del giorno prima, si sarebbe forse evitato questo
moto disgregatore, a partire dalla scissione renziana”
(Alessandro Campi, “In tre mesi tre nuovi partiti a
sinistra e a destra del Pd ”, Il Messaggero,
10 dicembre 2019).
Moscacieca
Gustavo Zagrebelsky (“Moscacieca”,
ed. Laterza, 2015, 250): “Non voler vedere significa
scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni
di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per
lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto
dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono
invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di
una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo
progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime
procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora,
non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo
tardi per apprestare rimedi”.
In libreria
Vittorio Feltri e Massimiliano Parente (“Il vero cafone. Ciò
che non dovremmo fare e facciamo tutti”, Milano, 2016)
hanno dato alle stampe questo “galateo al contrario”.
Una guida irriverente per riconoscere il vero cafone in ogni
ambito e circostanza della vita. Al termine della lettura
scoprirete quanto in ognuno di noi si nasconde un vero
cafone
“La cafonaggine, come la signorilità, e i costumi in generale,
non sono concetti immutabili, ma cambiano con il cambiare
dei tempi. D’altra parte, se oggi ci comportassimo seguendo
le regole del galateo dettate da monsignor Della Casa,
sembreremmo dei deficienti”.
Conviene sciogliere le Camere?
“Una crisi a gennaio può corrispondere all’interesse dei
politici, non degli italiani. Né della Costituzione, povera
donna. Siccome però il loro interesse di solito prevale
sull’interesse pubblico, non si può affatto escludere che,
dopo aver festeggiato il Capodanno, la maggioranza faccia
harakiri. Talvolta, per sopravvivere, bisogna un pò
morire (Michele Ainis, “Ecco a chi converrebbe sciogliere
le Camere a gennaio, L’Espresso, 49/2019, 33).
“Sardine” in marcia
In cerca di vagheggiati obiettivi.
26 dicembre 2019
Limitare l’esame
parlamentare del bilancio dello Stato mette in forse la
democrazia
di Salvatore Sfrecola
Forse non tutti sanno della natura essenzialmente
finanziaria delle assemblee elettive la cui storia coincide
con lo sviluppo della democrazia fin da quando si è
affermato il principio che il prelievo delle imposte debba
essere consentito da chi sarebbe stato chiamato a pagarle.
Fin dalla Magna Charta Libertatum (15 giugno 1215), quando
viene istituita la Camera dei Comuni, assemblea dei
contribuenti alla quale il Re Giovanni d’Inghilterra,
attribuisce la funzione di autorizzazione al prelievo. In
tal modo si legano tassazione e rappresentanza popolare
sicché, com’è noto, gli abitanti delle colonie inglesi
d’America si ribellano alla Madre Patria perché non era loro
consentito di essere rappresentati al Parlamento di Londra.
Il loro motto era no taxation without rappresentation, non paghiamo le tasse se non
siamo rappresentati ai Comuni. Sicché non è azzardato dire
che se i governanti inglesi dell’epoca avessero accolto le
istanze dei coloni non ci sarebbe stata la secessione ed
oggi Mr. Trump sarebbe probabilmente un suddito di Sua
Maestà la regina del Regno Unito.
Nel frattempo all’autorizzazione al prelievo si è unita
quella alla utilizzazione delle risorse così assicurate al
Governo del Re ed alla Corte, il tutto consegnato in un
documento che si chiama bilancio che spetta alle assemblee
parlamentari approvare. Si parla, dunque, di diritto “del
bilancio” sul quale molto si è discusso, come momento
centrale della vita politica in quanto nel bilancio di
previsione sono le indicazioni delle politiche fiscali e di
quelle della spesa, cioè della assegnazione delle risorse
alle politiche pubbliche, dalla sicurezza all’agricoltura,
dalla scuola alla giustizia, dall’industria alla sanità, per
fare qualche esempio. Tanto che Camillo Benso di Cavour
soleva dire “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò con un
paese è governato”, dove “ben fatto” significa chiaro,
capace di evidenziare ogni pur piccola voce di spesa.
Posto l’inscindibile rapporto tra Governo e Parlamento, tra
decisione su entrate e spese e rappresentanza popolare è
evidente il rilievo che assume l’esame parlamentare del
bilancio di previsione dello Stato la cui importanza è
attestata dal fatto che le Camere riservano ad una apposita
“sessione” l’esame dei documenti finanziari, un tempo nel
quale altre iniziative legislative segnano il passo perché
prioritariamente va valutato l’impianto complessivo della
politica economica e finanziaria che il governo presenta al
giudizio del Parlamento.
È evidente, dunque, che ogni limitazione del dibattito
parlamentare diventa immediatamente compressione delle
prerogative costituzionali delle assemblee. È quanto è
accaduto in Senato dove è stato impedito l’esercizio del
potere emendativo che spetta a ciascun parlamentare e il
bilancio è stato approvato sulla base di un maxiemendamento
monstrum con molte centinaia di commi e di pagine sul quale
il governo ha posto la questione di fiducia, un istituto
parlamentare del quale, chi crede nella democrazia,
suggerisce di non abusare.
