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Un Sogno Italiano giovedì, 07 maggio 2020 ultimo aggiornamento

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Il giornale degli italiani liberi

 

 


Non è la libertà che manca,
mancano gli uomini liberi

(Leo Longanesi, 1956)

 

I ladri di beni privati

passano la vita in carcere

e in catene, quelli di beni pubblici

nelle ricchezze e negli onori

(Marco Porcio Catone)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A quasi 13 anni dal suo esordio, Un Sogno Italiano cambia “abito”,

per offrire ai lettori, attraverso una nuova impostazione grafica, pagine più leggibili, accompagnate, ove necessario, da illustrazioni che valorizzino l’informazione e i commenti. Ancora, “per non arrenderci al pessimismo”, come scrivevo il 4 dicembre 2007 nel presentare il giornale.

Nuovo indirizzo http:/www.unsognoitaliano.eu

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia civile

Le Sezioni unite hanno escluso l’ammissibilità del ricorso per eccesso o straripamento della giurisdizione (nella specie, per invasione del potere legislativo) in tutte quelle ipotesi in cui le censure mosse alla decisione del Consiglio di Stato riguardino l’interpretazione del giudicato, gli errori nei quali il giudice dell’ottemperanza è incorso nel definirne il perimetro, trattandosi di censure strettamente inerenti i limiti interni e non esterni della giurisdizione.

Nel caso concreto, la contestazione mossa alla sentenza impugnata ha ad oggetto la portata precettiva della decisione della quale si è richiesta l’ottemperanza. Ne consegue che oggetto di censura non è la possibilità di far ricorso al giudizio di ottemperanza, ma il modo con il quale il potere giurisdizionale è stato esercitato dal giudice amministrativo, ferma la sua indiscussa potestas iudicandi in tema di verifica della portata e dell’ampiezza del giudicato ed in relazione all’interpretazione del giudicato stesso.

La censura ha riguardato esclusivamente l’interpretazione del giudicato, già oggetto della valutazione conforme del giudice dell’ottemperanza di primo grado, con conseguente radicale insussistenza dell’invasione del potere legislativo (Cass., Sez. un. civ., ordinanza 19 marzo 2020, n. 7453).

 

In ricordo del Prof. Giuseppe Guarino

Il 17 aprile è deceduto il Prof. Giuseppe Guarino, Maestro di diritto, costituzionalista insigne, Emerito nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

Ricordiamolo con devozione sincera e profondo cordoglio.

 

Emergenza e libertà personali

Pochi sembrano rendersi conto dei pericoli che derivano da questa china autoritaria occultata dalle necessità urgenti del pericolo sanitario. Purtroppo la storia insegna che la violazione della legalità costituzionale, anche quando giustificata da pressanti esigenze straordinarie ed urgenti, può avere esiti non previsti e non prevedibili, magari perché nel frattempo giunge a mettere le cose a posto il solito Uomo della Provvidenza che assume il potere e, di emergenza in emergenza, tra le tante che è possibile immaginare in un Paese che la politica ha reso straordinariamente fragile, limita la democrazia che, ricordiamolo, da sempre, a parole interessa tutti, ma preme solamente alle persone alle quali gli ideali della libertà stanno particolarmente a cuore, per cultura e tradizione identitaria” (Salvatore Sfrecola, “Emergenza e libertà personali: spesso una difficile convivenza”, in questa Riv., 17 aprile 2020).

 

Verso un nuovo 8 settembre?

“Una classe politica, di fronte a una situazione che si riassume in due semplici cifre, oltre ventimila morti e oltre quattro milioni e mezzo di richieste di cassa integrazione, rinuncia in partenza ad autocelebrazioni e polemiche. Non è questa la strada scelta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal suo staff di collaboratori… La moltiplicazione dei comitati, le divisioni della maggioranza, l’ossessione comunicativa del premier sono i volti di questo irreale stato di eccezione in cui manca il sovrano che decide. Mentre il Paese si avvia verso l’8 settembre economico e sociale… Il 25 aprile 2020 non sarà una giornata di impossibili manifestazioni, ma di una comunità che regge con pazienza in condizioni potenzialmente disperate, nell’isolamento e spesso nella solitudine… Non c’è retorica, non ci sono inni nazionali da cantare affacciati dai balconi, c’è il silenzio, c’è la pietà, c’è l’impegno a ricostruire insieme un tessuto civile che rischia di essere spezzato dalle conseguenze del dopovirus… Il domani che aspettiamo oggi è una nebulosa acre, amara” (Marco Damilano, “La Liberazione”, L’Espresso, n. 17/2020, 8 ss.).

 

La sovranità impopolare

Lo stato italiano, ormai, è soltanto un’ombra, un compromesso fra il partito di maggioranza e il Parlamento, e trae la sua autorità da una vecchia tradizione burocratica: esso agisce per indolenza, e resta unito in virtù di strane alleanze fra la grossa borghesia e i suoi clienti, fra risparmiatori e dissipatori, poggiando su un ceto medio deluso, ma ancora patriottico, e sulla paura del peggio(Leo Longanesi, “Il destino ha cambiato cavallo”, Milano, 1951, in “Il meglio di Longanesi”, Milano, 1958, 353 ss.).

 

Da Calamandrei

“Per capire come il processo veramente funzioni, non basta neanche assistere alle udienze, o legger le sentenze, o studiare le statistiche giudiziarie: i riti essenziali della giustizia sono quelli che si celebrano senza spettatori nelle camere di consiglio ove si decidono le sorti delle cause, o nei consigli giudiziari ove si decidono le sorti dei magistrati.

Da questi misteri orfici, non dalle formalità esteriori, dipende il buon funzionamento della giustizia. Anche nella procedura, come nella liturgia, esistono cerimonie esoteriche, alle quali possono partecipare solo gli iniziati: noi profani, che studiamo la procedura sui codici, ne siamo all’oscuro” (Piero Calamandrei, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, rist. 2^ ed., Milano, 2001, 19 s.).

 

La burocrazia

La burocrazia: il virus più pernicioso da combattere.

 

Lo Stato che abdica

La visione di alcune riprese televisive effettuate in zone disastrate dalle più recenti scosse sismiche, induce a ritenere che lo Stato abbia ormai abdicato alle sue funzioni istituzionali, incurante della propria dignità e della voglia di esistere.

 

“Ripartire”

Si parla insistentemente della necessità di “ripartire”. Come, quando, quali obiettivi, quali risorse economiche?

Un amico dell’area partenopea avrebbe così commentato: “La bocca è nu’ bello strumento!”.

 

Ai giovani (e ai non giovani)

“Studiate invece di perdere tempo su Internet (Vittorio Sgarbi, “Diario della capra 2019/20”, Milano, 2019).

28 aprile 2020

 

 

 

 

L’assurdo divieto di rifugiarsi nelle seconde case

di Salvatore Sfrecola

 

Contravvenendo a quanto si diceva alla vigilia dell’emanazione del decreto del Presidente del Consiglio del 26 aprile, gli italiani non potranno recarsi nelle seconde case, al mare, in campagna, ai monti. Il testo, fortemente equivoco del decreto, è stato interpretato in questo senso “autenticamente” dal Ministro delle infrastrutture Paola De Micheli, anche se non sappiamo a quale titolo, considerato, se non altro, il ruolo istituzionale ricoperto.

Parliamo della seconda casa, dove è possibile una condizione di vita spesso più agevole, in rapporto alla natura, dopo la lunga permanenza nell’abitazione cittadina, accettata dagli italiani nella consapevolezza che fosse misura necessaria per contrastare il pericolo di contagio da COVID-19. Cambiare aria, anche a tutela delle condizioni psicologiche che sappiamo incrinate dalla costrizione cittadina. A leggere l’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto, è evidente la contraddittorietà della norma che consente solo “gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”. Sono considerati “necessari”, spiega la norma, “gli spostamenti per incontrare congiunti”, con tutte le cautele del caso, evitando “assembramenti” e garantendo il “distanziamento interpersonale”.

Con queste limitazioni non si comprende la logica del divieto di trascorrere un periodo, nelle stesse condizioni di cautela adottate in città, al mare o ai monti, che appare possibile solo se in quelle località ho dei congiunti, perché questa è l’interpretazione logica (cioè i congiunti non li posso portare al seguito). Per la verità, fin dall’inizio, questa limitazione è parsa illogica, considerato che l’abitazione a disposizione della famiglia, di proprietà o in affitto, in una località gradita, specialmente se dotata di spazi superiori o più ariosi rispetto a quelli di cui si può godere in città, avrebbe costituito una modalità di distanziamento coerente con la prevenzione del contagio, con l’effetto positivo di limitare fortemente un disagio fonte, come si è fatto cenno, di conseguenze negative sul piano psicologico.

Normativa confusa, dunque, ed equivoca, come ci ha abituato il Presidente Conte con l’emanazione alluvionale di disposizioni legislative e amministrative alle quali si uniscono ordinanze di Protezione civile, decreti del Ministro della salute e, naturalmente, provvedimenti dei Presidenti delle Regioni. Confusa ed equivoca per quanto già detto con riferimento al raggiungimento dei “congiunti” e per il fatto il divieto di recarsi nelle seconde case probabilmente deriva dal fatto che si è ritenuto che questa modalità di permanenza fuori città fosse in contrasto con il divieto di mobilità e favorisse l’assembramento, cioè la riunione con persone evidentemente non della famiglia. Se questa è stata la preoccupazione è, senza mezzi termini, una colossale sciocchezza. In primo luogo, perché il divieto di mobilità non doveva essere riferito al trasferimento in un’altra località, mentre l’ipotesi che la seconda casa fosse occasione di assembramenti è frutto di un processo alle intenzioni. Infatti, sarebbe stato agevole verificare sul posto l’eventuale assembramento.

Molto probabilmente, invece, il divieto è conseguenza di scelte politiche guidate da convinzioni ideologiche, come quella che la seconda casa è espressione di ricchezza, dimenticando che le seconde case al mare, ai monti, in campagna sono spesso le casette dei nonni e dei padri, conservate per un fatto affettivo, anche quando la loro manutenzione è costosa e la proprietà è pesantemente tassata da sindaci sempre alla ricerca di entrate, incuranti dell’apporto che i proprietari delle seconde case recano all’economia del Paese.

28 aprile 2020

 

 

Le chiese riapriranno dal 4 maggio ma non si potrà dir messa. E i Vescovi protestano

di Salvatore Sfrecola

 

Funerali sì, ma con certe limitazioni. Solo alla presenza di parenti stretti (“congiunti”) e fino ad un massimo di quindici persone, da tenersi “preferibilmente all’aperto”. Così l’art. 1, lettera i) del decreto del Presidente del Consiglio 26 aprile 2020. Ma niente “cerimonie religiose”, niente messe, dunque. E per questo protesta la Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.). “I Vescovi italiani – si legge in un comunicato – non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”. Un diritto fondamentale, garantito per tutti dalla Costituzione all’art. 19. Merita di essere ricordata in proposito una recente pronuncia della Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca per la quale il divieto di riunione nei luoghi di culto costituisce una “grave limitazione dell’esercizio della ‘libertà religiosa’”.

È un evidente svarione dell’’“avvocato del popolo”, considerato che “l’apertura dei luoghi di culto è condizionato all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone”. Che senso ha, dunque, vietare “cerimonie religiose”? Sembra, infatti, che il Governo sia disponibile a tornare sui suoi passi. Anche perché sono ancora vivi alcuni episodi di cronaca degli ultimi giorni, con interventi delle Forze dell’Ordine e delle Polizie locali che hanno destato sconcerto vivissimo anche nei non credenti. Come nel caso del tentativo di interruzione della celebrazione eucaristica in una chiesa della Diocesi di Cremona con multe comminate ai presenti. Comportamenti difficilmente giustificabili anche alla luce della prima normativa emergenziale che avrebbe dovuto prevedere cautele ma mai la chiusura dei luoghi di culto, rimasti aperti durante le pestilenze e le guerre, anche sotto i bombardamenti. Ha consorso in questa confusione delle regole anche l’iniziale incerta difesa delle autorità religiose che avrebbero dovuto pretendere che fosse consentito alle chiese di rimanere aperte ed ai sacerdoti di celebrare le messe con la partecipazione di chi, sulla base della normativa generale, avrebbe potuto essere presente, naturalmente nel rispetto del distanziamento sociale e con l’uso di Dispositivi di Protezione Individuale e di strumenti idonei a contenere efficacemente il rischio di contagio. Considerato che, come ha ricordato nei giorni scorsi Papa Francesco, la Chiesa vive nella comunità, con il concorso delle persone che rendono effettiva la vita spirituale.

Ed ecco che un’associazione di laici, “Lettera 150”, dal numero iniziale di coloro che, professori universitari e professionisti che vi hanno aderito, con il suo Comitato Valori e Identità Religiose, formula un appello per la libertà di culto. Lo fa richiamando un illustre liberale, Alexis de Tocqueville, per il quale la libertà di culto è “la prima, la più santa, la più sacra di tutte le libertà umane”.

C’è stata molta confusione sotto il cielo del diritto “emergenziale”, dimenticando che certe regole, meglio certi principi sono espressione della civiltà giuridica di un popolo. Parliamo di cerimonie del culto cattolico, ma la compressione della libertà religiosa interessa tutti i culti perché – aggiunge l’Appello – “la situazione di “lockdown” della libertà di culto si ripercuote anche sulle altre confessioni religiose presenti in Italia, che si trovano costrette ad una compressione notevole della loro esperienza di fede”. E ricorda che la strada maestra è quella della attivazione dei canali previsti dagli Accordi con le Confessioni religiose, nonché con l’intervento dell’apposita Commissione governativa sulla libertà religiosa, che consentirebbe di concordare con tutte le religioni modalità utili per l’effettuazione dei riti collettivi, sull’esempio di quanto avviene in altri paesi, dalla Polonia alla Sassonia, per rendere compatibili le concrete modalità di esercizio della libertà di culto con la sicurezza e la salute dei fedeli, senza rischi per la salute pubblica.

Ugualmente, ricorda l’Appello, dovrebbe essere consentito “ai sacerdoti che lo desiderino” (sottraendoli all’obbligo di autocertificazione) di “recarsi presso le abitazioni dei malati con appositi presidi e dispositivi per somministrare, laddove richiesto e laddove possibile, i sacramenti”. È civiltà, è rispetto delle persone.

27 aprile 2020

 

 

25 aprile 1945: considerazioni impolitiche

di Domenico Giglio

 

Il 25 aprile fu la data della insurrezioni di tutte le forze patriottiche e partigiane deciso dal CLNAI e dal comando militare dello stesso, avendo le forze alleate, delle quali facevano parte anche i Gruppo di Combattimento del Regio Esercito, sferrato l’offensiva definitiva contro le linee germaniche, sfondandole ed avanzando su tutto il fronte, dal Tirreno all’Adriatico, raggiungendo Bologna e puntando verso la pianura lombardo-veneta. In realtà le operazioni belliche terminarono alle ore 14 del 2 maggio, dopo la resa delle truppe tedesche, firmata il 29 aprile nelle Reggia di Caserta.

La data quindi non celebra la fine delle ostilità, come il 4 novembre 1918 (che andrebbe essere reinserita come Festa Nazionale), ma, diciamo, lo slancio finale, che avrebbe portato alla completa liberazione del territorio italiano, anche se Trieste e l’Istria videro l’arrivo, non certo liberatorio dei comunisti jugoslavi, prima che vi giungessero gli anglo-americani a ristabilire, parzialmente, la situazione.

Nelle celebrazioni susseguitesi dal 1949, dopo quella iniziale del 25 aprile del 1946, si sono ripetute e si ripetano ancora alcune affermazioni retoriche, per dare lustro alla data, quale ad esempio quella di aver ristabilto la democrazia e di aver dato i natali alla repubblica, affermazioni entrambe false. La prima del ristabilimento delle istituzioni parlamentari con le relative elezioni politiche, risale, non dimentichiamolo, ad un Decreto del Governo Badoglio (R.D.L. del 2 agosto 1943, n.175), dove si stabiliva procedere alla elezione della Camera dei Deputati, quattro mesi dopo la fine della guerra, decreto che fu sostituito con altro D.L.L. del 25 giugno 1944, n.141, dove era precisato che, sempre dopo la liberazione del territorio nazionale, si sarebbe proceduto alla elezione non più della Camera dei Deputati, ma di una Assemblea Costituente. Quindi nulla mutava od aggiungeva a queste decisioni la sollevazione del 25 aprile. Il ristabilimento della democrazia era già scritto e deciso, e nell’Italia Centro Meridionale, dal giugno 1944 (liberazione di Roma ), la vita politica ed i partiti avevano ripreso la loro attività, si pubblicavano giornali, si tenevano comizi.

La seconda affermazione, relativa alla repubblica, oltre che falsa era ed è anche offensiva per tutti coloro che parteciparono direttamente od indirettamente alla guerra di liberazione per fedeltà al giuramento prestato per il “bene indissolubile del Re e della Patria”. E questi furono centinaia di migliaia, a cominciare dal ricostituito Regio Esercito, dalla Regia Marina ed Aeronautica, dai Reali Carabinieri, dalle formazioni patriottiche (non partigiane), sorte subito dopo l’8 settembre 1943, di cui solo a titolo indicativo e non esaustivo ricordiamo le fiamme verdi di Martini Mauri e la “Franchi” di Edgardo Sogno, ed i loro caduti, tra i quali furono generali, ammiragli ed altri alti ufficiali, quando non risultano invece esservi nessun esponente dei partiti politici del CLN, nascosti o protetti in chiese e monasteri. Per precisione e correttezza ne ricordiamo l’unico caduto, Bruno Buozzi, sindacalista e già deputato socialista, fucilato dai tedeschi, il 4 giugno 1944, in località “la Storta”, sulla Via Cassia, quando stavano fuggendo da Roma, ma insieme con lui, ribadiamo, furono fucilati il generale Dodi, ed altri ufficiali. Con l’occasione credo sia opportuno ricordare che Bruno Buozzi, aveva accettato di collaborare con il Governo Badoglio, dopo il 25 luglio, ricevendo l’incarico commissariale degli ex sindacati fascisti.

Abbiamo detto partecipare anche “indirettamente” alla guerra di liberazione, e mi riferisco alle centinaia di migliaia di soldati, oltre 600.000, presi prigionieri dai tedeschi, dopo l’8 settembre, e rinchiusi, in condizioni disumane, nei campi di concentramento, veri lager, E quando agli stessi fu proposto da emissari della repubblica sociale di aderire alla stessa e tornare così in Italia, oltre il 90% rifiutò l’offerta per quel famoso giuramento, di cui oggi si parla, a denti stretti, dimenticando sempre e volutamente a chi fosse prestato.

Sempre in merito all’offesa recata ai monarchici che avevano partecipato alla vera Resistenza ricordiamo che nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, le provincie di Cuneo, Asti e Bergamo dove vi erano stati importanti nuclei di patrioti, dettero la maggioranza alla Monarchia, come la dette Alba, vilmente chiamata “repubblica di Alba”, le cui vicende furono descritte dal “badogliano” Beppe Fenoglio, in un grande romanzo storico che nessuna importante casa editrice ha più ripubblicato, per quella “congiura del silenzio”, su quanto di positivo abbiano fatto i monarchici e Casa Savoia.

 

 

Sessanta, ma non li dimostra !

di Domenico Giglio

 

Spero che la proposta di prolungare la quarantena del coronavirus agli ultrasettantenni, modificata in peggio agli ultrasessantenni, che sta provocando reazioni indignate di eminenti personalità e di più modeste persone unite nella condanna ad una decisione antidemocratica ed anticostituzionale produca l’effetto di fare ringoiare la proposta stessa a chi aveva lanciato l’idea. Ma dal momento che il problema degli anziani è stato posto o proposto facciamo alcune considerazioni pacate e ragioniamo sulle cifre.

La notizia della prevalenza tra i colpiti e soprattutto tra i defunti delle persone anziane è stata divulgata quasi contemporaneamente alle notizie sulla situazione precaria, dal punto di vista sanitario, delle RSA, cioè delle residenze dei veri anziani, cioè di una esigua percentuale degli stessi, rispetto alla totalità delle persone, che, effettivamente più che numerose in Italia, hanno superato questo traguardo dell’età. Se responsabilità dei gestori delle RSA e di chi doveva sorvegliare saranno accertate avremo una prova che il virus ha trovato in queste persone già debilitate, una strada facile, che invece non trova in chi, oltre e ben oltre, quella età, continua a svolgere attività lavorative o segue una vita familiare normale con quelle precauzioni usate, già prima del virus, per educazione e cultura. Le esperienze passate, per alcuni anche la “asiatica” degli anni ’50 del secolo scorso costituivano una difesa, che invece le giovani generazioni non hanno, oltre al tipo di vita attiva, ma più contenuta ed equilibrate praticata da parte di queste persone “anziane”.

Tutto questo è stato evidentemente non considerato o sottovalutato dagli inventori del prolungamento sine die della quarantena e dispiace leggere frasi dei promotori di questa ipotesi di provvedimento, che lo stesso è stato pensato proprio nell’interesse (sic) degli anziani, incapaci di regolarsi da soli. Ora di queste preoccupazioni vorremmo delle prove dal momento che in tanti altri provvedimenti, dal fisco, ai trasporti, alla cultura ( vedi mostre e musei), ai rapporti con le pubbliche amministrazioni (ad esempio perché l’INPS non manda più il CUD a casa?) non vedo agevolazioni per gli anziani, se non aggravi (ad esempio in caso di lavori di ripristino nelle abitazioni, il recupero fiscale per gli ottantenni previsto in cinque anni e non in dieci, fu abolito, alla chetichella, per cui oggi anche i vecchietti debbono sperare di campare dieci anni, mentre il fisco spera nella loro premorienza!). E per oggi credo sia sufficiente.

24 aprile 2020

 

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della legge n. 241 del 1990, senza che il giudice amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento.

È ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 legge n. 241 del 1990, e una conseguente legittimazione ad avere accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e, quindi, allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale.

La disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, agli atti della fase dell’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis d.lgs. n. 33 del 2013, in combinato disposto con l’art. 53 e con le previsioni della legge n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall’accesso civico generalizzato, ma resta ferma la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza (Cons. Stato, Ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10, con commento di Licia Grassucci, “È ammesso l’accesso civico generalizzato agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara”, in www.italiappalti.it, 9 aprile 2020: commento che di certo agevola una migliore comprensione delle questioni affrontate dall’Adunanza Plenaria).

 

Il passaggio

“Pasqua è passaggio in questo 2020 vissuto nel silenzio, nello svuotamento. Pasqua è il deserto che stiamo attraversando, l’esilio da noi stessi. Con la sua scia infinita di lutti, di chi non ci sarà più, di una mancanza che non conosce rimedio. Di isolamento e di distanza tra le persone, di spoliazione di ogni certezza. E di resistenza dello spirito, il grande dimenticato fino alla pandemia. Di senso profondo delle cose, oltre la superficie che ci soffoca, di umanità liberata. Aspettiamo di riaprire le case, come singoli individui e come comunità nazionale, ma intanto sono già ora tante le pietre da far rotolare, politiche, economiche, sociali, culturali. Ecco perché il sepolcro vuoto è un segno che parla a tutti, con la sua nuda, insopprimibile speranza. Non si cerca tra i morti chi è vivo” (Marco Damilano, “Il passaggio”, L’Espresso, n. 16/2020, 8 ss.).

 

Come far ripartire l’economia

Recentemente, Salvatore Sfrecola (“Un grande prestito nazionale per far ripartire l’economia”, in questa Riv., 5 aprile 2020) è intervenuto sulla necessità di far ripartire la nostra economia.

Le alternative, allo stato, sono due: il ricorso al M.E.S., con modalità e tempi ancora da definire, oppure il ricorso a non meglio identificate risorse interne.

Riguardo a questo secondo aspetto, concordiamo nel respingere, fin d’ora, “le forme predatorie che ricordano il Governo Amato o certe ventilate iniziative che sanno tanto di imposta patrimoniale“ e, men che mai, “contributi di solidarietà da imporre a dipendenti e pensionati”.

La strada maestra suggerita da Sfrecola è quella di “chiedere agli italiani di sottoscrivere un grande prestito pubblico destinato al rilancio dell’economia attraverso uno straordinario piano di interventi infrastrutturali che riguardino strade, autostrade, ferrovie, metropolitane, porti, aeroporti e turismo”.

Pertanto, ad oggi, non resta che attendere, auspicando che le scelte governative privilegino le legittime aspettative degli italiani, già fortemente penalizzati dalla crisi in atto che ha notevolmente compromesso la nostra economia.

Chi vivrà, vedrà. Coronavirus permettendo.

 

Emergenza Trivulzio

Il Pio Albergo Trivulzio, “lo storico ospizio milanese, che fu l’epicentro di Tangentopoli, torna sotto inchiesta per ipotesi di reato gravissime, legate all’abnorme numero di anziani uccisi dall’epidemia di coronavirus”, come avvenuto in altre strutture per la terza età.

I decessi verificatisi negli ospizi sono enormi, specie nelle zone maggiormente colpite dal virus.

“Un disastro che sembrava impensabile almeno in quella istituzione pubblica, il Trivulzio, che da quasi trent’anni è al centro di mille annunci e promesse di far dimenticare uno scandalo epocale come Tangentopoli… Il Pio Albergo Trivulzio è la prima e più importante istituzione milanese di sostegno agli anziani, con oltre 1200 posti letto. L’istituto ha assorbito altre fondazioni, come Martinitt e Stelline, dedicate agli orfani e minori abbandonati” (Paolo Biondani, “I furbetti del Coronavirus”, L’Espresso, n. 16/2020, 22 s.).

 

Non è agevole “scrivere la storia”

“In questo panorama che pullula di personalità a loro agio, non stupisce si navighi ormai in almeno una decina tra decreti del presidente del consiglio e decreti legge, due delibere del consiglio dei ministri, venti ordinanze del capo della protezione civile, per un totale di oltre 340 pagine esclusi gli elenchi, le circolari interpretative e le altre ordinanze (ministeriali, regionali, comunali). Una completa immersione in un mondo da grida manzoniane, da esercizi di stile alla Queneau, nel quale però si pensa molto a scrivere la storia. Ci pensa oggi Conte, ci pensava lo scorso governo Luigi Di Maio, uno che adesso se ne sta prudentemente defilato. Come poi da questa storia si riuscirà invece a uscire, ancora non si capisce” (Susanna Turco, “Decido io, anzi no”, L‘Espresso, n. 15/2020, 28 ss.).

Lasciando da parte sia la navigazione a vista, sia la compagine governativa zeppa di dilettanti allo sbaraglio, non può non essere posto nel dovuto risalto che la cura che si tenta di attuare potrebbe risultare ben più deleteria della malattia.

22 aprile 2020

 

 

“Partigiane liberali”, un nuovo libro di Rossella Pace,

di Salvatore Sfrecola

 

Che la resistenza al nazifascismo, contrariamente alla vulgata diffusa a piene mani nel dopoguerra, non sia stata monopolio della Sinistra egemonizzata dal Partito Comunista Italiano, Rossella Pace, PhD in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma “La Sapienza” e Segretario Generale dell’Istituto storico per il pensiero liberale internazionale, lo aveva già documentato nel suo precedente saggio “La resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana”. Adesso torna sul tema (“Partigiane liberali”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020, pp. 263, € 16,00) con l’autorevolezza che le deriva da una lettura rigorosa degli orientamenti storiografici e, insieme, dei documenti che hanno interessato un po’ tutti gli aspetti delle complesse vicende politiche e militari della Guerra di Liberazione. E così squarcia il velo del silenzio sulla presenza di cattolici, liberali e monarchici, a lungo imposto quale “verità” ufficiale dai connotati funzionali alla presenza delle Sinistre nella società. Lo fa avvalendosi anche della copiosa documentazione, messa a disposizione, in particolare, dalle famiglie Filograna – Minoletti e Sogno, con speciale riferimento alle testimonianze del diario di Virginia Minoletti Quarello del periodo 1940-1944, dalle quali emerge il ruolo di personalità del Partito Liberale Italiano, impegnate nell’opposizione al Fascismo, prima, e nella lotta armata, poi. Tra le quali si segnalano alcune donne che saranno protagoniste nei vari comparti della Resistenza.

L’Introduzione di Rossella Pace prende le mosse da una testimonianza di Eugenio Artom, dirigente liberale di primo piano, impegnato nella Resistenza ed attivo nel partito anche dopoguerra, per il quale quell’esperienza “non è stato un movimento univoco, compatto: è stata la risultante di un complesso di componenti, diverse nei propri motivi e nelle loro mete ultime, che pur dell’unità dell’azione hanno conservato la loro autonomia”.

“Partigiane liberali” scava, dunque, nelle vicende solitamente trascurate dalla prevalente storiografia, che, sottolinea la Pace, ha avuto nel dopoguerra “uno sviluppo lento e piuttosto faticoso, dovuto a vari fattori politici e culturali, tra cui innanzitutto nell’Italia repubblicana la difficile convivenza tra diverse “famiglie” politico-ideologiche che condizionavano fortemente la strutturazione della “memoria civile”. E sottolinea come è solamente negli anni 80, con il declino dell’egemonia comunista, che si incrina la monolitica narrazione di una lotta al nazifascismo guidata dalle Sinistre. Ne dà conto il primo capitolo nel quale si legge una puntuale, rigorosa ricognizione degli orientamenti che hanno affermato  “una memoria pubblica che è stata in grado di attivare nel Paese processi di identificazione profondi tali da conferirle i tratti di una memoria collettiva”. E che ha minimizzato, quando non integralmente trascurato l’apporto della componente liberale alla lotta di liberazione e, in questo ambito, il ruolo che in quelle convulse vicende hanno avuto le donne.

Ricorda il libro come la presenza dei liberali sia stata espressione di quella diffusa diffidenza, divenuta poi aperta ostilità, emersa nell’ambito della classe aristocratica e borghese, dove era stato presto percepita la deriva autoritaria e illiberale del governo di Benito Mussolini. È quella parte dell’opinione pubblica più legata alla tradizione della classe politica liberale, che potremmo definire giolittiana, nei cui salotti si sono formati molti dei giovani che s’impegneranno nella lotta di liberazione e nel confronto politico del primo dopoguerra. Non a caso, infatti, questi sentimenti antifascisti si manifestano, in primo luogo, in Piemonte e in Liguria, nelle aree culturali che si erano alimentate alla passione politica del Risorgimento e delle istituzioni della libertà, da Cavour a Giolitti, appunto. Ambienti dove si leggevano le opere di Benedetto Croce e Luigi Einaudi, campioni della libertà senza aggettivi, come dimostra il loro garbato confronto sul rapporto tra liberalismo e liberismo, “non una disputa su una dottrina ma uno schiarimento del pensiero in vista della riconquista della libertà civile”, come ha scritto Giancristiano Desiderio (“Croce ed Einaudi, teoria e pratica del liberalismo”, Rubbetttino, 2020, 13). Queste persone sentivano il peso delle limitazioni delle libertà ad opera di un governo che molti esponenti qualificati della classe politica si erano illusi di considerare provvisorio, comunque un “male minore” per uscire dalla crisi politica del primo dopoguerra caratterizzata da una violenta contrapposizione tra Sinistre e fascisti che non sembrava possibile ricondurre in tempi brevi nell’ambito della legalità costituzionale nella fase, comunque difficile, della ripresa economica e della riconversione industriale.

È, dunque, naturale che questi antifascisti, effettivamente “della prima ora”, attivi già nel 1942, insieme ai gruppi monarchici legati ad Edgardo Sogno, all’indomani dell’invasione nazista e della formazione della Repubblica Sociale Italiana prendessero le armi e si unissero ai reparti sbandati del Regio Esercito dopo l’8 settembre, ad ex prigionieri di guerra, fuorusciti ed ex condannati politici, ai giovani che non intendevano rispondere alla chiamata alle armi del Governo di Salò, per operare nelle città e sulle montagne. E danno vita ai primi Comitati Militari, successivamente coordinati dal Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.). Ovunque sono presenti elementi espressione del Partito liberale, anche a Roma dove si incontrano Manlio Brosio, Leone Cattani, in contatto con Croce ed Einaudi, e il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo responsabile della resistenza militare nella Capitale. Tradito, fu catturato e portato nella prigione della Gestapo di via Tasso insieme al maggiore dei Carabinieri Ugo De Carolis. Torturati, finiranno trucidati alle fosse Ardeatine dopo l’attentato di via Rasella. Rossella Pace ricostruisce sul filo delle preziose testimonianze acquisite, l’organizzazione della resistenza dei liberali, non solo di idee ma di partito, in particolare delle donne il cui ruolo è stato troppo spesso confinato in funzioni di portaordini e staffette, di vivandiere e di infermiere.

“Una volta fatta la propria scelta – scrive la Pace -, le donne seppero anche passare all’iniziativa, comprendendo che la resistenza avrebbe costituito un passo decisivo sulla strada dell’emancipazione individuale e di tutte”. In guerra, inizialmente senza armi, “ricorrendo ad azioni che rientrassero nell’ambito dell’attività femminile consolidata, tesa a rivendicarne l’importante ruolo che le donne avrebbero dovuto svolgere nella società, ma che era stato loro sempre negato”. Donne impegnate in ruoli diversi, tutti funzionali alla causa, a volte poco appariscenti ma di straordinaria utilità, come nei momenti più duri dei rastrellamenti. Molte avrebbero conosciuto il carcere e le torture, la deportazione in Germania, altre vennero fucilate o impiccate. Oltre 1000 caddero in combattimento. Un grande impegno, come dimostrano le 19 medaglie d’oro al valor militare.

Lottarono anche contro i pregiudizi che non cessarono neppure a guerra finita, quando “in tanti cortei per le vie cittadine alle donne partigiane arrivò l’ordine di non sfilare, oppure di farlo solo come crocerossine”.

Rilevante, in particolare, l’apporto che le donne diedero nella costituzione e nella gestione delle reti informative, di approvvigionamento e trasporto di armi e di vettovaglie necessarie ai reparti combattenti nei quali operavano padri, mariti, figli, nipoti. Rossella Pace aveva già messo in risalto nel suo precedente saggio l’importanza delle reti, cioè di quella straordinaria e capillare organizzazione presente in tutto il Nord ma che arrivava fino a Roma e nella quale le donne avevano un ruolo decisivo. ”Grazie al funzionamento di questa rete - scrive - le notizie da Milano arrivavano a Genova e poi a Torino e viceversa”. Non solo, ma svolgevano anche attività di spionaggio, che raggiungerà livelli di eccellenza con l’organizzazione Franchi, composta quasi esclusivamente da liberali. Questo consentì anche il controllo dei territori, evitando spesso che i tedeschi in fuga distruggessero ponti, strade, comunicazioni telegrafiche e telefoniche, infrastrutture di vitale importanza per una rapida avanzata delle formazioni partigiane e comunque una ricchezza del Paese che andava preservata in vista del dopoguerra e del ritorno alla vita democratica.

L’Autrice mette in risalto le difficoltà che le iniziative delle donne liberali hanno trovato, soprattutto da parte delle comuniste (come nell’organizzazione del Coordinamento femminile), prevalentemente operaie e quindi diffidenti, quando non ostili, nei confronti delle aristocratiche e delle borghesi. A dimostrazione che la guerra al nazifascismo ha avuto i caratteri, oltre che di guerra civile tra italiani, anche di scontro di classe, del proletariato contro il padronato, e che avrebbe pesato moltissimo su quella conventio ad excludendum nei confronti dei liberali, che sarà una costante della guerra di liberazione e dopo nella memoria storica. Come se non si volesse ammettere che dei “Signori”, in quanto esponenti della classe dirigente, lottassero per la libertà contro il Fascismo e il tedesco invasore, essendo fedeli al potere legittimo rappresentato dal Re a Brindisi. Uno scontro esasperato anche in funzione delle prospettive che ogni partito riservava a sè in vista del dopoguerra e della definizione della “questione istituzionale” che le Sinistre avevano posto al centro della loro azione politica, ancorché Palmiro Togliatti, che sapeva ben leggere nell’animo della gente e valutare l’opportunità dei tempi, avesse scelto la momentanea collaborazione con la monarchia con quella che è passata alla storia come la “svolta” di Salerno.

Prezioso per questa rilettura di pagine fondamentali della resistenza politica e militare, il libro ci conduce nella società delle famiglie aristocratiche e altoborghesi a Torino (Cristina e Costanza Casana) e a Genova (Virginia Minoletti Quarello ed Maria Eugenia Burlando, per fare un esempio che l’A. ricorda spesso), con collegamenti a Milano (Giuliana Banzoni, Nina Ruffini, Mimmina Brichetto Arnaboldi) e Roma (Lavinia Taverna), reti personali e politiche che attuavano collegamenti con esponenti dei partiti e delle bande partigiane. Poi a Roma negli anni della ripresa della vita politica democratica. Anche qui emerge il nome di Virginia Minoletti Quarello le cui testimonianze hanno guidato l’Autrice attraverso gli eventi dei quali la “partigiana” è stata protagonista, nei comitati (come quello “di coordinamento femminile”) e gruppi (“di Difesa della Donna”) che hanno svolto o tentato di svolgere un compito di guida delle attività delle varie componenti politiche e delle associazioni femminili. Anche se non sono mancate manifestazioni dirette a dividere e ad emarginare le donne liberali, ricorre spesso, anche “al femminile”, l’Organizzazione Franchi, diretta da Edgardo Sogno, il Comandante Franchi, una leggenda della Resistenza e segnatamente della componente liberale e monarchica.

Finisce la guerra e con essa la “resistenza perfetta” ed esplodono le profonde divisioni ideologiche che non potevano non essere occasione di contrapposizioni radicali, in particolare da parte dell’ala marxista dei combattenti, in alcuni contesti apertamente schierati con i nemici dell’Italia, come nella Venezia Giulia dove la bandiera titina oscurava spesso il tricolore. Del resto sono noti episodi di violenza nei confronti di formazioni partigiane autonome, delle quali venivano accusati i fascisti, come narrato anche da Giampaolo Pansa, per tali motivi tacciato di “revisionismo”, espressione con la quale si bollano le iniziative tendenti a dimostrare che la resistenza non fu solo socialcomunista. Quando si esaltava il ruolo pressoché monopolistico delle Sinistre, contestualmente discriminando, mettendola in ombra, la partecipazione degli “altri”, in particolare dei reparti costituiti da militari fedeli al governo del re.

La componente liberale, questa importante costola della vita politica italiana, nonostante l’apporto di Croce di Einaudi e le solide basi culturali e ideologiche collegate al Risorgimento e all’esperienza dei governi liberali precedenti all’avvento del Fascismo, viene squassata al suo interno da polemiche e divisioni, fin dall’indomani del 25 aprile “e che avrebbero dimostrato in seguito - scrive Rossella Pace  - la idiosincrasia dei liberali a essere ‘partito’”.

Una osservazione finale crediamo si possa fare con riferimento all’apporto delle donne alla guerra di liberazione, cogliendo spunti di riflessione offerti dalla lettura del libro. Tanto nella prima quanto nella seconda guerra mondiale le donne ebbero un ruolo che è valso a favorire la loro emancipazione e l’affermazione di una loro nuova presenza nella società. Negli anni 1915-1918, perché sostituirono gli uomini nella conduzione dei campi, nelle officine e nelle industrie, nei servizi (le donne che guidavano i tram) e nelle attività professionali, conquistando una generale credibilità in questi ruoli che, a guerra finita, avrebbero voluto far valere. L’impegno nella sostituzione degli uomini in guerra c’è stato anche nella guerra 1940-1945. In più, in questa occasione, le donne hanno svolto quel ruolo importante nella lotta di liberazione, che Rossella Pace ha tanto concorso ad affermare, che ha contribuito ad assicurare loro un ruolo politico significativo nella nuova Italia, avviato con il riconoscimento del diritto di voto concesso con il decreto legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 23.

21 aprile 2020

 

 

 

In un momento di totale chiusura dei teatri ho ritenuto utile fare il punto, sorridendoci sopra amaramente, sulla moda, ahimè! intrapresa da tantissimi registi di stravolgere completamente l’opera lirica, con effetti devastanti sul povero spettatore. Inutile aggiungere come tutti i melomani sperino in una pronta riapertura dei teatri di opera a patto, però, che si ritorni a regie decenti o almeno interessanti, capaci, soprattutto, di non offendere l’intelligenza creativa degli autori e di chi ha pagato un biglietto.

 

L’opera lirica, ovvero… “ ‘a famo strana! ”

di Dora Liguori

 

Con le parole “ ‘o famo strano”, il bravissimo Carlo Verdone, in uno dei suoi film, preannunciava, alla sua fresca sposina, come dire, l’intenzione di passare una notte d’amore alquanto movimentata. E sin qui… chi può!

Il difficile, o meglio la tragedia per i melomani, è intervenuta quando il proponimento di “farla strana”, piuttosto che riferirsi ad una notte d’amore, è andata, da parte di alcuni registi, ad interessare l’opera lirica.

E, allora, sono stati dolori!

Infatti, da una decina di anni a questa parte (e anche più), la sopra descritta volontà di portare in scena la “stranezza programmata”, è divenuta appannaggio di numerosi registi italiani e stranieri che, in nome di questo “credo”, hanno aperto una specie di gara fra di loro a chi, appunto, riuscisse a “strombolare” di più un povero melodramma.

Ora, a parte alcune spassose invenzioni con opere che, per lo più, si prestavano (vedi alcune opere giocose settecentesche o anche di Mozart), per le restanti opere liriche, la gara di cui sopra, è stata ingaggiata da una serie di registi i quali, appartenenti ad una specie di “Nouvelle Vague” (la parola è però impropria), alla fine, stravolgendo i “desiderata” degli autori (librettista e musicista), sono riusciti a produrre mostri scenici, spesso davvero insuperabili.  E ciò, lo hanno fatto con assoluto sprezzo del pericolo (fischi del pubblico) e sprezzo del rischio di far uscire dalla tomba gli autori che, per fortuna sempre dei registi, ebbero un dì lontano a calare “ in un profondo avel”.

Ad essere precisi, la stagione delle stranezze o delle rivisitazioni è stata aperta nel 1976, a Bayreuth, grazie al nipote di Wagner, Wolfang che, morto il fratello, Wieland (una specie di geniaccio), per farsi perdonare le simpatie naziste di sua madre, Winifred, consentì alla cosiddetta “officina di Bayreuth” da lui creata, di attualizzare le opere del celebre nonno. Di qui le regie, spesso stravaganti, a iniziare da quella fatta del Ring (Tetralogia de’ L’anello del Nibelungo, composto da un prologo e tre giornate: L’oro del Reno, la Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei) ad opera del regista francese Patrice Chéreau che, influenzato dalle idee di Bernard Shaw, vide nel Ring una metafora sociale fra classe operaia e capitalismo.

Data la stura, da quel momento hanno avuto inizio una valanga di reinterpretazioni delle opere del povero Wagner che, conservatore com’era, a mio giudizio, se fosse tornato in vita, avrebbe appiccato fuoco al teatro che aveva costruito.

Come ovvio, non potendo, per giustizia, la sola Bayreuth godere di tanto innovativo bene, i teatri di tutto il mondo si sono dati da fare. Pertanto, è avvenuto che i sovrintendenti, mandando all’aria secoli di tradizione, buon uso della logica e del buon gusto, siano corsi ad affidare ai registi di questa “novella moda”, l’impegno di seppellire, attraverso le possibilità esplicate dai loro illuminati cervelli, un numero considerevole di disgraziatissime opere liriche a loro, incautamente, affidate.

Purtroppo, da abbonata al teatro dell’opera romano e frequentatrice anche di altri teatri, ho avuto la disgrazia di assistere a numerosi di questi dolorosissimi parti (meglio definibili aborti) “nutrendo in core” (come si direbbe in un’opera lirica) la speranza che la moda, prima o poi, possa cambiare. Ma il tempo passa e siamo ancora lì!

Fatte queste affermazioni, per non far pensare a qualcuno d’essermi bevuta il cervello, passo ad elencare, brevemente, alcuni “pregevoli” esempi delle “illuminate” regie, alle quali ho avuto il profondo disagio di assistere. E inizio con quello che ritengo sia stato il più grande affronto reso ad un’opera lirica di ineguagliabile bellezza musicale, quale è appunto… la Sonnambula. Orbene, per volontà registica, a parte amenità varie, alla povera Amina viene rotta la “brocca” e, in conseguenza di questo abuso operato dal conte, non certo da quel tonto del promesso sposo di Elvino, la misera abortisce mentre canta la sublime “Ah! non credea mirarti”, con tanto di scorrimento di sangue in scena… ma si può?

Dopo Bellini, giungiamo ad una Traviata, dove un “romantico” Alfredo, fornito di matterello, stende le tagliatelle per la sua Violetta, la quale, possedendo dimensioni abbondanti, dimostra agli spettatori d’aver lungamente gradito le citate tagliatelle, anzi, non paga, tanto per aiutare la bilancia, esala l’ultimo respiro stringendo al seno una scatola di cioccolatini. Sull’ultima scena urge, però, un’ulteriore precisazione: il regista, forse presago di un futuro “coronavirus” relega i tre maschietti (Alfredo, il padre e il dottore), non già a un metro di distanza ma addirittura ad una decina di metri dalla povera donna che muore (affetta, più che dalla tisi, da diabete fulminante!) sola e abbracciata, piuttosto che con l’”amato Alfredo”, con la cioccolata.

Proseguendo con Verdi, assistiamo ad una Giovanna d’Arco, schizofrenica con un piede in manicomio, insidiata addirittura da uno psicopatico padre che, in preda a turbe sessuali, passa il tempo a chiedersi: Giovanna è pura o no? Ai due, poi, ben si accompagna un reso idiota Carlo VII che, impacchettato in carta stagnola dorata, più che un re sembra un cioccolatino natalizio.

E ancora, da non perdere: un Barbiere di Siviglia, il cui regista adopera e porta sulla scena, a mo’ di filo conduttore dell’opera, un topo che, sin dalla sinfonia, attraversa la scena e diviene, via via, sempre più grande sino ad assumere le proporzioni, si direbbe a Napoli, di uno “zoccolone”. E che dire di una Carmen con un’ambientazione irrazionale ove, sparita Siviglia e la fabbrica di tabacco, al suo posto, possiamo ammirare un portale addobbato con centinaia di lampadine, tipo festa paesana del Sud, all’interno del quale si aggira una folla d’incerto mestiere, in giallo canarino o giallo itterizia. Vista l’uniformità di colore usata per gli abiti, allo spettatore diviene lecito presupporre che costoro, per ottenere simile uniformità, si siano dati, telefonicamente, la voce il giorno prima. Comunque, il meglio della regia si esprime allorché i poveri cantanti vengono costretti ad agire attorniati e, direi io, infastiditi, da biechi figuri che, agitando lunghi cilindri fosforescenti, anche questi tipo matterello, arrecano continuo incomodo a chi canta e a chi guarda. Potete immaginare, per dirla operisticamente, “in tal frangente”, ove sia andato a finire l’eros e il pathos del quale dovrebbe essere pervasa l’opera di Bizet… roba da zucchine lesse senza sale!

Persistendo poi con il povero Bellini, che più che rivoltarsi nella tomba tenta ormai disperatamente di uscirne, dopo Sonnambula, tocca a una Norma che, divenuta palestinese, vedi mai, “miete il sacro vischio” (con ogni evidenza importato dai Paesi del nord) nel deserto. Senza contare che al posto del “fatal romano” se l’intende con un Pollione (non poteva essere altrimenti), divenuto israeliano.

Identica ambientazione arabo-israeliana ci viene donata da un altro regista che, bontà sua, applica le sue cure ad un molto improbabile Attila, vestito più o meno da nazista; e neppure questa è una certezza essendo quanto mai enigmatica la foggia usata. Povero Verdi! Quest’ opera, già di suo complicata, diventa improponibile se, è il caso di dire, si va a “sconcicare” un panorama difficile come quello del medio-oriente.

E come sorvolare sulla messa in scena di “Un ballo in maschera”, la cui azione, parlando di corna, si svolge per intero su un enorme letto che, generosamente, durante l’opera, al passo forse con determinati gusti, ospita anche incontri plurimi. Ma la vera genialata arriva anch’essa nel finale, ove il regista fa resuscitare (e mica solo Gesù Cristo aveva questi poteri!) il conte Riccardo che, dopo essere stato, non pugnalato bensì sparato dal quasi cornuto marito di Amelia, lasciata costei, fresco come una rosa, se ne va con l’indovina Ulrica, per l’occasione divenuta “bona” come la famosa Anitona di Fellini.  

Da annoverare ancora una Mimì divenuta tossicodipendente; un povero Werther che, visto come hanno conciato lui e Carlotta, si suicida, non per disperazione d’amore ma per disperazione di “lesa estetica”; ancora un Eugenio Oneghin, ove la Russia è rappresentata con tre claustrofobiche pareti bianche, senza quinte o quant’altro… quando si dice operazione risparmio! 

La lista potrebbe continuare, ma non voglio infierire su quanti hanno la bontà di leggermi; ma prima di chiudere vorrei dare testimonianza sul come, il pubblico presente a questi aborti, non essendo scemo, ha sempre gratificato i responsabili dello scempio con innumerevoli fischi e i buu (gazzarre mai viste) che, chissà per quale arcano motivo, quasi mai vengono riportati dalle cronache ufficiali dei giornali. Insomma, stante la situazione, se Diogene cercava l’”uomo” i melomani cercano qualcuno che, finalmente, lasci “riposare” a casa questi onnipresenti geni della regia per riconsegnarli, come si diceva una volta, alla madre terra, essendo essi, a buon diritto, “possessori di forti braccia sottratte all’agricoltura”. Il vantaggio che ne deriverebbe, sarebbe quello di poter tornare ad assistere ad un’opera eseguita come Dio e autori comandano.

E su questo punto, un‘ulteriore domanda sorge obbligatoria: se la democrazia si regge sul concetto della maggioranza, perché, parlando di opere liriche, questa maggioranza di spettatori che, disperati, abbandonano i teatri lirici, stracciando gli abbonamenti, non viene tenuta in conto? Perché mai si dovrebbe pagare per vedere, così distrutte, opere frutto del genio umano? A chi giova un simile andazzo? Perché si affida a certi sovrintendenti (per fortuna non tutti) che, capaci soprattutto a far di conto (e visti i deficit spesso manco quelli), l’onere di approntare un cartellone? Costoro, appunto, essendo dei manager, risultano preparati sull’opera come un cittadino qualsiasi lo può essere sul teatro Kabuki. Perché non si ridà potere ai direttori artistici che, oggi, nominati come sono dal sovrintendente, poco aprono bocca? Chissà, costoro, essendo musicisti, forse potrebbero riuscire, recuperata autorità, intanto a non farsi rifilare dalle agenzie, a scapito degli italiani, artisti stranieri il più delle volte mediocri; e poi, chissà, imponendosi potrebbero moderare anche i “lampi di genio” di alcuni registi che, spesso mostrano di poco essere informati sui tempi e sui fatti contenuti nel libretto delle opere a loro affidate.

Impossibilitata a dare appropriate risposte a questi quesiti, e non volendo, magari col dire la verità, procurarmi querele, mi affido alle famose parole di Pietro Mascagni, il quale, dopo la visione di un’opera di un raccomandatissimo compositore fascista, onde evitare dei guai, dando i giudizi severi che costui meritava, così si espresse: “non ho parole!”

Ebbene, anch’io non ho parole per definire queste genialate ma un’ultima cosa, però, la vorrei esprimere, anzi la vorrei chiedere a chi di dovere: perché se qualcuno, magari fuori di testa, danneggia un’opera d’arte, dicasi, quadro o scultura etc. viene, direi giustamente, sbattuto in galera, mentre, invece, se la passa indenne chi manomette e dissacra un’opera lirica? Non rappresenta anch’essa una dimostrazione altissima dell’ingegno umano?

Ultima annotazione, lo giuro, dopo aver visto il famoso topo che imperversava nel Barbiere di Siviglia, non avendo ben compreso il recondito e subliminale messaggio di questa inquietante presenza, ho scritto al teatro chiedendo lumi. Non ho avuto risposta!  Rimasta, pertanto, “in grave ambascia” e dovendomi pur fare una ragione circa la scenica pantegana, ho così concluso: può essere che il regista, ritenendo Rossini alquanto antiquato, abbia ritenuto utile, tanto per svecchiare l’opera, portare in scena, più che un barbiere, un bel… topo di Siviglia.

Che dire? Attendo, con trepidazione, il prossimo operistico “ ‘o famo strano”!

 

P.S. Chiedo scusa per l’intercalare operistico ma, trattandosi di melodramma… “necesse est”!

19 aprile 2020

 

 

 

La rivolta dei nonni: NO alla quarantena prolungata per loro

di Salvatore Sfrecola

 

L’iniziativa l’ha presa il dottor Bruno Lago, un austero ex dirigente della Banca Europea degli Investimenti (B.E.I.), che, abbandonato il tradizionale aplomb in uso tra Bruxelles e Strasburgo, si è fortemente “adirato” (si dice così in italiano) e, presa carta e penna, ha scritto due righe “Gli anziani sanno badare alla propria salute, diciamo NO a quarantene prolungate”, ed ha cominciato a raccogliere le firme per una petizione al Ministro della salute.

L’occasione scatenante, che ha mosso, lungo lo stivale, la rivolta degli ultrasettantenni, è stata una improvvida iniziativa della Presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von Der Leyen, la quale nel dire la sua a proposito di come si dovrebbe tornare “alla normalità” ha detto che gli ultrasettantenni è bene restino a casa fino al 31 dicembre. Niente ferie estive, dunque. Se ne riparlerà nel 2021!

E così alcuni, tra i più autorevoli ultrasettantenni (ma è presumibile che sarà presto una valanga), hanno scritto su giornali di prestigio non solo nazionale, Luigi de Rita sul Corriere della Sera e Vladimiro Zagrebelski su La Stampa, per far sentire alto il loro dissenso, il primo da sociologo, il secondo da giurista. Perché anche se è chiaro che il prolungamento della quarantena è immaginato a tutela degli anziani, in quanto considerati soggetti a rischio, stabilire un obbligo di residenza coatta di un cittadino, solo perché anziano, che comunque sa badare alla propria salute, come dice Bruno Lago, non è consentito. Perché la Costituzione è ancora lì con il suo art. 16 a tutelare il diritto dei cittadini a circolare liberamente ed a soggiornare dove vogliono, un diritto comprimibile soltanto per motivi di salute, cioè se la persona è portatore di un contagio. In assenza, il medico curante gli potrà consigliare di non esporsi in aree a rischio, se cagionevole di salute. Potrà essere consigliato, mai obbligato.

Eppure tira una brutta aria per gli anziani. De Rita, attento all’evoluzione dei costumi, segnala che, nella stagione in cui tutto sembra dominato e regolato dal consumismo e dall’utilitarismo, l’età ingravescente è considerata da molti un peso per la società. E richiama il caso dell’Olanda, dove gli over 70 hanno ricevuto un bel modulo con il quale s’impegnano, in caso di infezione da coronavirus, a non ricoverarsi in ospedale per non sottrarre posti a chi ha più possibilità di guarire. E in Italia? “Io non parlo da un mese, risponde De Rita all’intervistatore. Non mi piace nulla di quello che sta succedendo. Non mi va di polemizzare con mezzo mondo”.

Quel paese, l’Olanda, che, non dimentichiamolo è un paradiso fiscale e fa la morale all’Italia alla ricerca di solidarietà europea per uscire dalla crisi economica dovuta al blocco delle attività industriali e commerciali, vive in una “forte dimensione di autonomia, di prestigio dell’individualità. Quasi un esempio di coscienza pubblica: sono vecchio, se mi ammalo cerco di farcela da solo ma non tolgo spazio ai più giovani”.

È evidente una mentalità che non ha memoria del passato, che non tiene a conservarla, non considera un valore l’esperienza. Noi ancora crediamo al ruolo dei nonni, non tanto, tuttavia, per la trasmissione di valori civili, ma perché “moltissimi anziani hanno una pensione decente, aiutano figli e nipoti”. Non va al di là De Rita: “gli anziani in Italia manterranno un ruolo affettivo perché è anche economico”.

Il giurista è più drastico. Va giù pesante Vladimiro Zagrebelsky: segregare gli anziani è un abuso “non sono più contagiosi degli altri. Secondo la Costituzione, la legge può limitare la libertà di circolazione per motivi di sanità. ma si tratta della sanità pubblica. Si faccia opera di informazione sui rischi, si offra a chi ne ha bisogno opportunità di sostegno, ma non si violi la libertà di cittadini adulti”. E richiama due principi cardine della nostra Carta fondamentale i criteri di “ragionevolezza e proporzione”, considerando che le libertà dei cittadini possono essere ristrette nella sola misura del necessario. Limitazioni irragionevoli o esorbitanti si tradurrebbero in abusi discriminatori, inammissibili nel regime delle garanzie liberali disegnato dalla Costituzione”.

Ursula von Der Leyen è avvertita. Ed è avvertito anche Giuseppe Conte qualora volesse prevedere quel limite per gli ultrasettantenni in uno dei tanti d.P.C.M., cioè i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che il Premier richiama nel suo eloquio come fossero di altri, che adotta quasi quotidianamente.

17 aprile 2020

 

 

 

 

 

Emergenza e libertà personali: spesso una difficile convivenza

di Salvatore Sfrecola

 

Colui che, tra qualche anno, si interrogasse sugli eventi politico istituzionali di questo periodo, con molta probabilità dirà che gli italiani hanno vissuto momenti di forte turbamento per l’emergenza da Coronavirus e, contemporaneamente, corso rischi di involuzione democratica. E che, mentre alcuni non vedevano l’ora, ancora una volta, di gettarsi tra le braccia di un nuovo “Uomo della Provvidenza”, identificato oggi in Mario Draghi, nel 2011 in Mario Monti, per limitarci ai tempi più recenti, il Presidente del Consiglio in carica, fiutato il pericolo, premeva sull’acceleratore del potere in modi che hanno destato perplessità e diffuse preoccupazioni di eminenti giuristi che le hanno manifestate pubblicamente sulla stampa, come Claudio Zucchelli, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, su Il Dubbio del 4 aprile che parla di “Costituzione che finisce violata” o il costituzionalista Giovanni Guzzetta che, sullo stesso giornale, si chiede se il caos delle norme non sia “un trucco per toglierci la voglia della libertà”. Essenzialmente in ragione della scelta, sulla base del principio di necessità, di adottare plurimi provvedimenti di urgenza “con forza di legge”, tuttavia pressocché privi di contenuto normativo immediatamente efficace, come previsto dall’art. 77 della Costituzione, ma meramente autorizzatori di poteri assegnati al Presidente del Consiglio, il quale provvede a darvi attuazione con propri decreti. Con la conseguenza che, nella sostanza, il potere, la stessa sovranità, che ai sensi dell’art. 1 della Costituzione “appartiene al popolo”, si sposta da questo al Governo cioè al Presidente del Consiglio, delegato ad adottare le misure restrittive imposte dall’epidemia, senza il controllo del Parlamento che converte in legge non già norme immediatamente operative ma autorizzazioni ad adottarle.

Al riguardo Sabino Cassese, professore di diritto amministrativo ed ex giudice della Consulta, intervistato da Paolo Armaroli per Il Dubbio è stato fortemente critico. Ritiene che “il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica – prosegue -, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi”. Aggiunge che quel primo decreto legge “non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri”. Per l’illustre giurista Conte, che è un professore di diritto, “avrebbe dovuto rifiutarsi di firmare decreti così contraddittori”. In ogni caso “continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento”.

La responsabilità – insiste - sarebbe “imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa”, cioè al Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi (DAGL). Tanto più che “per la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente a emanare più della metà di quegli atti era il ministro della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è avvicinati”.

A questo punto Armaroli chiede a Cassese se “si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura rappresentano un correttivo della forma di governo parlamentare per i poteri che acquista il Presidente del Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non parlare del Presidente della Repubblica e, soprattutto, del Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo e di controllo è andata a farsi benedire”.

L’intervista si chiude con alcune considerazioni su gli organi di garanzia più diretti, il Presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. “Quest’ultima, salvo casi eccezionali, interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente della Repubblica, invece, collaborano nella funzione normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie preferenziali o di emergenza”. Si poteva anche dire altro, ad esempio che quei decreti sono stati emanati dal Capo dello Stato (art. 87) il quale ha una funzione di verifica della legittimità costituzionale del provvedimento e, pertanto, avrebbe potuto rilevare i vizi che Cassese riconosce e che, a suo giudizio, avrebbero dovuto spingere Conte a non firmare.

Fermarsi sulla soglia del Quirinale non fa certo bene alla democrazia.

Indubbiamente a Palazzo Chigi si fa quel che vuole Conte. Lo voglia in buona fede, perché pressato dall’emergenza sanitaria o perché teme di essere scalzato dalla poltrona di Presidente del Consiglio dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea che riceve ogni giorno nuovi attestati di stima, sta di fatto che la scelta operata dal governo preoccupa quanti hanno a cuore la legalità costituzionale che discende dalle regole e dai principi che al mondo intero sono stati insegnati dal barone di Montesquieu ormai molti anni fa e che sono alla base della democrazia liberale. Per cui non va bene, per dirla con Armaroli, che il Parlamento “non tocca palla”. Eppure nelle aule di Palazzo Madama e di Palazzo Montecitorio si esercita la sovranità che appartiene al popolo.

D’altra parte la limitazione del ruolo del Parlamento sta scritta nella decisione delle Camere di ridurre il numero di deputati e senatori, con l’effetto di attuare una minore rappresentanza delle realtà territoriali e linguistiche, forse l’unico e certamente il più rilevante risultato che il Movimento Cinque Stelle ha portato a casa avendo convinto gli altri partiti, i quali non hanno avuto il coraggio di contrastarli,  che si trattasse di un “risparmio” gradito dagli italiani. Del resto cos’altro ci si poteva attendere da un Movimento politico il quale teorizza la “democrazia diretta” che esercita affidando le proprie scelte al voto, sulla piattaforma Rousseau, di una minoranza della minoranza, coloro che votano, un’aliquota degli iscritti, poche decine di migliaia, rispetto al numero consistente, almeno nelle edizioni del 2018, degli elettori.

Pochi sembrano rendersi conto dei pericoli che derivano da questa china autoritaria occultata dalle necessità urgenti del pericolo sanitario. Purtroppo la storia insegna che la violazione della legalità costituzionale, anche quando giustificata da pressanti esigenze straordinarie ed urgenti, può avere esiti non previsti e non prevedibili, magari perché nel frattempo giunge a mettere le cose “a posto” il solito “Uomo della Provvidenza” che assume il potere e, di emergenza in emergenza, tra le tante che è possibile immaginare in un Paese che la politica ha reso straordinariamente fragile, limita la democrazia che, ricordiamolo, da sempre, a parole interessa tutti, ma preme solamente alle persone alle quali gli ideali della libertà stanno particolarmente a cuore, per cultura e tradizione identitaria.

17 aprile 2020

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

Ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., la Sezione V ha chiesto all’Adunanza Plenaria:

a)             se rientrino nel divieto di clausole di esclusione c.d. atipiche, di cui all’art. 83, comma 8, ult. inciso, del d.lgs. n. 50 del 2016, le prescrizioni dei bandi o delle lettere d’invito con le quali la stazione appaltante, limitando o vietando, a pena di esclusione, il ricorso all’avvalimento al di fuori delle ipotesi consentite dall’art.89 del citato d.lgs. n. 50/2016, precluda, di fatto, la partecipazione alla gara degli operatori economici che siano privi dei corrispondenti requisiti di carattere economico-finanziario o tecnico-professionale;

b)             in particolare, se possa reputarsi nulla la clausola con la quale, nel caso di appalto di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, sia consentito il ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA soltanto da parte di soggetti che posseggono una propria attestazione di quest’ultima (Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2020, n. 1920, con commento esaustivo di Licia Grassucci, “Quesito all’Adunanza Plenaria sul principio di tassatività delle clausole di esclusione”, in www.italiappalti.it, 30 marzo 2020).

 

Il vuoto e il pieno

“Il vuoto e il pieno hanno sempre fatto parte della storia repubblicana. A lungo il panorama nazionale è stato affollato da partiti, leader, territori, sindacati, associazioni di categoria, intellettuali, giornali. E poi operai, imprenditori, banchieri, maestri e professori, studenti e contadini. Tutti insieme componevano come tessere di un mosaico faticoso e paziente quella tela in cui fu possibile immaginare e poi costruire e realizzare la ricostruzione post-bellica. Nello spazio di un paese di frontiera, in cui si muovevano i grandi attori internazionali della guerra fredda, con il loro seguito di apparati. Questo pieno fu composto e poi annullato verso la metà degli anni Settanta, nell’Italia aggredita dal terrorismo, dall’inflazione e da un processo di distacco tra i vertici e il paese reale, che intanto continuava a crescere, si sviluppava, si arricchiva, ma fuori da un discorso comune, da quella trama unitaria che invece era stata garantita dalla classe dirigente diffusa della fase precedente”.

Questo scrive un apprezzato giornalista, preparato, serio, composto, che sa guardare la realtà con serenità e obiettività innate (Marco Damilano, “Il vuoto e il pieno”, L’Espresso, n. 14/2020, 16 ss.).

 

Morte di Cicerone

Il 7 dicembre del 43 a.C. i sicari di Marco Antonio raggiunsero la lettiga di Cicerone, che stava fuggendo verso il mare di Formia, trasportato da alcuni servi. Plutarco racconta che Cicerone li sentì arrivare e immediatamente ordinò ai servi di posare a terra la lettiga. Poi, appoggiando il mento sulla mano sinistra, come era solito fare, si mise a fissare i soldati che si avvicinavano. I suoi capelli erano arruffati, il volto era segnato dall’apprensione e la sua espressione era tale che molti si coprirono gli occhi mentre Erennio lo colpiva. Fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, nel suo sessantaquattresimo anno di vita. Per volere di Antonio, i sicari tagliarono la testa e le mani con cui Cicerone aveva scritto le violente orazioni che gli erano costate la vita, note come Filippiche. I macabri resti dell’oratore vennero quindi inviati a Roma e appesi sui rostri: un terribile monito per chiunque pensasse di poter sfidare l’autorità dei triumviri.

Si narra che molti anni dopo l’imperatore Augusto, che era stato in parte responsabile dell’omicidio, sorprese il nipote mentre leggeva un libro di Cicerone. Temendo di essere rimproverato, il giovane cercò di nascondere il testo sotto la veste, ma Augusto lo vide, prese il libro e rimase a leggerlo a lungo. Quando infine lo restituì, disse: “Era un saggio, ragazzo mio, un saggio; e amava la patria” (Costantino Andrea De Luca, “Pillole di storia antica”, Roma, 2019, n. 248, p. 236 s.).

 

Storia della colonna infame

Alessandro Manzoni nasce a Milano il 15 marzo 1785 da Giulia Beccaria e Giovanni Verri, riconosciuto da Pietro Manzoni, marito della madre; muore a Milano il 22 maggio 1873. Dal 1840 al 1842 pubblica a dispense la stesura definitiva de “I promessi sposi”, con, in appendice, la “Storia della colonna infame”.

Di quest’ultimo lavoro (editrice Demetra, 1995) si riportano, testualmente, taluni brani, che riassumono in parte l’iniqua vicenda.

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse.

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizione della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.

Non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate. Que’ giudici condannarono degl’innocenti, e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.

È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de’ Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d’una deplorabile certezza, e passate senza corruzione dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati, s’apre il processo.

Il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.

La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell’occasione, fu anche demolito il cavalcavia.

17 aprile 2020

 

 

 

 

Fogli sparsi di un recluso (cioè in quarantena, pur godendo di ottima salute)

di Domenico Giglio

 

Movesi il vecchierel canuto e stanco……

Quando Francesco Petrarca ( 1304 – 1374), scrisse questo delicatissimo sonetto, dove un vecchierello lascia la casa, “il dolce loco” per recarsi in pellegrinaggio a Roma, non poteva sapere che, circa settecento anni dopo al vecchierello questo viaggio sarebbe stato vietato per motivi sanitari! E’ di questi giorni infatti la notizia della proposta di un trattamento tutto particolare per gli ultra settantenni, ritardando per gli stessi il ritorno ad una vita quasi normale e ad una libertà di movimento, che, ad esempio, consentisse loro di andare a respirare nei mesi estivi, quando specie nelle città, la calura può diventare soffocante, l’aria più salubre marina, campagnola, boschiva e montanara.

Vorrei vedere il volto del Presidente della repubblica, quando il Presidente del consiglio arrivasse per la firma del decreto contenente questa discriminazione, che si aggiungerebbe alle tante altre già esistenti (pensioni di piombo, ferme da anni, pagamento di ICI per proprietari immobili catastalmente in A1 ed altre). Firmerà o da ultra settantenne rifiuterà la firma ad un decreto che lo colpisce anche personalmente? Ed all’obiezione che gli venisse posta del grande palazzo dove risiede (che i Pontefici avevano appunto costruito per trasferircisi nel mesi estivi), e dei grandi, ombrosi giardini annessi, potrebbe rispondere democraticamente che non tutti i “vecchierelli” italiani hanno una simile residenza, restituendo il decreto.

 

Pudicizia o impudicizia politica

E’ ormai ben noto che la grande stampa, la televisione di Stato e giornalisti, sedicenti storici, cerchino di non parlare, se non male, della Monarchia Sabauda, dei suoi Re, anche quando trattano eventi che li videro protagonisti e non comparse, e di ignorare coloro che, dopo il 1946, si batterono, ed ancor oggi si battono, per questo istituto e per la storia, cioè i monarchici, che paiono non essere mai politicamente esistiti.

Uno dei tanti esempi, in una trasmissione, riproposta il 14 aprile su RAISTORIA, relativa alla vicenda del bandito Giuliano, che nel referendum del 1946, è bene sottolinearlo, votò e fece votare per la repubblica, parlando delle prime elezioni regionali siciliane del 1947, si afferma che la Democrazia Cristiana, duramente ridimensionata dal voto popolare, che aveva premiato il blocco social comunista, fece il governo con “le forze di destra”, senza altre specificazioni. Ora, nel 1947 e particolarmente in Sicilia ed in tutta l’Italia Meridionale tra queste forze di destra era determinante il Partito Nazionale Monarchico, simbolo “Stella e Corona”, e qui si dovrebbe aprire un lungo discorso sulla collocazione a destra dei monarchici, fondato appena un anno prima, la cui base elettorale era in gran parte popolare. Perciò il primo governo regionale fu un governo, presieduto da un democristiano, Giuseppe Alessi, a cui nel 1949 subentrò, un altro democristiano, Restivo, con il PNM, che ebbe nello stesso due importanti assessorati, l’Industria assegnata all’onorevole Annibale Bianco, e l’istruzione all’on. Pietro Castiglia che li ressero per tutta la legislatura fino al 1951. Questo avrebbe dovuto dire il conduttore della trasmissione per quella precisione che un vero storico deve avere e che invece evidentemente, spesso, non ha.

 

Dante ed i suoi indovinelli

Chi fece per viltà il gran rifiuto? E’ un altro punto controverso della Divina Commedia anche se quasi tutti gli studiosi, per primo l’ignoto autore, quasi contemporaneo, delle “Chiose”, lo attribuiscono al povero Celestino V, al secolo Pietro da Morrone (1210 ?- 1296), per essersi dimesso da Pontefice aprendo la strada alla elezione papale di Benedetto Caetani (1234- 1303), che prese il nome di Bonifacio VIII, il grande avversario di Dante, che lo definì “Il principe dei nuovi farisei” (Inferno – c.XXVII – v.85 ). E proprio questa avversione, che porta Dante a condannarlo all’Inferno, prima che morisse effettivamente nel 1303. L’immaginario viaggio dantesco è datato nella Settimana Santa del 1300, mentre nella realtà il poema fu scritto anni dopo, quando effettivamente Bonifacio era defunto, ma la polemica non era cessata per cui molti sono stati indotti a questa identificazione con Celestino V. Ma, anche qui ragioniamo: è possibile che Dante disistimasse tanto il povero Pietro da Morrone, il Pontefice della “Perdonanza”, e non conoscesse la sua precedente esemplare vita eremitica? Fermiamoci ed osserviamo quanti personaggi sono citati nel poema. Sono centinaia: imperatori, re, regine, ecclesiastici, politici, filosofi, scienziati, condottieri, letterati ed altri, prima e dopo la venuta di Cristo, ma manca stranamente proprio un nome, quello di Ponzio Pilato! Giuda, traditore è nelle fauci di Satana, insieme con Bruto e Cassio, quindi è ben chiara per Dante la colpa e la massima pena per chi consegnò il Cristo nelle mani dei suoi nemici del Sinedrio, ma la condanna a morte doveva essere ratificata dall’autorità romana, impersonata appunto da Pilato, il quale, malgrado la supplica della moglie, si fece portare dell’acqua e se ne lavò le mani. Quale maggiore viltà, non avendo trovato in Gesù alcuna colpa, di restituirlo al potere giudaico perché fosse crocifisso. Forse il timore fisico delle reazioni anche violente del popolo di Gerusalemme che aveva preferito che fosse concessa la libertà a Barabba invece che Gesù! Perché Dante non mette allora Pilato nell’Inferno ? Ci aveva messo dei Papi ed esitava per un proconsole romano? Perché ignorarlo del tutto ? In fondo Pilato non condannò Gesù per cui questa processione di spiriti di persone “che visser senza infamia e senza lodo” (Inferno –c.III- v.35), ben si adattava alla sua figura, tanto che ancor oggi si dice “pilatesca”, la mancanza di una decisione chiara e netta!

16 aprile 2020

 

 

 

La Macchina dello Stato

di Domenico Giglio

 

Questo il titolo di una interessantissima mostra tenutasi diversi anni or sono a Roma, nei locali dell’Archivio Centrale dello Stato, per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia e che riguardava leggi, uomini e strutture che hanno fatto l’Italia. La Mostra non ebbe il successo di pubblico che meritava, forse anche per l’ubicazione all’EUR, ma essendo stato pubblicato un catalogo con lo stesso titolo, “La Macchina dello Stato”, uscito nel 2011, edito da Mondadori Electa, ricchissimo di dati, di fotografie, di tavole e tabelle, di documenti, è sperabile che lo stesso possa trovarsi tramite internet od in qualche libreria specializzata od antiquaria. Farne oggi una recensione approfondita non appare possibile per il numero e l’ampiezza dei temi e la personalità degli autori dei vari capitoli, tutti di un estremo interesse per testo e documentazione. Basti pensare alla sua strutturazione da “Il primo quarantennio” dello Stato unitario, periodo sul quale ci soffermeremo successivamente, a “Da Giolitti al primo dopoguerra“, al “Fascismo“, in cui sono state messe in luce sia le realizzazioni positive in tanti settori - dalle opere pubbliche, all’architettura, all’istruzione, al lavoro e dopolavoro - sia l’apparato poliziesco e repressivo e le discriminazioni razziali - a dimostrazione che non si possono cancellare venti anni di storia, fermo restando il giudizio che dello stesso periodo ciascuno può liberamente dare proprio in virtù di tutti i dati e gli elementi esposti -, per chiudere con il breve periodo “Verso la Repubblica” dal 25 luglio 1943 alla promulgazione della attuale Costituzione. Questi periodi, suddivisi in brevi capitoli riguardanti i singoli problemi, sono stati preceduti da alcuni saggi: fra questi ne citiamo ad esempio uno, intitolato “La Pubblica Amministrazione italiana da Cavour a Giolitti”, di Giuseppe Galasso, estremamente completo ed obiettivo, dove fra l’altro - in sottile polemica con chi contesta l’abrogazione di leggi e regolamenti degli stati preunitari - rileva che negli anni napoleonici, in cui “...quasi tutta l’Italia era stata o annessa all’impero francese o unita al Regno d’Italia, o aveva continuato a far parte del regno di Napoli …con il fratello Giuseppe e poi ..con Gioacchino Murat…, alla stessa erano stati imposti la legislazione napoleonica, - con il Code Napoleon in testa – e ordinamenti politici ed amministrativi... e grandi provvedimenti, quali la secolarizzazione dei beni ecclesiastici…, riforme che non svanirono… nel 1815, con la restaurazione... e ad esse si aggiunse il grande patrimonio costituito dalle esperienze amministrative e militari fatte nei quadri dell’Italia napoleonica…”, per cui “lo stato italiano non sorgeva su una base di totale. estraneità e diversità delle sue parti..”, afferma, dopo un’ampia disanima delle vicende risorgimentali, che “…è sorprendente che nelle storie politiche ed anche istituzionali del paese non sia stato abbastanza colto questo... risalto della monarchia come punto di riferimento nella vita politica nazionale e come suo strategico e impreteribile snodo istituzionale...”, concludendo con un riferimento alla Pubblica Amministrazione, al suo ruolo “di modernizzazione e di dinamismo di una società che, nella massima parte della penisola, appariva … nel 1861 più legata a equilibri e logiche di antica tradizione che a pressanti istanze di movimento e di trasformazione…, basti pensare alla parte avuta dallo stato italiano … nella dotazione di infrastrutture moderne, a cominciare dalle ferrovie e della pubblica istruzione, oppure dalla grande opera di amalgama nazionale svolta dallo stesso Stato con le sue forze armate, scuola della nazione, come furono definite“ e questo grazie a quella leva obbligatoria tanto criticata dai nostalgici borbonici, che forse preferivano che si spendessero i ducati per pagare i reggimenti mercenari svizzeri o bavaresi.

Un altro saggio “I prodromi dell’Unità“, di Romano Ugolini, è egualmente interessante perché dedica ampio spazio ad uno dei “dimenticati“ del Risorgimento, insieme con Carlo Alberto, e cioè a Massimo d’Azeglio, al quale attribuisce il grande merito di aver saputo indirizzare il giovane Sovrano, Vittorio Emanuele II, sulla strada del costituzionalismo e di avere aperto le porte del Piemonte “all’esulato nazionale, senza guardare troppo alla fede politica di appartenenza. Non solo: a quell’esulato non offrì unicamente un libero asilo, ma cercò, …di inserire le personalità più illustri e preparate nelle strutture dello stato, conferendo da un lato stipendi, ma guadagnando …l’apporto di una cultura umanistica e scientifica il cui innesto nei gangli vitali della vita piemontese poteva già far parlare di un vero e proprio laboratorio nazionale“; di questo particolarmente si giovò Cavour, per cui nel 1859 “allo scoppio del conflitto, nessuno dei principali collaboratori di Cavour era piemontese. Parliamo di Farini, Minghetti, Mamiani, Gualterio, Massari e La Farina..” e Gabrio Casati.

Venendo a “Il primo quarantennio“, dopo un breve accenno allo sviluppo degli uffici postali passati dai 2220 del 1862 ai 2799 del 1873, incrementati particolarmente nelle regioni meridionali “le più carenti al momento dell’ unificazione“, si passa alle “Misure dell’Unità d’Italia“ con la scelta del sistema metrico decimale che, già effettuata dal Regno di Sardegna, dallo Stato Pontificio e dal Ducato di Modena rispettivamente nel 1845, 1848 e 1849, fu estesa prima alla Lombardia ed alle altre regioni con legge 28 luglio 1861, “fatta eccezione per le province napoletane e siciliane, che avrebbero beneficiato di una dilazione per l’effettiva entrata in vigore del sistema fino al primo gennaio 1863”. Le tavole di ragguaglio ufficiali furono pubblicate e distribuite successivamente e sono alla base dell’unico sistema metrologico, “potente fattore di unificazione del paese dal punto di vista economico, tecnico-amministrativo e culturale“ per cui il Regno d’Italia poté partecipare ed aderire a pieno titolo alla Conferenza Internazionale del Metro, tenutasi a Parigi il 20 maggio 1875.

Di non minore importanza ed urgenza era “l’unificazione Monetaria“ in quanto “nei territori che formavano nel 1861 il Regno d’Italia circolavano 263 diverse monete metalliche….” per cui “l’intralcio agli scambi commerciali era enorme e si sommava a quello prodotto dai dazi doganali..”: alla vigilia dell’unità esistevano ben nove banche di emissione che dopo l’unità furono concentrate in una unica banca nazionale, anche se “…accanto ad essa restarono in vita le due banche toscane e i due banchi meridionali“ fino al 1894, quando quelle toscane e la banca romana si fusero per dare vita alla Banca d’Italia”, mentre sopravvissero “…i due banchi meridionali…come banche di emissione fino al 1926…”.

E “L’ unificazione legislativa ed amministrativa“ del Regno? Bisogna attendere il 1865, data la delicatezza del problema con riferimento alle legislazioni degli stati preunitari, e precisamente il 20 marzo per la pubblicazione della legge relativa (la legge n. 2248), anche se per la Corte dei Conti e per la Cassa Depositi e Prestiti, fondata nel Regno di Sardegna nel 1840, vi erano state delle leggi precedenti nel 1862 e 1863, data l’urgenza di poter disporre di queste istituzioni, ancora oggi vive, vitali e fondamentali per il controllo delle spese e per lo sviluppo economico.

In tutta questa vicenda volta a costruire uno stato moderno, almeno per l’epoca, si inseriscono alcuni fenomeni che frenano lo sviluppo, distolgono energie e fondi: parliamo, ad esempio, de “Il brigantaggio”, al quale è pure dedicata una sezione della Mostra, che, per essere debellato, richiese una legislazione speciale (Legge 1409 del 1863), la quale prese nome dal deputato abruzzese Pica e rimase in vigore fino al 1865, quando il fenomeno - che era storicamente endemico nel meridione d’Italia ed al quale si erano aggiunti, dopo l’unità, elementi di legittimismo borbonico e di rivolta rurale - fu finalmente debellato.

Quanto alla educazione scolastica, dopo la fondamentale legge Casati, abbiamo “La scuola di Coppino“, con la legge 3961 del 1877 che dà “...una risposta più forte alla problematica dell’alfabetizzazione del paese…” rafforzando “...l’autorità dello Stato sulla scuola, facendo della istruzione elementare gratuita, obbligatoria e laica uno dei suoi fondamenti...”, riuscendo a portare già alla fine dell’anno scolastico 1886-1887 la sua applicazione in 8178 comuni su 8267 e riducendo l’analfabetismo dal 78% del 1861 al 56% del 1900. Nel campo della istruzione pubblica è da considerare pure “...il ruolo importante delle scuole reggimentali nella riduzione dell’analfabetismo tra i coscritti...”, a conferma anche da questo punto di vista della opportunità della leva obbligatoria.

Ed il territorio di questa Italia unita? Ecco il grande lavoro “Dai catasti preunitari al catasto italiano“: erano 22 i catasti degli stati preunitari, di cui 8 di tipo geometrico-particellare ed i restanti di tipo descrittivo, che dovettero fatalmente ancora sopravvivere per diversi anni prima di poter essere unificati nel tipo geometrico-particellare con la legge del 1 marzo 1886 n.3682, legge Messedaglia, la quale produsse circa trecentomila fogli di mappa ed i corrispondenti registri catastali, opera colossale terminata nel 1956, per la quale dal 1934 fu di aiuto la aerofotogrammetria.