Espropriato il Senato, analoga sorte toccherà alla Camera
che sarà chiamata a votare a scatola chiusa perché non si
potranno apportare emendamenti che possano far slittare
l’approvazione del bilancio di previsione, per non cadere
nel “bilancio provvisorio”, uno spauracchio evocato da
politici e commentatori come se fosse un gran male. In
realtà l’esercizio provvisorio del bilancio è istituto
previsto dalla Costituzione all’att. 81, comma 2, e deve
essere “concesso” per legge e per periodi non superiori a
quattro mesi. Niente di drammatico perché lo Stato può
incassare tutte le imposte dovute e può solo spendere fino
all’ammontare di tanti dodicesimi degli stanziamenti del
bilancio in fase di approvazione quanti sono i mesi
dell’esercizio provvisorio, ovvero nei limiti della maggiore
spesa necessaria qualora si tratti di spesa obbligatoria e
non suscettibile di impegni o di pagamenti frazionabili in
dodicesimi.
All’esercizio provvisorio l’Italia è ricorsa per anni senza
che vi siano stati effetti negativi. Anzi, si può dire che
la spesa, in quei casi, è stata più prudentemente diluita.
La vicenda del bilancio è, dunque, centrale nella attività
parlamentare e la compressione dei diritti dei senatori e, a
breve, dei deputati, anche se abbiamo fatto il callo a certe
manomissioni dei diritti, è pur sempre una grave lesione
della democrazia.
Matteo Salvini, leader della Lega, ha preannunciato un
ricorso alla Corte costituzionale. Ma al di là del giudizio
che la Consulta potrà dare della procedura seguita nel
dibattito parlamentare è indubbio che stiamo assistendo,
come in altri casi di abuso della questione di fiducia, ad
una limitazione delle prerogative dei parlamentari e quindi
della sovranità che appartiene al popolo “che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione”, come si
esprime l’art.1, cioè innanzitutto nella discussione e
nell’approvazione della legge di bilancio.
21 dicembre 2019
Frammenti di riflessioni
del Prof. Avv.
Pietrangelo Jaricci
Giurisprudenza costituzionale
La Corte Costituzionale, con sentenza 16 maggio 2019, n. 118, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale:
a)
dell’art. 12-bis, comma 4, della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa
urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle
d’Aosta), inserito nell’art. 3 della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 29 marzo 2018, n. 5 (Disposizione in
materia urbanistica e pianificazione territoriale.
Modificazione di leggi regionali), nella parte in cui
consente di non sottoporre né a VAS né alla verifica di
assoggettabilità a VAS i piani urbanistici di dettaglio che
determinino modifiche non costituenti variante del piano
regolatore generale vigente;
b)
dell’art. 16, comma 1, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11
del 1998, come sostituito dall’art. 9 della legge reg. Valle
d’Aosta n. 5 del 2018.
Crisi di governo o crisi di sistema?
“Nelle maggioranze si litiga. Il contratto gialloverde è
stato archiviato in agosto lasciandosi dietro una scia di
veleni che dà l’idea di quanto si potessero voler bene gli
alleati del Conte 1. Mentre la quotidiana navigazione del
Conte 2 ha fatto capire da quasi subito che anche tra i
nuovi alleati giallorossi non ci si scambiano certo le frasi
dei baci Perugina e neppure le premure di professionisti
legati di un vincolo di obbligo reciproco. Segno di tendenze
profonde della nostra corale indole politica”…
“Ora invece quei litigi avvengono tra partiti che non sono
affatto sicuri di trovarsi ancora in vita l’indomani. E che
forse proprio per questo avrebbero tutto l’interesse a
dosare meglio la loro competizione in modo da evitare di
farsi troppo male l’un l’altro. Mentre all’opposto essi
sembrano trovare un pò tutti un motivo di conforto nel fatto
di contrastarsi senza più remore. Neppure, se vogliamo, la
remora della propria stessa sopravvivenza.
Le molte crisi di governo del primo cinquantennio
repubblicano volevano essere l’antidoto contro una crisi di
sistema. Prassi discutibile, si dirà. Solo che ora crisi di
governo e crisi di sistema finiscono per fare tutt’uno. E se
anche non si arriverà a cambiare la combinazione
dell’esecutivo, la sua continua fibrillazione ci avvisa che
la crisi del sistema sta facendo un altro passo avanti. Un
altro ancora, e si spalancherà l’abisso (Marco Follini, “Se
la crisi di governo è un passo verso l’abisso”,
L’Espresso, n. 47/2019, 31).
Democrazia vacillante
Un nuovo governo non può nascere con il fine specifico ed
esclusivo di impedire che alla guida del Paese prevalgano le
scelte della volontà popolare.