Questa conoscenza del territorio, “Conoscere per Amministrare“, fu una esigenza sentita dal nuovo stato e questa idea trovò “...il suo punto di forza nella creazione, già nel 1861, di una divisione di Statistica generale presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (R.D. 9 ottobre 1861 n.294)”, grazie alla quale “nel primo decennio postunitario, nonostante le difficoltà burocratiche, legislative e l’ inesperienza degli uomini e delle cose, come spiegherà Maestri (primo direttore, medico ed uomo del Risorgimento), furono svolte indagini di fondamentale rilevanza”, dai censimenti ai bilanci di comuni e province, delle casse di risparmio, delle società commerciali ed industriali, alle statistiche delle società di mutuo soccorso (1862), che in pochi anni “fecero guadagnare all’Italia il riconoscimento internazionale. Già nel 1867 fu infatti prescelta per ospitare, in Firenze, la sesta sessione del Congresso internazionale della statistica“. Non dimentichiamo la inchiesta Jacini sulle condizioni dell’agricoltura e l’impostazione di un’altra opera fondamentale per la conoscenza approfondita del territorio, e cioè la compilazione della Carta Geologica della Stato, in quanto all’epoca della unificazione “si poteva disporre solo di carte parziali, anche se preziose, realizzate –soprattutto per la Toscana, l’Emilia, il Piemonte e la Lombardia- da distinti geologi che avevano operato isolatamente nei diversi stati…”, mentre esistevano vistose lacune per l’Italia centrale e meridionale. E a questo si aggiunga l’istituzione del Servizio Meteorologico, per cui anche in questo settore il giovane Stato italiano entrava a far parte di organismi internazionali ed a partecipare a congressi, quale quello di Vienna del 1873, dove il nostro fisico Giovanni Cantoni fu eletto membro del Comitato permanente. Negli anni dal 1880 si imposta anche il lavoro sui corsi d’acqua realizzato, tra l’altro, per introdurre in agricoltura moderni sistemi di irrigazione, particolarmente opportuno in un paese soggetto a periodiche alluvioni. Sempre dopo il 1880 si pongono le basi di quello che oggi chiamiamo “stato sociale“, da un lato regolando il preesistente sistema delle società di mutuo soccorso, esistenti da decenni particolarmente nel Piemonte Sabaudo e che nel 1894 avevano raggiunto il numero di 6722, dall’altro per quanto riguarda la legislazione a favore dei lavoratori, partendo dal 1859 con la legge n.3755 sulla sicurezza dei lavoratori delle miniere, proseguendo nel 1873 con la legge n.1733 sul divieto dell’impiego dei fanciulli nelle professioni girovaghe, nel 1881 con la legge n.134 sulla Cassa pensioni per impiegati statali, nel 1886 con la legge n.3657 sul divieto del lavoro dei fanciulli negli opifici e nelle miniere, e arrivando alla legge 17 marzo 1898 n.80 sulla assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro nella industria -con contributi a carico dei datori di lavoro- ed alla successiva legge del 17 luglio 1898 n.350, creatrice della Cassa di previdenza per gli operai, con la quale si introdusse il principio dell’ assicurazione sussidiata di invalidità e vecchiaia, firmate dal Re Umberto I del quale, così scrisse Giolitti nelle sue memorie, “non notai in Lui prevenzioni di sorta contro una politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di responsabilità la sua funzione e si informava moltissimo delle cose dello Stato, interessandosi di tutto…”.

Questo il quadro complessivo, anche se forzatamente incompleto, dell’enorme lavoro svolto in tutti i settori della vita nazionale nel primo quarantennio dello stato unitario, i più complessi e difficili data la disparità dei punti di partenza e le manovre e le azioni poste in atto dagli avversari della Unità, nonché da quelle frange mazziniane che non sopportavano il raggiungimento della unità ottenuto con -e grazie alla- Monarchia dei Savoia, lavoro che consentì le ulteriori conquiste politiche, economiche e sociali del periodo giolittiano, con il pieno consenso del giovane Re Vittorio Emanuele III, che ebbe il suo culmine nelle celebrazioni del cinquantenario del Regno nel 1911 e nel successivo completamento dell’ unità nel 1918.

La domanda conclusiva è: “tutto questo lavoro sarebbe stato possibile con una diversa articolazione dello Stato“? Noi crediamo, in opposizione con chi diceva “noi credevamo“, che lo Stato doveva essere necessariamente centralizzato, in modo da utilizzare al meglio tutte le energie, le competenze, le conoscenze che altrimenti si sarebbero disperse, provenienti da tutte le regioni e le province, smentendo nei nomi e nei fatti la volgare accusa di “piemontesizzazione“, dal momento che le regioni meridionali dettero un contributo fondamentale di uomini, come poteva vedersi in un’altra iniziativa - di cui dovremmo ricercare la documentazione - presa nell’ambito della Pubblica Amministrazione sempre nell’anno del centocinquantenario- e cioè la raccolta dei profili di 150 amministratori provenienti da tutte le regioni del nuovo Regno, che dalla nascita, nel 1861, hanno onorato l’Italia e le cui figure dovrebbero essere conosciute a memoria ed a monito nel grigiore dell’età presente.

15 aprile 2020

 

 

Frammenti di Riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

Il Consiglio di Stato ha evidenziato che, in assenza di specifica istanza di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, non possono essere presi in considerazione i rilievi svolti nell’atto di appello per violazione di tali limiti, stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016: ne consegue la non esaminabilità della parte di appello con cui si reiterano i motivi aggiunti formulati in primo grado.

La Sezione ha, inoltre, dichiarato inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cons. Stato, Sez. IV, 9 marzo 2020, n. 1686).

 

L’era delle pandemie

“L’età della globalizzazione potrebbe diventare quella delle pandemie? Certo che sì. Come un collasso finanziario in un nodo del sistema contagia l’intero in tempi infinitamente più rapidi che nel passato, come una guerra, una carestia, una crisi mettono in movimento interi popoli che premono su frontiere sempre più virtuali, lo stesso è inevitabile avvenga per le malattie infettive. Natura matrigna perciò? No, cecità culturale e politica. Non eravamo stati forse avvisati del trauma finanziario che blocca lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente dal 2007 – 2008?... È diverso ora per il coronavirus? Fino a un certo punto. L’Organizzazione mondiale della sanità da molti anni ha lanciato l’allarme… Solo l’emergenza la fa da padrona, come per le crisi finanziarie e sociali, e per l’immigrazione… Nessuna analisi di lungo periodo, nessuna coscienza dei pericoli (così come delle grandi opportunità) che fisiologicamente appartengono all’epoca in cui ci tocca di vivere. Strategie totalmente inadeguate. Si attende che il male arrivi, e poi a caccia di cure e vaccini. Gli scienziati prevedono e ammoniscono invano. Voci che chiamano nel deserto. Se ne invoca l’aiuto nell’emergenza, e poi via a tagliare di nuovo per formazione, ricerca, posti letto, ecc. Tanto nessuno sa e quel che si sa si dimentica” (Massimo Cacciari, “De profundis Europa”, L’Espresso, n. 13/2020, 60 ss.).

 

“Smascherati”

Tutti, o quasi tutti, ci siamo spesso domandati “quali identità si celano dietro alcuni dei più celebri ritratti” e quali storie e segreti hanno segnato la loro vita.

          A questa domanda si sono impegnati a rispondere Francesca Bonazzoli e Michele Robecchi con “Smascherati” (Roma, 2018), indagando sugli eventi che hanno coinvolto quei “volti immobili”.

La lettura del volume è agevole e coinvolgente ed alcuni “smascherati” non rivelano ancora, in modo certo, le vicende della loro esistenza terrena.

Tra questi, ancora in parte avvolta nel mistero, è la vita di Margherita Luti (p. 28), meglio conosciuta come “La Fornarina”, figlia di Francesco, fornaio senese, poi trasferitosi a Roma, in Via del Governo vecchio n. 48, nel quartiere di Trastevere, la donna che il grande pittore Raffaello amò appassionatamente.

Ma il volto di un’altra fanciulla, “La Velata” di Palazzo Pitti, “è perfettamente sovrapponibile” a quello de “La Fornarina”. Trattasi della stessa persona? I più propendono per il sì.

Per gli autori del volume è necessario recarsi al Pantheon, dove venne tumulato Raffaello, con accanto una lapide recante la seguente dicitura: “A Maria Bibbiena di lui fidanzata che con la morte prevenne il lieto imeneo e prima delle faci iniziali fu portata via, ancora fanciulla”. Maria era la nipote del cardinal Bibbiena che l’avrebbe voluta sposa di Raffaello, premorta al pittore.

Sembrerebbe, però, che Raffaello fosse già unito a “La Fornarina” con matrimonio segreto.

E cosa accadde a Margherita? Si ritiene che sia la donna così registrata nei libri del convento di Sant’Apollonia, in Trastevere, quattro mesi dopo la morte di Raffaello. “Al dì 18 agosto 1520. Hoggi è stata ricevuta dal nostro Conservatorio MA Margherita vedoa figliuola del quodam Francesco Luti di Siena”.

Il ritratto de “La Fornarina” è conservato in Roma, presso la Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini.

 

Estinzione del processo

“Fino dai tempi di Giustiniano, quando si escogitavano i mezzi processuali per impedire che le liti diventassero paene immortales, il processo era immaginato come un organismo vivente, che nasce, cresce e alla fine si estingue per morte naturale col giudicato, quando non sia intervenuta, a farlo morire prima, quella specie di infanticidio processuale che è la conciliazione, o quell’anemia perniciosa che è la perenzione” (Piero Calamandrei, ”Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, rist., Milano 2001,153).

 

“Cleopatra”

La lettura di un libro può provocare sensazioni positive ed un arricchimento culturale.

È quanto si verifica con “Cleopatra la regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità” di Alberto Angela (Milano, 2018).

Cleopatra, ultima regina d’Egitto, che esce dall’opera di Angela è una Cleopatra se non nuova, sicuramente innovatrice.

È, infatti, la vita di “una donna capace di influenzare come poche altre il corso della storia. Una donna moderna proiettata nell’antichità”.

“Più che il corpo, il suo asso nella manica è stato il cervello, con le sue idee, la sua abilità strategica, i suoi progetti”.

Non possono di certo negarsi il suo fascino e la sua sensualità, né sottovalutare la sua capacità intellettuale, la sua scaltrezza, “abile nel gioco delle alleanze e persino cinica nella gestione del potere”.

Con il suo libro Angelo svolge una accurata indagine storica che muove dall’uccisione di Giulio Cesare, evento che segna la fine della Repubblica, fino alla morte di Antonio e Cleopatra e, quindi, alla nascita dell’Impero con Augusto al potere.

Un libro senz’altro da leggere e, come accaduto a chi scrive, anche, in più parti, da rileggere.

8 aprile 2020

 

 

 

Straordinario discorso della Regina Elisabetta, sicura, rassicurante, da leader indiscusso del suo popolo

di Salvatore Sfrecola

 

Il volto sereno, rassicurante per la sicurezza che trasmette nelle difficoltà del momento, Elisabetta II ha parlato agli inglesi e al mondo intero. Pochi minuti, senza enfasi ha dimostrato che, quando le certezza sono messe in discussione un Sovrano riesce, come nessuno, a rappresentare il proprio popolo nel presente e nelle prospettive del difficile futuro che si prospetta.

Nel “time of disruption” la Regina ha offerto l’immagine della fiducia nel futuro perché, ha detto ai suoi compatrioti, “United and resolute then we will overcome it”, uniti e determinati, vinceremo. Ed ha precisato che “l’orgoglio in chi siamo non fa parte del nostro passato come Paese ma definisce ancora il nostro essere oggi e definirà il nostro futuro”.

Chiunque avrebbe potuto parlare con le medesima serena autorevolezza? Con la medesima consapevolezza della storia di un popolo che, nelle più gravi difficoltà, mai si è lasciato andare allo sconforto? No. Un uomo di parte, sia pure autorevole, come siamo abituati a vedere alla testa delle repubbliche deve fare i conti con la propria storia personale, con le vicende della propria esperienza politica, con l’orientamento del proprio partito e di quelli che hanno concorso alla sua elezione. Vale sempre questa considerazione, sia che ad eleggere il presidente sia stato il Parlamento, sia che lo abbia eletto il popolo, perché comunque l’orientamento dei partiti è determinante.

Un Sovrano, e la Regina Elisabetta ne è consapevole, esprime la storia e l’identità di un popolo, non è “di parte”. Re e popolo sono una stessa cosa, come dimostra l’esperienza delle monarchie democratiche d’Europa in nazioni molte delle quali sono tali solo per la presenza del Sovrano, dal Belgio che non sopravviverebbe all’antica tensione tra fiamminghi e valloni, alla Spagna che ha sofferto della sanguinosa rivolta dei baschi ed oggi è scossa dalle pulsioni autonomistiche dei catalani.

Un Re attraversa la storia, dura nel tempo perché lungo il tempo della Nazione c’è stato sempre, con un nome diverso scandito dai numeri ordinali che seguono al momento dell’assunzione al trono, come Giorgio VI il padre di Elisabetta. Un Re è patrimonio della Nazione, rappresenta in patria e nel mondo il suo popolo al quale può chiedere impegno solidale quando la Patria chiama, sia una guerra, come tante e sanguinose ne ha conosciute, sia una infezione che dilaga spargendo morte e fiaccando l’economia.

Si è detto che la Regina Elisabetta dà un significativo apporto al PIL del Regno Unito. Si comprende facilmente, perché è un’icona della Nazione per i suoi concittadini e per quanti si recano a visitare l’Inghilterra. Qualcuno, con espressione che può sembrare irriguardosa, ha detto che la Regina è un “brand” sul mercato. Del resto io uso un tè che si gloria di essere fornitore della Regina, “by appointment to Her Majesty Queen Elisabeth II, come un tempo, da ragazzo, leggevo sulle etichette di alcuni vini e liquori “fornitore della Real Casa”.

Quale, dunque, il segreto di un Sovrano? La straordinaria capacità di tutti di saper rappresentare la nazione nel tempo che scorre, cambiando ma nel senso della continuità. Cosa che non può un presidente di repubblica che vive nel timore di scontentare i partiti che lo hanno eletto e che spera lo confermeranno ancora a scadenza del mandato.

Un Re è per sempre. E non è differenza da poco.

6 aprile 2020

 

Un grande prestito nazionale per far ripartire l’economia

di Salvatore Sfrecola

 

Siamo alla vigilia della riunione dell’Eurogruppo che ha all’ordine del giorno la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (M.E.S.) e le possibili misure da adottare in favore dei paesi che stanno subendo danni gravi a seguito del blocco delle attività industriali, manifatturiere e commerciali in conseguenza delle misure restrittive adottate dai governi per far fronte all’epidemia da coronavirus. Il Fondo “Salva Stati” nasce a seguito degli esiti non proprio felici della politica attuata dall’Unione per far fronte alla crisi finanziaria degli anni 2010-2011 nei quali alcuni stati membri si sono trovati sull’orlo del tracollo finanziario. L’esperienza della Grecia “aiutata” con forte penalizzazione di stipendi, pensioni e posti di lavoro ha dato luogo al M.E.S. che può contare su un robusto capitale costituito dai versamenti degli stati membri. Con queste risorse il M.E.S. può concedere prestiti ai paesi in difficoltà i quali sono tenuti ad adottare – sulla base di un memorandum d’intesa (MoU) - provvedimenti capaci di tagliare il deficit/debito ed attuare riforme strutturali ritenute necessarie per la ripresa dell’economia del paese.

La polemica nei confronti del M.E.S. è forte, sia con riferimento alle modalità prevedibili di finanziamento del paese che richiede l’intervento sia, per l’Italia, con riguardo alla mancata autorizzazione del Parlamento. Così almeno la vede Salvini che non manca, giorno dopo giorno di polemizzare con il Presidente del Consiglio Conte e con il Ministro dell’economia Gualtieri. Per cui si fa strada, soprattutto tra le forze di opposizione, con il consiglio di alcuni economisti, di affrontare la crisi economica facendo ricorso alle risorse interne, al risparmio degli italiani. Non, tuttavia, nelle forme predatorie che ricordano il Governo Amato o certe ventilate iniziative che sanno tanto di imposta patrimoniale, come può trasparire dalle parole del Viceministro dell’economia Misiani. E neppure attraverso contributi di solidarietà da imporre a dipendenti e pensionati.

La strada maestra è quella di chiedere agli italiani di sottoscrivere un grande prestito pubblico di centinaia di miliardi destinato al rilancio dell’economia attraverso uno straordinario piano di interventi infrastrutturali che riguardino strade, autostrade, ferrovie, metropolitane e poi porti e aeroporti per dotare questo Paese dei mezzi essenziali per aiutare le imprese a crescere ed a competere sui mercati limitando i costi del trasporto e favorendo quell’altra straordinaria risorsa, sempre evocata e mai concretamente sfruttata, il turismo che ha uno straordinario indotto, proprio di questa nostra Italia costituito dall’artigianato e dall’enogastronomia.

Anche i porti meritano di essere potenziati per favorire il trasporto delle merci dall’Europa verso l’Oriente. Lo diceva già nel 1846 (occhio alla data) Camillo Benso di Cavour auspicando che Napoli e Palermo diventassero la porta d’Europa sul Mediterraneo. Poi c’è un problema di acquedotti e fognature, espressione della civiltà che ancora stenta ad affacciarsi in molte aree del Paese, soprattutto nel meridione e nelle isole.

Un po’ di storia di Roma insegnerebbe a molti che per crescere l’economia ha bisogno di infrastrutture viarie e portuali, puntualmente realizzate dalla Repubblica e dall’Impero ovunque nel mondo allora conosciuto.

Un piano straordinario è quello che si propone, per crescere e favorire i consumi interni e l’occupazione, anche con un ritorno fiscale non indifferente.

Lo si è fatto in altri tempi, secondo le indicazioni della scienza economica in tempi di crisi, come ha ricordato il Professore Sapelli in una recente intervista a La Verità. Opere pubbliche da manutenere e incrementare, finanziate con un prestito a lunga scadenza, naturalmente capace di attirare l’interesse dei risparmiatori. Lo si è fatto durante la Grande Guerra quando gli italiani hanno risposto con entusiasmo, proponendosi sottoscrittori per cifre molto superiori a quelle dei buoni offerti. Lo racconta con dovizia di particolari Luigi Einaudi nei suoi magistrati commenti sul Corriere della Sera insistendo su un fattore che in economia ha sempre contato, la fiducia degli italiani nello Stato e nei Governi che emettevano i buoni del tesoro.

È forse richiamando quei precedenti che in comunicato stampa di oggi l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), movimento di opinione che non è un partito politico, nel manifestare “viva preoccupazione per possibili decisioni del Governo che, in assenza di un voto del Parlamento, aderisca ad una ipotesi che, sulla base della analisi della sostenibilità dei debiti nazionali, si risolva in un prestito limitato ma con pesanti oneri per i contribuenti italiani”, propone un grande piano di investimenti infrastrutturali, nella certezza che gli italiani vorranno “aiutare la Patria in questo grave momento di crisi economica e sociale”.

5 aprile 2020

 

 

Fogli sparsi

di Domenico Giglio

 

Dividendi

La richiesta alle banche di sospendere l’erogazione dei dividendi, già previsti, è partita giorni or sono dalla Norvegia, felice monarchia dove il bilancio dello stato è in attivo, grazie al petrolio del Mare del Nord, ed il reddito pro capite è tra i primi in Europa e nel mondo, quasi doppio rispetto a quello dell’Italia. Alla Norvegia sono seguiti altri paesi ed ora anche in Italia si chiede e si ottiene dagli istituti bancari, tra i primi, la sospensione dei dividendi, “remunerazione del capitale”. Frase esatta, ma non completa perché per centinaia di migliaia di italiani quei dividendi sono una integrazione di pensioni modeste o ferme da anni (le pensioni di piombo), e frutto di investimenti mobiliari di risparmi di tutta una vita. Il tutto deciso da burocrati, “burosauri”, sicuri dei loro emolumenti, con gli scatti contrattuali ed altri benefici, ed accolti da amministratori dai compensi annuali a sei zeri, che, come i giocatori di calcio, potrebbero ridurre sensibilmente, e qualcuno pare lo stia facendo, senza finire sul lastrico! Che queste decisioni dipendano dalla attuale pandemia d’accordo, ma tra l’azzeramento ed una riduzione di questi compensi c’era e c’è spazio, non dimenticando che i dividendi si riferiscono al 2019 e sugli stessi i piccoli azionisti contavano per ripianare il loro modesto bilancio. “Est modus in rebus : sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit ”-(Orazio : Satire –lib. I – sat. I )-

 

Macro problemi micro stati

Le misure sanitarie prese in tutto il mondo per cercare di bloccare questa pandemia causata da un nuovo virus, le difficoltà di mettere insieme dei provvedimenti non solo sanitari, ma anche economici, nell’ambito dell’Europa la cui unione collega attualmente ben 27 stati dimostra che “tot capita, tot sententiae”. Ora se questi accordi sono difficili dato il numero delle teste, e solo l’unione di scienziati di tutti questi paesi mettendo in comune mezzi ed esperienze può trovare e produrre delle soluzioni ai problemi, a questo punto soprattutto economici e sociali, per riprendersi in tempi brevi, pena un’altra forse peggiore pandemia di povertà e disoccupazione, si deve necessariamente trovare punti d’incontro e sinergie. Ora più che mai, l’idea perseguita da minoranze secessioniste che vogliono creare nuovi stati, logicamente di piccole dimensioni, appare perciò fuori della realtà. Non è più tempo per sogni di ambiziosi che si rifanno a storie e storia di più secoli or sono. Lo stesso discorso vale per combattere il terrorismo di cui oggi si parla meno o nulla perché tutto lo spazio è preso dalla notizie sul corona virus, ma che non possiamo pensare o sperare che sia debellato e che dall’Afganistan, alla Siria e altri posti ha provocato più morti della attuale morbo ed ha messo in ginocchio intere nazioni, con città distrutte e milioni di profughi. Si afferma giustamente che quando sarà bloccata questa pandemia non si potrà tornare integralmente alla vita precedente e che dovremo fare tesoro dell’attuale esperienza, forse eccessivamente enfatizzata, e questo dovrà valere sia nei rapporti tra gli stati, particolarmente della indispensabile Unione Europea, che, a tutt’oggi non ha dato una grande prova di efficienza e solidarietà, sia a far rientrare definitivamente le richieste referendarie per la separazione della Scozia o della Catalogna.

 

Il Veltro dantesco

Alcuni amici e conoscenti mi hanno chiesto perché fossi così sicuro che la (Divina) Commedia fosse proprio il veltro indicato da Dante. Premetto che ho fatto il liceo classico, con un grande professore d’italiano, il gesuita Padre Raffaele Salimei, mi piaceva la storia e la letteratura italiana, ma poi ho scelto ingegneria affascinato a mia volta dalla architettura e dai progetti e poi dalle foto, anche in fase costruttiva, dei numerosi palazzi della Banca d’Italia, progettati e diretti da mio padre (Imperia, San Remo, Savona, La Spezia, Cremona, Viterbo, Livorno, Rieti, Civitavecchia, Ragusa, Enna e Trapani). Quindi non sono un professore di lettere, ma mi sono limitato, oltre a leggere Dante, a soffermarmi sui commenti ai versi in diverse edizioni, con diversi commentatori, a studiare alcune storie della letteratura, tra cui Francesco Flora, ma su alcuni punti controversi ho cercato semplicemente di ragionare. “Cogito ergo sum”. Allora mi sono posto il quesito di ordine generale sulla Divina Commedia: perché Dante la scrisse? L’Alighieri era un poeta già conosciuto ed apprezzato, era un importante scrittore in prosa, latina ed italiana, poteva scrivere di tutto, anche un poemetto dedicato a Beatrice, ma perché proprio nelle difficoltà dell’esilio ha posto mano al “poema sacro” che “m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso - c. XXV- v. 1-3), rischiando anche l’accusa di eresia con tutte le eventuali gravissime conseguenze?

Dante, a mio avviso, lo scrisse perché voleva adempiere ad una “missione”, e non certo solo a schivare le tre belve ed a rendere postumo omaggio a Beatrice, ed una missione è ben diversa da una “profezia”. La missione è “immediata”, contemporanea anche se il suo effetto può continuare nel tempo. Ancora oggi leggiamo testi di grandi predicatori, ed anche il semplice, ma stupendo “Cantico” di San Francesco o lettere di Santa Caterina da Siena, per cui la lettura della Divina Commedia è proseguita nei secoli ed il suo studio sono giustamente materia d’insegnamento scolastico, da quando l’Italia ha raggiunto la sua unità con il Regno d’Italia il 17 marzo 1861, e questa unità era effettivamente un vaticinio dantesco. Quindi una missione poteva anche essere svolta, ma il testo, ripeto, lo esclude, da un personaggio contemporaneo, ma di cui in quel secolo non vi è tracia e Dante era buon conoscitore degli uomini del suo tempo per pensare ad un Cangrande della Scala (1291-1329), o ad un imperatore. Pensare che fosse un personaggio di secoli dopo è di una tale illogicità, che meraviglia avere alcuni aprile scrittori in epoche successive attribuito a personalità anche importanti, e sempre italiani, il ruolo del veltro, ma di cortigiani, “vil razza dannata”, è piena la storia. Pensare alla terza età dello Spirito Santo, del “calavrese abate Gioacchino, di spirito profetico dotato” (Paradiso – c. XII. v. 140), è egualmente assurdo perché il tra “feltro e feltro” indica sempre dei fogli di carta e quindi una opera scritta. E se opera scritta doveva essere è appunto la Commedia.

Ecco perché “la sua nazion “, e la “sapientia, amore e virtute”, sono i cento canti della Divina Commedia e la sua missione contro cupidigia, corruzione, avarizia, ricchezza e potere temporale della Chiesa (questo però cessato il 20 settembre 1870) è sempre valida ed attuale.

4 aprile 2020

 

 

 

JOANNES PAULUS P. P. II SANCTUS:

UN PAPA NELLA STORIA

di Gianluigi Chiaserotti

 

Il 2 aprile scorso, sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa del grande Pontefice Giovanni Paolo II.

Con questo mio pensiero, desidero ricordarlo e condividerlo.

 

§ 1. Note biografiche

Karol Jósef Wojtyla nacque a Wadowice, città a cinquanta chilometri da Kraków, Cracovia (Polonia), il 18 maggio 1920.

Era l’ultimo dei tre figli di Karol Wojtyla e di Emila Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932, e suo padre,  sottufficiale dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era morta prima che egli nascesse.

Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote Franciszek Zak; a nove anni ricevette la Prima Comunione ed a diciotto anni la Cresima.

Terminati gli studi nella Scuola Superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 Karol Wojtyla si iscrisse alla Università Jagellónica di Cracovia.

Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay al fine di potersi guadagnare da vivere, ma soprattutto per evitare la deportazione in Germania.

A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, il Nostro frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo [futuro Cardinale (creato il 18 febbraio 1946)]  Adam Stefan Stanislaw Bonifacy Jósef Sapieha (1867-1951).

Nel contempo,  Karol Wojtyla fu uno dei promotori del “Teatro Rapsodico”, anch’esso clandestino.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, continuò i suoi studi nel Seminario Maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Cracovia il giorno 1 novembre 1946, proprio per le mani dell’Arcivescovo, cardinale Sapieha.

Successivamente don Karol fu inviato a Roma, dove, sotto la guida del domenicano francese padre Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), conseguì, nel 1948, il dottorato in teologia, con una tesi sul tema della fede e delle opere di San Giovanni della Croce (“Doctrina de fide apud Sanctum Iannem a Cruce”)  (Juan de la Cruz, 1542-1591), il fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, beatificato nel 1675, canonizzato nel 1726 e dichiarato Dottore della Chiesa nel 1926.

In quel periodo, nel corso delle sue vacanze, il Nostro esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio ed Olanda.

Nel 1948 il Wojtyla ritornò in Polonia e fu coadiutore, dapprima, della parrocchia di Niegović, vicino a Cracovia, eppoi in quella di San Floriano, in città.

Divenne quindi cappellano degli universitari fino al 1951, anno in cui riprese i suoi studi filosofici e teologici.

Nel 1953 il Nostro presentò all’Università Cattolica di Lublino la tesi: “Valutazioni sulla possibilità di costruire l’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler”.

Più tardi, Egli divenne docente di teologia morale ed etica nel Seminario Maggiore di Cracovia e quindi nella Facoltà di Teologia di Lublino.

Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII [Eugenio Pacelli (nato nel 1876), 1939-1958] lo nominò Vescovo titolare di Ombi ed Ausiliare di Cracovia.

Il Nostro ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale di Wawel (Cracovia), dalle mani dell’arcivescovo Eugenisz Baziak (1890-1962).

Il 13 gennaio 1964 il Wojtyla fu nominato Arcivescovo di Cracovia dal Papa San Paolo VI [Giovanni Battista Montini (nato nel 1897), 1963-1978] che, in seguito, lo creò e lo pubblicò anche Cardinale nel Concistoro del 26 giugno 1967, del Titolo di San Cesareo in Palatio, Diaconia “pro illa vice” elevata a Titolo Presbiteriale.

L’Arcivescovo Wojtyla partecipò al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Concilio che fu fortemente voluto da San Giovanni XXIII [Angelo Giuseppe Roncalli (nato nel 1881), 1958-1963] con il suo famoso, vibrante e pieno di commozione discorso pronunciato nella Basilica di San Paolo il 25 gennaio 1959. Concilio quindi inaugurato il giorno 11 ottobre 1962, con il celeberrimo discorso “Gaudet Mater Ecclesiae”.

E fu proprio il Nostro a giustamente beatificare Giovanni XXIII il 3 settembre 2000.

Il Wojtyla, in questo contesto, dette un validissimo ed importante contributo nell’elaborazione delle costituzioni “Gaudium et Spes” e della “Dignitatis Humanae”, due dei documenti storici più importanti ed influenti pubblicati dal Concilio.

In particolare, nel settembre 1964, intervenne allo schema preparatorio sulla libertà religiosa, evidenziando che nel testo veniva meno di dire che “solo la verità rende liberi”. Nel 1965 diede quindi ulteriormente il suo contributo allo schema preparatorio della “Gaudium et Spes”, pronunciando, il 28 settembre, un ulteriore importante discorso in difesa dell’antropologia personalistica.

Fu nel corso dei lavori delle sessioni conciliari che il futuro Papa conobbe, apprezzò e divenne sincero amico di un giovane teologo bavarese: Josef Ratzinger (1927- ), suo futuro prezioso collaboratore quale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nonché suo naturale Successore al Soglio Petrino.

Il Cardinale Wojtyla prese parte anche alle cinque assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.

Ma la grossa svolta della sua missione pastorale si ebbe nel 1978. I Cardinali, riuniti in Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978, nel giorno della Santa polacca Edvige.

Qualcuno pensa che la sua elezione, come quella del suo predecessore, sia stata frutto di un compromesso. Il Conclave infatti, secondo quanto emerso dai racconti di alcuni cardinali, vide una netta divisione tra due candidati particolarmente forti quali il Cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), Arcivescovo di Genova, votato dalla parte dell’ala conservatrice, ed il Cardinale Giovanni Benelli (1921-1982), Arcivescovo di Firenze, molto vicino al Papa Giovanni Paolo I [Albino Luciani (nato nel 1912), 26 agosto-28 settembre 1978] e sorretto dall’ala più riformista del Collegio dei Cardinali.

Sembra che nei primi ballottaggi il Benelli sia arrivato a nove voti dall’elezione, ma il Nostro, in parte grazie al supporto ottenuto da cardinali come Franz König (1905-2004), Arcivescovo di Vienna, ed altri che avevano in precedenza appoggiato il cardinale Siri, venne eletto con grande stupore di tutto il mondo, e ciò con 99 voti su 111 (Giovanni Paolo I ne aveva ottenuti 98).

Quindi, come si diceva poc’anzi, il 16 ottobre 1978, all’età di cinquantotto anni, Karol Wojtyla succedette a Papa Giovanni Paolo I.

Al momento dell’elezione il Nostro avrebbe voluto assumere il nome di Stanislao I in onore del Santo Patrono della Polonia. Tuttavia, poiché i cardinali gli fecero notare che era un nome  non rientrante nella tradizione romana, Wojtyla scelse quello di Giovanni Paolo, in ricordo del suo insigne predecessore, ed al fine di tener viva la sua memoria. Al riguardo disse: “Scelsi gli stessi nomi, che aveva scelto il mio amatissimo predecessore Giovanni Paolo I. (…) un binomio di questo genere era senza precedenti nella storia del papato – ravvisai in esso un chiaro auspicio della grazia sul nuovo pontificato. (…)” e “Scegliondoli” (i due nomi) “(…) desidero esprimere il mio amore per la singolare eredità lasciata alla Chiesa dai Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI, e insieme la personale mia disponibilità a svilupparla con l’aiuto di Dio”.

L’annuncio della sua elezione (l’”Habemus papam”) fu dato dall’allora cardinale protodiacono Pericle Felici (1911-1982).

Pochi minuti dopo il neo-Papa si presentò alla folla riunita in piazza San Pietro, affacciandosi dalla loggia che sovrasta l’ingresso della Basilica. Nel suo breve discorso egli si definì come “il nuovo Papa chiamato di un paese lontano” e superò immediatamente le diffidenze degli italiani, che vedevano, per la prima volta da lungo tempo, un pontefice straniero, e ciò dai tempi in cui ascese al pontificato l’olandese Adriano Florensz, Adriano VI (nato nel 1459), che fu papa dal 1522 al 1523.

Prese, come abbiamo detto, il nome di Giovanni Paolo II, ed il 22 ottobre iniziò solennemente il ministero Petrino, quale CCLXII Successore dell’Apostolo.

Egli, devoto alla Madonna, iscrisse la cifra mariana nella sua vita e nel suo pontificato. “Totus tuus”, fu il motto dell’Arcivescovo di Cracovia e del Papa (unitamente allo stemma con una “M” sotto la croce, che fece scandalo tra gli araldisti vaticani), proveniente dalla formula di affidamento a Maria di San Luigi Maria (Louis-Marie) Grignion de Montfort (1673-1716) (beatificato nel 1888 e canonizzato nel 1947), che inizia con le seguenti parole: “Totus tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria”.    

Il suo pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della Chiesa ed è durato quasi ventisette anni. Comunque è il terzo pontificato in assoluto più lungo dopo quelli di San Pietro (martirizzato nel 67), del beato Pio IX  [Giovanni Battista Mastai Ferretti (nato nel 1792), 1846-1878],  quasi trentadue anni (beatificato, tra l’altro, dal Nostro il 3 settembre 2000), e prima di quello di Leone XIII [Vincenzo Gioacchino Pecci (nato nel 1810), 1878-1903] oltre venticinque anni. Al riguardo nel testamento di Giovanni Paolo II è riportato un vaticinio del cardinale Stefan Wyszyńsky (1901-1981), l’allora Primate di Polonia, e cioè: “Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio”. E sappiamo che così è stato.

Il nuovo Papa fu immediatamente innovativo.

Infatti volle iniziare il suo pontificato rendendo omaggio ai due Patroni d’Italia. E così il 5 novembre 1978 visitò Assisi, per venerare San Francesco, e successivamente si recò anche nella Basilica romana di Santa Maria sopra Minerva, al fine di venerare la tomba di Santa Caterina da Siena.

Il 12 novembre Giovanni Paolo II prese possesso, come Vescovo di Roma, della Cattedra di San Giovanni in Laterano, ed, in codesta Sua veste, il 5 dicembre compì la prima, di una lunga serie di visite, alle parrocchie della Diocesi di Roma, iniziando con quella di San Francesco Saverio nel popolare quartiere della Garbatella.

 

§ 2. Il Pontificato ed i suoi motivi fondamentali

Il lungo, intenso, ma anche innovativo Pontificato di Giovanni Paolo II ha tanti motivi su cui riflettere sia per la personalità eclettica del Papa, sia per i momenti storici avvicendatisi attraverso gli anni, sia anche per la natura del Pontificato, tradizionale per certi aspetti e temi, ma in continua evoluzione per altri.

Vediamo quindi di cercar di analizzare alcuni dei motivi fondamentali che hanno caratterizzato, ma anche evidenziato l’opera pastorale del Nostro.

Ma codesti motivi fondamentali hanno, senza dubbio, il loro naturale prologo nel bellissimo pensiero che Giovanni Paolo II pronunciò nel Suo discorso di inizio del Pontificato il 22 ottobre 1978:

Non abbiate paura (…). Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!

Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati,

i sistemi economici, come quelli politici,

i vasti campi della cultura, di civiltà, di sviluppo.

Non abbiate paura!

Cristo sa cosa è dentro l’Uomo. Solo Lui lo sa!

Ed Egli fu fedele sino alla fine a detto pensiero.

Innanzitutto il Pontefice ribadì ripetutamente la dignità dell’uomo ed il diritto alla vita, come fondamento di tutte le posizioni assunte in tema di morale.

Ogni individuo è “unico e irripetibile” ed ogni persona, in quanto è ad “immagine e somiglianza di Dio”, ha una dignità che non è acquisita con meriti, ma è data fin dalla nascita.

Il diritto naturale secondo San Tommaso d’Aquino (1225-1274) discende dal diritto divino, da un volere del creatore che ha imposto tali leggi alla natura creata.

La vita è un diritto in quanto dono di Dio, il Solo che può darla e toglierla.

Il diritto alla vita è per il pontefice il fondamento di ogni altro diritto: della persona, dell’esistenza di una giustizia e di un sistema di diritti a suo riguardo.

Il 10 gennaio 2005, nel corso dell’ultimo incontro di inizio d’anno con il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede,  Giovanni Paolo II  antepose a tutti i problemi dell’umanità, compresa la fame, il tema della “sfida della vita” contro quella che definì come “cultura della morte”, rappresentata da aborto, fecondazione artificiale, clonazione, eutanasia, unioni civili e matrimoni omosessuali, dichiarando che “lo Stato ha come suo compito primario proprio la tutela e la promozione della vita umana”.

Il tema della “cultura della morte” e la condanna di essa ricorre in numerosi pronunciamenti del Nostro.

La sua dottrina ha difeso fortemente la vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. Questa posizione è stata per qualcuno di stampo conservatore, mentre altri l’hanno considerata un baluardo nella difesa dei più deboli e della vita.

Nell’Enciclica “Evangelium vitae” del 25 marzo 1995 definì “democrazie totalitarie” gli stati democratici che consentono l’interruzione volontaria della gravidanza.

Il Papa si è espresso contro l’ordinazione al sacerdozio di donne e tale posizione fu ribadita con la lettera apostolica “Mulieris dignitatem” il 15 agosto 1988 e successivamente il 22 maggio 1994 nella lettera “Ordinatio sacerdotalis”.

Sull’ipotesi che per tale pronunciamento si fosse avvalso dell’infallibilità papale intervenne dapprima la Congregazione per la Dottrina della Fede, con il suo “Responsum in data 28 ottobre 1995, a firma dell’allora Prefetto, cardinale Joseph Ratzinger.

In questo documento si afferma che la suddetta dottrina “proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale”, è proposta dalla Lettera Apostolica “Ordinatio Sacerdotalis con una dichiarazione formale e deve essere considerata come appartenente al deposito della fede.

In seguito lo stesso Giovanni Paolo II, nel discorso ai vescovi tedeschi del 20 novembre 1999 (n. 10), affermò: “l’insegnamento sul sacerdozio riservato agli uomini riveste il carattere di quella infallibilità che è legata al Magistero ordinario e universale della Chiesa”.

Come Paolo VI, anche Giovanni Paolo II intervenne più volte in difesa del celibato ecclesiastico nel rito latino, dichiarando che mantenerlo sarebbe stato positiva soluzione al calo delle vocazioni. Tra i motivi elencati in favore del celibato, il Pontefice citò il maggior tempo da dedicare alla parrocchia/comunità, e il fatto che il sacerdote debba non pensare ai beni terreni.

Ha confermato la posizione della Chiesa contraria all’ammissione di cattolici divorziati risposati o conviventi con altri, al sacramento dell’eucaristia nell’esortazione apostolicaFamiliaris consortio” del 22 novembre 1982.

Il 22 novembre 2001 il Nostro ha nuovamente espresso tale posizione ai presuli dell’Oceania, dopo che erano stati sollevati dei dubbi nel corso del loro Sinodo, tenutosi nell’Urbe nel 1998, e nella Enciclica “Ecclesia de Eucarestia” del 2003.

Il 15 agosto 1997, con la lettera apostolica “Laetamur Magnopere”, il Papa approvò e promulgò in modo ufficiale il Catechismo della Chiesa Cattolica, e ciò alla luce della Tradizione, ma anche autorevolmente interpretata dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Il nuovo Catechismo fu però  accolto con diverso umore dai vari ambienti cattolici.

Uno dei temi più controversi riguardava la pena di morte. Pur essendovi una decisa condanna di tale pena, questa non è totale. Una successiva riscrittura ha eliminato molti dubbi, coniugando il rispetto della dottrina precedente (nello Stato Pontificio si praticava la pena di morte, così come in quasi tutti gli stati dell’epoca) con l’affermazione secondo cui al giorno d’oggi i casi in cui tale pena è lecita sono praticamente inesistenti.

Più volte il Sommo Pontefice si è espresso contro le sperimentazioni nella liturgia, in un chirografo del 22 novembre 2003 dichiarò che “il sacro ambito della celebrazione liturgica non deve mai diventare laboratorio di sperimentazioni o di pratiche compositive ed esecutive introdotte senza un’attenta verifica”, posizione ripetuta nella lettera apostolica “Spiritus et Sponsa” del 4 dicembre 2003 in occasione del quarantesimo anniversario della costituzione sulla liturgia del Concilio Ecumenico Vaticano II.

In precedenza il 24 maggio il cardinale Darío Castrillón Hoyos (1929-2018) aveva celebrato, a nome del Papa, una messa con rito tridentino nella basilica di Santa Maria Maggiore in Roma.

Al riguardo desideriamo ricordare anche l’atteggiamento del Nostro nei confronti del vescovo Marcel Lefebvre (1905-1991), al quale il Papa concesse essenzialmente di poter celebrare la Santa Messa secondo il rito precedente al Concilio, quello tridentino appunto. Il vescovo, grazie anche alla mediazione dell’allora cardinale Ratzinger, sembrò accordarsi con la Santa Sede. Purtroppo il Lefebvre, incapace di ritornare nel quadro della Chiesa, nel 1988 ordinò quattro nuovi vescovi  senza l’autorizzazione di Roma, considerando, tra l’altro le concessioni fattegli scarse.

Per la Santa Sede fu un “atto scismatico”, che portò automaticamente alla scomunica.

Papa Giovanni Paolo II ha viaggiato estesamente ed è entrato in contatto con molte diverse fedi, senza mai cessare di ricercare con esse un terreno comune, etico, dottrinale o dogmatico. Ha stabilito contatti con Israele, ed inoltre è stato il primo pontefice romano, dopo San Pietro, a pregare in una sinagoga visitando il 13 aprile 1986 quella di Roma.

Giovanni Paolo II ha scritto e parlato molto sull’argomento delle relazioni della Chiesa con gli ebrei, ed ha spesso reso omaggio alle vittime dell’olocausto in molte nazioni.

È stato il primo Papa ad aver visitato il campo di concentramento di Auschwitz in Polonia, nel 1979. Fu uno dei pochi papi ad essere cresciuto in un clima di fiorente cultura ebraica, che era tra le componenti chiave della Cracovia dell’epoca pre-bellica. Il suo interesse per la cultura ebraica risaliva quindi alla prima gioventù, nella sua Wadowice, Karol infatti era, sin dall’infanzia, amico di molti ragazzi di religione ebraica in quanto considerava cattolici ed ebrei “tutti figli dello stesso Dio”.  Ed anche nel suo Testamento così ricorda il Rabbino Capo di Roma Elio Toaf (1915-2015): “con grata memoria (…) anche tanti fratelli cristiani – non cattolici! E il rabbino capo di Roma (…)”.

Nel marzo 2000, il Nostro si recò nel memoriale dell’olocausto di Yad Vashem in Israele e toccò il Muro occidentale di Gerusalemme, uno dei luoghi più sacri del popolo ebraico, promuovendo la riconciliazione tra cristiani ed ebrei.

La Lega Anti-Diffamazione ha recentemente dichiarato: “La Lega Anti-Diffamazione si congratula con papa Giovanni Paolo II in occasione del 25º anniversario del suo pontificato. Il suo profondo impegno nella riconciliazione tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico è stato fondamentale per il suo pontificato. Gli ebrei di tutto il mondo sono profondamente grati al Papa. Egli ha sempre difeso il popolo ebraico, come sacerdote nella sua natia Polonia e durante il suo pontificato... Preghiamo che rimanga in salute per molti anni a venire, e che ottenga molto successo nella sua opera santa e che le relazioni tra cattolici ed ebrei continuino a prosperare”.

Nel febbraio 2005, l’agenzia Reuters pubblicò estratti dal nuovo libro del pontefice, il suo quinto, “Memoria e identità. In esso, il Papa sembra comparare l’aborto all’Olocausto, dicendo: “C’è ancora, tuttavia uno sterminio legale di esseri umani che sono stati concepiti ma non sono ancora nati. E questa volta stiamo parlando di uno sterminio che è stato permesso da, niente di meno, parlamenti scelti democraticamente dove normalmente si sentono appelli per il progresso civile della società e di tutta l’umanità”. Un dirigente del Consiglio centrale ebraico tedesco definì il confronto inaccettabile. Il cardinale Joseph Ratzinger mise da parte le sue cariche, dicendo che il papa “non stava provando a mettere l’Olocausto e l’aborto sullo stesso piano” ma soltanto stava avvertendo che la malvagità alligna dappertutto, “anche nei sistemi politici liberali”.

In codesto spirito di dialogo, anche il Dalai Lama, guida spirituale del Buddhismo tibetano, ha avuto incontri con Giovanni Paolo II, più di ogni altro singolo dignitario, trovandosi spesso di comune opinione.

Il 27 ottobre 1986 si svolse ad Assisi una giornata di incontro tra le grandi religioni, indetta da Giovanni Paolo II. In tale circostanza, le differenti religioni “si sono dichiarate concordi nel riconoscere che, per diverso che sia il nome di Dio da esse invocato, la ricerca della pace per le vie della nonviolenza è la pietra di paragone dell’obbedienza alla sua volontà”.

Ma sicuramente, una direttrice costante del pontificato del Nostro è la Sua non comune attenzione rivolta ai paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, in quanto aveva anche una visione particolare e tradizionale dell’Europa medesima.

Il Nostro era una personalità non facilmente classificabile al momento dell’elezione. Oltre a non essere italiano, Egli era slavo in quel 1978, anno in cui l’Europa occidentale era più che lontana da quella Orientale.

Comunque se Egli non era italiano, era almeno europeo. Tra i papi del Secolo XX Giovanni Paolo II è quello che gode il più vasto interessamento sulle vicende dell’Europa non solo per la lunghezza del pontificato, ma anche per un Suo particolare interesse specifico. Sin dai primi Suoi discorsi (Polonia 1979) ha sempre insistito sulla dimensione naturalmente unitaria dell’Europa. Egli parla di una grande Europa, nonostante gli accordi di Jalta, come solo il generale Charles de Gaulle (1890-1970) aveva osato.

Il Nostro sogna una grande Europa e ne rivendica le naturali radici cristiane, fondamento della sua unità, quasi come quella Carolingia che Pio XII salutò con partecipazione. Il Wojtyla restò sempre convinto che l’unità del Vecchio Continente è un obiettivo epocale, che puo’ sostenere e non indebolire la medesima fede cristiana, anche nel confronto con i paesi extraeuropei.

Ma codesta Sua fede nell’Europa ha un retaggio antico. Infatti il padre del Sommo Pontefice, nativo della Galizia, fu un cittadino dell’impero absburgico e che lo servì quale militare. Al riguardo è bene ricordare che le reminiscenze papali absburgiche non sono negative. Infatti nel corso della visita in Vaticano dell’ultima imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria, Zita di Absburgo-Lorena (1892-1989), vedova dell’ultimo imperatore Carlo (1887-1922), il Papa, fuori dal rigido protocollo, accompagna per le stanze del Palazzo Apostolico la sovrana, confusa da tale cortesia, motivando appunto questo nobile gesto con il fatto che il padre del Papa aveva servito l’esercito absburgico.

E fu Giovanni Paolo II a proclamare beato, nel 2004, lo stesso Carlo I d’Absburgo-Lorena, e ciò nello stupore generale soprattutto per chi considerava non sopite le responsabilità di tale Dinastia nella Prima Guerra Mondiale.     

Ecco, quindi, come l’azione decisa dal Papa al fine di rafforzare la Chiesa ha fatto considerare di grande importanza il Suo contributo alle vicende, ormai storiche, che hanno portato nel 1989 alla caduta dei regimi comunisti, estranei alla tradizione europea, ed al ristabilimento in codesti paesi della gerarchia cattolica e del rispetto per la stessa.  Il papa chiaramente non ha mai approvato che il cristiano possa schierarsi con la sinistra (per una serie di motivi, tra cui l’uso della violenza, il marxismo, l’influenza sovietica), ma non fu anche mai disposto a fare della Chiesa un baluardo ed un sostegno dei regimi conservatori.

Ma questa polemica serrata contro il comunismo, seguì anche la critica della logica disumanizzante del capitalismo e della pura economia di mercato avviata alla globalizzazione.

Per queste Sue doti di grande democrazia e vocazione europeista, il Papa ha ricevuto il prestigioso Premio “Carlo Magno” in Acquisgrana il 24 marzo 2004.

Altra direttiva fondamentale del pontificato del Beato è senza dubbio la Sua particolare e spettacolare attenzione per i giovani, i c. d. “Papa Boys”. Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad iniziare, nel 1985, le Giornate Mondiali della Gioventù. Le diciannove edizioni che si sono tenute nel corso del Suo Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in ogni parte del Mondo, con il Papa, giovane fra i giovani. Infatti per il Lui, i giovani hanno il dovere di continuare “la missione messianica di Cristo”, come scrive nel suo “Carissimi giovani” (Milano 1995) in quanto saranno i cristiani di domani, a cui spetta di porre le basi per un mondo migliore.

E furono essenzialmente i c. d. “Papa Boys” che, nel corso delle esequie del Nostro, il giorno 8 aprile 2005, più volte lo invocarono come “Santo subito”.

Altro primato del Beato Giovanni Paolo II fu il 14 novembre 2002, in occasione della prima visita assoluta di un romano Pontefice al Parlamento Italiano riunito in seduta comune nell’Aula del Palazzo Montecitorio, con la Sua chiara e limpida presa di posizione in merito all’eventualità di un indulto per alleggerire la congestionata situazione delle carceri italiane.

Il 13 maggio 1981 il Nostro subì un attentato, quasi mortale, da parte di Mehmet Ali Ağca, un killer professionista turco, che gli sparò due colpi di pistola in piazza San Pietro, pochi minuti dopo che Egli era entrato nella piazza per un’udienza generale, colpendolo all’addome. Wojtyła fu immediatamente soccorso, e sopravvisse, ma ciò solo a seguito di un delicatissimo intervento chirurgico.

Due giorni dopo il Natale del 1983, il Papa volle andare in prigione per incontrare il suo attentatore e porgergli il suo perdono. Il Papa disse poi dell’incontro: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello, al quale ho perdonato e che gode della mia fiducia. Quello che ci siamo detti è un segreto tra me e lui”. L’attentatore era stato condannato alla pena dell’ergastolo. Nel 2000 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli concesse la grazia: Ali Ağca, estradato dall’Italia, fu condotto nel carcere di massima sicurezza di Kartal (Turchia). Ali Ağca non ha mai voluto rivelare in modo chiaro la verità, ed ha ripetutamente cambiato versione sulla dinamica della preparazione dell’attentato, a volte suggerendo di aver avuto aiuti dall’interno del Vaticano. I documenti analizzati dalla commissione Mitrokhin dimostrerebbero che l’attentato fu progettato dal KGB in collaborazione con la polizia della Germania Orientale (Stasi) e con l’appoggio di un gruppo terroristico bulgaro a Roma, che a sua volta si sarebbe rivolto ad un gruppo turco di estrema destra, i Lupi grigi. Una relazione di minoranza della stessa commissione negò questa tesi; tuttavia, altri documenti scoperti negli archivi sovietici e resi pubblici nel marzo 2005 sostengono la tesi che l’attentato sia stato commissionato dall’Unione Sovietica.

Le motivazioni che avrebbero portato l’URSS a preparare l’attentato non sono state mai chiarite; probabilmente, l’Unione Sovietica temeva l’influenza che un Papa polacco poteva avere sulla stabilità dei loro Paesi satelliti dell’Europa Orientale, in special modo la Polonia.

Un’altra ipotesi (non necessariamente contraddittoria alla prima) è quella del coinvolgimento della mafia nell’attentato, suffragata dal memoriale di un pentito.

Tutte codeste informazioni vanno considerate alla stregua di ipotesi, perché ad oggi non sono state comprovate le circostanze e le motivazioni dell’attentato stesso.

Un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede analizza l’attentato, mettendolo in relazione con l’ultimo dei Segreti di Fatima. L’attentato è avvenuto nel giorno della ricorrenza della prima apparizione della Madonna ai pastorelli di Fatima, e Giovanni Paolo II, convinto che fu la mano della Madonna a deviare quel colpo ed a salvargli la vita, volle che il bossolo del proiettile fosse incastonato proprio nella corona della statua della Vergine. Ciò accadde appunto a Fatima il 13 maggio 1982, esattamente un anno dopo il vile attentato.

E fu nel corso di tale viaggio che il Re Umberto II di Savoia (1904-1983), di già sofferente, volle egualmente incontrare (come fu, nel 1967, con Paolo VI) il Papa nella Nunziatura Apostolica di Lisbona. In quell’occasione il Re decise di donare al Papa stesso la Sacra Sindone, di proprietà della sua Casa sin dal 1453.

Senza dubbio l’attentato fu anche il prologo dei problemi di salute del Nostro, il quale cominciò il suo pontificato in ottima forma fisica e morale.

Era un uomo relativamente giovane che, diversamente dai suoi predecessori, faceva abitualmente escursioni, nuotava e sciava. Tuttavia, dopo oltre venticinque anni trascorsi intensamente sul seggio papale, l’attentato appunto ed un gran numero di traumi fisici, la sua salute cominciò a declinare. Fu vittima di un tumore al colon che gli venne rimosso nel 1992, si slogò una spalla nel 1993, si ruppe il femore nel 1994 e subì l’appendicectomia nell’ottobre del 1996.

Nel 2001 venne stabilito, nel corso di una visita ortopedica, che, come alcuni osservatori internazionali sospettavano da tempo, Giovanni Paolo II soffriva del morbo di Parkinson. Ciò venne ufficialmente confermato dal Vaticano nel 2003. Oltre all’evidente tremore alla mano, cominciò a pronunciare con difficoltà più frasi di seguito, e vennero notati anche alcuni problemi uditivi. Soffriva anche di un’artrosi acuta al ginocchio destro, che aveva sviluppato in seguito all’applicazione di una protesi all’anca. Nonostante questi disagi, continuò a girare il mondo. Disse di accettare la volontà di Dio che lo faceva Papa, e così rimase determinato a mantenere la Sua missione fino alla morte, o finché non sarebbe diventato mentalmente inabile in maniera irreversibile. Coloro che lo hanno incontrato dicono che, sebbene provato fisicamente, sia sempre stato perfettamente lucido.

Nel settembre 2003, il cardinale Joseph Ratzinger disse “dovremmo pregare per il Papa”, sollevando serie preoccupazioni circa lo stato di salute del Pontefice.

Il giorno 1 febbraio 2005 fu ricoverato all’Ospedale Gemelli di Roma, e ciò fino al 10 febbraio; successivamente fu costretto a saltare gran parte degli impegni previsti per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Il 27 marzo, giorno di Pasqua, apparve alla finestra su piazza San Pietro, ma per poco tempo.

L’allora Segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano (1927- ), già Decano del Sacro Collegio Cardinalizio, lesse il messaggio “Urbi et Orbi” ed il Papa benedisse la folla di mano sua. Tentò di parlare, ma, fra la commozione generale, non vi riuscì.

Il 30 marzo, mercoledì, il Papa apparve alla finestra su piazza San Pietro nuovamente per poco tempo. Tentò inutilmente di parlare. Fu l’ultima volta che si mostrò in pubblico prima di morire.

Il Papa morì in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21,37, mentre volgeva al termine il sabato e si era di già entrati nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua, la Domenica della Divina Misericordia  (quella che era denominata “in Albis”), da Lui stesso istituita (2000), e ciò secondo il messaggio della Suora polacca Faustina Kowalska (1905-1938), che Egli beatificò (1993) e canonizzò (2000). Il messaggio testualmente dice: “Voglio che l’immagine (…) venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua: questa domenica deve essere la festa della Divina Misericordia”.

Da quella sera e fino al 8 aprile, giorno in cui ha avuto luogo il rito delle Esequie del Sommo Pontefice, più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere omaggio alle sue Spoglie Mortali, attendendo in fila fino a ventiquattro ore pur di poter accedere alla Basilica di San Pietro. E’ morto, senza dubbio, un grande della storia nell’accezione corrente e, quindi, i grandi del mondo non poterono mancare alle sue esequie, e ciò per un totale di centosettantadue paesi ed organizzazioni internazionali.

Scrive al riguardo il professor Riccardi: “(…) Il funerale cattolico di Wojtyla raccoglie tanti mondi diversi, pur divisi dai conflitti. Riunisce i grandi del mondo con i rappresentanti delle religioni. Ma anche commuove tanta gente, cattolici e non. L’evento è, in un certo senso, l’epifania della sua vita. (…).  

Il 28 aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte, per l’inizio della causa di beatificazione e canonizzazione del Suo Predecessore.

La causa è stata aperta ufficialmente il 28 giugno 2005 dal cardinale Camillo Ruini (1931-), allora Vicario Generale per la Diocesi di Roma, il quale, il 2 aprile 2007, a due anni dalla morte del Pontefice, ne ha dichiarata conclusa la prima fase diocesana del processo di beatificazione. Il miracolo attribuito al Papa, necessario per il riconoscimento di qualunque beato, è stata la guarigione dal morbo di Parkinson (di cui, come ho poc’anzi ricordato, lui stesso soffriva) della religiosa francese suor Marie-Simon-Pierre Normand (1961- ), della Congregazione delle Piccole Suore della Maternità.

Giovanni Paolo II fu beatificato il giorno 1 maggio 2011 dal Suo Successore Benedetto XVI e canonizzato, unitamente a Giovanni XXIII, da Papa Francesco [Jorge Mario Bergoglio (nato nel 1936) 2014- ] il 27 aprile 2014.

San Giovanni Paolo II fu l’unico Papa nella storia ad essere beatificato dal Suo Successore, nonché canonizzato alla presenza di due Papi: l’Emerito (Benedetto XVI) ed il Regnante.

 

§ 3. Considerazioni finali

Il secolo scorso ha assistito al trionfo ed alla caduta di grandi speranze e di grandi ideologie che, nel nome di radicali trasformazioni dell’assetto sociale e con l’appoggio degli armamenti offerti dai progressi dell’industria bellica, avevano promesso paradisi terrestri. Nel nuovo ordine sociale sarebbero stati completamente eliminati mali reali, come la miseria o la fame, e nemici immaginari, uomini e donne appartenenti ad altre etnie e ad altre nazioni, ad altri partiti e ad altre confessioni. Ma il ‘900 è anche il secolo che ha visto, accanto ad abissi d’infamia (l’Olocausto!) ed accanto a slanci di grande generosità individuale e sociale, la graduale affermazione della democrazia e dei diritti degli uomini e dei popoli, senza altri aggettivi, in buona parte dei paesi del mondo.

E’ a codesti uomini che, nell’ultimo quarto del XX Secolo ed agli inizi del nuovo millennio, ha parlato San Giovanni Paolo II. Ha parlato “in nomine Patris”, da uomo del secolo, ad altri uomini suoi contemporanei.  

Il Santo ha esercitato il suo ministero con instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue energie sospinto dalla sollecitudine pastorale per tutte le Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera.

I suoi viaggi apostolici nel mondo sono stati ben centoquattro, di cui numerosi, ed anche ripetuti, nella sua Europa.

Più di ogni Predecessore ha incontrato il Popolo di Dio ed i responsabili delle Nazioni: alle udienze generali del mercoledì (millecentosessantasei nel corso del Pontificato) hanno partecipato più di diciassettemilioni e seicentomila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose (più di ottomilioni di pellegrini solo nel Grande Giubileo del 2000), nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel Mondo. Numerosissime anche le personalità governative ricevute in udienza.

Sotto la Sua illuminata guida la Chiesa si è avvicinata al Terzo Millennio dell’Era Cristiana ed ha celebrato il Grande Giubileo del 2000, secondo le linee indicate dalla Lettera Apostolica “Tertio millennio adveniente”. La Chiesa stessa poi si è affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella Lettera Apostolica “Novo millennio ineunte”, nella quale si  mostrava ai fedeli il cammino del tempo futuro.

Il Papa, con l’Anno della Redenzione (1983-1984), l’Anno Mariano (1987-1988) e l’Anno dell’Eucarestia (2004-2005), ha promosso intensamente il rinnovamento spirituale della Chiesa. L’Anno Mariano ha avuto un ulteriore seguito nel 2002, inizio del venticinquesimo anno del Suo Pontificato, in cui il Papa si impegnò a rilanciare la pratica della recita del Santo Rosario, che considerò “un tesoro da riscoprire” nella Lettera Apostolica “Rosarium Virginis Mariae” del 16 ottobre 2002. 

Egli ha dato impulso straordinario alle canonizzazioni ed alle beatificazioni, al fine di mostrare innumerevoli esempi di santità di oggi, che fossero di incitamento agli uomini del nostro tempo.

Ha notevolmente allargato il Collegio dei Cardinali, creandone ben duecentotrentuno in nove Concistori.

A San Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono anche cinque libri: “Varcare la soglia della speranza” (ottobre 1994); “Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio” (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004), e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).

Tra i suoi documenti principali si annoverano quattordici Lettere Encicliche, tredici Esortazioni Apostoliche, undici Costituzioni Apostoliche e quarantacinque Lettere Apostoliche.

San Giovanni Paolo II è stato, senza dubbio, il Pontefice dei records, se vogliamo usare una parola sportiva. Ma non poteva non essere così, perché tutto ciò era insito nella sua personalità, come l’innovazione di nominare, quale Direttore della Sala Stampa Vaticana, un laico nella persona di Joaquín Navarro y Valls (1936-2017).  

Una personalità che è si è manifestata immediatamente, cioè appena eletto. Disse di Lui ai giornalisti all’inizio del Pontificato: “Il papa non puo’ rimanere prigioniero del Vaticano. Io voglio andare da tutti (…) dai nomadi delle steppe ai monaci e alle suore nei conventi (…) voglio attraversare la soglia di ogni casa”.

Sulla figura e sull’opera di Giovanni Paolo II non è sufficiente un pensiero come il presente in quanto svariati sono i temi di cui si è occupato direttamente ed indirettamente come anche di cultura, di poesia, e, soprattutto, di pace. Al riguardo celeberrimo è l’assioma in cui definì la guerra nel discorso del Santo Natale 1990, e ciò alla vigilia della prima guerra del Golfo: “La guerra è un’avventura senza ritorno. Eppoi “Con la ragione, con la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto dei diritti inalienabili dei popoli e della genti, è possibile individuare e percorrere le strade dell’intesa e della pace”.  

Prima di concludere veramente, molti sarebbero, sicuramente, i momenti e le situazioni che affiorano alla memoria come ricordi personali del Santo. Ma la mia memoria va’ immediatamente al 16 ottobre 1978, giorno dell’elezione, in cui ero in Piazza San Pietro ed assistetti al Suo primo discorso e ricevetti la prima benedizione. Non avevo ancora 18 anni. Sedici anni prima, la sera del giorno 11 ottobre 1962, ero nel medesimo luogo,  in braccio a mio padre, e ricevetti, come tutti i bambini, “una carezza (…). la carezza del Papa”. Di un altro grandissimo Papa, San Giovanni XXIII.

Con il Nobile Collegio Nazareno dei padri Scolopi, mia scuola, ci recavamo annualmente in udienza del Papa. In una di codeste (era forse il primo anno di Pontificato) volle venire con noi anche mia madre (scomparsa come il Papa nel 2005), la quale disse al Santo Padre: “Ella è trainante”. Fu profetica?

Altro ricordo è senza dubbio quando il Papa, nel corso di una visita ad una Parrocchia Romana, volle fermarsi all’Istituto San Giuseppe Calasanzio della via Cortina d’Ampezzo, istituto anch’esso scolopico e, grazie all’allora Rettore, ebbi l’onore di salutare il Papa unitamente alla Comunità Religiosa. Fu come parlare con uno di noi. 

Ha detto di Lui il Suo Successore al Soglio Petrino, papa Benedetto XVI: “Veniva da un popolo sofferente, quello polacco, sottoposto a tante prove nella storia. Da questo popolo sofferente, dopo tante persecuzioni, si sviluppò la forza di sperare (…). L’ho visto sofferente, ma mai triste. Egli, fin dall’inizio del suo pontificato, parlava di un nuovo Avvento. Sperava che, nella storia, si affermasse un tempo di gioia e di cristianesimo”.

Termino con con due pensieri ancora del Santo:

il primo “Quando il 22 Ottobre 1978 pronunciai in Piazza San Pietro le parole «Non abbiate paura!», non potevo rendermi del tutto conto di quanto lontano avrebbero portato me e la Chiesa intera”,

ed il secondo, conclusivo del Suo Testamento: “(…) A misura che si avvicina il limite della mia vita  terrena ritorno con la memoria all’inizio, ai miei Genitori, al Fratello e alla Sorella (che non ho conosciuto, perché morì prima della mia nascita), alla parrocchia di Wadowice, dove sono stato battezzato, a quella città della mia giovinezza, ai coetanei, compagne e compagni della scuola elementare, del ginnasio, dell’università, fino ai tempi dell’occupazione, quando lavorai come operaio, e in seguito alla parrocchia di Niegowić, a quella cracoviana di San Floriano, alla pastorale universitaria, all’ambiente… a tutti gli ambienti… a Cracovia e a Roma…

alle persone che in modo speciale mi sono state affidate dal Signore.

A tutti voglio dire una sola cosa: «Dio vi ricompensi»!

«In manus Tuas, Domine commendo spiritum meum» A. D. 17.III.2000”.

4 aprile 2020

 

 

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La retrocessione parziale di beni espropriati è subordinata ad una determinazione amministrativa discrezionale di inservibilità degli stessi all’opera pubblica. Soltanto dopo l’adozione della dichiarazione di inservibilità i soggetti espropriati divengono titolari, così come avviene per la retrocessione totale, di un diritto soggettivo che consente di chiedere la restituzione dei beni non utilizzati.

La retrocessione parziale interviene quando, dopo l’esecuzione totale o parziale dell’opera pubblica, taluni fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione, onde rispetto agli stessi può ancora essere esercitata una valutazione discrezionale circa la convenienza di utilizzarli in funzione dell’opera realizzata. Pertanto, tali beni possono essere restituiti quando l’amministrazione abbia dichiarato che non servono più alla realizzazione dell’opera nel suo complesso (Cons. Stato, Sez. IV, 2 gennaio 2019, n. 22).

 

Coronavirus imperversa

Salvatore Sfrecola (“Prevedere per prevenire”, in questa Riv., 15 marzo 2020), con sicura competenza e consueta obiettività, è intervenuto sulla deleteria infezione da Coronavirus che ha messo drammaticamente in luce alcune carenze del sistema sanitario nazionale.

Tali carenze “sono l’effetto di errori di programmazione che risalgono nel tempo e sono la conseguenza di due condizioni negative consuete in questo Paese, la mancata previsione di un evento futuro e incerto, ma non assolutamente improbabile, e la tradizionale disattenzione della politica per la prevenzione, come avviene del resto nella manutenzione delle opere pubbliche, delle infrastrutture o del territorio”.

“È evidente la responsabilità di chi ha il compito di gestire la sanità in sede regionale e di chi, al centro, ha ridotto progressivamente, nel corso degli anni, gli stanziamenti di bilancio destinati al Servizio Sanitario Nazionale. È mancata, così, una ragionevole percezione di una emergenza, da affrontare mediante la disponibilità di strutture idonee ad essere rapidamente riconvertite e adattate all’occorrenza. In sostanza sarebbe stato necessario prevedere che, oltre ai locali specificamente destinati alla terapia intensiva, ve ne fossero altri facilmente adattabili disponendo già di impianti necessari. Logicamente gli ospedali dovrebbero anche sapere dove acquistare le apparecchiature eventualmente occorrenti, preferibilmente da imprese italiane. Ugualmente per le mascherine che mancano e che si è sentito dire vengono acquistate all’estero.

Non è una novità per l’Italia l’incapacità di prevedere le occorrenze. Invito a rileggere il libro di Antonio Salandra, il Presidente del Consiglio che si trovò a gestire l’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915. Nel volume L’intervento racconta delle gravi carenze dell’esercito italiano, dai cavalli alle garze per i reparti di sanità che noi compravamo all’estero. Per non dire dei cannoni che acquistavamo dalla tedesca Krupp che, fino alla vigilia, era una potenza legata all’Italia dalla Triplice Alleanza ma che si poteva prevedere, mentre montava l’irredentismo antiaustriaco, che potesse diventare un nemico. Prudenza avrebbe consigliato di disporre se non di fornitori nazionali almeno di industrie di più paesi, in modo da garantirsi i materiali occorrenti”.

Il resto, purtroppo, è storia vecchia, che si ripropone sistematicamente nei momenti di particolare difficoltà per il nostro Paese.

 

Il peggio deve ancora venire

“Escono in silenzio dal turno in terapia intensiva e dai reparti Covid-19. Lo stesso sguardo stravolto degli italiani dentro le trincee del Carso o sul montacarichi che saliva dall’inferno di Marcinelle. La stessa faccia piagata di soldati e minatori, la pelle solcata dall’elastico della mascherina, i lividi sul naso, il cuore a pezzi. Infermiere, infermieri, rianimatori, medici: giustissimo chiamarli eroi, ma la loro dedizione è quella di sempre. Lavoravano già così in Lombardia, anche quando i posti venivano tagliati, le cure ridotte, i bilanci degli ospedali depauperati. La battaglia per Milano che si sta combattendo in queste ore non è diversa da quella per Bergamo e Brescia, Lodi e Cremona. Più che una guerra, sembra una prova generale per il resto d’Europa: vedere come si resiste al virus in una regione di dieci milioni di abitanti. Magari senza abbastanza respiratori né protezioni, che ci sarebbero, ma li hanno bloccati per settimane nei magazzini in Germania e Turchia. L’Unione Europea ci osserva, l’alleanza della Nato tace. Ogni ora che si perde, aumentano morti e malati. E con loro anche il numero di medici e infermieri contagiati, che per questo devono mettersi in quarantena e abbandonare il campo” (Fabrizio Gatti, “Come soldati in trincea”, L’Espresso, n. 13/2020, 15 ss.).

 

Per risanare l’economia

Il primo, determinante passo per risanare l’economia: rifondare la burocrazia, eliminare il codice degli appalti.

Ma questo è soltanto l’inizio.

 

“La giustizzia”

Tiè in mano uno spadone e una stadera:

Carca un agnello sotto a li stivali:

E sta bennata co una benna nera,

Quann’io pe me, je metteria l’occhiali.

Ma come, cristo!, ha da trovà la strada

Cusì orba la povera Giustizia,

De contà l’once e de calà la spada?

Da un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli (“La Giustizzia”, 1833), pubblicato su “‘Sta povera giustizzia”, sonetti scelti e commentati da Mauro Mellini (Rubbettino Editore, 2008, 49).

2 aprile 2020

 

 

 

I nove mesi del 1943 -1944

di Domenico Giglio

 

L’articolo del professore Sfrecola, “ E’ peggio di una guerra”, ha aperto il vaso di Pandora dei ricordi, dalla sera del 25 luglio del 1943 al successivo 4 giugno 1944. Credo che la mia iniziazione politica sia avvenuta quella sera alle 22,48, quando incaricato da mio padre di ascoltare il segnale dell’ultimo giornale radio e di avvertirlo, ascoltai la notizia delle dimissioni di Mussolini e della nomina, da parte del Re Vittorio Emanuele III, del Maresciallo d’Italia Badoglio a capo del nuovo governo.

Appena finita la trasmissione gli squilli del telefono. La mia nonna materna, nonna Bianca, che abitava a via Modena 5, ci dava notizia della folla che usciva di casa con le bandiere tricolori “scudate”, dirigendosi verso il Quirinale gridando “Viva il Re” e poi dei carissimi amici di famiglia, i Porporati, abitanti a via Bruxelles 55, proprio di fronte all’ingresso della villa di Badoglio, che ci dicevano della gente che stava affluendo nella via e ci invitavano ad andare da loro. Ricordo la prima nostra risposta negativa perché stavamo apprestandoci ad andare a letto, ma di fronte alle loro insistenze ci rivestimmo ed uscimmo. Il percorso da via Mercalli, dove abitavamo (ed abitiamo), a via Bruxelles fu fatto a passo svelto, perché incominciava a far freddo, essendo ormai mezzanotte e mentre camminavamo vedevamo persone alle finestre, sui balconi che vociavano, gridavano “Evviva” e molti buttavano dall’alto (è testuale e quando lo scrissi anni or sono ci furono dei nostalgici ad offendersi), i distintivi del PNF ed i medaglioni dei Balilla, che cadendo sull’asfalto venivano calpestati spesso volontariamente. Arrivammo a via Bruxelles rigurgitante di persone, con interi nuclei familiari, che aspettavano il ritorno del Maresciallo non stancandosi di gridare “Viva Badoglio, viva il Re”, accalcandosi verso il cancello, per cui risuonò secca una voce “Carabinieri del Re, fate arretrare la folla”, mentre noi eravamo sul balcone con gli amici, dopo esserci abbracciati e baciati. Poi venne la voce veritiera che quella notte Badoglio non sarebbe rientrato per cui alle due passate cominciammo a defluire. Così poi mio Padre più tardi mi spiegò il significato degli avvenimenti, come poi la sera dell’8 settembre mi spiegò chiaramente il significato delle ultime parole del messaggio radio di Badoglio annunciante l’armistizio sul dover respingere attacchi provenienti da parti diverse, cioè i tedeschi. Questo che apparve così chiaro a mio padre, volontario di guerra dal 1917, prima che chiamassero la famosa “classe 1899”, la sua classe, poi sottotenentino d’artiglieria sul Monte Grappa (Monte Grappa tu sei la mia patria, sei la stella che additi il cammino……), che poi ingegnere civile pur non avendo più rivestita l’uniforme, era rimasto nell’anima un soldato, non fu invece chiaro nella mente di tanti militari in servizio che non capirono cosa dovevano fare! Iniziarono così, dopo la breve e significativa resistenza dei granatieri a Porta San Paolo, i famosi nove mesi della occupazione tedesca, ma nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, avvenne un fatto vicino alla nostra abitazione che ricordo e voglio raccontare. Il nostro appartamento ha un balcone che si affaccia sulla via Giovanni Antonelli, per cui, data anche la stagione vi stavo spesso a leggere o a giuocare, quando vidi salire da via Ponzi diversa gente con pacchi. Meravigliato chiamai mia madre (mio padre era nel suo ufficio, a via Mazzarino, al settore Beni Immobili della Banca d’Italia) che pregò il portiere di informarsi. Detto fatto il portiere disse che a via Manfredi era stato scoperto un magazzino di generi alimentari dell’esercito germanico ed apertolo gli abitanti della zona stavano svuotandolo, al che mia madre, io ero al suo fianco, disse “ma questo è rubare”, al che un condomino il conte Agostino Sacconi, ingegnere ed Esente delle Guardie Nobili di Sua Santità, (corpo militare vaticano poi sciolto), che tornava carico di roba, contravvenendo al galateo, disse “Signora, con quello che ci hanno fatto i tedeschi (e non sapevamo quello che facevano e quello che ci avrebbero fatto!), Lei si fa scrupolo di queste cose!”. Così anche mia nonna paterna, nonna Giulia, mandò a prendere qualcosa (era rimasto poco o niente e nessuno si era accorto perché il locale era buio che appesi al soffitto vi erano anche salumi) e la cameriera (colf) ritornò con delle boatte che contenevano pane di segale. Meglio di niente visto qual’era il pane, poco, che si prendeva con la “tessera”, e che messo sul fuoco, bruciava come fosse fatto di segatura !

Ad ottobre ricominciarono normalmente le lezioni ed io che studiavo al “Massimo”, girando per i meandri dell’Istituto, oggi Museo, incontravo dei giovani con la tonaca, che cercavano di sfuggire, e che non avevo mai visto prima, e non capivo chi fossero, ebbi la risposta all’indomani della Liberazione quando gli stessi scomparvero. Erano giovani renitenti ai bandi di chiamata di Graziani che avevano trovato rifugio nell’Istituto (forse ex alunni o simili) per sfuggire alle conseguenze del loro rifiuto (non fecero per viltà il gran rifiuto). Passarono i mesi, l’inverno passò senza riscaldamento (allora era a carbone), la corrente elettrica mancava e le candele si esaurirono ben presto, ricorremmo all’acetilene ed al petrolio, anch’esso introvabile, di cui in casa avevamo vecchi lumi da antiquariato, e sopratutto scarseggiava il cibo, specie dopo l’infelice sbarco americano di Anzio (i generali inetti o incompetenti esistono in tutti gli eserciti!). C’era il timore delle “retate” tedesche, specie per chi, come mio padre e mio nonno materno, nonno Spartaco, dovevano andare a lavorare attraversando tutta Roma per cui attendevamo con ansia il loro ritorno a casa ed ogni loro ritardo ci faceva venire i brividi (i cellulari non esistevano!). Intanto ero diventato l’esperto della radio, una Phonola, per cui avevo individuato “Radio Bari” e potei ascoltare i messaggi del Re Vittorio Emanuele III, ed i notiziari, di cui uno specialmente “L’Italia combatte”, che dava notizia dell’attività del ricostituito Regio Esercito e della attività dei primi gruppi di “patrioti” non partigiani, termine venuto ingiustamente dopo ed ormai purtroppo acquisito, che operavano nelle zone soggette al governo ed alla occupazione germanica! Ci vedevamo con alcuni amici che abitavano vicini, Arminio Conte, figlio di un Colonnello dei Bersaglieri, e Vanni Beltrami, orfano di un giovane brillante Generale della Regia Aeronautica, Aiutante di Campo del Sovrano, mancato anni prima in un incidente aereo, scambiandoci le visite e così potei assistere, da un terrazzo sulla Piazza Santiago del Cile, il tardo pomeriggio del 4 giugno, all’esodo abbastanza non ordinato di reparti tedeschi che abbandonavano Roma, dove, dalla parte opposta entravano le truppe americane. Ed allora, come il 25 luglio, il popolo romano si riversò plaudente per le strade e quando qualche giorno dopo ricomparvero i Reali Carabinieri, che avevano pagato nella Resistenza ed alle Fosse Ardeatine un pesante contributo di sangue, ed un reparto di bersaglieri che passando per via Venti Settembre (io c’ero), riprendevano il servizio al Quirinale, dove era arrivato il Principe Umberto, quale Luogotenente Generale del Re, gli applausi e i baci dalla folla furono superiori a quelli per i “liberatori”! Et de hoc satis !

31 marzo 2020

 

 

Morire di inefficienza ai tempi del Coronavirus

di Salvatore Sfrecola

 

Non c’è dubbio che il pericolo da infezione da Coronavirus sia stato ampiamente sottovalutato dalle autorità del governo, nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) avesse deliberato lo stato di emergenza internazionale sanitaria fin dal 30 gennaio. Ed è altrettanto indubbio che l’O.M.S. deve avere messo in preallarme il nostro come altri governi ben prima, già da quando il virus è identificato con il numero 19, perché isolato nel 2019.

Non solo, il governo, che il 31 gennaio ha deliberato lo stato di emergenza sanitaria per sei mesi, ha atteso ben 22 giorni prima di emanare il primo dei cinque decreti legge con i quali ha dettato norme per contrastare l’infezione, ma non ha approfittato di quel tempo per fare mente locale sulla disponibilità di mascherine per limitare il contagio e dei ventilatori necessari ai malati più gravi, quelli destinati ad essere ricoverati nei reparti di terapia intensiva, eventualmente per provvedere ad acquistarli tempestivamente e nel numero occorrente. Nessuno, dal 31 gennaio, si è preso la briga di prevedere all’occorrente che, infatti, non è a disposizione degli operatori sanitari e dei cittadini che volessero tutelarsi.

Venuti i nodi al pettine, evidenziati dall’elevato numero dei contagiati, dei ricoverati e dei morti, è cominciato il balletto delle responsabilità che è inevitabile si concluderà con l’affermazione che tutti hanno fatto il possibile ma che, come ha detto il Capo del Dipartimento della Protezione Civile, si è arrivati tardi negli ordini di acquisto e comunque le procedure non hanno consentito tempi rapidi per la macchinosità delle norme del Codice degli appalti e per l’intermediazione necessaria della Consip. Dimenticando che, in ogni emergenza, c’è chi occulta i beni necessari per farli comparire di nuovo sul mercato a prezzi maggiorati. Sullo sfondo chi polemizza afferma che la difficoltà della normativa sarebbe aggravata dalla presenza di due istituzioni, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e la Corte dei conti, l’una e l’altra spauracchio dei pubblici amministratori. Tanto che si è proposto l’abolizione del Codice degli appalti, dell’ANAC e della CONSIP ed un ridimensionamento dei poteri di controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Non solo, qualcuno ha proposto anche che nell’accertamento delle responsabilità per danno erariale la Corte dei conti non ricerchi la colpa grave ma solo il dolo, senza pensare che culpa lata (cioè la colpa grave) dolo aequiparatur, dicevano i romani che di diritto se ne intendevano.

Posto che l’ANAC non si può abolire, perché l’Italia ha ratificato un trattato internazionale per la lotta alla corruzione, che prevede un organismo statale in funzione di prevenzione del fenomeno, e che la Corte dei conti è una magistratura prevista dalla Costituzione, se si vuole snellire le procedure e non salvare chi ha operato in disprezzo delle regole della buona amministrazione, è molto più funzionale operare a monte sul sistema legislativo intervenendo sul Codice degli appalti, quel codice nella stesura del quale si è manifestata tutta la libidine del cavillo che caratterizza alcuni studiosi di diritto amministrativo alla ricerca della norma che, per ogni fattispecie, sia capace di impedire la penetrazione del malaffare nella gestione dei contratti. Cavilli che finiscono, invece, per ostacolare le imprese serie senza creare difficoltà alcuna ai corruttori che sanno bene come ottenere l’aggiudicazione di un contratto, a cominciare dalla gara e dalle specifiche tecniche delle forniture, da un bando costruito a misura dei requisiti di un determinato bene perché a vincere sia quella determinata impresa che lo produce. Poi i collaudi dei lavori e delle forniture sono il più delle volte un inutile orpello, come dimostra il fatto che presto si scoprono le magagne delle opere, dei servizi e delle forniture.

Il Codice degli appalti va dunque riformato e semplificato. E non è che non si sappia come fare perché se nel Regno Unito si sono limitati a tradurre in inglese le direttive europee in materia di appalti, l’Italia ha avuto la possibilità di assicurare opere e servizi di prim’ordine alle pubbliche amministrazioni attraverso le disposizioni che in materia di contratti sono state disciplinate per 150 anni dalla legge di Contabilità generale dello Stato. Poche norme ma chiarissime, che non hanno ostacolato l’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni. La chiarezza è il primo requisito di una norma, in assenza della quale si lascia mano libera alla fantasia dell’interprete con l’effetto dell’incertezza del diritto.