È ciò che è accaduto in Italia dove si è preferito un
governo rabberciato tra forze politiche per loro stessa
natura inconciliabili che, nonostante le promesse di dare un
volto nuovo al Paese, si è limitato ad una serie di rinvii,
più o meno pretestuosi, sulle questioni più urgenti e
vitali, mettendo in serio rischio specie i settori portanti
della nostra economia.
È, pertanto, necessario cambiare immediatamente rotta per
non precipitare in una situazione irreversibile a tutto
danno della nostra già traballante democrazia.
Ancora. Oggi le Sardine
Il movimento delle Sardine ha provocato il più che
giustificato stupore “che sempre scatena lo sconosciuto, il
non previsto, quello che avviene senza essere stato
calcolato”, pur rifacendosi a precedenti già conosciuti.
Tra i tanti, l’occupazione degli studenti dell’Università
di Palermo nel dicembre 1989.
Poi, dopo la fuga di una pantera da un circo a Roma, mai
ritrovata nonostante numerosi tentativi, il nome della
Pantera ispirò le coeve occupazioni studentesche.
Nel 2002 fu la volta dei Girotondini, auspice Nanni Moretti
e, da ultimo, il Movimento 5 stelle, nato dal Vaffa day di
Beppe Grillo nel 2007.
Tali movimenti, di (apparentemente) incerta origine e di
non chiare finalità, non sono però in grado di poter
influire più di tanto sul nostro sistema democratico.
Comunque, senza idealità c’è solo culto del realismo e del
potere. Ma senza realtà, senza Governo, non potrà avvenire
nessun cambiamento (Marco Damilano, “Non perdetevi di
vista”, L’Espresso, n. 48/2019, 10 ss.).
Il potere
“Il potere è idiota quando è affidato a idioti che non
hanno passioni.
I grandi uomini, al contrario, fanno avanzare il mondo
anche senza il potere”.
“Il potere non è quello che hai ma quello che fai”.
(Vittorio Sgarbi, “Diario della capra 2019/20”,
Milano, 2019).
18 dicembre 2019
Dopo Pio XII … Livermore
Tosca e Vespri siciliani inaugurano le stagioni operistiche di Milano
e Roma
della Prof.ssa Dora Liguori
Non vorrei essere blasfema ma va detto che, dopo Pio XII, il
quale, forte dell’infallibilità papale, ebbe a proclamare il
dogma dell’assunzione in cielo della vergine Maria, dal
lontano 1950 in poi, a nessun papa (né a chicchessia) pare
sia più venuto in mente d’individuare altre personalità da,
ugualmente, assurgere in così alto loco.
Il vuoto, però, l’8 dicembre è stato, finalmente, colmato alla
Scala, non da un papa ma da un regista - Davide Livermore -
che, forse ignorando l’illustre precedente, ha deciso di,
piuttosto che farla gettare nel Tevere, far assurgere Tosca
in cielo.
Detto questo, per onestà di pensiero, occorre riconoscere che
anche Puccini ha barato… e come, nel momento che ha fatto
morire la sua Tosca nelle acque del Tevere. Infatti la
poveretta, a meno che non riuscisse a volare, gettandosi
dalla fortezza papalina (situata a parecchi metri dal
fiume), non avrebbe che potuto spiaccicarsi sul duro suolo.
E può essere che questa immagine, essendo alquanto cruenta,
abbia indotto, il sensibile Puccini, a far cadere, è il caso
di dire con “ volo d’autore”, la protagonista in acqua.
A parte questa eclatante stranezza di stampo pseudo cattolico
della regia, chiudendo gli occhi, il pubblico milanese ha
potuto godere di un cast vocale, dalla Netrebko a Meli e
Salsi, superlativo.
Tornando all’impagabile Livermore, non nuovo a queste “alzate di
testa” (guai a criticarle ritenendosi anche lui infallibile
come il papa), è possibile dire che, assunzione impropria di
Tosca e trasposizione dell’opera all’oggi, dove un
Cavaradossi esulta a Napoleone vincitore, la sua regia,
trainata dalla bontà del cast (compreso il direttore
d’orchestra Chailly) e meno assurda dell’usato, è riuscita a
riscuotere numerosi applausi.
Fatta la doverosa premessa occorre, però, ricordare che, tanto
per fare un esempio, sempre il Livermore, ci ha donato un
“Attila” trasportato nella seconda guerra mondiale, la cui
azione scenica aveva bisogno di una guida per riuscire a
raccapezzarci qualcosa e un “Barbiere di Siviglia” che
vedeva scorrazzare sulla scena un topo che, via, via, da
piccolo diveniva sempre più gigante, senza che il pubblico
riuscisse a comprendere l’attinenza fra il barbiere, il topo
e Siviglia. Pubblico che, alla fine, seriamente incaz… etc,
non ha risparmiato all’intoccabile Livermore un’ondata di
fischi.
E ahime! Magari Livermore fosse il solo.