Semplificare è, dunque, necessario e urgente perché non è possibile morire di inefficienza che è la causa prima dei decessi di quanti sono giunti al termine della loro esistenza perché mancava la mascherina o la bombola di ossigeno o qualche altro presidio medico dei quali gli ospedali non si sono potuti approvvigionare per la farraginosità delle leggi e il conseguente timore di incorrere nelle sanzioni dell’ANAC o nelle censure della Corte dei conti.

L’Italia è un grande Paese con una storia amministrativa di prim’ordine, costruita subito dopo la formazione dello Stato nazionale quando, in pace e in guerra e nei dopoguerra, è stato possibile edificare in tempi ragionevolmente brevi immobili d’interesse pubblico, strade, ferrovie, infrastrutture. Quella virtù abbiamo perso per strada a causa di una classe politica progressivamente decaduta che ha trascinato nel baratro dell’inefficienza anche la burocrazia il cui ordinamento ha annullato il merito che avrebbe dovuto costituire il riferimento del buon governo, merce rara come la responsabilità delle scelte e della verifica delle realizzazioni.

Il risultato è un picco di inefficienza. Della quale, in questa stagione, si muore.

30 marzo 2020

 

 

EUGENIO DI SAVOIA (1663-1736)

Difensore della Tradizione e della Cristianità

di Gianluigi Chiaserotti

 

In questo particolare momento della nostra Europa in cui tutto è fuorché un’Unione, voglio ricordare Eugenio di Savoia, un mitico personaggio che ha interessato intere generazioni di storici [uno del secolo XIX è senz’altro un suo omonimo: il toscano d’adozione Eugenio Albéri (1807-1878)], di politici e di diplomatici.

Personaggio dal quale molto si dovrebbe apprendere, come accennavo poc’anzi, contro il grigiore del nostro periodo attuale.

Ma prima di delineare la figura del Nostro ritengo fondamentale ricordare la battaglia di Lepanto  in quanto è il vero e reale antefatto;  è l’inizio della decadenza della potenza ottomana, che sarà completata, come vedremo, da Eugenio di Savoia.

I fatti della battaglia di Lepanto, combattuta il 7 ottobre 1571, tra la Lega Santa comandata da Don Giovanni d’Austria (1547-1578) contro i turchi di Alì Pascià sono più che noti. L’idea di San Pio V [Antonio (Michele) Ghisleri (nato nel 1504), 1566-1572]; le trattative tra il nunzio papale ed il Re di Spagna, Filippo II (1556-1598); la sua determinante adesione; la chiamata alle armi quasi con l’antico spirito di crociata di tutti i principi europei desiderosi di apprendere l’arte della guerra: dal genovese Gian Andrea Doria (1539-1606), nipote del grande Andrea (1466-1560), dallo spagnolo Santa Cruz, dal piemontese Andrea Provana di Leynì (1511-1592), primo Ammiraglio di Casa Savoia sotto il ducato di Emanuele Filiberto (1528- 1580)  a Don Cesare Cavaniglia (+ nel 1580 ca.), comandante della flotta inviata dal Granducato di Toscana e dal S. M. O. di Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, da Marcantonio Colonna (1535-1584) al Priore Pietro Giustiniani (1490-1576) del S. M. O. di Malta; la battaglia in se stessa; la vittoria; il giubilo dell’Europa cristiana e tradizionale.

E’ una pagina di storia da non dimenticare poiché è l’ultima, vera ed autentica crociata da tramandare.

E’ quindi codesto medesimo spirito che si incarnò in Eugenio di Savoia.

Ma, come sappiamo, Lepanto non fu la definitiva uscita di scena e la sconfitta della potenza turca. Essa fu la vittoria morale con risultati politici e materiali immediati molto modesti.

Infatti pochi anni dopo i turchi ebbero nuovamente ragione e lo spirito di San Pio V non c’era più.

La pagina di Lepanto, praticamente, rappresentò lo scontro tra due mondi e due civiltà.

E’ il significato cristiano del bene che deve emergere, cercandolo e mettendolo in evidenza!

Quando si parla di Eugenio di Savoia-Soissons, si intende delineare la figura e le gesta di un grande generale, di un moderno uomo di stato, di un politico e diplomatico finissimo, di un europeista “ante litteram”, di uno dei più grandi condottieri moderni, di un cattolico fervente, di un crociato nel suo etimo tradizionale (ispirato dalla Madonna).

Ma prima di tracciarne la biografia,  cerchiamo di inquadrarlo nell’albero genealogico della Real Casa di Savoia.

Emanuele Filiberto di Savoia, detto “Testa di Ferro”, il secondo Fondatore dello Stato Sabaudo, ebbe – come unico erede legittimo – Carlo Emanuele I (1562-1630), il quale sposò Caterina d’Absburgo (1567-1597), figlia del Re di Spagna Filippo II, dalla quale il Duca Sabaudo ebbe dieci figli: il nono di codesti, Tommaso (1596-1656) - Capostipite della Linea di Carignano ed attuale Linea principale del Casato – e dalla consorte – Maria di Soissons – ebbe, fra l’altro, Eugenio Maurizio (1633-1673), creato conte di Soissons (titolo derivatogli dalla madre), il quale, a sua volta, sposò la romana Olimpia Mancini (1638-1708), figlia di Geronima Mazarino (1614-1656) [sorella del famoso Cardinale Giulio Mazarino (1602-1661)]; da questo ultimo matrimonio nacquero ben otto figli: il quarto è il nostro personaggio: Eugenio di Savoia-Soissons.

Passato alla Storia come “Prinz Eugen”, Eugenio-Francesco, Principe di Savoia Carignano Soissons nacque a Parigi il 18 ottobre 1663.

Destinato, perché cadetto, alla carriera ecclesiastica (per questo motivo fu soprannominato “le petit abbé de Savoy”), a vent’anni, “sua sponte”, chiese udienza a Luigi XIV (1638-1715) il “Re Sole” per esporgli la sua ferma volontà di deporre l’abito talare e per chiedere il comando di una compagnia di cavalleria; la risposta del Sovrano fu un netto rifiuto, di cui più tardi il Re si pentì considerandolo il più grande errore del suo regno.

Eugenio, quindi, decise di arruolarsi volontario in un reggimento austriaco di dragoni impegnato nelle operazioni al fine di liberare Vienna dai turchi.

Iniziava così il suo “status” di Principe Imperiale, combattendo al fianco di Giovanni III Sobieskj (1624-1696) , Re di Polonia, accorso in ausilio a Vienna!

Fu la mitica prima volta che Eugenio vide la città alla quale sarà legato per tutta la vita.

Fu promosso colonnello dei dragoni, tenente generale (1687) e (1690) generale di cavalleria.

Nel 1691, dopo aver promosso l’alleanza imperiale con il re Vittorio Amedeo II (1666-1732), primo Re di Sardegna, contro la Francia, Eugenio liberò la città di Cuneo assediata.

Vienna 1697: è un altro momento glorioso della sua vita contro i turchi.

Eugenio ha trentaquattro anni e, cessata la lunga guerra tra la Francia e l’Austria, viene nominato comandante supremo dell’Armata Imperiale contro gli Ottomani che tendevano a preparare un’avanzata verso l’Occidente.

Il giorno 11 settembre, vigilia della Festa del SS. Nome di Maria, il Nostro riporta una vittoria sfolgorante contro il sultano Mustafà a Zenta, sul fiume Tibisco. Più di diecimila turchi periscono nel fiume, oltre ventimila sul campo. Le perdite dell’esercito imperiale non superano i trecento morti. Il sultano è costretto a sottoscrivere la pace di Carlowitz. Ungheria e Transilvania passano sotto la Corona absburgica.

La formidabile vittoria dette al Principe Eugenio fama europea!

Il 12 settembre, il Beato Innocenzo XI [Benedetto Odescalchi (nato nel 1611), 1676-1689] lo consacrò al nome di Maria e da festeggiarsi in tutta la Chiesa per commemorare la vittoria attribuita alla Sua intercessione; l’immagine della quale, su fondo rosso e cosparso di stelle, formava la bandiera del Re Vittorio Amedeo II, che stimava il Principe Eugenio, lo favoriva ed al quale egli si rivolgeva con la commovente inesperta fiducia dei giovani.

E fu proprio per questa fiducia ed al sacrificio di Pietro Micca (1677-1706) che Torino, il 7 settembre 1706, fu liberata da parte del Principe Eugenio.

E, in ringraziamento di ciò, venne eretta la Basilica di Superga per un voto che fece Vittorio Amedeo II alla Madonna.

Vediamo come ci si arrivò. Sul colle di Superga, esisteva, sin dal secolo decimoquinto, una piccola chiesa dedicata alla Beata Vergine o Nostra Signora di Superga. La sua fama deriva dall’intercessione della Madonna in un momento drammatico per la storia di Torino, e cioè, come abbiamo visto, il 1706.

Le sorti di Torino, assediata dai francesi, non erano delle migliori.  Il 28 agosto 1706 avvenne l’incontro tra il Principe Eugenio ed il Duca Vittorio Amedeo. I due strateghi ascesero al colle di Superga al fine di esaminare al meglio, da quell’altura, il campo di battaglia. Constatarono che lo schieramento nemico presentava diversi punti deboli nella zona tra la Dora e la Stura. Giunsero alla conclusione che convogliando gli attacchi in quella zona poteva esserci una possibilità di successo.

Alcuni storici asseriscono che Vittorio Amedeo ed Eugenio si recarono sul colle di Superga una seconda volta, e cioè il 2 settembre, e fu l’occasione in cui entrarono nella chiesetta. Celebrata la S. Messa, i due principi si accostarono ai sacramenti; si cantò solennemente l’”Ave Maris Stella”. Giunti al versetto “(…) monstra Te esse matrem”, il Duca di Savoia si prostrò ai piedi della statua (quella tutt’oggi venerata nella cappella c. d. “del voto”) e fece voto che se la Madonna gli avesse fatto ottenere la vittoria avrebbe costruito sul colle un magnifico Tempio a Lei dedicato.

Fu vittoria!!

La popolazione, venuta a sapere del voto del Duca, attribuì la stessa all’intercessione della Madonna. Ed ancora una volta, l’intercessione della Madonna fu determinante.

E’ un’intercessione che più volte, nella Storia, ci ha abituato a porre  in evidenza.

Il 7 settembre 1706, data gloriosa per Torino, è anche la vigilia del giorno 8 settembre, che la Chiesa dedica alla Natività di Maria.

Sono coincidenze o la forza mariana è immensa?

Il voto di Vittorio Amedeo ci fu sicuramente. Infatti nella parte interna della Cappella c.d. “del voto”, c’è la seguente epigrafe: "Virgini Genitrici/Victorius Amedeus, Sardiniae Rex/Bello Gallico, vovit/Et pulsis hostibus fecit, dedicavitque".

Eugenio aveva giurato che sarebbe rientrato in Francia solo con la “spada lucente  in pugno, e non risparmiò sconfitte al Re Sole: Blenheim nel 1704; Audenarde nel 1708; Malplaquet nel 1709. Nel luglio 1710, insieme all’inglese Duca di Malborough [John Churcill (1650-1722)], espugna Tournal, la fortezza più munita di Francia, la “Maginot” dell’epoca, progettata da Sébastien Le Preste de Vauban (1633-1707) per difendere Parigi.

Ma il capolavoro militare del Principe Eugenio fu, nel 1715, a Belgrado!

In tale occasione nuovamente i Turchi tentano un supremo attacco contro l’Occidente. Questa volta il Papa è Clemente XI [Giovanni Francesco Albani (nato nel 1649), 1700-1721]. Egli si ispira ai suoi predecessori: San Pio V (Lepanto) ed Innocenzo XI (Vienna) e lancia un appello ai principi europei e cattolici per difendere la Cristianità, così come fece appunto San Pio V per la battaglia di Lepanto.

Il vincitore di Zenta riprende il supremo comando.

Eugenio di Savoia ha cinquantadue anni e lo accompagnano, come si è detto, i giovani principi di tutte le Case d’Europa per apprendere, ed al meglio, l’arte della guerra.

I Turchi assediano Peterwadein, presso il Danubio, e sono comandati dal Gran Visir in persona. La mattina del 5 agosto 1715, festa della Madonna della Neve, il Principe Eugenio offre battaglia in campo aperto ad un nemico tre volte superiore.

E’ una nuova, splendida vittoria, ed ispirata – ancora una volta – dalla Madonna.

Tutta l’Europa giubila.

A Roma, per volontà papale, furono suonate  tutte le campane ed illuminata a festa la città. Clemente XI concesse ad Eugenio di Savoia l’onore del “pileo e dello stocco” . Si trattava di una berretta e di una spada benedetta che investivano l’insignito della dignità di Generale della Santa Chiesa. Eugenio volle che codesta cerimonia si svolgesse con la massima solennità militare e liturgica. Fu l’onore più grande  che ottenne ed il più significativo.

Il 13 ottobre 1715 egli libera la fortezza di Temesvar. L’entusiasmo a Vienna sale alle stelle. La fortezza era stata nelle mani turche per ben 164 anni.

Il 22 agosto 1717 conquista Belgrado e l’imperatore d’Austria,  in tale occasione Carlo VI (1685-1740), consegna al Principe Eugenio di Savoia il bastone di Maresciallo. Tale riconoscimento segna  la nascita del detto: “che bel grado a… Belgrado”.

Il 21 aprile 1736, settantadue anni, il Principe Eugenio di Savoia Carignano Soissons moriva in Vienna nella sua residenza di Himmelpfortgasse, il Castello del Belvedere. Moriva nel sonno, lui che fu guida insonne di tante battaglie. Nessuno gli avrebbe mai preconizzato una vita tanto lunga (per l’epoca) dato il suo gracile aspetto ed una gioventù contrassegnata da malattie che aveva saputo vincere con una eccezionale vitalità ed una forza di volontà che andava oltre l’umano.

In questo aspetto egli ci ricorda un suo antenato. E’ Emanuele Filiberto di Savoia. Pure lui era cadetto e destinato alla vita ecclesiastica. Era gracile e macilento. Salì al trono ducale dello Stato Sabaudo per la prematura scomparsa del fratello maggiore Ludovico (1523-1536). Sappiamo che Eugenio prese il posto del fratello Luigi Giulio (1660-1683) (detto “il Cavaliere di Savoia”), caduto contro i Turchi e dalla parte imperiale austriaca. Ed anche Emanuele Filiberto si mise dalla parte imperiale con Carlo V (1500-1558) e regnò a lungo e con grande gloria.

Nel ricordare la scomparsa del Principe Eugenio, gli storici narrano anche un fatto, insieme misterioso e commovente: nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1736, in cui, come abbiamo visto, il Principe spirò, il magnifico leone del suo zoo del Palazzo del Belvedere, affezionatissimo al Nostro, fu udito ruggire a lungo lamentosamente e dalla mattina seguente non volle più prendere cibo e si lasciò morire.

Soffermiamoci ora brevemente in alcuni aspetti della vita di Eugenio di Savoia e sul significato delle sue gesta eroiche.

Eugenio di Savoia-Soissons fu, come già ricordato, un europeista, un condottiero, un mecenate, un politico finissimo, uno spirito cristiano e fu soprattutto sopranazionale quanto a “forma mentis”. Tra l’altro amava firmarsi in tre lingue: “Eugenio Von Savoy”. Disse di lui,Federico II “il Grande” di Prussia (1712-1786): “(…) se sono buono a qualcosa, se capisco qualcosa del mestiere e soprattutto di certe complicate finezze, lo debbo al Principe Eugenio; egli era l’Atlante della Monarchia, che resse con il suo genio militare e politico.”

Al riconoscimento del sovrano prussiano, a quelli dei contemporanei e dei posteri, alle opere monumentali e scientificamente rigorose a lui dedicate, alla grande stima di cui godette presso Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) e Voltaire [François-Marie Arouet (1694-1778)] è bene ricordare i giudizi di Napoleone I (1769-1821) e di Otto d’Absburgo (1912-2011), il discendente degli imperatori che il Nostro servì con tanta intelligenza e lealtà. Scrive Nicolas Henderson nella prefazione del suo “Eugenio di Savoia”, riportando un passo di una lettera di Napoleone alla prima moglie Giuseppina:  Sette sono i grandi condottieri del mondo: Alessandro, Annibale, Cesare, Gustavo Adolfo, Turenne, Eugenio di Savoia e Federico II di Prussia”.

Ecco che ritorna qui il concetto di condottiero, nel suo etimo tradizionale.

Un giudizio limitato alle doti militari quello del Grande Còrso. Più attento a quelle politiche per Otto d’Absburgo, che limpidamente scrisse: “Guida e stratega delle grandi battaglie, in esse non si esaurì. Più importanti, infatti, ci appaiono oggi la lungimirante capacità politica, le straordinarie doti di statista che consentirono al Principe Eugenio di subordinare le azioni belliche ad una ben più ampia concezione e di porre alla politica absburgica obiettivi lontani, obiettivi senza tempo. Eugenio riuscì a scorgere, oltre i limiti della sua epoca, ciò che noi cominciamo a capire soltanto ora, provati come siamo dalle catastrofi del nostro secolo: la visione di un’Europa naturalmente unitaria pur nelle sue diverse articolazioni”.

Eugenio credeva che lo spirito prettamente europeo e cristiano si dovesse manifestare nei campi più diversi: dalla solidarietà sovrastatale delle “elites” del tempo; all’arte, che, nel Barocco, aveva trovato un’espressione così omogenea ed armonicamente articolata, da poter comprendere architettura, musica, pittura e scultura; alla costante e giusta preoccupazione di anteporre alla guerra per la guerra la ricerca della stabilità, della sicurezza, della pace europea, delle alleanze durature per equilibri duraturi.

A codesto proposito è bene ricordare che la pace… Chi la desidera? Dove vi è un uomo; dove vi è un cuore che batte, vi è un desiderio di pace. Anche chi fa la guerra non desidera altro che la pace. Celebre è (e non sta a noi commentarlo) l’assioma di colui che Dante (1265-1321)  nel IV canto dell’Inferno, verso 131, definisce “lo maestro di color che sanno” Aristotile (384 a. C. – 322 a. C.): “lo scopo della guerra è la pace”.

E San Tommaso d’Aquino (ca. 1221-1274), nella sua “Summa Theologiae” (scritta tra il 1267 ed il 1274) spiega come non vi è uomo che non tenda al bene, o meglio ad un bene, e la pace ha appunto per oggetto il bene: è il riposo delle nostre facoltà nel bene conquistato.

Ma torniamo al nostro personaggio.

Le espressioni “salvezza dell’Europa” e “sicurezza dell’Europa” ricorrono spesso nelle sue lettere all’imperatore Carlo VI dal 1712 al 1723, e questi concetti, così moderni ed attuali, sono stati predominanti nella stesura della pace di Utrecht (11 aprile 1713), di Rastadt (7 marzo 1714) e di Baden (6 febbraio 1715).

Nell’Impero egli non vedeva le nazioni, bensì la realizzazione dell’idea dell’Impero come concezione modello per l’Europa fondata sui principi comuni, quelli cristiani, sulla coesistenza di popoli diversi, su concezioni sopranazionali armonizzate con le realtà particolari di ciascun stato.

Di già Carlo V ricollegava il suo mandato sopranazionale alla concezione dell’Impero di Carlo Magno, degli Ottoni, degli Hohenstaufen, nel tentativo di indirizzare la cristianità verso un programma d’impegno comune che l’avrebbe vista mobilitata, unita e vittoriosa, come abbiamo visto, contro il Turchi a Lepanto prima, successivamente a Vienna ed infine a Belgrado.

Contro l’egemonismo ed il nazionalismo della Francia, Eugenio credette nella naturale sovranazionalità dell’Europa; ai particolarismi preferì obiettivi universali ignorando ogni mediocrità e stabilendo, anche nelle relazioni diplomatiche e quindi nelle amicizie, da Giambattista Vico (1668-1744) a  Leibniz, da Federico II il Grande all’inglese Duca di Malborough, al Voltaire, che disse di lui: “(…) scosse la grandezza di Luigi XIV e della potenza ottomana (…) governò l’impero nonostante tutte le vittorie e gli incarichi ricoperti (…) sdegnò le tentazioni del fasto e della ricchezza”,  quale confronto delle intelligenze fra uomini sostanzialmente superiori.

Egli immaginava ad una federazione di stati, ed in una sua lettera Duca di Malborough, datata 22 maggio 1717, chiaramente scriveva:  (…) le alleanze prodotte solo dal caso o da un interesse momentaneo non ispirano grande fiducia. Ma se le potenze marittime decidono concordemente che la pace europea dipenda dall’esistenza della Germania e dell’Italia allora si puo’ dire che un interesse comune sia il momento unificatore di una confederazione di stati da cui ci si puo’ aspettare anche una buona solidità per l’Europa.”.

Nel momento in cui decise di lasciare la Francia per il rifiuto del Re Sole, si incontrò nei pressi del Danubio con l’imperatore Leopoldo I (1640-1705) ed il 20 agosto 1683, neanche ventenne, così solennemente giurò:  Prometto la integra fedeltà costante di sacrificare in tutti, anche i maggiori pericoli della guerra, tutte le mie forze fino all’ultima goccia di sangue, per il benessere e la potenza della Sua Maestà e della somma Casa d’Austria. Dio e la Madonna me ne siano testimoni”.

Praticamente, in codesto giuramento, c’è tutta la fede ed il sacrificio del Principe Eugenio di Savoia-Soissons.

Infatti, se analizziamo le di lui origini, egli è la personificazione dell’Europa tradizionale cristiana e mariana: aveva sangue dei Borbone, attraverso l’ava paterna, ma anche sangue absburgico poiché il suo avo era nipote di Filippo II e pronipote di Carlo V.

Ancora qualche pensiero per concludere questa bella pagina di storiografia europea, cristiana e mariana.

Eugenio era un uomo solitario ed andava in battaglia indossando un’armatura bruna su panni quasi scarlatti e, dopo una brevissima preghiera, prima dell’azione, sembra gridasse “avanti”, accompagnando il grido con un unico breve movimento della mano. A codesto proposito, ho trovato, in un antico libro del Secolo XIX una nota a piè di pagina, che accenna a ciò: “(…) le preghiere che il principe Eugenio recitava prima della battaglia erano l’Ave Maria e “impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus” (…)“. Quest’ultima, propriamente, nell’accingersi ad indossare l’elmo, ed è la medesima orazione che recitavano i sacerdoti nell’imporsi il paramento sacro denominato amitto, che è il “galeam salutis” cioè l’elmo della salvezza, quasi al fine di rendere invulnerabile il sacerdote nei suoi combattimenti contro l’infernale nemico. Questa preghiera, senza dubbio, Eugenio la fece sua date le origini di destinato alla vita religiosa.

Il Principe Eugenio di Savoia-Soissons è sepolto in Vienna, nella Cattedrale di Santo Stefano, come un re. Infatti anch’egli fu un re: “le roi des honnets hommes” (“il re della gente onesta”).

Il Principe Eugenio era di media statura, longilineo, con viso affilato, di colore olivastro, con naso aquilino e con occhi nerissimi e penetranti.

La Sua immagine fisica ci è giunta da descrizioni di contemporanei e riprodotta in vari quadri e sculture, fra i quali: il quadro del pittore Jacob Van Schuppen (1670-1751), conservato nella Pinacoteca di Torino, che lo raffigura sul cavallo bianco, con spada al fianco e bastone di comando, dopo la vittoria sui turchi; mentre nel quadro del pittore Jan Kupetzki (1667-1740), in cui è ritratto con corazza, e quindi quello donato dal Re Umberto II (1904-1983), il 28 febbraio 1970, al Museo “Pietro Micca” di Torino.

Sempre a Vienna, nel cuore della città, l’imperatore Francesco Giuseppe d’Absburgo (1830-1916) gli fece erigere  (1859) un monumento equestre modellato dal Anton Dominick Ritter Von Fernkorn (1813-1878) proprio di fronte al palazzo imperiale nella Heldenplaz. Vi è un monumento anche a Budapest, dinanzi all’entrata principale del Palazzo Reale ed affacciato sul Danubio. Sul basamento del monumento viennese, nelle tre targhe di bronzo, si legge:  Al saggio consigliere di tre imperatori”, “Al glorioso vincitore dei nemici dell’Austria”, “Al Principe Eugenio, il Nobile Cavaliere”. I tre imperatori furono: Leopoldo I, Giuseppe I (1678-1711) e Carlo VI.

Una cantabile melodia, nata sul campo – durante l’assedio di Belgrado – recita: “Prinz Eugen, der edle Ritter….. (il Principe Eugenio, il nobile cavaliere…….)”.

Tuttora l’inno ufficiale della nostra cavalleria è la “Marcia del Principe Eugenio”, composta, nel 1914.

Scrive di lui un grande storico della Chiesa: “terminava la serie delle Crociate, da Goffredo di Buglione sino ad Eugenio di Savoia”.

Lo storico, generale Carlo Corsi (1826-1905)-, nel 1884, scrisse di Eugenio di Savoia che “(…) sovrastò gli altri Capitani dei suoi tempi per l’ingegno strategico e per la severa osservanza della militare disciplina. Tolse regola a’ suoi atti dalle qualità del terreno e del nemico e fu altrettanto pronto e vigoroso nell’eseguire quanto audace nell’immaginare, sicchè potè condurre a buon esito imprese che apparvero temerarie (…) Lo si addita come sommo nel condurre le marce e nello scegliere il punto ed il momento opportuno per gli assalti decisivi. Oltre la nobiltà del sangue e dei modi, concorsero a procacciargli il rispetto e la devozione dei capi e delle milizie la severità dei costumi, la maestà della parola ed il freddo coraggio veramente meraviglioso, ch’era attestato dalle ferite toccategli in tredici battaglie.

Ed ancora, il poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hoffmannsthal (1874-1929), nel 1914, scrisse di lui, fra l’altro, parole divenute  famose: “(…) rimanere alla testa di un esercito, come egli rimase, conducendolo a battaglie e poi ancora a battaglie, ad assedi e poi ancora ad assedi, per trentanove anni. Tirarlo fuori dal fiume Sava, condurlo in Lombardia e poi indietro, attraverso il Tirolo verso la Baviera e sul Reno e poi di nuovo giù nel Banato e su, un’altra volta, nelle Fiandre. Cadere ferito per tredici volte e poi di nuovo sul cavallo, di nuovo in tenda, di nuovo in trincea. Ed i suo sguardo d’aquila su tutto, sull’esercito e sulle salmerie, sull’artiglieria e il territorio e il nemico. E la brevissima preghiera prima dell’azione” come prima abbiamo ricordato  quel di lui Mon Dieu!, con uno sguardo verso il cielo, eppoi il segno Avancez!, con un unico breve movimento della mano. Spingere tutto ciò, sempre avanti, con la sola forza della volontà. E mantenere ogni cosa in vita, imporre tutto con forza vitale, compensare, nutrire, penetrare tutto col suo spirito, e per trentanove anni. Quale fatica d’Ercole!.

Il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) giudicò Eugenio di Savoia: “(…) un filosofo guerriero, che considera con indifferenza la sua dignità e la sua gloria, discorre degli errori che ha commesso con la massima schiettezza, come se parlasse di un altro e che è più caldo ammiratore delle altrui virtù che delle proprie.

Il Principe Eugenio, nel corso del lungo esilio dei nostri Sovrani, fu ricordato almeno due volte, ed a Vienna. La prima fu nel 1963, Terzo Centenario della nascita, alla presenza del Principe Adalberto di Savoia-Genova, Duca di Bergamo, (1898-1982), in rappresentanza del Re Umberto II, e la seconda nel settembre 1986, duecentocinquantesimo anniversario della scomparsa, alla presenza del Principe Vittorio Emanuele di Savoia, ci si è recati nel Duomo di Santo Stefano nella Cappella dedicata al Nostro, e dove si è provato, innanzi all’”urna” del “forte” Eugenio, una rinnovata patriottica scintilla foscoliana.

Sulla vita privata del Principe Eugenio di Savoia, ben poco si conosce. Possiamo dire solo che era un uomo occupatissimo, modesto nel vestire – solitamente indossava una giubba di panno scuro, senza distinzioni – non si sposò e non si creò una propria famiglia. Ma un unico fatto conosciuto, che dia la sensazione di un omaggio profondo e duraturo alla Femminilità, è la sua lunga, costante, palese amicizia con la contessa Lori (Eleonora) Batthyani, splendida dama e gentildonna di grande intelligenza e di eccezionale cultura, alla quale il Principe rendeva visita nel di lei palazzo in Vienna, e ciò anche il 20 aprile 1736, ultima sera della vita del Nostro.

Non abbiamo altresì accennato a’ diversi e multiformi aspetti della sua vita pubblica, ma solo e soltanto sottolineato i maggiori titoli della sua grandezza: la difesa dell’Impero, dell’Europa e della Civiltà Cristiana. Grandezza che trae la sua fonte dalla lotta, dal sacrificio, da una forza messa al servizio dei grandi ideali. Se questi ideali non sono morti, se vera grandezza fu quella di Eugenio, non sarà grandezza, non sarà nobiltà, non sarà eroismo, quello di chi, confidando nell’aiuto di Dio, vorrà dedicare le sue energie a difendere anche oggi, nel Terzo Millennio dell’Era Cristiana, l’Europa e la Civiltà Cristiana dai suoi nemici, in una lotta che non è militare, ma prima di tutto ideologica e morale?

L’Europa del Nostro era romana, cristiana e libera in campo politico, militare, scientifico, letterario ed artistico in un’epoca in cui – fra l’altro – netta era ancora la distinzione fra il bene ed il male, fra le virtù ed i vizi e fra la verità e la menzogna.

Ed Eugenio è la personificazione di ciò!

Eugenio, il grande “defensor christianorum” – emulo dei grandi da Lepanto a Belgrado (vittorie tutte ispirate dalla Madonna, come più volte abbiamo detto e scritto) – solo con la sua fede in Dio e nella Madonna potè arrivare a tanto e fare tanto per la Chiesa e contro gli infedeli. Egli è la personificazione dell’uomo che respinge la tentazione della mediocrità e della resa per la resa e pone innanzi a tutto la fedeltà, il dovere, il sacrificio e la lotta.

Rodi, Lepanto, Vienna, il filo conduttore è sempre lo stesso: combattere, in nome di un’ispirazione, il male e gli infedeli.

Eppoi la visione dell’Europa che il Principe Eugenio ha ispirato (per il futuro), si è concretizzata nel 1989 con la caduta dei regimi estranei che da oltre quarant’anni imperversavano nell’europeissimo est europeo.

Ed ecco che si torna a parlare di Monarchia: di sentimenti tradizionali, di interesse per le nobili figure dei Re: Michele (1921-2017) per la Romania, Simeone (1937- ) per la Bulgaria. Si torna a parlare di Monarchia nei paesi che, fino al 1918,  erano il cuore dell’Europa tradizionale e sopranazionale.

Perché coloro che hanno redatto la Costituzione Europea - solennemente sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004 - non hanno tenuto conto nel c.d. “Preambolo” di questi valori?

I valori cristiani e tradizionali che hanno rappresentato, che rappresentano e che rappresenteranno il nostro Continente.

I valori fatti propri da Eugenio.

Valori, come ho già detto, che poi sono gli stessi da Lepanto in poi.

In ogni epoca, come abbiamo ampiamente visto e commentato, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia, che sotto l’allegorica forma di una lupa, Dante, nella sua “Commedia” al Canto I dell’Inferno, 100-102, di essa dice:

Molti son li animali a cui s’ammoglia,

e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro

verrà, che la farà morir con doglia.

E’ una profezia “ante eventum”, l’unica tale nella Divina Commedia.

Sarà venuto codesto “Veltro”.

Con una libera interpretazione potrebbe essere stato Eugenio di Savoia Carignano Soissons?

Ed egli aveva tutte le credenziali per esserlo.

29 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

Povera e nuda vai filatelia

di Domenico Giglio

 

In questi giorni di segregazione è riesplosa una vecchia passione: i francobolli. Penso che risalga almeno a quando avevo dieci anni ed a scuola quasi tutti collezionavamo questi pezzettini di carta facendo fra noi i famosi “scambi” di “libretti” (i classificatori non esistevano), dove erano “appiccicati” con le “linguelle” i francobolli nuovi e usati, cioè “timbrati”, per cui, per meglio operare, ci asserragliavamo negli ultimi banchi. Quindi una storia antica, ma le cui origini sono ancora più antiche, quando cioè mio padre, anche lui decenne, fu “iniziato” a questa materia, forse da un ufficiale del 31° Reggimento di Fanteria, di cui era comandante mio nonno, il colonnello Domenico Giglio, per cui la pur modesta “Collezione Giglio” , ha 110 anni di vita (1910- 2020).

Quindi ero stato “iniziato” da mio padre, il dr. ing. Rocco Giglio, che nella catalogazione di questi pezzetti si basava su di un catalogo universale Yvert-Tellier, scritto in francese ed ancor oggi esistente, usando la stessa meticolosità ed attenzione di quando svolgeva la sua attività professionale di progettista, direttore lavori, collaudatore e via discorrendo. Ed era una scuola di storia, di geografia, di politica e delle guerre ed anche di lingua francese, all’epoca ancora lingua diplomatica universale, di cui imparavo le sottigliezze dei colori che differenziavano i francobolli anche simili fra loro. Ed oltre ai colori si imparava a conoscere e valutare le dentellature, con l’odontometro, perché anche qui vi potevano essere differenze di valutazione, cioè il valore (sempre teorico) dei francobolli , ma utile nei già citati scambi che avvenivano “alla pari”. Poi vennero gli album con le caselle predisposte che si riempivano, ma al tempo stesso segnalavano i vuoti, per cui si preparavano le “mancoliste” da diffondere tra gli altri collezionisti, o per andare da uno degli allora numerosi negozianti, comprese diverse cartolerie, per vedere di trovare i francobolli mancanti. Una variante negli anni del dopoguerra venne per i francobolli nuovi: linguellati od illinguellati con pesante diversità di valutazione, facendo strappare i capelli ai vecchi collezionisti che avevano appiccicato i francobolli sugli album. Anche gli album, o forse proprio i fabbricanti degli album corsero ai ripari predisponendoli con le taschine trasparenti, e predisponendo anche taschine sciolte per meglio conservare gli esemplari più interessanti. Però negli anni le mode aumentavano e con essi i costi per mantenere aggiornate le collezioni: la quartina (4 francobolli in forma quadrata), poi gli angoli di foglio, poi le buste timbrate il primo giorno di emissione (FDC – first day cover - in omaggio alla lingua inglese anche in campo filatelico), e poi le cartoline “maximum”, cioè il francobollo applicato su di una cartolina avente soggetto analogo, ed altro ancora, dai foglietti ai libretti e via discorrendo per spillare sempre più soldi.

Nel frattempo per motivi vari aumentavano i “doppi” o “doppioni”, cioè più copie dello stesso esemplare, tanto che fui autorizzato a fare con gli stessi una seconda più modesta collezione mia personale, mentre mio padre proseguiva quella base da me proseguita dal 1983. Passando poi dalla paleofilatelia alla neofilatelia si affermavano i cataloghi italiani per i paesi italiani, cioè Italia, (ex) Colonie Italiane, SCV (Città del Vaticano), San Marino e buon ultimo lo SMOM (Ordine di Malta), ed i collezionisti, noi compresi , restringevamo a pochi paesi gli interessi filatelici per questioni di spazio, di tempo e di costo! Oggi, forse o solo la Regina d’Inghilterra se ha mantenuto la passione filatelica della famiglia potrebbe permettersi questo lusso, sia perché sono notevolmente aumentati i paesi emittenti, sia per le emissioni anch’esse enormemente aumentate a scopo propagandistico e ancor più speculativo , mentre l’effettivo uso postale sta sempre più diminuendo. Si va all’assurdo che più piccoli sono gli stati, più francobolli emettono! e mentre poi, specie da noi in Italia diminuisce il numero dei collezionisti, non essendo gli studenti ed i giovani interessati a questa intelligente ed istruttiva forma di collezionismo, che richiede pazienza ,senso dell’ordine , attenzione e delicatezza.

Tornando a me questa rivisitazione si era resa necessaria per avere trascurato i pezzettini per altre attività per cui necessitava mettere le cose a posto, negli album, raccoglitori, classificatori, per ridare quell’aspetto ordinato che fino alla fine aveva mantenuto mio padre. Ma che serenità, che riposo dello spirito ho ritrovato. Nulla dei fatti esterni mi interessa, non mi pesa la segregazione, non c’è telegiornale o altro televisivo che turbi il mio lavoro. Una pinzetta per non toccarli, una bella luce ed una lente per meglio osservarli, perché oltre alle differenze già indicate può essere necessario anche vedere la “Filigrana”, ovvero in trasparenza quegli elementi caratteristici che ogni paese aveva inserito contro le contraffazioni e falsificazioni, come per tutto il periodo del Regno d’Italia era stata la bella “Corona Reale”.

29 marzo 2020

 

 

 

Riflessioni minime sulla vita in casa ai tempi del Coronavirus

È peggio di una guerra

di Salvatore Sfrecola

 

È “come una guerra” si sente dire sempre più spesso a proposito dell’emergenza dovuta all’infezione da Coronavirus. È chiaro il senso del ricorso ad una parola che evoca un nemico da battere, una lotta nella quale è a rischio la vita. Per un nemico invisibile e subdolo, che non sappiamo dove né quando, chi e come colpirà. Le modalità di diffusione del contagio sono individuate, con una buona dose di incertezza che naturalmente influisce sulle modalità di risposta al virus, sia nella prevenzione che, ancor più, nella terapia. Oltretutto sappiamo, questo sì con certezza, che la strumentazione a disposizione degli ospedali è in molte realtà gravemente insufficiente, specialmente nelle fasi acute che richiedono la degenza in un reparto di terapia intensiva.

Per far fronte al dilagare del contagio sono state adottate limitazioni progressivamente più severe della libertà di movimento delle persone ancorata a casi di necessità per gravi motivi di lavoro, sanitari e di approvvigionamento alimentare. Sono le limitazioni che marcano una netta differenza rispetto alla “guerra” tanto spesso evocata, come potrebbero dire i più anziani l’hanno conosciuta. L’infezione che ci impegna è peggio, molto peggio di una guerra. Nell’ultima, quella 1940-1945, i cittadini hanno sperimentato una condizione di vita certamente migliore di quella di oggi. Non sembri un paradosso, considerato che in ogni caso forte era la paura della morte che, il più delle volte, veniva dal cielo in forma di bombe di grande capacità distruttiva. C’era, comunque, in quella difficile stagione, una vita pressoché ordinaria, di relazioni personali e di lavoro, se questo non si svolgeva in una delle strutture industriali possibile obiettivo dell’aviazione nemica. Per il resto, pur tra mille difficoltà e privazioni, anche dal punto di vista degli approvvigionamenti alimentari progressivamente sempre più insufficienti le giornate trascorrevano secondo i ritmi consueti, se si esclude il suono sinistro delle sirene che di tanto in tanto, e non dappertutto, imponevano di abbandonare la propria abitazione per riparare nei rifugi. Ma c’era la possibilità di lasciare le città per uno dei tanti piccoli borghi dei quali è disseminato il nostro Paese, in campagna, in montagna o al mare, utilizzando una casa di famiglia o di vacanza dove c’era una certa sicurezza e, soprattutto, lì era più facile approvvigionarsi di prodotti alimentari. Insomma, voglio dire che la guerra, pur tragica, lasciava alle persone e alle famiglie una condizione sia pur minima di socialità, esplicitamente esclusa, invece, dalle misure restrittive indicate dal governo e dalle autorità regionali come necessarie per impedire il diffondersi dell’infezione. Costretti a rimanere in casa. Uscire è possibile solamente per i motivi che si è detto legati a necessità urgenti, che non è altrimenti possibile soddisfare.

Reclusi in casa, dunque, con evidenti condizionamenti che ben presto possono creare problemi di convivenza, specie quando gli spazi sono limitati, come accade per gran parte delle famiglie. È la condizione nella quale emergono incomprensioni che nella vita ordinaria neppure si manifestano,  considerato che la convivenza obbligatoria nell’arco dell’intera giornata pone questioni di compatibilità delle rispettive esigenze, anche tra persone legate da solidi affetti che possono essere messi alla prova da interferenze reciproche nel corso della giornata. E quindi gli spazi a disposizione sono essenziali, nel senso che se una persona desidera leggere, ascoltare della musica, curare la propria collezione di francobolli o dedicarsi al bricolage può essere disturbato da altri che sono intenti in altre attività, ugualmente per chi pratica il “lavoro agile”, in collegamento con il proprio ufficio. Purtroppo nelle case moderne spesso gli spazi sono angusti ma questo disagio è mitigato nella vita ordinaria scandita da assenze più o meno lunghe per lavoro, studio e relazioni sociali, motivo di soddisfazione per i componenti della famiglia. Un po’ come accade con le minicrociere in barca a vela, vacanze iniziate con entusiasmo, spesso terminate con musi lunghi a testimonianza che in quei pochi giorni la convivenza ha incrinato, sia pure momentaneamente, rapporti di amicizia e di affetto. Gli spazi piccoli, come noto, determinano amplificazione dei contrasti. Ci vuole molta disponibilità per convivere un’intera giornata e con la prospettiva di un lungo periodo, come si deduce dalle prescrizioni stabilite dalle autorità e dalla prevista durata (sei mesi dal 31 gennaio) dello stato di emergenza.