Purtroppo l’opera lirica, per alcuni registi, nonostante il
dissenso del pubblico, pare sia divenuta un’occasione per
descrivere turbe psico-analitiche di freudiana memoria. E
pertanto, questo pubblico, negli anni, si è dovuto sorbire
un Alfredo, in “Traviata”, che col matterello stende delle
tagliatelle per una Violetta predestinata, più che alla
tisi, all’obesità; una Giovanna
D’arco, schizofrenica
e insidiata dal padre; una “Sonnambula”
che abortisce in scena, frutto di rapporti
ravvicinati con il conte e non certo con quel tonto del suo
fidanzato Elvino; e una Norma che, trasportata in Palestina
e sedotta da quel mascalzone dell’israeliano Pollione, miete
il sacro vischio (che come noto vi abbonda) nel deserto.
Ma si sa: più il pubblico protesta e più sovrintendenti e
registi, per così dire, stravaganti, se la ridono… tanto,
nessuno interviene e Pantalone (leggasi cittadini italiani)
attraverso le tasse, comunque, paga. Insomma, la moda
instauratasi è tale che ormai nessun teatro che si rispetti,
infischiandosene del pensiero del pubblico, si nega un
regista “trendy”
capace di
scodellare, quando va bene tutta una serie di illogicità
manifeste e, quando va male… l’intero museo degli orrori.
Senza contare che
queste illogicità diventano autentiche offese verso il
povero compositore, ritenuto
dai citati illuminati registi, colpevole d’avere concepito
la propria opera in forme e modi, assolutamente dissimili
dal loro “genio” pensante.
Insomma la sfida è aperta: chi sente di, registicamente parlando,
fare di peggio… avanzi pure.
E, senza por tempo in mezzo, ad avanzare, sono stati i “Vespri
Siciliani”, opera che ha inaugurato la stagione 2019-20, del
teatro della capitale.
Anche qui occorre dire subito come il cast vocale, soprattutto
riferendoci al personaggio di Elena affidato al soprano
Roberta Mantegna, fosse superlativo. Per il resto più che
chiudere gli occhi, era meglio votarsi ad una cecità
perenne. Infatti, il teatro capitolino, non contento degli
stravaganti registi nostrani, sempre attingendo ai soldi dei
cittadini italiani, è andato a cercarsi una regista in
Argentina, tale Valentina Carrasco che, dobbiamo ammetterlo,
ha superato in astrusità e, diciamo, anche in cattivo gusto,
i registi maschietti. Le donne, notoriamente, se ci si
mettono, non sono seconde a nessuno.
Passando allo spettacolo vero e proprio, è risaputo come i
cosiddetti “Vespri Siciliani”, storicamente, ci raccontino
di una sommossa popolare intervenuta a Palermo, nel 1282,
e causata dall’offesa
che dei soldati francesi avrebbero arrecato a delle donne
siciliane.
Ciò premesso: poteva mai la regista lasciare all’opera verdiana
una simile antica data?
Operisticamente parlando…non fia mai!
Ed eccoti i “vespri” trasportati in improbabili anni ’50, con
l’opera invasa da una serie di stupri e improbabili
avvenimenti rappresentati, più che con sottigliezze
psico-analitiche, all’interno di un
manicomio
squallido e totale.
Ma il meglio di sé, la regista, ce lo ha consegnato quando,
nel corso del quarto atto, dedicato interamente al balletto
“Le quattro stagioni”, ha
costretto, in un impeto di pulizia reale e psicologica, le
povere ballerine, invece che a danzare, a lavarsi,
interamente, in scena, bidet compreso.
Ma, dico io: va bene che stiamo parlando di stupri però,
determinate cose, molto più efficacemente non si potrebbero
altrimenti raccontare, come ad esempio hanno già fatto
Visconti, Zeffirelli o, parlando di registi più recenti, De
Hana? Insomma dei fatti che, quand’anche scabrosi, portati
in scena da chiunque goda di un minimo d’esperienza, rendano
l’idea senza offendere il cosiddetto “buon gusto” (che mai
dovrebbe mancare in ogni esperienza artistica) e che,
soprattutto, non offendano l’opera d’ingegno del povero
autore. Insomma che bisogno c’è di tanto “spoetizzare”?
Evidentemente si!
La sfida come sopra detto è aperta: a quando un Rigoletto che
stupra la figlia o una Turandot che preferisce, a Calaf, Liù?
P.S Alla disperata, faccio un sentito appello a Sgarbi:
Gentile Onorevole, giustamente, Lei condanna le offese manuali
arrecate, da parte di sciagurati individui, a determinate
opere d’arte (pitture, sculture o monumenti che siano)
chiedendo, per costoro, pene sempre più rigorose. Più che
sensato! Ma non pensa che anche deturpare un’opera lirica
sia passibile di reato? E non Le pare che il melodramma,
gloria soprattutto italiana, rappresenti anch’esso un’
espressione del genio umano da rispettare?
Resto in attesa di una Sua autorevole pronuncia. D.L.
Il PD
danneggia lirica e danza
No
all’emendamento a costo zero per equiparare i professori
delle accademie di arte, musica e danza a docenti
universitari
di Salvatore
Sfrecola
Ancora una volta musica e arte, nonostante siano da sempre
una riconosciuta eccellenza italiana, vengono ignorate da
alcune parti politiche con gravi conseguenze sull’attività
dei Conservatori di musica, delle Accademie d’arte e
dell’Accademia nazionale di danza, istituti che la legge n.
508 del 21 dicembre 1999 definisce all’art. 2, comma 4,
“sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di
ricerca nel settore artistico e musicale … godono di
autonomia statutaria, didattica, scientifica,
amministrativa, finanziaria e contabile”, nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato, in attuazione dell’art.
33, comma 6, della Costituzione.
Accade, infatti, che l’attuazione di questa autonomia, dopo
i primi decreti delegati adottati dal Governo Berlusconi
(2001-2006) sia ancora incompleta. Ed in sede di emendamenti
alla legge di bilancio 2020, una proposta attuativa di detti
principi costituzionali e fondamentale per Accademie e
Conservatori di musica, condiviso dalle Conferenze di
Direttori di dette istituzioni, nonostante l’appoggio del
ministro Lorenzo Fioramonti e dell’intera
opposizione, sia stato bloccato dalla contrarietà del
Partito Democratico e dai dubbi del Ministro
dell’economia, Roberto Gualtieri e dei suoi uffici.
Parliamo di un emendamento a “costo zero” che avrebbe
consentito il passaggio dei docenti al regime universitario
come accade ovunque nel mondo “senza variazioni di
stipendio”, ma anzi con vincolo di disciplina per legge
anziché dei contratti collettivi che riconducono queste
Istituzioni di Alta Cultura (AFAM) nel calderone della
scuola secondaria, un comparto dove la fa da padrona la
componente sindacale attratta dai grandi numeri dei docenti
della scuole medie.
E così istituzioni che rilasciano diplomi di laurea di primo
e secondo livello, che rappresentano il vanto della cultura
italiana nel mondo essendo noto a tutti che sono frequentate
da moltissimi studenti stranieri sia in fase di formazione
che di perfezionamento, e pertanto interessate a rapporti di
collaborazione da analoghe istituzioni straniere, ancora una
volta segnano il passo. Ma sembra ormai tardi per la
protesta dell’Unione Artisti (UNAMS), che minaccia uno
sciopero.
(da La verità del 13 dicembre 2019, pagina 5)
Per Mattarella l’evasione fiscale è “indecente”. Ma che fanno i partiti per
contrastarla?
di Salvatore Sfrecola
In un incontro con gli studenti di alcune
scuole secondarie di secondo grado, il Presidente
Mattarella, al quale è stato chiesto “perché in Italia è
così difficile combattere la piaga dell’evasione fiscale”,
ha risposto soprattutto in termini di carattere etico. Ha
cioè sottolineato come l’evasione fiscale sia “l’esaltazione
della chiusura in sé stessi, dell'individualismo
esasperato”, aggiungendo che “significa ignorare che si vive
insieme e che la convivenza significa contribuire tutti
insieme - come dice la Costituzione, secondo le proprie
possibilità - alla vita comune”. Una situazione definita,
senza mezzi termini, “indecente”.
Il richiamo del Capo dello Stato ai
valori della convivenza, al dovere che tutti i cittadini
hanno di pagare le imposte, eppure contestualmente
avvalendosi dei servizi che lo Stato rende attraverso la
spesa pubblica, è senza dubbio di grande effetto morale
soprattutto su giovani studenti che nelle scuole imparano a
diventare cittadini, titolari dei diritti e dei doveri che
ne conseguono. Tuttavia non c’è dubbio che se l’evasione
fiscale, indicata in 119 miliardi annui, è effetto di una
mancanza di senso civico, di consapevolezza
dell’appartenenza ad una comunità, una grossa responsabilità
va individuata nella classe politica che evidentemente è
restia a combattere il fenomeno. Infatti, al di là delle
dichiarazioni di principio, secondo le quali se pagassero
tutti, tutti pagherebbero di meno, ricorrenti nel linguaggio
politico, c’è una inadeguatezza delle misure necessarie per
stroncare l’evasione. Inadeguato il sistema fiscale, che non
consente di far emergere le attività rispetto alle quali non
viene pagato il tributo, assolutamente insufficiente
l’azione repressiva che pure impegna uomini e strutture
dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza.
Un sistema fiscale farraginoso,
conseguenza di una stratificazione di norme che attendono di
essere inserite in un contesto lineare e semplificato, che
consenta gli adempimenti e, contestualmente, i controlli, è
certamente alla base dell’evasione, nel senso che agevola
chi intende sottrarsi agli obblighi tributari. È, cioè, una
questione di volontà politica che, all’evidenza non c’è. E
questo dimostra che il “partito degli evasori” è grande e
potente ed è trasversale, nel senso che ogni forza politica
ha la sua quota di evasori e di elusori che non vuole
disturbare per non perdere consensi. D’altra parte è la
misura dell’evasione che attesta la consistenza dei soggetti
coinvolti.