Fatta questa ricognizione delle difficoltà della convivenza, dovute essenzialmente agli spazi a disposizione e alle attività svolte, per non smentire la mia propensione a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, non c’è dubbio che, almeno per una persona delle mie abitudini, la permanenza in casa offre anche importanti occasioni di recupero di interessi che nell’impegno quotidiano spesso sono parzialmente trascurati. La lettura, innanzitutto, di un libro rimasto troppo a lungo su uno scaffale, l’ascolto della musica, per chi ne appassionato, la cura degli hobby, la collezione di francobolli o di monete, il bricolage. C’è anche, in questo popolo di artisti, chi può dedicarsi alla scrittura o alla pittura o ad altre arti. Per parte mia ho approfittato di questa sosta forzata per riordinare i libri che spesso erano disseminati tra i vari scaffali, non sempre con ordine. Se si esclude i libri di uso professionale, i codici, i manuali e i trattati di diritto, ben sistemati nella libreria del salone studio, mi sono dedicato a riordinare i volumi su materie di interesse storico sistemati negli scaffali delle varie stanze (i libri sono dappertutto tranne in bagno), a seconda del periodo di riferimento, la Grecia, Roma, il medioevo, il Rinascimento e poi la Rivoluzione Francese, Napoleone. Un ruolo rilevante hanno i testi sul Risorgimento italiano con i suoi protagonisti, da Carlo Alberto a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini. Uno spazio rilevante è dedicato a Camillo Benso di Cavour, il grande statista ammirato anche da Clemente Lotario di Metternich, il potente Cancelliere austriaco. Vi sono anche altri protagonisti di quell’importante periodo storico, come Marco Minghetti e Quintino Sella.

Naturalmente c’è uno scaffale con molti ripiani dedicato alla guerra 1915 1918 con commenti, approfondimenti e biografie dei protagonisti da Vittorio Emanuele III ad Armando Diaz, da Francesco Giuseppe a Guglielmo II, a Nicola II, lo Zar di tutte le Russie e alla tragedia della famiglia Romanov. C’è poi tutta una ricca letteratura sulla seconda guerra mondiale, con riferimento alle vicende politiche e a quelle militari. Anche la storia del pensiero politico occupa molti spazi insieme ai temi del diritto pubblico. È stato un bell’impegno ancora non concluso, anche perché non mi è stato possibile avvalermi del mio nipotino Leonardo Pirozzi che in altra occasione si è prestato ad aiutarmi a sistemarmi i libri per materia e per autore. È in corso la sistemazione degli ulteriori accessi per i quali, non potendo frequentare librerie, sono ricorso all’acquisto on-line di volumi che mi vengono puntualmente e rapidamente consegnati.

Alcuni volumi che ho esigenza di consultare per articoli, note e commenti sono sistemati insieme nella libreria più vicina alla scrivania dove affronto un determinato argomento. In questo periodo, ricorrendo il 200º anniversario della nascita di Vittorio II, ho messo insieme alcuni testi che mi sono stati utili per scrivere articoli ed un capitolo del libro “L’Italia in eredità - il Re galantuomo”, pubblicato in questi giorni da Historica. Non nascondo che vorrei scrivere qualcosa di più sul Padre della Patria, per delineare la personalità e l’azione di questo straordinario sovrano ingiustamente trascurato dalla storiografia.

Quello che ho appena descritto è un esempio di come si può occupare il tempo con soddisfazione, senza interferire, almeno finora così è stato, con chi vive con me, che peraltro conosce le mie abitudini e sa che, ad esempio, io ascolto la musica classica praticamente tutto il giorno. Perché quella musica mi ha sempre accompagnato nel lavoro, in auto, mentre mi sposto in città o viaggio fuori Roma. A basso volume, per non disturbare.

Quando non leggo e non scrivo guardo la televisione per acquisire notizie sull’epidemia e sulle misure adottate dalle autorità per contrastare la sua diffusione. Alla tv mi affido anche per qualche bel film scelto dalla ricca opzione offerta dalla Rai, dalle tv private, da Sky e da Netflix. Infine faccio un po’ di ginnastica, consigliata per mantenere il tono della muscolatura, e, non lo nascondo, per contribuire ad un dimagrimento che è stato costantemente consigliato. Mi avvalgo anche di un tapis roulant che, devo dire, faccio con piacere in due turni da 30 minuti ciascuno guardando la televisione cosicché il tempo passa più facilmente. Sulle prime avevo anche pensato di trasferirmi al mare o in montagna, dove ho tutti i comfort e potrei leggere e scrivere avendo anche una disponibilità di un giardino nel primo caso di un bosco nel secondo. Tuttavia per quanto le due case siano funzionali ho pensato che comunque è più comodo rimanere a Roma. E qui sono rimasto.

28 marzo 2020

 

 

 

 Dante… un politico di “genio”

di Dora Liguori

 

Il Consiglio dei Ministri, interessandosi per una volta di Arte, nel presente caso di poesia, ha istituito il “Dantedì” (giorno di Dante), individuandolo nel 25 marzo, giorno che si presuppone nel 1300 (la data non è certa), il poeta abbia dato inizio al cantico dell’inferno, della sua “comedia”. Va inoltre rammentato che il prossimo anno -20 settembre 2021- ricorreranno i 700 anni dalla morte del sommo poeta e che, da oggi sino al prossimo anno, sarà compito degli esperti (storici e letterati) cimentarsi con la figura di Dante; ne’ dovrebbero mancare (almeno si spera, visto che per Leonardo ci ha surclassato la Francia) delle celebrazioni, adeguate all’immensità di un poeta e di un uomo che rappresenta, nel mondo, il più grande degli italiani.

Fatta questa doverosa premessa e non volendo, ci mancherebbe, esprimermi sulla poesia dantesca, è mio desiderio, invece, porre un brevissimo accenno a quella che fu la vera, chiamiamola così, professione di Dante: la politica. Infatti, nel Medio-Evo, la poesia, qualunque fosse la professione perseguita, faceva parte del bagaglio culturale e delle esercitazioni dell’anima di un uomo colto, ottima abitudine coltivata soprattutto fra la gioventù di un certo lignaggio, e, che, oggi, verrebbe definito un hobby sia pure di altissimo livello.

Tornando a Dante, egli apparteneva ad una famiglia abbiente, con ascendenze aristocratiche sia pure non di primissimo piano; sull’argomento la sua famiglia amava vantare origini romane ma alla fine, tra gli avi accertati, gli Alighieri disponevano solo di un cavaliere che aveva partecipato alla seconda crociata.

Aristocrazia o meno, in Firenze, dalla famiglia degli Alighieri, come detto, famiglia dell’alta e più che agiata borghesia fiorentina (il padre era un cambiavalute e pare, ma potrebbe essere un pettegolezzo dei nemici, a volte anche un usuraio), nasceva, tra il maggio e il giugno del 1265, Durante, figlio di Alighiero degli Alighieri, anzi Durante Alagherii de’ Alagheriis che sarà poi, per merito di Boccaccio, anni dopo, chiamato semplicemente Dante Alighieri. Nell’infanzia, Durante, come tutti i pargoli delle famiglie per bene, viene affidato, per l’educazione e lo studio, al solito “Doctor puerorum” (maestro dei fanciulli) per, di seguito, frequentare anche le cosiddette Arti liberali (quadrivio e trivio) assorbendo, visti i risultati, una buona preparazione. A determinare, però, la sua costruzione culturale e politica fu, in anni adolescenziali, il suo incontro con ser Brunetto Latini, uomo di grande spessore culturale e già ambasciatore in Francia, e che, con ogni probabilità, ebbe ad avviarlo anche all’arte della politica.

Giovanissimo, essendo vicini di casa, Dante ha il suo fatale incontro con Beatrice Portinari di appena nove anni (Dante era di pochissimo più grande) e dopo un solo sguardo, il giovane, restando incantato dalla sua grazia e forse dalla sua non usuale bellezza, per la malia che gli ebbe a provocare, rimase, a fortuna dei posteri, segnato per tutta la vita. E’ probabile che i due non ebbero mai modo di parlarsi e ciò non deve di troppo meravigliare poiché, nel basso Medio-Evo, le donne di un certo lignaggio non potevano essere importunate per la via e nemmeno altrimenti. Infatti, le fanciulle, vivevano più o meno una condizione da recluse, in attesa di un matrimonio che, combinato, quasi sempre, per interessi di famiglia o quant’altro, le rendesse almeno padrone di una casa, con qualche facoltà di movimento. Prima, invece, non era neppure ipotizzabile che parlassero con degli estranei; solo in prossimità del matrimonio, veniva loro concesso (se pure) di conoscere e parlare con il promesso sposo. Pertanto, vuoi o non vuoi, Dante molte occasioni d’incontrare e parlare con Beatrice, non avrebbe potuto averne… la poteva solo sognare, cosa che fece per tutta la vita.

 Da giovane colto, verso i 18 anni, Durante, compone due poemetti e non manca di partecipare vivamente alle appassionate discussioni dei, definiamoli, circoli letterari e poetici che, in quegli anni, si tenevano a Firenze, tutte vertenti tra quanti si dichiaravano sostenitori (fonderanno a Firenze una scuola siculo–toscana) della poesia di “scuola siciliana”, con tematiche amorose provenienti dalla lirica provenzale, una poetica professata anni prima alla corte di Federico II (il cosiddetto Stupor mundi) e altri, quali il poeta Guido Cavalcanti, sostenitori, sempre a Firenze, dell’avanzante “stil novo”.

Dante (da questo momento lo chiameremo così), è affascinato dal Cavalcanti, del quale si professa estimatore e amico e, perfezionando le tesi e le rime di questo poeta, diverrà, in seguito, il vero creatore della lingua italiana, allora definita “volgare”. A detta lingua (un latino deteriorato), la denominazione di volgare proveniva da quanto, si dice, primariamente, venisse parlato a Capua e dintorni, appunto dal volgo.

A quindici anni, e la cosa non deve aver fatto piacere a Dante, Beatrice viene data in sposa a Simone de’ Bardi mentre Dante, a circa venti anni, sposerà Gemma Donati. Da questo matrimonio, pare non troppo riuscito, nasceranno tre figli: due maschi e una femmina. In contemporanea, Dante ritiene d’aver terminato la sua intensa preparazione per accedere alla vita politica, ma, prima, come impongono le regole fiorentine deve assoggettarsi ad una norma fondamentale che così recita: per assumere qualsivoglia impegno istituzionale, occorre che si risulti iscritti ad una “Corporazione delle Arti e Mestieri”, ossia, a una specie di sindacato… esattamente il contrario di quanto viene imposto oggi.

A proposito di politica e cariche istituzionali va anche sottolineato, come, a prescindere dell’appartenenza ad una corporazione, a Firenze e altrove, quanti desideravano accedere alle forme di governo della città, essendo ritenuta la “res publica” (cosa pubblica o attività politica) un fatto estremamente serio, a somiglianza di quanto avveniva nella società romana (basti pensare a Cesare, Germanico o l’imperatore Claudio), l’aspirante politico doveva dimostrare di possedere un bagaglio culturale notevole e magari anche una levatura morale (ma quella in tutti i tempi è sempre rimasta un optional). Comunque, il buon Dante, scelse d’iscriversi alla Corporazione (in Toscana chiamata “Arti”) dei Medici e Speziali; ovviamente non era né un medico e neppure uno speziale ma, avendo nel trivio studiato fisica e nozioni di chimica, forse ritenne di poter affermare di avere qualche nozione in quest’ultimo mestiere.

Fra un’aspirazione politica e l’altra, Dante porta avanti il componimento de’ la“ Vita nova” (Vita nuova perché rinnovata dall’amore), un insieme di poesia e prosa che, iniziato a diciotto anni (avrà termine nel ’93), riassume la sua vita e soprattutto, il suo amore per Beatrice. Famosissimo l’ “incipit” del sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ ella altrui saluta”, che molto deve ai cantori provenzali (esiste un canto molto simile composto cento anni prima), e con i cosiddetti razos (ragioni iniziali) propri appunto della poesia provenzale, la quale inizia sempre con un’esposizione di quanto si andrà dopo a narrare. Va osservato che Dante, nel suo amore per Beatrice, in certo qual modo, si pone in diretta competizione con le sue già professate idee poetiche. Infatti, egli, seguace del “dolce stil novo”, una poesia che, detta in soldoni, quando parla d’amore lo fa spesso dando anche un senso concreto a questo sentimento, poetando, invece, sul suo amore per Beatrice, egli percorre la via dell’amore sublimato rispondente, in massima parte, alla concezione dell’ “amor cortese” (un’amata irraggiungibile), cantato dai “trovatori” della poesia provenzale, lingua che Dante conosceva.

E allora? Dante era un seguace dell’amore sublimato dei provenzali o delle rime, in fatto di amore, a volte intime e dolorose, del dolce “stil novo” del Cavalcanti? Mah! Importanti restano le sue rime.

Nel frattempo, ad appena 24 anni, fra il 1290 o ‘91, muore Beatrice e il disperato Dante sente il bisogno, per filosofeggiare sul mistero della vita e della morte, di andare a frequentare lezioni di filosofia presso i Domenicani di Santa Maria Novella.

Poesia a parte, nel 1290, Dante, inizia, pienamente, l’attività di politico assumendo varie cariche, da quelle militari alla partecipazione ai vari Consigli cittadini, sino ad essere eletto nel consiglio dei Cento (specie di Parlamento), con l’incarico, essendo si presuppone un ottimo affabulatore, di far parte delle varie ambascerie inviate da Firenze in altre città. Nel 1300 diviene, carica importantissima, uno dei sette priori di Firenze.

Purtroppo, in merito alla sua attività politica, occorre subito dire che, per sua sventura, non fu un opportunista, anzi fece il grande affare di mettersi dalla parte sbagliata. Infatti, fra le due fazioni di Guelfi (seguaci del papa) e i Ghibellini (seguaci dell’imperatore), Dante aveva scelto, sì, di stare dalla parte del papa, ossia era un guelfo, ma, essendosi, costoro, divisi in due parti: guelfi neri (sostenitori dell’aristocrazia) e guelfi bianchi (di chiara matrice popolare), Dante parteggiò per quest’ultimi, scontrandosi, subito, con Papa Bonifacio VIII, che, poi, per vendetta postuma, scaraventerà all’inferno. Detto Bonifacio VIII, rappresentava per Dante il massimo esempio dell’imperante malcostume della Chiesa e del quale, vizi a parte, non condivideva, neppure la politica. Le cose peggiorarono ulteriormente, allorché, in Firenze, le fazioni dei bianchi e dei neri, decisero d’azzuffarsi violentemente e il papa, con la scusa di voler sedare i tumulti cittadini, inviò a Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta, cosa ritenuta da Dante, una pesante e illecita ingerenza. Per ridimensionare il papa e il suo inviato, Dante e gli altri sei priori, decidono, onde a parer loro dare una lezione esemplare, di firmare un provvedimento di esilio per i capi delle due fazioni: otto esponenti dei guelfi neri e sette dei bianchi, fra i quali proprio l’amico poeta, Guido Cavalcanti.

In sintesi, provvedimento più deleterio Dante e gli altri priori, non potevano firmare, in quanto così facendo ebbero, è il caso di dire, il genio di mettersi contro bianchi e neri. La cosa finì per irritare tutti e fini che Bonifacio VIII, filo angioino, prese subito l’occasione, scatenando le ire soprattutto dei guelfi bianchi, di chiamare il conte, Carlo di Valois, fratello del re di Francia, Filippo IV, detto il bello, a entrare in Firenze per sedare, con l’esercito, i tumulti, o meglio per… conquistare Firenze.

Giunti in quel punto, la Repubblica fiorentina, cercando di bloccare il papa e trovare magari un accomodamento, per fare cosa opportuna, inviano subito a Roma un’ambasceria della quale faceva parte anche Dante. Ma, proprio come da lui previsto, il Valois, prendendo a pretesto uno dei soliti tumulti, decide di mettere a ferro e fuoco la città e con un colpo di mano impone, nella carica di potestà, Cante Gabrielli da Gubbio che, come voleasi dimostrare in fatto d’imparzialità del francese, apparteneva alla fazione più violenta dei guelfi neri. Purtroppo, sbaragliati i guelfi bianchi, la città è ora completamente alla mercé dei guelfi neri che, senza perdere tempo, trascinano a processo i rivali politici, fra i quali Dante degli Alighieri. Con una serie impressionante di accuse, compresa la pederastia, che pare Dante non abbia mai frequentato, l’alighieri viene condannato all’esproprio di tutti i beni e al rogo; trovandosi, però, a Roma, la condanna è in contumacia e il poeta, fortunosamente, riesce a scampare alla morte.

Da qui, si deduce l’“obiettività” dei processi politici in ogni tempo e luogo!

Per il poeta, dolorosamente, si apre la via di un lungo esilio e che, nonostante alcuni tentativi, non gli consentirà di più rivedere Firenze. Nel corso di un soggiorno presso i Conti Guidi, il 25 marzo del 1300 (la data non è certa), Dante, chissà avendo molto tempo a disposizione, inizia il primo cantico dell’inferno per la sua “comedia” (allegoria del viaggio degli umani verso la salvezza). Sempre esule, nel 1310, pur non essendo Ghibellino, con la speranza di rientrare a Firenze, si schiera con l’imperatore Arrigo VII che, sceso in Italia, il poeta incontrerà personalmente. Per disgrazia nel 1313, a Buonconvento, muore improvvisamente l’imperatore e Dante, per forza di cose, abbandonate le speranze, deve riprendere il suo peregrinare. In ogni caso, per merito della conquistata solida fama di politico, è un esiliato di lusso, sempre ben accolto, fra i grandi signori del tempo, ad iniziare dai Della Scala di Verona che spesso lo invieranno quale ambasciatore nelle vicine corti.

Nel 1318, Dante, per motivi non del tutto noti, lascia Verona, per trasferirsi con i suoi due figli maschi (la femmina era entrata in convento), presso Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, appassionato delle Arti e lui stesso poeta. In quella città, Dante apre un cenacolo letterario, frequentato anche dai figli e, come dire, riesce a godere di una certa pace. Purtroppo per lui, apertosi un conflitto fra Ravenna e la Repubblica di Venezia, che vede l’Ordelaffi, signore di Forlì alleato dei veneziani, il da Polenta, memore dell’amicizia di Dante, proprio con l’Ordelaffi, lo invia, in qualità d’ambasciatore, a trattare la pace con Venezia.

Dante non è più giovanissimo (ha 55 anni, tanti per il tempo), ma è ancora un abile politico e ottiene, nonostante che il torto fosse dei ravennati che insidiavano le navi della Serenissima, la pace. Al ritorno, il poeta o meglio il politico, presso le paludi di Comacchio, trova ad attenderlo l’ultimo appuntamento della sua travagliata esistenza; contrae la malaria e, subito dopo il suo rientro a Ravenna, nel settembre del 1321 muore. Il compianto dell’intera città è grande e, Ravenna, quando i fiorentini rivendicheranno i resti del poeta, gelosamente risponderanno che, non avendolo, essi, amato in vita, non lo meritano in morte.

 Fatale, dunque, al sommo poeta, fu la sua “professione” di politico ma possiamo anche ipotizzare (solo ipotizzare) che, senza l’ ingiusta condanna, se fosse rimasto a Firenze, continuando, per così dire a tempo pieno, la carriera politica, forse il signor Alighieri non avrebbe mai avuto il tempo di scrivere la Comedia, poi definita “divina” da Boccaccio. Fatto si è che, per Dante, fare il politico fu una gran disgrazia ma, se poi il dolore dell’esilio divenne, per lui, motivo anche d’ispirazione, noi posteri non possiamo che benedire le sue sventure, avendoci, esse, donato di godere i frutti del più grande miracolo dell’ ingegno poetico di tutti i tempi.

Infine, ci piace pensare che, essendoci, come da lui descritto: inferno, purgatorio e paradiso, a sollevarlo dalle pene e, ancora una volta, ad accompagnarlo nel suo estremo e non più solo poetico viaggio, alle porte del paradiso, ci sia stata la sua Beatrice, poiché, di qualunque peccato si fosse, in terra, reso responsabile il politico Dante, avendolo meravigliosamente cantato questo paradiso, il buon Dio, nella sua pietà, non gli avrebbe mai potuto negare il dono di, compiutamente, farne parte.

27 marzo 2020

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La Sezione IV ha così deciso:

a)             il provvedimento del giudice che dichiara la interruzione del giudizio ha natura meramente dichiarativa di effetti che si producono ope legis con decorrenze che variano a seconda del tipo di fatto interruttivo, con la conseguenza che il processo si interrompe anche a prescindere dal provvedimento del giudice che lo dichiara, provvedimento che ha indole non decisoria e come tale non è impugnabile;

b)             in caso di decesso del difensore della parte, la norma enucleabile dal combinato disposto degli artt. 299 e 301 c.p.c. è univoca nel senso della immediatezza dell’effetto interruttivo, a decorrere cioè dal decesso, e senza alcuna necessità di comunicazioni legali o declaratorie da parte del giudice, tanto è vero questo che, se il processo prosegue, tutti gli atti successivi sono invalidi e il vizio può essere rilevato in appello;

c)             il termine per proseguire il giudizio a carico della parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo è di tre mesi e decorre da quando si è avuta la conoscenza legale dell’evento;

d)             l’unica ma essenziale formalità richiesta per la prosecuzione è la presentazione dell’istanza di fissazione di udienza nel termine perentorio di tre mesi decorrenti dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo (Cons. Stato, Sez. IV, 20 gennaio 2020, n. 447).

 

Una tragica pandemia

“La notte, il silenzio, il coprifuoco.

Nessuno cammina più sui ponti sul Tevere o scivola nelle viuzze attorno al quartiere del ghetto ebraico, ma a Roma non è l’Ottocento papalino del film di Luigi Magni o del secondo dopoguerra, nel 1945, quando ‘nel deserto notturno delle case’, scriveva Carlo Levi, si potevano sentire ruggire i leoni. Nell’anno del Signore 2020 Roma è città chiusa, l’Italia una nazione sbarrata, con i morti che crescono, le rivolte nelle carceri, le borse che precipitano. Il capovolgimento agli occhi del mondo: la fontana di Trevi della dolce vita offlimits, il Brennero sbarrato, le piccole imprese che affondano in crisi di liquidità, i paesi confinanti che chiudono frontiere e aeroporti, il rischio che l’Europa abbandoni l’Italia, uno dei paesi fondatori, nel mezzo della crisi sanitaria e economica più grave. La Repubblica è di fronte alla prova estrema, come mai successo nella sua storia (Marco Damilano, “Una nuova resistenza”, L’Espresso, n. 12/2020, 10 ss.).

 

“La cosa va”

Tutti lo sanno, ormai, che il conte di Cavour, sul letto di morte, esclamava: “…Abbiamo fatto abbastanza, noialtri: abbiamo fatto l’Italia, sì, l’Italia: ‘e la cosa va’…”

“La cosa va”: in quelle tre parole, a pensarci su, a ripetersele col tono di voce di chi sta per rendere l’anima a Dio, c’è un ottimismo contenuto che non persuade, che resta lì, a mezz’aria, a dirci che il povero conte di fiducia non ne aveva troppa nelle nostre capacità di tener in piedi l’Italia.

Sì: “la cosa va”. È sempre andata dalla morte del conte; la cosa “va” ancora… Ma è una “cosa” misteriosa, una misteriosa cosa “che va”, e non se ne sa il perché (testualmente, “Il mio Leo Longanesi”, a cura di Pietrangelo Buttafuoco, Milano, 2016, 125 s.).

Leo Longanesi (1905 – 1957) è stato un innovatore, scrittore di grande rilievo - nonché pittore e disegnatore - e nel volume curato da Buttafuoco sono stati raccolti momenti particolarmente significativi della sua produzione.

 

Le mani nei capelli

In occasione della recente “Festa del papà” (festività, forse e senza forse, ormai obsoleta, complici il coronavirus e le c.d. famiglie allargate) ho ricevuto in omaggio il volume di Vittorio Sgarbi, “Le mani nei capelli”, edito da Mondadori nel 1993. È una raccolta di testi, vari per argomento, taluni inediti, tutti datati tra il 1991 e il 1993.

La lettura è piacevole, con non poche considerazioni condivisibili.

Particolarmente apprezzabile mi è parso “Morandi è la cosa giusta” (pag. 129), relativo alla donazione di 118 opere di Giorgio Morandi al Comune di Bologna, da collocare nel Palazzo d’Accursio, nel centro della città.

Questa scelta della sorella del grande artista è atto di coraggio che “merita elogio in tempi in cui perfino le istituzioni private vacillano… ma la città non può essere tradita: e il centro è l’anima della poesia di Morandi, che aveva lo studio in via Fondazza”.

“Le opere rimaste nello studio sono idee utili per l’umanità, non si possono nascondere e disperdere. Ed è giusto che siano in centro, nella stessa area in cui furono concepite. Perché i musei respingono, atrofizzano, paralizzano l’opera d’arte. Morandi sta da solo perché parla per tutti e, pur non potendovi rinunciare, allontana Bologna da se stessa. La rende più grande”.

 

La preparazione dei discorsi di Cicerone

Nel I secolo a.C. Marco Tullio Cicerone, in vista dei suoi discorsi, si esercitava assiduamente per non lasciare nulla al caso. Ogni tanto, tuttavia, a causa degli incessanti impegni che affliggevano la sua vita, non riusciva ad avere il tempo per essere pronto, e pare che in un’occasione venne salvato dal rinvio all’ultimo momento di un processo. Come racconta Plutarco, metteva tanta cura nella preparazione dei discorsi, che una volta, quando un suo servo di nome Eros gli annunciò che una causa fissata per quel giorno era stata rimandata all’indomani, gli donò la libertà (Costantino Andrea De Luca, “Pillole di storia antica”, Roma 2019, n. 219, p. 213).

26 marzo 2020

 

 

Considerazioni dantesche

di Domenico Giglio

 

Aver deciso di dedicare annualmente una giornata, il 25 marzo, a ricordare il nostro sommo poeta Dante è una delle iniziative commemorative e celebrative, con cui concordiamo, non solo per il valore letterario, “mostrò ciò che potea la lingua nostra”, di tutta la sua opera poetica, ma anche per le considerazioni storiche sull’Italia, della cui unità politica e spirituale è stato senza dubbio il maggiore precursore, ma anche della sua vita tumultuosa. Queste giornate speriamo portino al rinnovato piacere della lettura dei suoi versi, a studi ed approfondimenti che facciano risaltare la bellezza dei suoi componimenti e l’attualità di tante intuizioni, ma faranno anche aprire o riaprire le polemiche particolarmente su alcuni punti della “Commedia”, a cui gli immediati posteri aggiunsero giustamente “Divina”, termine con il quale da secoli ed in tutto il mondo è conosciuta.

Cominciamo dalla sua posizione politica : la famiglia Alighieri era “guelfa”, per cui Foscolo chiamando Dante “ghibellin fuggiasco”, confonde la scelta “monarchica imperiale” di Dante, con la sua posizione fiorentina, che ne fece un guelfo “bianco”, contrapposto ai guelfi “neri” secondo una tendenza “scissionistica” di cui abbiamo tanti esempi attuali, che quindi ha origini ben antiche. Seconda considerazione l’uso politico della giustizia per eliminare un avversario. Infatti mentre era a Roma, per una ambasceria ufficiale del comune fiorentino presso Bonifacio VIII, Dante, non potendo tornare a Firenze viene processato in contumacia e condannato con sentenza del 27 gennaio 1302, ad un esilio biennale, con multa di 5000 fiorini piccoli e bando perpetuo da ogni ufficio pubblico, per “fama publica referente” di baratteria, estorsione ed altri delitti. Nel frattempo a Firenze i “civili” avversari guelfi corsero alla sua casa e fu rubata ogni cosa. Di questo processo è da notare un’altra caratteristica negativa, che, purtroppo è stata ripresa anche ai nostri giorni, e cioè la “retroattività” delle leggi, in quanto come scrisse Leonardo Aretino in una “Vita Dantis poetae carissimi”, di poco posteriore a “Della vita, costumi e studi del carissimo poeta Dante”, del Boccaccio, “fecero legge iniqua e perversa, la quale si guardava indietro, che il Podestà di Firenze, (Cante de’ Gabrielli di Gubbio!) potesse e dovesse conoscere i falli commessi per l’addietro nell’ufficio del priorato (Dante era stato Priore dal 15 giugno al 15 agosto 1300), contuttoché assoluzione fosse seguita. A questa “benevola” sentenza ne seguì nel marzo, sempre contumace, quella di essere “arso vivo”, per non parlare poi delle colpe dei padri che si fanno ricadere sui figli, quando nel 1303 sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi figli al compimento del quattordicesimo anno! E che dire della ulteriore sentenza del 6 novembre 1315 quando avendo Dante rifiutata l’umiliante proposta fiorentina di modifica della pena, viene confermata la pena di morte, estesa questa volta anche ai figlliuoli rei di essere nati da un rivoltoso. Dal che si vede come la passione politica o meglio partitica, perché tali erano stati ghibellini, guelfi e poi palleschi e piagnoni, quando supera un certo livello e non è bloccata dalla libertà che lo stesso Dante, assegnando a Catone l’Uticense, pur suicida, la funzione di Giudice del Purgatorio, ebbe a definire “sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio, canto primo, versi 71-72), stravolge ogni certezza del diritto ed il concetto stesso della giustizia. E questa anticristiana, e non solo antigiuridica, condanna di figli per colpe (ammesso che lo fossero!) dei padri non era, è triste dirlo, solo a Firenze, ma anche a Pisa il che consente a Dante la famosa invettiva per i figli del conte Ugolino della Gherardesca, “Ahi Pisa…chè se il conte Ugolino aveva voce di aver tradito…non dovei tu i figliuoi porre a tal croce” (Inferno, canto trentesimo terzo, versi 79-87).

Ancora più triste della divisione delle popolazioni della città in partito è quella legata a persone o famiglie e la condanna di Dante è inesorabile e nella citazione di queste famiglie vediamo quei Montecchi e Cappelletti (Capuleti), che secoli dopo ispirarono la grande tragedia scespiriana, come pure è netta la condanna dei tiranni, di qualsiasi origine popolana o nobiliare, per cui l’appello dantesco è rivolto ad un potere superiore, al di sopra e al di fuori di queste divisioni, potere di cui all’epoca accusa la mancanza, e di cui ben tratteggia il suo carattere nei versi finali del canto sesto del Purgatorio, da leggere e meditare. E sempre netta è la sua posizione contraria al potere temporale dei Papi, risalente alla donazione originaria di Costantino, che all’epoca era ritenuta veritiera, mentre la sua falsità fu dimostrata secoli dopo, nel 1440, dall’umanista Lorenzo Valla (1405-1457), nella “De falso credita et emanata Constantini donatione”. Di tutti questi mali risalenti alle tre belve incontrate all’inizio del cammino dantesco, e particolarmente alla lupa, la fine verrà con il “ Veltro, che la farà morir di doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapienza ed amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro” ( Inferno, canto primo, versi 101-105).Questo è uno dei punti della “Divina Commedia” che più hanno dato motivo di diverse interpretazioni, da chi lo considerava una profezia od un auspicio o addirittura la figura di qualche contemporaneo e la vicenda si è trascinata fino al Risorgimento ed oltre, considerando Dante l’iniziatore di quella dietrologia che ci compiacciamo di vedere in tanti fatti ed eventi anche a noi più vicini. Credo che la lettura pacata di queste righe non abbia portato fin dall’inizio alla loro esatta interpretazione, che si celava nelle parole stesse del poema. Il veltro è qui un termine metaforico relativo ad un cane da inseguimento e da presa, che univa velocità e forza, adatto a combattere un altro animale, ma il fatto che non si ciberà di cose materiali, cioè non sarà avido di territori e di ricchezze, già di per sé esclude uomini d’arme per grandissimi che fossero, dovendo avere delle doti tutte spirituali ben difficili a trovarsi in condottieri. Forse potrebbero riferirsi ad un nuovo Salomone o Giustiniano, ma nemmeno loro sarebbero all’altezza. E poi il luogo di nascita, il feltro vorrebbe alludere al Montefeltro? Le risposte negative ci sembrano ovvie. Eppure inserita tra feltro e feltro nasce qualcosa e chi conosce la fabbricazione della carta comprende l’importanza di questa pressatura. Allora il veltro è la “Commedia” scritta appunto sulla carta! Il grande poeta latino Orazio, che Dante incontra nel castello degli spiriti magni, nel Limbo, non aveva forse scritto che la sua poesia avrebbe sfidato il tempo, come poi effettivamente è stato, “exegi monumentum aere perennius” ed allora anche Dante è così superbo da ritenere la sua opera capace di tanto ? No, non è superbia, ma con serena coscienza, la convinzione di aver scritto qualcosa che supera i limiti dello spazio e del tempo, cioè: “il Poema Sacro al quale ha posto mano e cielo e terra”. (Paradiso, canto ventesimo quinto, versi 1-9 ).

26 marzo 2020

 

 

25 MARZO 2020: IL DANTEDI’

di Gianluigi Chiaserotti

 

Scrisse Niccolò Tommaseo (1802-1874), linguista, scrittore e patriota: «Leggere Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.».

Infatti, dal 25 marzo 2020, questa data sarà dedicata annualmente a Dante Alighieri (1265-1321).

E’ stata istituita in vista del 2021, settecentesimo anniversario dalla morte del Sommo Poeta.

E’ stato scelto il 25 marzo in quanto, secondo alcuni studiosi, è in giorno in cui Dante iniziò il suo fantastico viaggio nell’Oltretomba [25 marzo 1300 (Anno Giubilare) giorno dell’Annunciazione, quindi dell’Incarnazione di Gesù]. Mentre per altri studiosi, tra cui lo scolopio Luigi Pietrobono (1863-1960), il “viaggio” iniziò nella notte tra il 7 ed il giorno 8 aprile 1300 (Giovedì e Venerdì Santo) per terminarlo alla mezzanotte del 14 aprile (Giovedì dopo la Santa Pasqua).

Infatti il Poeta impiega: una notte ed un giorno nella “Selva Oscura”; una notte ed un giorno nel visitare l’”Inferno”; una notte ed un giorno nel “passaggio dal centro della terra alla spiaggia del “Purgatorio” (superficie dell’altro emisfero); tre notti, tre giorni e la metà d’un altro giorno nel “Purgatorio”, e ventiquattrore nel “Paradiso”.

In tutto: ore 174, cioè 7 giorni e 6 ore.

Finalmente, dopo tante giornate dedicate a temi spesso e volentieri inutili, si è dedicato e si dedicherà una giornata al vero ed autentico Padre della Lingua Italiana, Dante Alighieri.

Ad egli che fu il più grande Poeta che l’Italia abbia mai avuto.

Poeta, appunto, Scrittore, Saggista, Storico, Filosofo, Umanista, Cronista.

Uomo Politico che seppe cosa fosse l’esilio. Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del Paradiso (58-60) in cui il suo trisavo Cacciaguida degli Elisei prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]».

Dante Padre dell’Italia Unita.

Senza dubbio l’idea di una Italia unita era molto, ma molto antecedente ai Secoli XVIII e XIX.

La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi  le grandi  e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni.

L’Italia era considerata una semplice espressione geografica.

Tutti  si erano lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più  grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati Italiani, anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei.

Gli Italiani non erano più nessuno in casa propria.

Ed è veramente triste affermarlo!

Per lunghi, lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli vi comandavano.

In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese.

Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.

Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione.

Era necessario che gli italiani si trasformassero, si facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio e quell’esigenza di libertà.

Per raggiungere l’unità, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere  quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.

Scriveva Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad Italiam”: «O nostra Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare, famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte e la natura e fecero maestra del mondo».

Il sogno dell’Unità politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da generazioni successive di giovani e di intellettuali, convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai trovato pace e prosperità. Diviso politicamente, sarebbe stato, come lo è stato per secoli, debole e fragile, facile preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi, più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come abitanti della Penisola, siamo stati - come recita il nostro inno nazionale – per secoli «calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché divisi».

Una terra di antichissima civiltà e cultura, che era stata teatro di eventi divenuti nel canto di Omero non solo alta poesia ma modello di vita civile; e che, con il filosofo-matematico Pitagora (in lingua greca “Πυθαγόρας”,  570 a. C. ca.-495 a.C. ca.)  ed il medico Alcmeone (in lingua greca “Аλκμαίων”) in Crotone, con la poetessa Nosside (IV-III sec. a. C. ca.) in Locri, con il filosofo Archita (in lingua greca “Аρχύτας”,  428 a. C.-360 a. C.)  e il musicista Aristosseno (in lingua greca “Αριστόξενος”, 375 a. C. ca.-322 a. C.)  in Taranto, con i filosofi Empedocle (in lingua greca “Εμπεδόκλñς”, 495 a. C.-430 a. C.)  in Akragas (gr. “Ακράγας”) (l’attuale Agrigento), e Parmenide (in lingua greca “Παρμενίδης”, 515/510 a. C. ca.-544/514 a. C. ca.) in  Elea, aveva fatto scuola nella più antica civiltà greca, era divenuta terra di saccheggio.

Era, come si afferma «il paese più frequentemente invaso del mondo».

Considerata dai patrioti del Secolo XIX, voluta da Dio come Nazione unitaria, per avere confini naturali, per il mare che l’avvolge per tre lati e per la protezione delle Alpi al Nord, l’Italia sembrava incapace di trasformare la molteplicità delle diverse città e piccole patrie in fattore di unità e di prosperità.

Il primo “italiano” ad avere chiaro nella mente la necessità e l’utilità di utilizzare il modello dialettico dell’unità e della molteplicità sul piano politico, è stato Niccolò Machiavelli (1469-1527). E lo ha applicato a una realtà geograficamente molto più vasta che non la Penisola italiana. La molteplicità degli Stati all’interno dell’Europa, indicata come unica entità geografica e culturale, per il Segretario Fiorentino è fonte e garanzia di virtù, di libertà e di umanità della storia.

«Chi considererà adunque la parte d’Europa» – scrive l’autore del Principe -,«la troverà essere piena di repubbliche e di principati, i quali, per timore che l’uno aveva dell’altro, erano costretti a tener vivi gli ordini».

A garantire la libertà e, quindi, l’equilibrio tra i diversi Stati in Europa erano le stesse tensioni che li garantivano nella Roma repubblicana, laddove, come annota ancora il Segretario Fiorentino, «i tumulti intra i Nobili e la Plebe […] furono prima causa del tenere libera Roma» perché «le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione».

Era «l’Europa esaltata dal conflitto, sale della politica».

Era proprio questo far convivere dialetticamente la molteplicità di tante piccole patrie nell’unità di un’unica grande Patria il sogno millenario degli Italiani, realizzato poi a prezzo di sacrifici e di vite donate da giovani e talvolta giovanissimi, che hanno vissuto sofferto e glorificato il Risorgimento Italiano. Era il desiderio di realizzare di nuovo l’Italia unita e pacificata dagli antichi Romani, come è testimoniato dalle parole con le quali  Augusto (63 a. C. – 14 a. C.) nel suo testamento, riassunse il plebiscito del 32 a. C.: «L’Italia tutta mi giurò fedeltà, spontaneamente» 

Era l’Italia che voleva risorgere e ritornare alla sua antica grandezza e prestigio.

Era l’Italia considerata da Dante Alighieri come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).

I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.

Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873)  nella poesia “Marzo 1821 dedicata a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria), circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.

Un’Italia dove «non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai più». Un’Italia «che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla». Un’Italia che ritorna al patrimonio spirituale dei suoi avi, al suo retaggio, e «il suo suolo riprende».

Nell’ode manzoniana è contenuta una fortissima carica emotiva e sentimentale verso una patria largamente vagheggiata ma mai, fino a quel momento, progettata avendo in prospettiva concrete possibilità di realizzazione.

La coscienza unitaria nel tempo intercorso tra Dante e Manzoni non si appannò, non cessò di essere vigile e operativa.

L’anelito a vedere l’Italia politicamente unita in un solo Stato, dopo il 1494, cioè dopo la discesa di Carlo VIII di Francia (1470-1498) nella penisola senza incontrare resistenza, era molto forte.

Machiavelli, nel cap. XXVI del Principe dal titolo eloquente “Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”, fa vibrare in maniera energica il potente sentimento di italianità. Incita i Medici a compiere l’opera di unificazione della Penisola, attraverso i versi della canzone Italia mia di Petrarca: «Vertù contra furore/ prenderà l’arme; et fia ‘l combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’ non è anchor morto».

Ma torniamo a Dante.

La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese. Nel Canto VI del Purgatorio, l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani,  i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), suscita in Dante una amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta: «Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello! » (Purg. VI, 76-78).

Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.

L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare.

Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia.

Manca l’autorità imperiale, perché Rodolfo d’Absburgo (1218-1291) e suo figlio Alberto (1255-1308) non si interessano all’Italia, giardino dell’Impero.

Dante quindi invita il suo successore, Enrico VII di Lussemburgo, a venire a vedere la discordia che regna in Italia, un paese che, come una sposa abbandonata, lo attende piangendo notte e giorno.

Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un bene maggiore futuro.

L’invettiva contro l’Italia si conclude con un’ironica sferzata a Firenze, la quale legifera con leggi che non durano da ottobre a novembre.

La sferzata all’Italia nasce da uno sconfinato amore dell’Alighieri per quello che proprio lui ebbe a definire “Il Bel Paese”, e ciò nel Canto XXXIII, v. 80, dell’Inferno («del bel paese là dove ‘l sì sona»).

«Che Dante non amasse l’Italia» spiega Ugo Foscolo (1778-1827) «chi mai vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna».

L’Italia (“umile”) sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria vergine guerriera, di cui parla il Libro IX dell’Eneide di Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea, Giuturna la sorella di Turno amata da un Dio, la saracena Clorinda, la puzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco (412-431).

Emula di Diana, alla quale il padre la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo italico che lotta per la propria libertà e Dante le rende onore nella “Divina Commedia” (Inf. I, 106-107) ricordandola come la prima martire della nostra Patria: «[…] di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine Cammilla».

Ed eccoci, come dicevo poc’anzi, al  Risorgimento che rappresentò, come sappiamo, il riscatto di un popolo diviso al suo interno ma profondamente unito dalla lingua, dalla tradizione, dalla cultura. Per la risoluzione di tale processo storico fu di fondamentale importanza il contributo ideologico, passionale e romantico che la letteratura e la filosofia profusero.