La ritrosia dei partiti a combattere
l’evasione si ritrova anche nell’affermazione, ricorrente in
molti discorsi di uomini politici, secondo la quale per
ridurre l’evasione è necessario prioritariamente alleggerire
imposte e tasse. Intervenire sul carico fiscale è certamente
necessario per liberare risorse e favorire i consumi ma non
c’è dubbio che la lotta all’evasione fiscale deve
contestualmente operare sul fronte della revisione del
sistema delle imposte per favorire l’emersione dei fattori
che favoriscono i mancati adempimenti tributari. Essendo
escluso che, di per sé, la riduzione delle imposte possa, se
non eliminare, ridurre significativamente l’evasione. Chi
evade lo fa anche se il carico fiscale è limitato. È un
problema di mentalità, di senso civico come ha sottolineato
il Capo dello Stato. Ed è evidente che chi è abituato
all’illegalità prova una soddisfazione innegabile anche
nella violazione delle norme tributarie, sia pure per
piccoli importi.
I partiti riflettano su questa
situazione. E si diano carico di una riforma del sistema
tributario che, come in altri ordinamenti, al di là del
senso civico richiamato, impedisca o limiti fortemente
l’evasione. Lo facciano anche per riconquistare agli occhi
dei cittadini quella credibilità che la maggior parte delle
forze politiche ha perduto, avendo dimostrato l’incapacità
di riscuotere le imposte e, contestualmente, trattandosi di
due facce di una stessa medaglia, di gestire con efficacia,
efficienza, economicità e legalità la spesa pubblica, cioè
il denaro messo a disposizione del potere politico dai
cittadini onesti.
(da www.italianioggi.com)
Una
favola del XXI° secolo. raccontata da un teleutente a
Domenico Giglio
di un teleutente
Le favole e chi
le racconta esistono ancora ed iniziano sempre con un “C’era
una volta un RE”. In questo caso il Re è Vittorio Emanuele
III e la favola raccontata alla televisione da un famoso
giornalista, in un programma dedicato alla storia dice che
questo Re (è lui il “cattivo” della favola, ma il “buono”
chi è ?), prima dell’8 settembre 1943, invece di
preoccuparsi di dare istruzioni al suo esercito (ma spettava
a Lui o ad i Ministri competenti?), si preoccupò di riempire
40 (ripeto quaranta) vagoni merci, con le più svariate
mercanzie, mobilio, opere d’arte, per spedirli e nasconderli
nel paese dei balocchi. Il favolista ha mai valutato la
lunghezza di un treno di 40 vagoni? Ne ha visto passare uno
analogo? Ha mai pensato al tempo necessario per caricarli?
Ed in quale stazione è avvenuto il carico? A Roma dove il 19
luglio e poi il 13 agosto 1943 erano state bombardate
proprio le stazioni? E da dove proveniva il materiale? E
tutto questo in silenzio, senza che nessuno si accorgesse di
nulla? E dove potevano essere diretti e scaricati, mentre
era in corso una guerra e le ferrovie erano giornalmente
bombardate?
A questo punto un
ascoltatore della favola chiede al favolista dove poter
leggere per intero questa fiaba, ma non ha risposta, insiste
per sapere da dove è stato preso lo spunto, ma non ha
risposta. Possiamo ancora credere alle favole? Qualche altro
ascoltatore è stato più fortunato e sa dirmi dove il
favolista ha trovato gli elementi di questo racconto e come
sia finito, con il ritorno (come e quando?), di questi
vagoni dopo di che tutti vissero felici e contenti che è la
classica chiusura di tutte la fiabe.
La morale della
favola qual è: finito lo scherzo e l’ironia, quanto sopra
esposto è di una estrema gravità in quanto milioni di
telespettatori, data l’autorevolezza del favolista,
riterranno l’evento effettivamente accaduto e trarranno
motivi per un giudizio negativo sul personaggio citato, che
essendo mancato settantadue anni or sono non può rispondere,
né possono rispondere chi era al suo fianco ed avrebbe
predisposto questo trasloco verso il nulla, perché che senso
avrebbe avuto trasferire il tutto non certo verso il
Meridione dove era in corso la guerra, ma verso il Piemonte,
regione originaria della famiglia del protagonista, ma dove?
E quanto tempo sarebbe stato necessario a scaricare i
quaranta vagoni, senza che nessuno se ne accorgesse? O forse
tenerli per mesi e mesi su un binario morto, protetti e
salvaguardati da chi? Ancor meglio in Svizzera?
Nelle favole
antiche c’era sempre una buona fata che provvedeva a salvare
il protagonista, magari nascondendolo in una nuvola che
copriva il tutto, ma in una favola moderna non vedo chi
potesse essere questa fata. Vorrei una risposta dal
favolista.
6 dicembre 2019
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia comunitaria
Gli articoli 3, 5 e 6 della direttiva 2003/88/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003,
concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario
di lavoro, letti alla luce dell’art. 31, paragrafo 2, della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e
dell’art. 4, paragrafo 1, dell’art. 11, paragrafo 3, e
dell’art. 16, paragrafo 3, della direttiva 89/391/CEE del
Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di
misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro, devono essere
interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno
Stato membro che, secondo l’interpretazione che ne è data
dalla giurisprudenza nazionale, non impone ai datori di
lavoro l’obbligo di istituire un sistema che consenta la
misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero
svolto da ciascun lavoratore (Corte di giustizia UE, grande
sezione, sentenza 14 maggio 2019, C – 55/18).
Italia sommersa
Da Venezia a Matera, passando per l’Ilva. Drammi che
raccontano un’Italia colpita al cuore, a cui la politica non
sa rispondere.
L’Italia di nuovo torna sotto gli occhi del mondo.
“Nell’acqua che invade le calli, i vicoli, i bar, gli
alberghi, la basilica e piazza San Marco, il sindaco e il
patriarca sommersi e smarriti, l’ululare delle sirene nel
silenzio spettrale come durante un bombardamento, i
vaporetti affondati, il fango che copre tutto, come
nell’ultima alluvione di tale gravità, del 4 novembre 1966,
che devastò Firenze con 35 morti. Era un’Italia in grado di
rialzarsi dalle sue rovine, l’onda richiamava quella di
piena che aveva messo in ginocchio le città d’arte, le
meraviglie del Paese, l’aqua granda, ma anche l’onda
di impegno civile che aveva trascinato la meglio gioventù ad
accorrere a Firenze e che di lì a poco, nel 1968, si
sarebbe trasformata in contestazione. Da quell’alluvione
eccezionale partì anche il progetto Mose, iniziato in piena
Prima Repubblica, la cui attivazione è prevista per il 2021,
ma le dighe da 5,5 miliardi sono già corrose dalla
salsedine, dal tempo e anche dalla corruzione… Un monumento
allo spreco e alla ruberia, mentre Venezia affonda
nell’acqua alta che non è una calamità naturale così come
non può essere soltanto considerata tale l’alluvione che ha
allagato nella stessa serata settecentosessanta chilometri
più a Sud, Matera, capitale della cultura europea 2019.
Venezia specchio d’Italia, così come Matera e l’llva di
Taranto”.
...”Nessun paese europeo aveva attraversato finora un
cammino di dissoluzione della rappresentanza politica così
travolgente come l’Italia. E nessun paese europeo aveva
vissuto la stessa crisi di legittimità del sistema e
l’incepparsi delle sedi decisionali. Dietro ogni Ilva
trasformata in una bomba ambientale e dietro ogni povero
Mose già arrugginito prima ancora di mettersi in moto c’è un
rinvio, una irresponsabilità. In più, c’è un venir meno
della fiducia nello Stato che è stata picconata da decenni
di discorsi a sfondo secessionista o di corteggiamento della
rivolta fiscale. Risorse sperperate, corruzione e evasione
tollerata si tengono insieme, se l’unico punto in comune tra
governanti e governati resta la fuga dalle decisioni. Anche
la breve storia del governo Conte 2, in fondo, si riassume
su questo punto: se è un prendere tempo per rimandare lo
scontro elettorale, è meglio far scendere il sipario… È
questo l’unico principio d’ordine dell’Italia alluvionata,
il rimando alla resa dei conti prossima futura” (Marco
Damilano, “Resa dei conti”, L’Espresso, n.
47/2019, 8 ss.).
Senza strategie
“Qual è lo stato di salute della politica industriale
italiana? Il paziente è grave, in profonda agonia. Speriamo
solo non ancora in pericolo d vita. Questa è la risposta
suggerita dalle recenti vicende che riguardano, in
particolare, l’ex Ilva di Taranto e Alitalia. Siamo ben
lontani da quella che dovrebbe essere la prospettiva normale
del Paese”.
In questo difficile autunno del 2019, “obiettivo principale
è dare certezza, prospettiva e tranquillità a lavoratori e
famiglie coinvolte”…
Ma “cosa succede al nostro Paese?... Ci siamo ridotti a
procedere per emergenze e non più per progetti, per
salvataggi invece che per rilanci, per assistenza e non per
promozione; peggio ancora: ci siamo ridotti a far definire
la politica industriale dalla giustizia civile e dal diritto
fallimentare e non dalle stanze di Palazzo Chigi o dalle
aule del Parlamento”…
Come si è giunti a tanto? “Possibili cause sono da
ricercarsi nelle debolezze di fondo della politica italiana
e in quelle della politica industriale in particolare…
Il tempo per rinsavire ormai è agli sgoccioli” (Paolo
Balduzzi, “Il Paese dell’eterno salvataggio industriale”,
Il Messaggero, 22 novembre 2019).