Il primo indiscusso precursore dell’Unità d’Italia non puo’ che essere considerato il Sommo Poeta.

Dante non aveva il concetto di stato nazionale secondo i parametri che si sarebbero andati definendo nella storia moderna.

La sua teorizzazione dell’Italia risentiva ancora dell’esperienza, mitizzata nel Medio Evo, dell’Impero Romano.

Benché gli studiosi siano molto discordi sull’argomento, in lui non è difficile cogliere il desiderio di unità nazionale. Dante idealizza l’Italia, la presenta in numerose opere e soprattutto nella Divina Commedia, con le formule più disparate, lascia presagire un certo qual immaturo desiderio di unità tra le varie componenti della Penisola.

Nell’Epistola XI, inviata ai cardinali in conclave, Dante parla di «Italia nostra» e idealizza la proposta di un idioma unitario rispondente a quattro caratteristiche: illustre, aulico, cardinale e curiale.

Al riguardo il Poeta vi ritorna nel suo “De vulgari eloquentia” quando, con fare frasi da profeta dell’unità linguistica italiana, al capitolo XV sostiene l’adozione di una parlata che sia l’estrema sintesi di quelle migliori presenti nella Penisola.

Il Poeta non viene meno di accennare anche ad altri importanti aspetti che caratterizzano ed unificano il potenziale popolo italiano nei capitoli XVI, XVII e XVIII del Libro I.

Dante non si limita, come fin qui ho cercato di far notare, ad esempi o teorie fittizie che quasi vogliono esplicitare i tratti comuni degli italiani.

Nella Commedia è particolarmente ricorrente un modo di vagheggiare l’Italia che ha quasi sempre un sapore romantico, proprio dell’innamorato più che del patriota.

Nel canto VI del Purgatorio, come detto, l’Alighieri dice senza mezzi termini che emerge in maniera chiara e nitida una visione dell’Italia molto, ma molto a carattere ideale e certamente prematura, ma sicuramente già recante in sé tratti importanti su cui la tradizione successiva poté trovare un terreno alquanto fertile.

L’idea della nazione italiana compresa nei suoi confini geografici era di già maturata nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino Fiore (1130 ca.-1202) definito dal Nostro «[…] il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato» (Par. XII, vv. 140-141), che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni essenzialmente per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852) (una confederazione di Stati con a capo il Papa).

La “renovatio” auspicata da Fiore per l’umanità, ma soprattutto per l’Italia e fatta propria da Dante, in realtà preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti e tanti personaggi.

Ecco nuovamente il Risorgimento.

Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’Unità d’Italia.

Per questo motivo nell’’800 il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti furono arrestati ed imprigionati solo perché nelle loro case possedevano ed esponevano qualche ritratto dantesco.

Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso monumento a Dante (1896), nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro già ricordato con Sordello da Goito e ciò per proclamare a gran voce che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo di Cesare Battisti (1875-1916) poi eretto in vista del monumento dantesco.

Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende tutti gli altri intellettuali (da Petrarca a Machiavelli, da Foscolo al Manzoni ecc….) che con il loro magistero morale e civile contribuirono a formare una coscienza nazionale e propiziarono un’unificazione politica.

Gli ideali ed i valori danteschi sono quelli dell’Italia: e Dante medesimo è un grandissimo valore per l’Italia.

In tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”.

Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel ‘300 l’Istria ed il Tirolo Meridionale. Celebri i versi nel Canto IX dell’Inferno: «[…] sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]». Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale. Ne deplorò le divisioni interne. Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Faccio ora concludere al Poeta questo mio pensiero sul primo “Dantedì” (neologismo creato dal Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca, prof. Francesco Sabatini), che certamente ha debuttato in un momento molto triste e particolare per la nostra Italia, e precisamente con le parole di Ulisse, che esorta i suoi,  in Inf., XXVI, 118-120: «[…] Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza.»

L’Italia è forte, è una Nazione solida, e supererà, ed alla grande, questo momento inatteso, inaspettato e non voluto.

In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia anche, un’epidemia come in questi giorni.

Ma verrà il “Veltro”?

Ed ora ci sia permesso un ben modesto consiglio. Ciascuno di noi abbia a consultare un’edizione, anche tascabile, della “Divina Commedia” e, rileggendola, applichi i versi  alla nostra vita giornaliera, ma anche analizzi, confronti quanto l’Alighieri è attuale, e quanto egli aveva previsto, e con netto anticipo, per i secoli dopo di lui.

25 marzo 2020

 

 

Coronavirus: metodi cinesi e italiani a confronto

di Salvatore Sfrecola

 

Il Presidente della Repubblica ha invitato alla concordia. In particolare ha richiamato i partiti di opposizione a non assumere atteggiamenti che possano nuocere all’azione del Governo impegnato in un severo contrasto alla diffusione dell’infezione da Coronavirus e nell’assistenza a quanti hanno contratto la malattia. Giustamente preoccupato dell’andamento dell’infezione, che non sembra recedere, Sergio Mattarella si è rivolto anche agli italiani con pressante invito a rispettare le indicazioni provenienti dall’Autorità. I numeri, impietosi, dicono che molti sono i colpiti dal virus. Di questi, un numero significativo è in rianimazione, molti sono i morti. Tuttavia è lecito ritenere che ve ne siano di più, che molti preferiscano curarsi a casa, come dimostra il fatto che il Sindaco di Bergamo, Gori, intervistato da un telegiornale, ha detto delle difficoltà che nei giorni scorsi hanno interessato le forniture di bombole di ossigeno presso le abitazioni dei pazienti. Dunque a casa vengono curati anche soggetti in una fase sub-acuta.

Viene, dunque, spontanea la riflessione se il metodo di affidare la prevenzione a successive misure progressivamente sempre più limitative delle possibilità di movimento degli italiani sia stata una scelta saggia, considerate le dimensioni dell’epidemia e l’esperienza della Cina, dalla quale il virus proviene. In quel paese il governo ha dettato norme rigidissime ed attuato immediatamente una generalizzata quarantena che ha impedito a chiunque di lasciare la propria abitazione se non per motivi di approvvigionamento alimentare, una volta la settimana, da parte di un solo componente della famiglia. Ogni altra attività è stata interdetta. Ne consegue che non hanno tardato gli effetti sperati. Per cui, mentre in Cina non ci sono nuovi contagiati in Italia questi crescono e i morti sono in numero superiore a quelli riscontrati nel grande paese asiatico. È la conseguenza, da un lato, della scarsa chiarezza di alcune regole in rapporto a possibili deroghe e, dall’altro, della ben nota e, pertanto, prevedibile indisciplina degli italiani abituati a non temere le sanzioni minacciate, anche in ragione della scarsa vigilanza e comunque della consueta “bonomia” di chi è deputato ai controlli. So di persone che si sono recate in altre città, distanti centinaia di chilometri, senza che nessuno li abbia fermati in uscita da Roma, in autostrada, nelle aree di servizio, all’ingresso della città di destinazione.

È un fatto che molti italiani devono aver pensato: “io non rischio, sono giovane e forte e sto attento; mi lavo le mani, sto a distanza di sicurezza dai miei vicini”. Basti pensare che ho saputo di genitori e nonni che, al primo giorno di chiusura delle scuole, programmavano di far distrarre figli e nipoti invitandoli a casa o in qualche centro sportivo, come d’estate. Hanno pensato evidentemente che fosse una vacanza, neppure sfiorati dal dubbio che, opportunamente, le autorità avevano chiuso le scuole perché i giovani, soprattutto i più piccoli, studiano o giocano stando tutti insieme in spazi spesso angusti, sicché avrebbero potuto diffondere l’infezione.

È giusto quindi non polemizzare e non far venir meno la tensione morale del governo, ma non si può neppure rimandare “a dopo” alcune osservazioni sul modus operandi di chi ha responsabilità gravi nella difficile gestione dell’emergenza, quando appaia inadeguata rispetto agli obiettivi. O privo di criterio logico, come nel caso del blocco dei voli da e per la Cina, come sei i cinesi, potenzialmente portatori di contagio, non potessero giungere in Italia da Parigi o da Mosca, come puntualmente è avvenuto. E mi chiedo: se il ministro competente è uno sprovveduto come mai la dirigenza ministeriale non ha fatto il proprio dovere segnalando alla politica l’incongruenza della scelta effettuata?

21 marzo 2020

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La partecipazione alla procedura di stabilizzazione non è consentita ai dipendenti già in servizio a tempo indeterminato presso altra pubblica amministrazione, in quanto una tale evenienza entra in contraddizione con la ratio della norma, alterandone il carattere speciale di reclutamento ristretto alla platea dei dipendenti in servizio “precari”, in quanto titolari di contratti a tempo determinato.

Ha chiarito la Sezione che, sebbene la persistenza del rapporto precario all’atto della partecipazione alla procedura riservata non costituisca una condizione di ammissione alla selezione, la legge è chiara nell’individuare la platea degli aspiranti alla stabilizzazione tra i soggetti precari, così intesi in quanto titolari, ad oggi o in passato, di soli rapporti non stabili. La stabilizzazione non può essere intesa, viceversa, come una forma di riconoscimento degli anni di lavoro a tempo determinato già espletati e, dunque, come uno strumento di mera valorizzazione dell’esperienza acquisita quale titolo per l’inquadramento (Cons. Stato, Sez. III, 3 febbraio 2020, n. 872).

 

Il contagio avanza nel mondo

Meritano condivisione le considerazioni di Maurizio Belpietro apparse su “La Verità” del 10 marzo 2020. “Quello che sta succedendo non ha paragoni negli ultimi 75 anni di storia. Sì, dal 1945 a oggi abbiamo assistito a un’infinità di eventi tragici, di conflitti o di choc economici, ma nessuno ha minato così in profondità le nostre sicurezze e il nostro stile di vita. Perfino la stagione delle stragi, quella degli anni di piombo e del terrorismo islamico, non è riuscita a farci chiudere in casa, impauriti alla sola idea di incontrare qualcuno e di finire vittime di un nemico invisibile. Chernobyl e Fukushima ci avevano spaventato per i pericoli di una contaminazione nucleare, ma mai con la rapidità e la virulenza del coronavirus. L’epidemia colpisce al cuore le certezze con cui noi ci affidiamo alla scienza e alla medicina e dà una mazzata devastante alla stabilità economica e al sistema di welfare conquistato nei Paesi occidentali, perché a prescindere dalla crisi tutto sembra più fragile e insufficiente a fermare quello che sta succedendo”.

 

La sua Villa

Per ricordare l’indimenticabile Alberto Sordi, Francesca De Sanctis (“La sua Villa, l’amore d’una vita”, L’Espresso, n. 11/2020, 81) ha preferito condurci, con competenza e apprezzabile partecipazione, nella Villa di piazzale Numa Pompilio, dove il compianto attore visse per quasi 50 anni con le sue amate sorelle Savina ed Aurelia.

La Villa fu acquistata nel 1954 e dalla “terrazza rivolta verso le Terme di Caracalla, chissà quante volte Alberto Sordi si sarà perso con lo sguardo tra il verde dell’Appia antica e le rovine della sua Roma”.

Viene ripercorsa, con tratti stringati ma eloquenti, la vita privata del grande attore e, in particolare, il suo amore per l’arte, le belle donne, i viaggi, nonché per i lussuosi arredi.

Villa Sordi, in occasione del centenario (1920 – 2020), doveva aprire al pubblico per ospitare una grande mostra, ma il coronavirus ne ha purtroppo provocato il rinvio.

 

Emergenza carceraria

La popolazione carceraria è in subbuglio.

I motivi, oltre il coronavirus, sono più d’uno e, primo fra tutti, le condizioni di spazio dove i reclusi vengono alloggiati.

Luigi Marconi (“I centimetri del carcere”, la Repubblica, 10 marzo 2020) scrive che “il carcere è il perimetro degli spazi angusti, del respiro che manca, del fiato che si fa corto, cortissimo, dei letti a castello, dove chi dorme sulla branda superiore sbatte il capo contro il soffitto. È il luogo dell’asfissia, dell’aria viziata, della tosse, dell’affanno, della saliva e del catarro, degli odori acidi che si fanno spessi e grevi”.

In molteplici istituti di pena è innegabile che la vita scorre tra mille angustie e patimenti, poco o nulla concedendo al recupero morale e materiale dei condannati. Comunque, è improcrastinabile una riforma funditus del nostro sistema carcerario, capace di restituire alla vita civile individui il cui patrimonio umano non sia stato definitivamente compromesso. D'altronde, il numero dei detenuti annualmente suicidatisi è la migliore diagnosi per valutare i nostri istituti di pena, onde non può non destare seria preoccupazione la rivolta in atto nelle carceri, con morti, evasioni e devastazioni delle strutture.

Sarebbe errore imperdonabile sottovalutare ancora la estrema pericolosità del problema, pur se non è assolutamente il caso di parlare di amnistia o indulto, ma piuttosto di provvedere anche ad una più efficace tutela della polizia penitenziaria.

 

Genere

Anche quest’anno celebriamo l’8 marzo per ricordare il genere penalizzato, senza fare nulla, ma proprio nulla, perché le donne siano considerate prima di tutto come individui con capacità, intelligenza e uno sguardo necessario, a volte rivoluzionario, sul mondo. Mimose e auguri, dopotutto, impegnano di meno” (Giulia Blasi, “genere”, L’Espresso, n. 11/2020, 7).

19 marzo 2020

 

 

 

 

Prevedere per prevenire

di Salvatore Sfrecola

 

l’infezione da Coronavirus ha messo drammaticamente in luce alcune carenze del sistema sanitario nazionale che tuttavia hanno una rilevanza diversa a seconda delle regioni. Mancano letti nei reparti di terapia intensiva  e non è sempre facile riconvertire a quei fini locali destinati ad ordinaria diligenza. Mancano anche le mascherine che sono indicate come necessarie per contenere il propagarsi dell’infezione in quanto proteggono chi le usa da eventuali virus provenienti da persone presenti nell’ambiente. E, di contro, questi soggetti sono al riparo da colpi di tosse o starnuti di chi, indossando la mascherina, non sparge i virus. Le mascherine mancano, in molti casi, anche per medici ed infermieri, in questo modo esposti all’infezione che possono contrarre o trasmettere.

Naturalmente monta la polemica, che qualcuno vorrebbe rinviare alla fine dell’emergenza, perché non venga meno quello spirito di collaborazione che si è realizzato tra autorità dello Stato e delle Regioni che giustamente è visto come un fatto positivo. Aspettiamo a polemizzare, dunque, considerato che non è dubbio che le carenze denunciate, quelle di cui si è detto, e le altre, come l’insufficienza di medici e infermieri che denuncia una straordinaria incapacità di programmazione (dopo anni in cui le università sono ricorse al numero chiuso dicendo che i medici erano troppi) ovviamente non addebitabile a questo governo o a quello immediatamente precedente. Sono l’effetto di errori di programmazione che risalgono nel tempo e sono la conseguenza di due condizioni negative consuete in questo Paese, la mancata previsione di un evento futuro e incerto, ma non assolutamente improbabile, e la tradizionale disattenzione della politica per la prevenzione, come avviene del resto nella manutenzione delle opere pubbliche, delle infrastrutture o del territorio. In termini politici la prevenzione non paga, è poco visibile soprattutto per un difetto di comunicazione, perché si potrebbe certamente far percepire all’opinione pubblica l’utilità immediata e futura delle opere di manutenzione. Anche perché quei lavori impiegano risorse che giovano a molte imprese e creano occupazione. Inoltre, se si spende per manutenzione è prevedibile che occorrano meno risorse per far fronte a quelle emergenze ambientali ricorrenti che il nostro Paese conosce bene. Insomma, la spesa per manutenzioni libera risorse che dovrebbero essere impiegate per interventi di salvaguardia di persone e di ripristino di realtà civili o industriali danneggiate da gravi disastri ambientali.

Fatta questa premessa, è evidente che i nostri ospedali non potrebbero essere organizzati in modo da disporre di un numero di unità di terapia intensiva quanti ne richiederebbe una grave epidemia come quella che stiamo affrontando in questa stagione, ma è certo che essi sono già in via ordinaria inadeguati. Lo si è sentito dire con riguardo ad alcune realtà come nel caso clamoroso delle Isole Eolie, un gioiello del Mediterraneo, una straordinaria meta turistica che, è stato detto in questi giorni in televisione, dispone di una sola unità di terapia intensiva, evidentemente del tutto insufficiente senza che occorrano ulteriori specificazioni.

È evidente la responsabilità di chi ha il compito di gestire la sanità in sede regionale e di chi, al centro, ha ridotto progressivamente, nel corso degli anni, gli stanziamenti di bilancio destinati al Servizio Sanitario Nazionale. È mancata, così, una ragionevole percezione di una emergenza, da affrontare mediante la disponibilità di strutture idonee ad essere rapidamente riconvertite e adattate all’occorrenza. In sostanza sarebbe stato necessario prevedere che, oltre ai locali specificamente destinati alla terapia intensiva, ve ne fossero altri facilmente adattabili disponendo già di impianti necessari. Logicamente gli ospedali dovrebbero anche sapere dove acquistare le apparecchiature eventualmente occorrenti, preferibilmente da imprese italiane. Ugualmente per le mascherine che mancano e che si è sentito dire vengono acquistate all’estero.

Non è una novità per l’Italia l’incapacità di prevedere le occorrenze. Invito a rileggere il libro di Antonio Salandra, il Presidente del Consiglio che si trovò a gestire l’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915. Nel volume “L’intervento” racconta delle gravi carenze dell’esercito italiano, dai cavalli alle garze per i reparti di sanità che noi compravamo all’estero. Per non dire dei cannoni che acquistavamo dalla tedesca Krupp che, fino alla vigilia, era una potenza legata all’Italia dalla Triplice Alleanza ma che si poteva prevedere, mentre montava l’irredentismo antiaustriaco, che potesse diventare un nemico. Prudenza avrebbe consigliato di disporre se non di fornitori nazionali almeno di industrie di più paesi, in modo da garantirsi i materiali occorrenti.

Per alcune circostanze compensammo con produzioni affidate ad enti militari, come del resto si è detto nei giorni scorsi avrebbe avuto intenzione di fare il Presidente del Consiglio ricorrendo all’Istituto chimico farmaceutico di Firenze, che un tempo forniva le Forze Armate perfino del dentifricio destinato alle rivendite militari. Anche le lenti degli occhiali venivano realizzate in una istituzione dell’esercito con ottimi risultati. Forse la gestione non era economica o forse disturbava la concorrenza. Sta di fatto che quelle realtà sono state in parte smantellate, in parte ridimensionate.

La situazione degli ospedali e degli approvvigionamenti dimostra, come si è verificato in altri casi, che in determinati settori strategici è necessaria una qualificata presenza di pubblico e di privato, da gestire con rispetto delle regole dell’economia e con la saggezza di chi è deputato a valutare, nella prospettiva di eventi possibili o ragionevolmente prevedibili, come far fronte ad una emergenza di rilevante impatto sociale.

In questo modo sarebbe anche possibile contenere le speculazioni che accompagnano sempre la gestione delle emergenze. È un fatto ricorrente. Terremoto, alluvione, frana, oggi infezione, spariscono i ben di cui si ha bisogno, per ricomparire di lì a pochi giorni a prezzi maggiorati. La fretta e l’esigenza di assicurare efficienza spinge a comprare a quei prezzi. Di solito se ne occupa un Commissario governativo che si glorierà di aver fatto tutto subito e bene. E nessuno gli chiederà conto dei prezzi maggiorati. Quando lo Stato avrebbe potuto ricorrere alle requisizioni, magari risarcendo le imprese ai prezzi precedenti all’emergenza.

15 marzo 2020

 

A Vittorio Emanuele II, Re d’Italia nel duecentesimo anniversario della nascita

 

Auguri Maestà, buon compleanno! Con alcuni amici avremmo voluto festeggiare la ricorrenza a Torino, se non lo avesse impedito il diffondersi del Covid-19. E, con l’occasione, presentare un agile volume che raccoglie i contributi di alcuni di noi. Il titolo, “L’Italia in eredità – Il Re galantuomo”, per dire che gli italiani di oggi devono a Vostra Maestà la realizzazione dello stato unitario proclamato quel 17 marzo 1861, quando ha assunto “per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia”. Con una formula, re “per grazia di Dio e per volontà della nazione”, che ne fa un “re eletto” – come scrive il repubblicano Giovanni Spadolini – il quale ricorda anche come Vostra Maestà ambisse essere “soprattutto il re degli italiani, nel senso orleanista del termine, il risultato e quasi il simbolo dello sforzo congiunto dell’iniziativa diplomatica e dell’iniziativa rivoluzionaria”. Cioè di Camillo Benso di Cavour e di Giuseppe Garibaldi, uno straordinario statista e un condottiero capace, come nessun altro, di trascinare in battaglia giovani e vecchi, nobili e borghesi, intellettuali e popolani, provenienti dalle città e dai borghi di ogni angolo d’Italia. Senza dimenticare Giuseppe Mazzini, che ebbe l’onestà intellettuale di riconoscere il ruolo che V.M. aveva assunto negli eventi grandiosi di quella stagione della vita italiana: “Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.

È quello che scrive di V. M. un testimone autorevole e disinteressato, il Conte Karl Friedrich Vitzthum von Eckstädt, Ministro plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele. Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così, personificando il principio nazionale, dominò la situazione… Sacrificò sua figlia e la culla della sua casa, ma tenne al battesimo per sé e per il figlio la nuova Italia, a dispetto del Papa e dell’imperatore”.

Auguri Maestà, che ho imparato a conoscere dal “Sussidiario”, il libro delle scuole elementari che mi ha avvicinato alla storia del Risorgimento, che avrei poi approfondito sui libri della biblioteca di famiglia, costantemente arricchita negli anni della mia maturità.
Il Risorgimento, anzi “il Miracolo del Risorgimento”, come titola un bel libro di un illustre politologo dei miei tempi, il professore Domenico Fisichella. Né altrimenti si potrebbe definire quella prodigiosa combinazione di idee e di azioni, politiche e militari che fu possibile guidare verso l’obiettivo dell’unità nazionale solo grazie all’azione di V. M.. Un miracolo che è impossibile immaginare oggi con una classe politica che appare priva di riferimenti ideali, timorosa perfino di nominare le parole “Patria” o “Nazione”, che richiamano storia e identità, le radici comuni di un popolo la cui grandezza si è nel tempo alimentata della varietà delle esperienze politiche, culturali e umane che hanno portato gli uomini e le donne provenienti dalle più diverse aree del Paese a credere e desiderare di far parte di uno stato unitario, dopo che eravamo “da secoli calpesti, derisi.. perché divisi”. E di esserne orgogliosi.

Nessun popolo, Maestà, può vantare la nostra storia. L’Italia è una grande Nazione. Da Roma, dispensatrice di civiltà, non con la spada, ma con le strade, gli acquedotti e con il diritto, attraverso i secoli nei quali artisti, letterati, uomini di stato e di Chiesa, di pensiero e d’azione si sono imposti all’attenzione del mondo intero.

Concludo questo mio augurio con il ricordo, sinceramente affettuoso, di una donna straordinaria, Vittoria di Hannover, Regina d’Inghilterra che l’ebbe ospite nel dicembre del 1855 per molti giorni nel castello reale di Windsor: “quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui”.

Non so se le autorità della Repubblica, che hanno dimostrato costante insensibilità per le radici culturali e spirituali del nostro popolo, avranno modo di ricordare il Re che fece l’Italia, con una cerimonia pubblica, una corona d’alloro, un francobollo.

Me lo auguro sinceramente perché un popolo senza storia non è capace di immaginare neppure il suo futuro.

Auguri Maestà. Duecento anni portati bene, perché l’insegnamento politico di un Capo di Stato che sappia far convergere con orgoglio e fiducia verso obiettivi comuni la naturale pluralità delle idee, è ancora validissimo.

14 marzo 2020

Salvatore Sfrecola

 

 

 

1820-2020

IL BICENTENARIO DEL RE VITTORIO EMANUELE II DI SAVOIA

di Gianluigi Chiaserotti

 

Cade nel corrente anno il secondo centenario della nascita del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia.

Una delle fondamentali Figure nella storia del Casato e del Risorgimento Italiano.

Vittorio Emanuele (Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso) nacque a Torino il 14 marzo 1820, figlio primogenito del Re Carlo Alberto (1798-1849)  e di Maria Teresa d’Absburgo Lorena (1801-1855).

In seguito ai moti del 1821 i Principi di Carignano si trasferirono in Toscana, ove, il 16 settembre 1822, nella villa granducale di Poggio Imperiale, per poco  venne meno che il piccolo Vittorio perdesse la vita nelle fiamme appiccatesi per l’imprudenza della nutrice, Teresa Zanotti Racca, alla zanzariera del suo letto.

Fu salvo per il sacrificio della nutrice medesima.

Sorse quindi la leggenda che il piccolo principe fosse morto e che fosse stato sostituito da un bambino di origini popolane.

Ciò, a nostro modo di vedere, non poteva assolutamente essere  in quanto la madre, Maria Teresa, aspettava il secondo figlio, Ferdinando Maria Alberto (1822-1855), che sarebbe venuto al mondo il 15 novembre 1822.

Vittorio Emanuele II, come detto, è una fondamentale figura per la Storia d’Italia, ma è per il  decennio ‘48-’59 che va certamente ricordato.

Dopo la “Fatal Novara” [dalla poesia “Miramar” di Giosuè Carducci (1835-1907)], il Re Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele, ed il 29 marzo 1849 il nuovo Re si presentò davanti al Parlamento per pronunciare il giuramento di fedeltà, quindi, il giorno successivo, lo sciolse, indicendo nuove elezioni.

Tali elezioni non espressero una buona Camera, quindi il Re, dopo aver pronunciato il famoso “proclama di Moncalieri” (20 novembre 1849), con cui si invitava il popolo a scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello Stato, sciolse nuovamente il Parlamento, per fare in modo che i nuovi eletti fossero di idee più pragmatiche.

Il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866) e quindi il 9 gennaio 1850 il trattato di pace con l’Austria (a cui il Re teneva molto) venne, infine, ratificato.

Ma ecco che, in questi anni, sorse un astro illuminato.

Fu Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), già candidatosi al Parlamento nell’aprile 1848, ma, non eletto, lo fece nuovamente nelle elezioni suppletive del 26 giugno 1848, e lo fu in ben quattro collegi elettorali, ma optò per quello di Torino.

Il 4 luglio, prese, per la prima volta, la parola alla Camera del Parlamento Subalpino.

Da quel momento la vita del Cavour nuovamente cambiò.

Da gentiluomo di campagna e giornalista, finalmente si immerse nella vita pubblica del suo Piemonte ed, appunto, nel Parlamento Subalpino.

Il Conte vi entrò, pur mantenendo una linea politica indipendente, cosa che non lo escluse da critiche ma che lo mantenne in una situazione di anonimato fino alla proclamazione delle leggi Siccardi [dal nome del Senatore del Regno, Giuseppe (1802-1857) che le propose], che prevedevano l’abolizione di alcuni privilegi relativi alla Chiesa, già abrogati in molti Stati europei.

Vittorio Emanuele fu sottoposto a pesantissime pressioni da parte delle gerarchie ecclesiastiche, affinché non promulgasse quelle leggi considerate “sacrileghe”.

Il Re, che pur non essendo bigotto come il padre era molto superstizioso, dapprincipio promise che si sarebbe opposto alle leggi, scrivendo addirittura una lettera al Papa nella quale rinnovava la sua devozione di cattolico e si ribadiva fiero oppositore di tali provvedimenti.

Tuttavia quando il Parlamento approvò le leggi, si disse dispiaciuto, ma lo Statuto non gli consentiva di opporvisi.

L’attiva partecipazione del Cavour alla discussione sulle leggi ne valse l’interesse pubblico, ed alla morte di Pietro de Rossi di Santarosa (1805-1850), egli divenne nuovo ministro dell’Agricoltura, cui si aggiunse la carica, dal 1851, di ministro delle Finanze del governo d’Azeglio.

Promotore del cosiddetto “connubio” (tra il centrodestra ed il centrosinistra in senso liberale), Cavour divenne il 4 novembre 1852 Presidente del Consiglio del Regno, nonostante l’avversione che Vittorio Emanuele II e d’Azeglio nutrivano nei suoi confronti.

Malgrado l’indiscusso connubio politico, fra i due mai corse grande simpatia, anzi Vittorio Emanuele più volte ne limitò le azioni, arrivando persino a mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali anche di notevole portata.

Però in tutto questo decennio la  storia è più che nota.

Fu, da parte del Cavour, un tessere, giorno per giorno, momento per momento, occasione per occasione, le maglie diplomatiche per l’unificazione dell’Italia sotto la fulgida guida del Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II.

Le occasioni ed i momenti fondamentali furono, senza dubbio: la guerra di Crimea (ottobre 1853-gennaio 1856) e quindi l’appoggio piemontese alla Francia ed al Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord contro la Russia; il conseguente congresso (25 febbraio/16 aprile 1856) e trattato (30 marzo 1856) di Parigi, che sanzionò la sconfitta russa nella guerra di Crimea, ed ove il Conte di Cavour pose abilmente all’attenzione delle potenze europee la questione italiana, ed, infine, gli accordi di Plombières (les-Bains), conclusi il 20 luglio 1858 con l’imperatore dei francesi Napoleone III (1808-1873), i quali prevedevano l’aiuto della Francia al Piemonte per muovere guerra all’Austria, con la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia medesima.

Prima della Guerra di Crimea però il Re disse all’ambasciatore francese: «Se noi fossimo battuti in Crimea, non avremmo altro da fare che ritirarci, ma se saremo vincitori, benissimo! questo varrà per i Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri vogliono aggiungere al trattato [...] se essi non vorranno marciare, io sceglierò altri che marceranno... ».

In un clima internazionale così teso, l’italiano Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III (1808-1873) facendo esplodere tre bombe contro la carrozza imperiale, che rimase illesa, provocando otto morti e centinaia di feriti. Nonostante le aspettative dell’Austria, che sperava nell’avvicinamento di Napoleone III alla sua politica reazionaria, l’Imperatore francese venne convinto abilmente da Cavour che la situazione italiana era giunta a un punto critico e necessitava di un intervento sabaudo.

Fu così che si gettarono le basi per un’alleanza sardo-francese, nonostante le avversità di alcuni ministri di Parigi. Grazie anche all’intercessione di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione (1837-1899) e di Costantino Nigra (1828-1907), i rapporti tra Napoleone e Vittorio Emanuele divennero sempre più prossimi.

La notizia dell’incontro di Plombières trapelò nonostante tutte le precauzioni. Napoleone III non contribuì a mantenere il segreto delle sue intenzioni, se esordì con questa frase all’ambasciatore austriaco: «Sono spiacente che i nostri rapporti non siano più buoni come nel passato; tuttavia, vi prego di comunicare all’Imperatore che i miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono mutati.».

Dieci giorni dopo, il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore», il cui testo originale è conservato nel castello di Sommariva Perno: «Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!».

In Piemonte, immediatamente, accorsero i volontari, convinti che la guerra fosse imminente, ed il Re cominciò ad inviare truppe sul confine lombardo, presso il Ticino.

Ai primi di maggio 1859, Torino poteva disporre sotto le armi di 63.000 uomini. Vittorio Emanuele prese il comando dell’esercito e lasciò il controllo della cittadella di Torino al principe Eugenio di Savoia-Carignano (1816-1888).

Preoccupata dal riarmo sabaudo, l’Austria pose un ultimatum a Vittorio Emanuele II, su richiesta anche dei governi di Londra e di San Pietroburgo, che venne immediatamente respinto.

Ritiratisi gli austriaci da Chivasso, i franco-piemontesi sbaragliarono il corpo d’armata nemico presso Palestro e Magenta, arrivando a Milano il giorno 8 giugno 1859.

Cacciatori delle Alpi, capitanati da Giuseppe Garibaldi (1807-1882), rapidamente occuparono ComoBergamoVarese e Brescia: soltanto 3.500 uomini, male armati, che ormai stavano marciando verso il Trentino. Ormai le forze asburgiche si ritiravano da tutta la Lombardia.

Decisiva fu la battaglia di Solferino e San Martino.

Dopo questa battaglia, moti insurrezionali sorsero un po’ in tutta Italia e Giuseppe Garibaldi, contro il volere del Cavour, ma con l’appoggio del Re, il 5 maggio 1860 partì (con il suoi “1000”) dallo scoglio di Quarto (Genova) e giunse in Sicilia.

Si assicurò l’isola, dopo aver sconfitto l’esercito  borbonico, in nome di «Vittorio Emanuele Re d’Italia».

Già in quelle parole si prefigurava il disegno del Nizzardo, che non si sarebbe certo fermato al solo Regno delle Due Sicilie, ma avrebbe marciato su Roma. Tale prospettiva era contro i progetti piemontesi, che adesso vedevano incombere il pericolo repubblicano e rivoluzionario e, soprattutto, temevano l’intervento di Napoleone III nel Lazio.

Vittorio Emanuele, alla testa delle truppe piemontesi, invase lo Stato Pontificio, sconfiggendone l’esercito nella Battaglia di Castelfidardo. Napoleone III non poteva tollerare l’invasione delle terre papali, e più volte aveva cercato di dissuadere Vittorio Emanuele II dall’invasione delle Marche, comunicandogli, il 9 settembre, che:

«Se davvero le truppe di V. M. entrano negli stati del Santo Padre, sarò costretto ad oppormi [...] Farini mi aveva spiegato ben diversamente la politica di V. M.».

L’incontro con Garibaldi, passato alla storia come “incontro di Teano”, avvenne il 26 ottobre 1860: veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio Emanuele II su tutti i territori di quello che fu il Regno delle Due Sicilie.

Con l’entrata di Vittorio Emanuele a Napoli, la proclamazione del Regno d’Italia divenne imminente.

Rinnovato il parlamento, con Cavour primo ministro, la sua prima seduta, comprendente deputati di tutte le regioni annesse (tramite plebiscito), avvenne il 18 febbraio 1861.

Ed il 17 marzo 1861, nella nobile e suggestiva cornice dell’aula del Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano di Torino, fu proclamato il Regno d’Italia.

La rivoluzione aveva dato forza alla diplomazia, ma, senza quest’ultima, la rivoluzione non avrebbe nulla concluso.

Però codesto spirito rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l’anima di una partito detto “di azione” che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo Stato e di trascinarlo alle più arrischiate avventure.

L’Italia era unificata, ma senza la capitale a Roma l’opera non poteva, non doveva essere completa. Infatti il 25 marzo 1861, il deputato di Bologna, Rodolfo Audinot (1814-1874), tenne alla Camera un vibrante discorso sulla questione romana, che dette lo spunto al Cavour per le sue celebri dichiarazioni e per l’emanazione dell’ordine del giorno con il quale Roma era proclamata capitale d’Italia [“(…) non ci sarebbe stata l’Italia unita se Roma non fosse stata la Capitale”].

Questa fu la formula assunta dal Parlamento per il Regno d’Italia: «Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia. Gli atti del governo e ogni altro atto che debba essere intitolato in nome del Re sarà intestato con la formola seguente: (Il nome del Re) Per Provvidenza divina, per voto della Nazione Re d’Italia».

Dopo la proclamazione del regno non venne cambiato il numerale “II” in favore del titolo “Vittorio Emanuele I d’Italia”.

Il mantenimento del numerale è rimarcato da alcuni storici, e alcuni di questi osservano che questa decisione, a loro giudizio, sottolineerebbe il carattere di estensione del dominio della Casa Savoia sul resto dell’Italia, piuttosto che la nascita ex novo del Regno d’Italia.

A tale riguardo lo storico Antonio Desideri commenta:

«Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele non già re degli Italiani ma «re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione». Secondo non primo (come avrebbe dovuto dirsi) a sottolineare la continuità con il passato, vale a dire il carattere annessionistico della formazione del nuovo Stato, nient’altro che un allargamento degli antichi confini, «una conquista regia» come polemicamente si disse. Che era anche il modo di far intendere agli Italiani che l’Italia si era fatta ad opera della casa Savoia, e che essa si poneva come garante dell’ordine e della stabilità sociale.».

Altri storici osservano che il mantenimento della numerazione era conforme alla tradizione della dinastia sabauda, come accadde ad esempio con Vittorio Amedeo II (1666-1732) che continuò a chiamarsi così anche dopo aver ottenuto il titolo regio (prima di Sicilia e poi di Sardegna).

Quindi la Capitale del Regno fu trasferita da Torino a Firenze.

Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto.

Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d’Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace succeduti alla vittoria prussiana.

Roma rimaneva l’ultimo territorio (con l’eccezione di Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) ancora non inglobato dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l’impegno di difendere lo Stato Pontificio e le sue truppe erano stanziate nei territori pontifici. Vittorio Emanuele stesso non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare o no. Urbano Rattazzi (1808-1873), che era divenuto primo ministro, sperava in una sollevazione degli stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta riportata nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi sull’effettiva riuscita dell’impresa, che poté avvenire solo con la caduta, nel 1870, di Napoleone III.

Il giorno 8 settembre fallì l’ultimo tentativo di ottenere Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il generale Raffaele Cadorna (1815-1897) aprì una breccia nelle mura romane.

Vittorio Emanuele ebbe a dire: «Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l’impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore.».

Con Roma capitale si chiudeva la pagina del Risorgimento.

A fine dicembre dell’anno 1877 Vittorio Emanuele II, amante della caccia ma delicato di polmoni, passò una notte all’addiaccio presso il lago nella sua tenuta  laziale; l’umidità di quell’ambiente gli risultò fatale.

Il 9 gennaio, alle ore 14:30, il Re morì dopo 28 anni e 9 mesi di regno, assistito dai figli ma non dalla moglie morganatica, cui fu impedito di recarsi al capezzale, e dai ministri del Regno.

Poco più di due mesi dopo avrebbe compiuto cinquantotto anni.

Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio che il suo feretro fosse tumulato in Piemonte, nella Basilica di Superga, ma Umberto I (1844-1900), accondiscendendo alle richieste del Comune di Roma, approvò che la salma rimanesse in città, nel Pantheon, nella seconda cappella a destra di chi entra, adiacente cioè a quella con l’”Annunciazione”.

Ed ora qualche citazione conclusiva.

Scrive lo storico Francesco Cognasso (1886-1986) nel suo “Vittorio Emanuele II” (Dall’Oglio 1986, pagg.  342ss.): «Vittorio Emanuele II, come altri creatori del Risorgimento, conservò tutta la sua individualità, la sua umanità, mentre perseguiva il raggiungimento del programma giurato a Novara. Così, tutto il suo regno fu una continua lotta.

Combattè con il d’Azeglio e col Cavour, col Ricasoli e col Minghetti e con tutti gli altri ministri che ebbe sino al 1878, […]. Egli aveva le sue idee e sentiva il dovere di difenderle e di imporle a tutti, non riconoscendo a nessuno il diritto di sovrapporsi a lui, in nome di qualsiasi principio o ideologia democratica o liberale. Egli era il re e della sua sovranità aveva la più perfetta coscienza. Né in lui questa era un’ideologia. Si sentiva superiore a tutti, perché rappresentava la dinastia che da otto secoli governava con l’indipendenza i suoi Paesi, perché sentiva di essere l’erede e il prosecutore dell’opera degli Amedei, di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele, di Vittorio Amedeo, di Carlo Alberto.

Non un’ideologia monarchica, ma tutta la concretezza della tradizione dei re sabaudi.». 

Scrisse il grande storico Gioacchino Volpe (1876-1971):

 «[…] La Monarchia, quella Monarchia rappresentata da quel Casato di antica origine, che nel ‘700 rimase l’unico Casato in certo senso “nazionale” della Penisola, cominciò ad operare, anche senza proporselo, per l’unità, sin da quando, nel ‘600 e ‘700, essa, per difendere il suo Stato o per guadagnare qualche provincia o città della Lombardia, ebbe a fronteggiare stranieri e soltanto stranieri, Spagna o Austria o Francia, richiamando su di sé l’attenzione, la simpatia e qualche speranza di Italiani di ogni paese, stanchi di tanta sarabanda di conquistatori e predoni, e diventando il punto di convergenza loro. […]».

 Ed ancora:

«[…] E il dualismo (Italia monarchica e sabauda e l’Italia di popolo) era poi destinato a scomparire, quasi risolvendosi in forza, nel crescente riconoscimento che la Monarchia era l’unità, era la continuità, era la forza necessaria in un paese che aveva, e per di più poco benevolo, il Papato. […]».

Quindi la monarchia sabauda fu accettata pur di veder realizzata l’Unità d’Italia.

E fu accettata anche in quella Sicilia borbonica, attaccata alle sue tradizioni millenarie. Al riguardo è interessante leggere quel capolavoro di romanzo che è “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957).

Da ultimo espongo un concetto letterario/politico, che ritengo fondamentale, per quanto ho cercato di scrivere fin qui. E’ di Francesco de Sanctis (1817-1883), storico della letteratura italiana e ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo dell’Italia Unita presieduto da Camillo Benso Conte di Cavour (23 marzo 1861/12 giugno 1861). Nella sua opera “Storia della Letteratura Italiana”, che è, pertanto, anche storia dell’intera civiltà italiana dal Medio Evo agli inizi del secolo XIX, vi si trova esposta la sua interpretazione del Risorgimento come risultato della lotta delle due scuole, liberale e democratica. Esse combattendosi aspramente, furono gli elementi necessari di una dialettica feconda dalla quale scaturì l’azione concreta per l’Unità d’Italia.

Nel messaggio (alla Consulta dei Senatori del Regno) del Re Umberto II (1904-1983) del 17 marzo 1961, centesimo anniversario dell’Unità d’Italia, Egli brillantemente scrisse: «[…] L’epica impresa poté grado a grado raggiungere l’altissimo fine, perché il re Vittorio Emanuele II, con a fianco Camillo di Cavour, aveva assunto con mano ferma la direzione e la responsabilità del moto nazionale, coraggiosamente superando difficoltà di ogni genere.