Italia in ginocchio
Un governo traballante, condizioni climatiche disastrose,
ponti che crollano, acque indomabili flagellano il nostro
Paese.
E i responsabili? In Italia, la dinastia dei responsabili è
estinta da tempo.
Una moda scema
Vittorio Feltri (“Dare
alla Segre cittadinanze onorarie è una moda scema”,
Libero, 26
novembre 2019) così qualifica le iniziative di diversi
Comuni che fanno a gara per conferire la cittadinanza
onoraria alla Senatrice a vita Liliana Segre. Iniziative che
certamente non cancellano le tante atrocità patite dagli
ebrei nei campi di sterminio.
5
dicembre 2019
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia civile
Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno
cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del
dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue
attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali
od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di
appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso
di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il
dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la
condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il
danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile senza
l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto
deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo
oggettivamente anomalo (Cass., Sez. un. civ., sentenza 16
maggio 2019, n. 13246).
Tasse e giustizia
“Al di là della vicenda drammatica di Taranto, l’Italia fa
fatica ad attrarre investimenti e tecnologie. E, ancora di
più, a trattenere il capitale umano che è indispensabile per
poter anche solo pensare di avere un futuro.
Sono il fisco e la giustizia e – per essere più precisi – il
livello di difficoltà dell’adempimento tributario e
l’incertezza del diritto, i due fattori che, più di
qualsiasi altro, hanno allontanato l’Italia da una battaglia
per il ventunesimo secolo che si gioca sulla conoscenza.”
“La prestazione sul Fisco e sulla Giustizia continua ad
eludere decine di tentativi di semplificazione e sembriamo
come intrappolati in un paradosso: lo Stato appare
contemporaneamente invasivo e, spesso, impotente nel far
rispettare le sue stesse regole…
È questo lo scenario strutturale rispetto al quale si
consumano drammi come quello dell’acciaio: regole complicate
alle quali si cercano strade d’uscita attraverso decreti ed
eccezioni che, però, producono soluzioni sempre fragili e
nuova incertezza. In questo contesto fare politica
industriale è semplicemente impossibile… Sono quelli sul
Fisco e la Giustizia i cantieri di cambiamento più
importanti per chi voglia provare a far uscire l’Italia da
un declino senza fine”.
(Francesco Grillo, “Dalle tasse alla giustizia perché
l’Italia è bloccata”, Il Messaggero, 13 novembre 2019).
Ilva e non solo
Al Ministero dello sviluppo ci sono 146 tavoli di crisi: se
ne risolve bene uno su tre. E crescono i disoccupati.
“In una fase storica di delicatissima transizione per
l’economia globale, l’esecutivo di Roma non è in grado di
abbozzare una risposta che indichi quantomeno una direzione
di marcia per un Paese che vede sgretolarsi il proprio
tessuto industriale. ...Messa di fronte a problemi concreti
come quello, enorme, della chiusura dell’Ilva di Taranto con
la perdita di almeno diecimila posti di lavoro e il
definitivo naufragio della siderurgia nazionale, il governo
di Giuseppe Conte si spacca, peggio si frantuma, dietro una
cortina fumogena di slogan che promettono la difesa a
oltranza dell’interesse nazionale contro le oscure manovre
dello straniero, cioè la multinazionale a trazione indiana
Arcelor-Mittal. E così nella confusione generale, tra gli
estremisti grillini decisi a farla finita una volta per
tutte con l’impianto di Taranto e le sue polveri inquinanti
contrapposti ai renziani che manovrano per mettere in campo
nuove cordate di acquirenti, l’unico dato concreto di
cronaca rimane il grottesco spettacolo di un esecutivo, anzi
due, il Conte uno e il Conte bis, che nell’arco di poco più
di un anno sono riusciti a fornire ai padroni di Ilva ogni
pretesto possibile per sfilarsi da un accordo che li obbliga
a investimenti miliardari in un’azienda che viaggia a ritmo
di due milioni di perdite al giorno. L’immunità penale per
eventuali reati commessi nel risanamento ambientale è stata
prima concessa, poi revocata, quindi reintrodotta e infine,
pochi giorni fa, di nuovo cancellata. Una girandola surreale
che, con buona pace della certezza del diritto, sembra
studiata apposta per convincere i grandi investitori
internazionali a girare al largo dall’Italia. Adesso Conte
corre ai ripari. Apre l’ennesimo tavolo negoziale. Un
copione già visto più volte. Ennesima conferma che
l’orizzonte del governo sulle questioni di politica
industriale fatica ad andare oltre le ventiquattro ore”
(Vittorio Malagutti, “Ilva
e non solo”,
L’Espresso, n. 46/2019, 22 ss.).
Vittorio Feltri, “L’irriverente. Memorie di un
cronista”, Milano, 2019
Ne “L’irriverente”
Vittorio Feltri “traccia il ritratto, pungente e affettuoso
al tempo stesso, delle persone che hanno lasciato un segno
nella sua vita”.
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