Attorno ad essi sorsero da ogni parte d’Italia – magnifico prodigio – falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei nostri grati cuori.

L’apostolato di Mazzini e l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato di forze confluenti e contrastanti, fuse dalla sintesi costruttiva della Monarchia nazionale. Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso della Patria: così sorse il Regno d’Italia. […]».

 

 

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La IV Sezione del Consiglio di Stato ha chiarito che la costante giurisprudenza amministrativa interpreta l’art. 102, comma 2, c.p.a. – secondo cui l’interventore “può proporre appello soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma” – nel senso che il soggetto interveniente ad adiuvandum nel giudizio di primo grado non è legittimato a  proporre appello in via principale e autonoma, salvo che non abbia un proprio interesse direttamente riferibile alla sua posizione, come nel caso in cui sia stata negata la legittimazione all’intervento o sia stata emessa nei suoi confronti la condanna alle spese giudiziali.

Questa regola di origine giurisprudenziale costituisce il corollario del carattere dipendente dell’interesse dell’interventore ad adiuvandum nel giudizio principale. Tale interesse altro non gli consente che aderire alle censure formulate dal ricorrente, poiché diversamente opinando l’intervento in giudizio potrebbe costituire uno strumento per l’elusione del termine di decadenza (Cons. Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 567).

 

Come uscire dalla crisi

Salvatore Sfrecola in un suo recente articolo (“Per uscire dalla crisi è necessario un Governo che goda di vasto consenso”, in questa Riv., 28 febbraio 2020), ha bene evidenziato che “parte da lontano la crisi economica in questo Paese nel quale mancano infrastrutture viarie, ferroviarie e quelle che l’antica Roma ha insegnato  essere espressione di civiltà, gli acquedotti, perché l’acqua è la civiltà e oggi non viene erogata nella stessa quantità in ogni contrada, soprattutto al Sud e nelle isole. Per non dire delle difficoltà delle imprese, soprattutto delle piccole e medie, appesantite dalla burocrazia, quel male che tiene lontane dall’Italia le imprese straniere. Così come la lentezza delle giustizia che non dà certezze a chi vuole investire od operare nel nostro Paese. La crisi indotta dal coronavirus trova, dunque, un Paese in grosse difficoltà ed altre ne aggiunge perché una gestione dissennata del pericolo sanitario, che ha creato ansia e panico per le spesso improvvide iniziative dei nostri governanti, al di là di ogni ragionevole prudenza, ha aggravato settori dell’economia mai realmente ed efficacemente sostenuti, come la piccola e media impresa ed il turismo del quale si continua ad ignorare la capacità straordinaria di sollecitazione di settori vasti della economia. Oltre che di un apporto significativo all’occupazione, non solamente stagionale”.

“Anche oggi, nonostante le tante delusioni, se un governo forte di un ampio consenso presentasse un piano serio, condiviso e comprensibile gli italiani risponderebbero con entusiasmo. Come sempre è una questione di fiducia, che oggi non c’è perché gli italiani hanno compreso che l’attuale dirigenza politica e governativa, anche quando animata da buona volontà, non è in condizioni di esprimere proposte e programmi necessari al momento storico che il Paese attraversa. Mancano idee, manca soprattutto la conoscenza degli strumenti normativi ed amministrativi ai quali ricorrere per realizzare le iniziative indispensabili allo sviluppo economico del Paese e quindi a sostenere i consumi e l’occupazione”.

Aderiamo toto corde alle suesposte considerazioni.

 

Sanità in emergenza

“Non ci sono bombe e non ci sono trincee. Eppure è una guerra. L’emergenza italiana provocata dal Coronavirus sta mandando migliaia di soldati in camice bianco al fronte, in corsia a combattere il nuovo virus, che fortunatamente non è particolarmente aggressivo, ma ha la capacità di diffondersi rapidamente e soprattutto sta creando il panico fra la popolazione. Per questo ha bisogno di misure sanitarie eccezionali, quindi di un’economia di guerra”.

“Chi ha amministrato il paese negli ultimi anni ha fatto troppi tagli, mettendo a rischio la tenuta di un servizio unico al mondo. Mancano 56.000 medici, 50.000 infermieri e sono stati soppressi 758 reparti in cinque anni. Per la ricerca solo lo 0,2 % degli investimenti. Così la politica ha dissanguato il sistema pubblico, che ora viene chiamato alla guerra” (Gloria Riva, “Eravamo già in emergenza”, L’Espresso, n. 10/2020, 16 ss.).

 

Silenzio

“È il silenzio che propizia l’ascolto.

E dunque chi chiede ai politici di ascoltare dovrebbe anche chiedere loro di tenere a freno l’eccesso di loquacità. Infatti è proprio tutto quel parlare, accavallando di continuo le voci, a rendere troppo distratto il loro ascolto. Mentre il silenzio li renderebbe più attenti e forse anche più simpatici.

Un proverbio spagnolo recita così: siamo schiavi delle nostre parole e padroni dei nostri silenzi. Ma i potenti del nostro tempo sembrano invece inebriati dalla schiavitù delle loro parole. E assai poco padroni dei loro silenzi. Un frastuono di argomenti invade ogni giorno il campo della riflessione politica (e non solo). Con l’effetto di non riuscire più ad ascoltare una voce che nel frattempo non sia diventata anch’essa un rumore quasi molesto” (Marco Follini, “Silenzio”, L’Espresso, n. 8/2020, 7).

 

Gli intoccabili

Giorgio Meletti (il Fatto Quotidiano, 4.2.2019) ha, con cognizione di causa, scritto testualmente che il Consiglio di Stato è un piccolo mondo antico dove poche decine di persone detengono la più impressionante concentrazione di potere oggi esistente in un Paese moderno. Palazzo Spada è un mondo fatato in cui un gruppo di sacerdoti intoccabili le leggi se le scrive, se le interpreta e se le applica.

 

Veni, vidi, vici

Nell’agosto del 47 a.C. Giulio Cesare venne a sapere che Farnace II, re del Ponto, aveva sconfitto il governatore romano della regione e stava tentando di espandere i propri domini. Cesare avanzò quindi verso il nemico nei pressi della città fortificata di Zela, pronto a dare battaglia. Lo scontro che ne seguì fu segnato da un grave errore tattico di Farnace, il quale, sperando di sorprendere il celebre condottiero, si preparò ad attaccare i romani mentre questi presidiavano un’altura. Inizialmente Cesare pensò che Farnace stesse bluffando, poiché nessun nemico dotato di un minimo di senno avrebbe scelto di affrontarlo in condizioni così sfavorevoli. Ma il re pontico, ignorando la conformazione del terreno a lui ostile e qualunque logica di guerra,  caricò l’esercito romano a testa bassa, rimediando il totale annientamento della propria armata. La vittoria di Cesare, nel suo complesso, fu fulminea e definitiva e, come racconta Plutarco, nell’annunziare a Roma la prontezza e la rapidità di questa battaglia, Cesare scrisse al suo amico Mazio tre sole parole: “veni, vidi, vici” (Costantino Andrea De Luca, “Pillole di storia antica”, Roma, 2019, n. 242, 232).

12 marzo 2020

 

 

 

 

Oltre la crisi economica in conseguenza dell’infezione da Covid19

Un prestito nazionale per crescita e sviluppo

di Salvatore Sfrecola

 

L’affacciarsi del Coronavirus ha richiesto misure di contenimento dell’infezione, probabilmente ancora da perfezionare, e di gestione dell’emergenza sanitaria che ha dimostrato la sua fragilità per quanto attiene all’assistenza ai malati più gravi, soprattutto se bisognevoli di degenza in terapia intensiva. La scriteriata riduzione dei fondi che ha caratterizzato gli anni scorsi, con conseguente chiusura di ospedali e l’eliminazione di posti letto, dimostra che la nostra sanità, pur eccellente quanto a livello delle prestazioni, non ha un piano per le emergenze, di nessun genere, naturalmente da implementare all’occasione.

Una emergenza delle dimensioni che ci fornisce giornalmente il bollettino della Protezione Civile ci dice che la diffusione dell’infezione ha conseguenze sull’economia, spesso gravissime. Non solamente per il turismo, una realtà della quale la politica stenta a percepire la reale portata sul Pil e sull’occupazione, ma per vasti settori delle piccole e medie imprese, che hanno dovuto ridurre le produzioni e perduto commesse, con conseguenze gravissime perché la clientela non si recupera facilmente.

Occorre, dunque, un impegno rilevante del Governo per far fronte all’emergenza economica e favorire la ripresa delle produzioni e dei commerci quando l’infezione da Coronavirus sarà passata. L’impegno finanziario straordinario che spesso si sente evocare nei discorsi dei politici, rimane sempre sulla carta, come gli stanziamenti dei quali si favoleggia, trascurando che, anche quando disponibili, certe risorse non sempre possono essere utilizzate in tempi brevi, in assenza di progetti e contratti o, se esistenti, della loro concreta realizzabilità, naturalmente conciliando celerità e legalità.

Sul tema dell’esigenza di un intervento straordinario dello Stato, da tempo richiesto in considerazione che da anni l’economia non cresce, è intervenuto in un’intervista a La Verità il professore Giulio Sapelli. “In certi momenti, come ci insegnano biblioteche intere si storia – ha spiegato -, indebitarsi è l’unico modo per innescare il Pil per la crescita. La crisi dei consumi interni non colpisce gli ultimi, ma i penultimi”. Ma come indebitarsi e con quali finalità? Nei mesi scorsi Matteo Salvini si è attirato molte e pesanti le critiche per aver immaginato di recuperare risorse per un grande piano di investimenti pubblici ricorrendo alle somme che gli italiani tengono nelle cassette di sicurezza, una ricchezza del Paese che, al momento, non produce sviluppo e lavoro e, pertanto, neppure considerata in sede di valutazione del peso dell’indebitamento pubblico sugli equilibri finanziari del Paese. Non spiegò allora Salvini se voleva tassare quelle risorse, una ricchezza che esubera rispetto all’ordinario risparmio con il quale gli italiani investono prevalentemente comprando case per sé e per i figli, prime case e case di vacanza.

Come far emergere, dunque, senza ricorrere alle “maniere forti” (tassandole), le disponibilità conservate in contanti per farne la base di un grande investimento pubblico in infrastrutture soprattutto viarie e ferroviarie, delle quali alcune regioni meridionali e insulari sono da tempo estremamente carenti. Ma anche nella manutenzione degli acquedotti e nella tutela dell’assetto idrogeologico del territorio che, trascurato, richiede di anno in anno spese straordinarie per soccorrere in emergenza le persone che hanno perduto le abitazioni e le aziende. Ugualmente richiede risorse la tutela dell’immenso patrimonio boschivo, necessario all’ambiente e all’economia, spesso devastato dalle fiamme quasi mai spontanee.

Il Professore Sapelli suggeriva di ricorrere alla storia, senza fare un esempio specifico. Lo facciamo noi. È accaduto nel corso della Grande Guerra, quando il governo chiese agli italiani di sottoscrivere prestiti per le esigenze delle forze armate e i nostri nonni non esitarono, già nel 1915 e poi nel 1916, 1917 e 1918. Lo ricorda bene Luigi Einaudi, sottolineando sul Corriere della Sera del 12 gennaio 1915 come quei prestiti siano stati prontamente sottoscritti in misura di gran lunga maggiore rispetto ai titoli offerti, a dimostrazione che nel Paese esistevano “ancora forti masse di risparmio disponibile, costituenti una riserva, la quale dovrà venir fuori in caso di bisogno”. “È stata la fiducia dei molti, della gente che ha fede nella parola dello stato, e che non teme di affidargli la propria piccola fortuna”, precisava il grande economista. E lo Stato si addossò l’onere della restituzione dilazionandola nel tempo in modo che l’equilibrio della finanza pubblica non fosse compromessa.

Si potrebbe oggi, in una fase difficile della nostra economia, ferma da anni e aggravata ulteriormente dalla crisi in atto, chiedere ai cittadini di sottoscrivere un prestito straordinario per un grande programma di investimenti pubblici per lo sviluppo economico del Paese? Ne risentirebbe positivamente l’industria delle costruzioni e sarebbero assicurati posti di lavoro in misura rilevante. Lo Stato si gioverebbe anche di significativi ritorni di carattere tributario, per l’Iva sulle lavorazioni, per l’Irpef sui redditi dei nuovi lavoratori e sugli utili delle imprese.

Con un grande impegno nel settore delle infrastrutture l’Italia farebbe un passo avanti straordinario. Ed ancora una volta giova riandare alla storia, a quello straordinario articolo di Camillo Benso di Cavour, pubblicato sulla parigina Revue Nouvelle il 1° maggio 1846, nel quale auspicava che le ferrovie non solo unificassero l’Italia, allora divisa in sette piccoli stati, ma ne assicurassero lo sviluppo mediante la facilitazione dei commerci dal Sud al Nord e da qui in Europa e portassero ricchezza attraverso il turismo, la cui importanza era già allora percepibile. Quel geniale uomo di governo aveva anche immaginato che l’Italia, in ragione della sua posizione geografica nel Mediterraneo, sarebbe stata la porta dell’Europa sul medio e l’estremo oriente. Aggiungendo che dai porti di Napoli e Palermo sarebbero transitate le merci europee per la Cina. Profetico e inascoltato!

Un grande prestito dunque. Ma il governo oggi gode di quella “fiducia” che i nostri nonni ebbero cento anni fa? I sondaggi ci dicono che la fiducia nel Governo Conte sia in netto calo, anche per il modo, a volte approssimativo e incerto, col quale viene gestita l’emergenza Coronavirus.

11 marzo 2020

 

 

 

Orgoglio e pregiudizi

di Salvatore Sfrecola

 

Scrivendo sul Corriere della Sera di ieri del “Senso di orgoglio di un Paese ammalato”, a proposito di come gli italiani reagiscono all’epidemia di coronavirus, Ernesto Galli della Loggia sostiene che “siamo abituati a essere stigmatizzati, anche perché siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi”. Eppure siamo un grande popolo, non solo perché da duemilacinquecento anni l’Italia “riesce a stare sul palcoscenico della storia” per il genio dei suoi abitanti che nel tempo si sono distinti come artisti, letterati, uomini di Stato e d’armi, ma anche perché “ ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o semplicemente belli, che esportiamo dappertutto”.

Non siamo “nazionalisti”, anche perché le vecchie generazioni hanno vissuto gli effetti negativi della esasperazione del culto della Patria, al punto da doversene quasi vergognare, e alle nuove è stato inibito anche di parlarne, di coltivare ed esibire quella identità nazionale che in altre nazioni è parte ordinaria del quotidiano, come nel Regno Unito o nelle altre Monarchie democratiche d’Europa, o laddove accompagna la ricostruzione di una identità storica perduta, come nella Russia di Putin che offre ai giovani, inariditi dai troppi anni di comunismo, l’epopea degli Zar e dell’impero che è stato parte essenziale della storia del Continente.

Non siamo nazionalisti, scrive Galli della Loggia, ma nei momenti difficili, come quello che viviamo per effetto del coronavirus che sta modificando le nostre quotidiane abitudini di vita e di lavoro, emerge il “sentimento oscuro di appartenenza ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia”. È un “sentimento di identificazione con il nostro Paese” che, a lungo “nascosto”, emerge nei momenti difficili. Galli della Loggia non lo vuole definire “patriottismo”, che giudica parola “grande e impegnativa”. Lo condizionano evidentemente i lunghi anni nei quali la politica e la cultura, a tutti i livelli, hanno volutamente ignorato o apertamente rimosso parti fondamentali della nostra storia, principalmente di quella a noi più vicina, che chiamiamo Risorgimento, e che, sull’onda del pensiero liberale incarnato dai moti rivoluzionari del 1821 e del 1848, ha condotto alla formazione dello Stato nazionale che ardentemente desideravano quanti, dopo secoli di servaggio, non volevano più essere “calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”, come recita il poeta Goffredo Mameli nel Canto degli italiani, l’Inno nazionale.

Patria non si può dire, dunque, meglio parlare di “sentimento oscuro di appartenenza”, che gli somiglia ma non troppo, e così, accanto all’orgoglio, nel quale di tanto in tanto gli italiani ritrovano, magari solo perché l’Inno nazionale accompagna un atleta sul podio, ci sono dei pregiudizi duri a morire che dal 1946 hanno voluto cancellare una parte della storia d’Italia, sicché, già prima che le cronache del Coronavirus occupassero le prime pagine die giornali, sembra passare in sordina il bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele II (14 marzo 1842), il Re che ha reso possibile all’azione politico diplomatica di Cavour e all’impeto patriottico di Garibaldi di concorrere efficacemente all’unità, laddove in assenza del sovrano sabaudo i due si sarebbero scontrati con effetti paralizzanti. Lo ha intuito un fine diplomatico, Vitzthum von Eckstädt, Ministro plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele. Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così, personificando il principio nazionale, dominò la situazione e rimase dittatore sino alla fine della sua vita”.

Per ricordarlo occorre rimuovere un pregiudizio verso la monarchia e verso un sovrano che piaceva allora e piacerebbe oggi agli italiani perché era come molti di noi, coraggioso, spavaldo, bravo cacciatore, ottimo cavallerizzo, un po’ donnaiolo, ma attento alla famiglia ed alla religione.

9 marzo 2020

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La Sezione, pronunciandosi sulla decorrenza delle dies a quo per impugnare un titolo edilizio, ha evidenziato che il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti la violazione delle distanze; viceversa decorre dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo manufatto (Cons. Stato, Sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 962).

 

Durare per fare cosa?

“Sono le contraddizioni e le forzature di un sistema politico bloccato e al tempo stesso litigioso, di un frenetico immobilismo, si potrebbe dire, se non fosse che a pagare, come sempre, è un paese bloccato sulla crescita, cui si aggiunge il coronavirus che rischia di essere letale per la produzione e per i commerci mondiali, oltre che per la bassissima curva dell’economia italiana in questi primi mesi dell’anno. Nel Palazzo va così in scena la resa dei conti tra un leader ancora forte ma sconfitto come Salvini e un premier come Conte che teorizza la staticità come condizione per durare… Sì, ma poi durare per fare cosa? Questo governo ha un orizzonte temporale, la fine della legislatura (2023) o almeno l’elezione del capo dello Stato (gennaio 2022), ma non ha un orizzonte politico. E non ha una missione di governo, paragonabile a quella che fu l’ingresso nell’euro dei governi dell’Ulivo o al salvataggio dei conti pubblici della strana maggioranza che sorresse Mario Monti. Non è un governo tecnico e neppure politico, è un governo di gestione dell’esistente. Un governo di attualità immediata, e non di attualità permanente… L’attualità immediata è ciò che accade, il giorno per giorno, la superficie delle cose. L’attualità permanente sono i problemi strutturali del Paese: l’efficienza della pubblica amministrazione, la produttività delle imprese, la qualità della classe dirigente, il nostro sistema di istruzione. E poi la crisi demografica, l’immigrazione che non è mai stata e non può essere considerata un’emergenza ma è una grande questione del secolo e l’emigrazione dei giovani italiani all’estero, il ruolo dell’Italia nel mondo…In ognuna di queste questioni, non esclusa l’emergenza coronavirus, il governo Conte si muove spinto dall’attualità immediata, così istantanea che si può addirittura rinviare, e non affronta l’attualità permanente”. (Marco Damilano, “Un frenetico immobilismo”, L’Espresso, n. 8/2020, 10 ss.).

 

In libreria

È stato di recente pubblicato il volume di Francesco Borgonovo “Contro l’onda che sale” (Milano, 2020), vicedirettore de La Verità.

Da mesi non si parla d’altro che del movimento delle sardine.

Ma chi sono questi movimentisti? “Ingenui, sognatori, sopravvalutati o semplicemente eredi delle ormai vuote forme partitiche”?

Francesco Borgonovo ne “svela le contraddizioni e l’assenza di una vera e propria strategia politica. Il loro protagonismo mediatico nasconde i contenuti, il loro essere contro qualcosa li priva di una proposta reale e coerente, che è quello su cui la politica investe, o dovrebbe investire, i suoi sforzi”.

“Una cosa giusta e vera l’hanno detta, bisogna dargliene atto. L’hanno proclamata la prima volta dal palco di piazza San Giovanni, a Roma, il 14 dicembre 2019 e il capo carismatico del movimento lo ha ribadito in più occasioni: le sardine non esistono”.

La verità, quindi, è che le sardine non esistono e non esistono come fenomeno spontaneo. “Non stiamo assistendo a un nuovo Sessantotto o a un Settantasette. Non c’è nemmeno, nell’aria, l’elettricità rivoluzionaria che animava i cosiddetti No Global nei primi anni duemila. C’è, semplicemente, una fazione politica, la sinistra italiana o quel che ne rimane… In fondo, tutto il caso sardine è frutto di una gigantesca sopravvalutazione”.

“Le sardine non esistono. Ma per mesi hanno continuato a confondere le acque, rivelandosi una delle maggiori mistificazioni degli ultimi anni”.

“Ma se le sardine non esistono e sono così poco rappresentative, perché scrivere un libro su di loro? Intanto perché la bolla mediatica merita di essere sgonfiata. Ma la ragione più rilevante è un’altra: le sardine non rappresentano il popolo, ma sono comunque una delle più visibili manifestazioni di tanti vizi antichi della sinistra italiana. Sono l’espressione potente di una cultura basata sulla demonizzazione dell’avversario, sulla superiorità morale e intellettuale, sul pregiudizio elevato a pensiero politico. Per questo vanno combattute. Le sardine non esistono, ma fanno danni”.

 

Avanti, ma senza meta

“Il Pd va avanti, ma senza meta, e gli allori con il tempo si seccano. Quali che siano le sorti del Conte bis, che insomma ci siano o no crisi e voto, Zingaretti non può più eludere un chiarimento sui valori, sull’identità, sulle priorità del partito, e sul presente e il futuro dell’alleanza con i grillini: mentre 5S e Renzi possono persino beneficiare dell’ambiguità, in questo pantano di incertezze il Pd rischia di perdersi. Chiudendosi su se stesso”.

Occorrono “messaggi forti e convincenti su lavoro, crescita economica, migranti, diritti, tutela dei non garantiti. Temi sui quali troppo spesso si tace, o si va a rimorchio” (Bruno Manfrellotto, “Questo Pd va avanti, ma senza meta”, L’Espresso, n. 8/2020, 42 s.).

 

Il coronavirus: questo sconosciuto

Il coronavirus ha richiamato alla mente i primi indizi della peste che funestò Milano e, poi, buona parte dell’Italia, cui Alessandro Manzoni, ne “I promessi sposi”, dedicò ampio spazio.

La furia del contagio andò sempre crescendo”, senza che venissero adottate adeguate contromisure. “E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera… La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca… Non trovò che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore”.

Poi, com’è noto, la peste dilagò mietendo un gran numero di vittime, fin quando una copiosa pioggia non portò via il contagio.

Il coronavirus, benché di origine non ancora meglio identificata, confidiamo che venga presto e bene reso inoffensivo, anche se i contagi, a tutt’oggi, non accennano a diminuire.

 

Massimo Stipo non è più tra noi

Piangiamo, con profonda commozione, la scomparsa dell’autorevole amico Prof. Massimo Stipo, ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

6 marzo 2020

 

Cari Amici,

a causa della direttiva del Governo, che sospende le manifestazioni e gli eventi "svolti in ogni luogo, sia pubblico, sia privato, che comportano affollamento di persone", la conversazione programmata dal Circolo Rex per l'8 marzo alle ore 10,30 sul tema “Vittorio Emanuele II, alla Corte di Londra, affascina la Regina Vittoria”, nel corso della quale mi ripromettevo di affrontare anche alcuni passaggi fondamentali del Risorgimento, è rinviata. Auguro a tutti una splendida domenica

 

 

 

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

72° Ciclo di Conferenze 2019- 2020 – Seconda Parte

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“Nell’Inghilterra in mille anni è stato un susseguirsi di dinastie, egualmente in Francia ed in Spagna, solo la dinastia sabauda, prima Conti, poi Duchi ed infine Re ho regnato ininterrottamente per mille anni , acquisendo un prestigio superiore alle dimensioni territoriali dei loro Stati. Questo prestigio è stato determinante nella soluzione unitaria monarchica del Risorgimento e nella proclamazione del Regno d’Italia. Di questo tratterà il

 

Professore Avvocato Salvatore SFRECOLA

Domenica 8 marzo alle ore 10,30

“Vittorio Emanuele II, alla Corte di Londra, affascina la Regina Vittoria”

Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a Roma”

 

Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, e “52”

 

Nota: in sala saranno disponibili copie del recente volume “La solitudine del RE”, edizioni Helicon, presentato al REX, domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, nei lunghi anni dell’esilio, e di “Dittatura e Monarchia - L’Italia tra le due guerre”, editore Pagine, fondamentale opera storica del professore Domenico Fisichella.

 

 

Per uscire dalla crisi è necessario un Governo che goda di vasto consenso

di Salvatore Sfrecola

 

Parte da lontano la crisi economica in questo Paese nel quale mancano infrastrutture viarie, ferroviarie e quelle che l’antica Roma ha insegnato  essere espressione di civiltà, gli acquedotti, perché l’acqua è la civiltà e oggi non viene erogata nella stessa quantità in ogni contrada, soprattutto al Sud e nelle isole. Per non dire delle difficoltà delle imprese, soprattutto delle piccole e medie, appesantite dalla burocrazia, quel male che tiene lontane dall’Italia le imprese straniere. Così come la lentezza delle giustizia che non dà certezze a chi vuole investire od operare nel nostro Paese.

La crisi indotta dal coronavirus trova, dunque, un Paese in grosse difficoltà ed altre ne aggiunge perché una gestione dissennata del pericolo sanitario, che ha creato ansia e panico per le spesso improvvide iniziative dei nostri governanti, al di là di ogni ragionevole prudenza, ha aggravato settori dell’economia mai realmente ed efficacemente sostenuti, come la piccola e media impresa ed il turismo del quale si continua ad ignorare la capacità straordinaria di sollecitazione di settori vasti della economia. Oltre che di un apporto significativo all’occupazione, non solamente stagionale.

Di fronte a questa situazione di generale sofferenza cosa fa il governo? Balbetta e procede a tentoni sulla via di una risposta all’infezione virale in termini di grande incertezza e contraddittorietà. Dimostra di non avere un piano predisposto, sia pure nelle grandi linee, per affrontarla. E va a tentoni come riferiscono i giornali e le televisioni. Non accade così all’estero. E, di fronte al grido di allarme delle categorie produttive preoccupate per il calo delle commesse, che nel turismo significa disdette di prenotazioni alberghiere per le festività pasquali e già anche per la stagione estiva, il Ministro dell’economia, l’ineffabile Roberto Gualtieri, associato di storia contemporanea, che si è inventato economista per aver frequentato per alcuni anni la Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo, racconta di risorse stanziate qua e là, gocce d’acqua nel mare di una economia che da anni non cresce. È la solita politica degli aiuti a pioggia che ben poco riescono ad incidere sulla reale situazione del Paese. Eppure sarebbe possibile, da un lato, presentare in sede di Commissione europea un piano straordinario di interventi infrastrutturali dei quali l’Italia ha estremo bisogno per sovvenire alle esigenze di sviluppo di alcune aree, soprattutto al Sud e nelle isole (una boccata d’ossigeno per l’ILVA, che produce quell’acciaio che serve per ampliare la rete dell’alta velocità e rafforzare ponti e viadotti), dall’altro, mobilitare risorse private che potrebbero essere acquisite al pubblico erario mediante un prestito straordinario al quale certamente di italiani aderirebbero se ci fosse un governo che fosse capace di stimolare fiducia nei cittadini. Ricorda Luigi Einaudi che quando il governo chiese agli italiani di sottoscrivere prestiti per far fronte alle spese della Grande guerra i nostri nonni aderirono immediatamente ed in misura maggiore rispetto alla richiesta. Quello Stato, quel governo, riscuotevano la fiducia dei cittadini anche nei momenti difficili, nonostante il protrarsi delle operazioni militari e il grosso tributo di sangue che coinvolse la maggior parte delle famiglie italiane. Anche dopo Caporetto nelle città e nei borghi lungo tutto lo stivale gli italiani corsero a sottoscrivere i prestiti per assicurare le risorse necessarie ai padri e ai fratelli impegnati al fronte. Sono certo che anche oggi, nonostante le tante delusioni, se un governo forte di un ampio consenso presentasse un piano serio, condiviso e comprensibile gli italiani risponderebbero con entusiasmo. Come sempre è una questione di fiducia, che oggi non c’è perché gli italiani hanno compreso che l’attuale dirigenza politica e governativa, anche quando animata da buona volontà, non è in condizioni di esprimere proposte e programmi necessari al momento storico che il Paese attraversa. Mancano idee, manca soprattutto la conoscenza degli strumenti normativi ed amministrativi ai quali ricorrere per realizzare le iniziative indispensabili allo sviluppo economico del Paese e quindi a sostenere i consumi e l’occupazione.

28 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Inno nazionale, tra storia e realtà

di Salvatore Sfrecola

 

L’Inno nazionale non si tocca. “Le nazioni sicure di sé non discutono il proprio inno”, scrive Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di ieri in risposta ad un lettore che lo ha intrattenuto sul ricorrente tema della sostituzione dell’inno nazionale, l’Inno degli Italiani, più noto come Fratelli d’italia, dalla prima strofa, con altre musiche. Ricorda che era stato proposto dalla Lega Nord “Va pensiero”, il famoso coro del Nabucco. Concordo con Cazzullo, gli inni, il nostro, la Marsigliese, God save the Queen, la Marcha Real spagnola, il Deutschland über alles, di Franz Joseph Haydn, The Star Spangled Banner (la bandiere adorna le stelle) sono parte della storia dei popoli, scritti e diffusi in un momento particolare, forse lontano, ma rimangono nella mente e nel cuore dei cittadini, almeno di quanti hanno il senso della identità. Il lettore del Corriere ricorda anche che fu suggerito l’Inno a Roma, parole di Orazio Flacco Quinto, traduzione di Giovanni Pascoli, musicato da Giacomo Puccini. Si sveglierebbe il solito antifascista dal salotto per dire che quelle note potrebbero ricordare il regime fascista. Orazio di certo non lo era. Nato a Venosa il 65 a.C. non è dubitabile di simpatie per Benito Mussolini, come Pascoli, socialista, che ha tradotto il testo nel 1911, come Puccini. Ma quell’inno fu valorizzato dal Duce e questo basta.

Quanto a Va pensiero, Giuseppe Verdi era sicuramente un patriota a tutto tondo, a differenza di Umberto Bossi che quella musica voleva elevare a simbolo degli abitanti del Nord soggetti alla tirannia di “Roma ladrona”. Una melodia bellissima, struggente, come può essere il canto degli ebrei in esilio. Ma di una tristezza della quale non abbiamo bisogno. Teniamoci il più modesto (sul piano artistico) Inno scritto dal patriota Goffredo Mameli, musicato da Michele Novaro nel 1847, perché fra l’altro ci ricorda che “Noi siamo da secoli, calpesti derisi, perché non siamo popolo, perché siamo divisi”. Forse possiamo trarne motivi per rinsaldare il senso dell’unità, allontanando quelle assurde diatribe tra savoiardi e borbonici, se non altro nell’anno nel quale ricordiamo i 200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II il Re che ha fatto l’Italia. Perché è certo che senza di lui il genio politico diplomatico del conte di Cavour, l’impeto rivoluzionario e patriottico di Giuseppe Garibaldi, il pensiero elevato alla religione della patria di Giuseppe Mazzini non avrebbero portato all’unificazione del nostro Paese. Eppure del Padre della Patria non si sente dire che sarà celebrato ufficialmente dalle autorità dello Stato repubblicano. Non si sa neppure se ne farà cenno Sergio Mattarella magari dicendo del re “di allora”, per non riconoscere quei meriti che la storia non ha fatto mancare al primo Re d’Italia.

27 febbraio 2020

 

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

Ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., si chiede all’Adunanza Plenaria:

a) se i documenti reddituali (le dichiarazioni dei redditi e le certificazioni reddituali), patrimoniali (i contratti di locazione immobiliare a terzi) e finanziari (gli atti, i dati e le informazioni contenuti nell’Archivio dell’Anagrafe tributaria e le comunicazioni provenienti dagli operatori finanziari) siano qualificabili quali documenti e atti accessibili ai sensi dell’art. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990; b) in caso positivo, quali siano i rapporti tra la disciplina generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi ex lege n. 241/1990 e le norme processuali civilistiche previste per l’acquisizione dei documenti amministrativi al processo; c) in particolare, se il diritto di accesso ai documenti amministrativi ai sensi della legge n. 241/1990 sia esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle menzionate norme processuali civilistiche, o anche, eventualmente, concorrendo con le stesse; d) ovvero se, all’opposto, la previsione da parte dell’ordinamento di determinati metodi di acquisizione, in funzione probatoria di documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, escluda o precluda l’azionabilità del rimedio dell’accesso ai medesimi secondo la disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990; e) nell’ipotesi in cui si riconosca l’accessibilità agli atti detenuti dall’Agenzia delle Entrate, in quali modalità va consentito l’accesso: se nella forma della sola visione, ovvero anche in quella dell’estrazione della copia, ovvero ancora per via telematica (Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2020, n. 888, con commento di Licia Grassucci, “Accessibilità ai documenti reddituali, patrimoniali e finanziari detenuti dall’Agenzia delle entrate: quesito all’Adunanza Plenaria”, in www.Italiappalti.it, 11 febbraio 2020). 

 

Un Premier colibrì

“Il Grande Cratere della legislatura, il buco nero al centro dell’emiciclo parlamentare rappresentato dalle anime morte casaleggiane, è il punto interrogativo delle prossime settimane e riguarda in prima persona il futuro del governo e del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il voto in Emilia Romagna lo ha rafforzato, almeno in apparenza, ma ha fatto anche aumentare le contraddizioni della maggioranza. Conte rischia di perdere il suo ruolo di mediazione e di garante tra Pd e M5S, con il Movimento che tra Camera e Senato è amorfo, non più vitale. Per questo si propone come il capo del fronte anti-destre, ma rifiuta di rivelare per chi avrebbe votato in ER, rifugiandosi nel voto disgiunto. Mi è venuto da paragonarlo al Colibrì del romanzo di Sandro Veronesi, che impiega tutte le sue energie nel restare fermo, settanta battiti d’ala al secondo per rimanere già dove si trova. Il premier Colibrì, però, restando fermo rischia di precipitare” (Marco Damilano, “Chi ha resistito”, L’Espresso, n. 6/2020, 10 ss.).

 

Un movimento in dissolvenza

“Mai successo: il partito di maggioranza in Parlamento non esiste più nell’elettorato”. Inizia così l’arguto e documentato articolo di Susanna Turco.

“Sono fantasmi. Sono come fuochi d’artificio. Ma cosa faranno adesso? Stile incidente stradale. Lo sbando dei Cinque stelle in mano al provvisorio duo Vito Crimi (ormai gerarca minimo, date le percentuali) e Alfonso Buonafede (acclamato capo-delegazione vista la sfolgorante prova da Guardasigilli capace di confondere colpa con dolo, 41bis con 416bis), lo sbando si diceva è così spettacolare nelle proporzioni da innescare un fenomeno nel fenomeno: mentre i voti degli elettori crollano a picco, nei mondi che contano non si parla d’altro. Si tratta d’altra parte del primo partito in Parlamento, e non è mai accaduto che si rimpicciolisse così tanto, in così poco tempo, senza eventi traumatici esterni come fu Tangentopoli per i partiti della prima Repubblica” (Susanna Turco, “Fuochi fatui a Montecitorio”, L’Espresso, n. 6/2020, 42 ss.).

 

Nuovamente Bibbiano

La vicenda di Bibbiano non può assolutamente, data la sua indubbia gravità, essere ridotta ad uno scontro elettorale tra opposte fazioni.

La magistratura è già adeguatamente intervenuta e non possiamo che attendere fiduciosi le decisioni finali.

La posta in gioco, cioè a dire la tutela dei minori, bene primario di una società civile, non deve consentire interferenze o sviamenti di sorta specie riguardo allo spinoso problema degli affidi.

 

Metropolitana senza pace

La manutenzione degli impianti della metropolitana romana lascia ancora molto a desiderare, anche se ciò non sorprende più di tanto considerato lo stato di generale degrado in cui versa la Capitale d’Italia, sommersa dai rifiuti e con un sistema viario dissestato, cosparso di buche e cedimenti pericolosi.

 

Vana attesa

L’attuale governo regge con l’incubo di nuove elezioni.

 

Chi governa

Quella che attualmente governa è una maggioranza di minoranze.

27 febbraio 2020

 

 

 

 

La vulnerabilità della Repubblica

di Domenico Giglio

 

L’elezione di Trump fu veramente condizionata dalla Russia? La Clinton fu effettivamente penalizzata? Di questo si è parlato anche troppo senza avere una risposta certa, ma adesso, riproponendosi il problema negli USA delle elezioni presidenziali si parla di appoggio russo a Sanders, il candidato democratico più di sinistra, addirittura “socialista”, la cui candidatura aiuterebbe indirettamente Trump, allontanando dai democratici l’elettorato moderato. A questo si aggiunge ora la notizia che i cinesi sono riusciti ad impadronirsi di quarantacinque milioni di nominativi di cittadini statunitensi di cui possono fare l’uso che vogliono. Fermiamoci un attimo a riflettere. E se facessero lo stesso in occasione delle elezioni presidenziali in Francia o negli altri paesi dove l’elezione del capo dello stato, non avviene in sede parlamentare, ma nella forma diretta, pur considerando gli USA una elezione diretta, mentre in realtà contano i voti degli “stati”, i cui delegati vengono conquistati in forma “diretta” dagli elettori. Questa vulnerabilità della elezione diretta del capo dello stato, anche in paesi come l’Italia, dove viene propagandata in alternativa alla forma attuale, ”camere riunite più rappresentanti regioni”, potrebbe portare a risultati imprevedibili per cui la proposta “monarchica”, dimostra la sua validità. Si può cambiare un erede al trono? Putin potrebbe boicottare l’ascesa di Carlo, il giorno in cui la regina Elisabetta, decidesse di ritirarsi? Così per gli altri regni esistenti. Certamente potrebbero essere fomentate campagne di stampa denigratorie e pubblicazioni di fatti incresciosi, ma il Principe Carlo rimarrebbe sempre l’erede, o potrebbe, al massimo, passare il trono al Principe Guglielmo, e la monarchia rimarrebbe integra e per decenni, il Re resterebbe al potere e nessun pettegolezzo, una volta subentrato potrebbe toccarlo, specie se proveniente dall’estero, perché provocherebbe un maggiore attaccamento da parte dei cittadini, che si stringerebbero maggiormente intorno al Trono. Quindi anche nel ventunesimo secolo le Monarchie hanno dei punti di forza, ai quali qualche decennio or sono non si pensava, da non sottovalutare.

24 febbraio 2020

 

 

Re e Parlamento

di Giuseppe Borgioli

 

Nella follia della crisi politica italiana c’è una logica di fondo.  Il sistema repubblicano non funziona.  Il Parlamento è condannato alla paralisi. Il governo va rimorchio del parlamento venendo meno alla funzione di propulsore.  In queste condizioni   il leader di Italia viva Matteo Renzi (per calcolo politico o in buonafede?) ha recentemente rilanciato la proposta (non nuova) di eleggere direttamente il presidente del consiglio, con la formula invitante del sindaco degli Italiani. Va detto che la legge elettorale in uso nei comuni è forse l’unica che funzioni riuscendo a selezionare una classe dirigente di sindaci che, nel bene come nel male, hanno mantenuto un filo diretto con i cittadini al di fuori delle logore formule partitiche. Nel caso in esame del presidente del consiglio cosa significa la elezione diretta e quale rapporto si verrebbe a instaurare con il parlamento? È lo stesso dilemma che riguarda il presidenzialismo. Cosa cambierebbe con la elezione diretta del presidente della repubblica? Veramente la elezione diretta delle massime cariche dello stato colpirebbe la partitocrazia dominante? Abbiamo qualche dubbio che ciò possa avvenire e l’esempio di nazioni a noi vicine ci conferma nel nostro scetticismo. Intanto l’elezione diretta (del presidente della repubblica o del capo del governo) spaccherebbe il paese. Ogni elezione riprodurrebbe il clima politico del ’48, muro contro muro con l’esito di vincitori e vinti. Non è demagogia prevedere che l’unità della patria sarebbe ogni volta in pericolo. L’Italia ha bisogno di un parlamento efficiente e rappresentativo dei territori e dei settori professionali e sociali. Il Re è il luogo simbolico (dando a simbolo un significato forte) dell’unità nazionale. Il Re è l’arbitro del gioco a cui partecipa come guardiano supremo delle regole. Tutte le altre formule sono scorciatoie che possono aggravare i problemi perché danno l’illusione di risolverli.  Noi non siamo monarchici perchè nostalgici delle cerimonie. Siamo monarchici perchè siamo convinti che la Monarchia è l’unica strada per restaurare la dignità dello Stato.  Sappiamo anche che questa strada sarà lunga e difficile. Ma se l’abbandonassimo per una scorciatoia ci ritroveremo al punto di partenza con più problemi e meno energie spirituali

(da www.unionemonarchicaitaliana.it)

 

 

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

72° Ciclo di Conferenze 2019 - 2020 – Seconda Parte

***

“Da anni imperversa una sistematica diffamazione del Risorgimento e dell’Unità da parte dei cosiddetti neoborbonici, ai quali si sono aggiunti nostalgici asburgici e del potere temporale dei Papi, per non parlare di un movimento politico che, all’origine, propugnava addirittura la secessione dell’Italia del Nord. Nessun storico a conforto di queste tesi, ma giornalisti improvvisati storici. In questo momento in cui l’Italia ha bisogno di una scossa per riprendere il suo cammino ed il suo sviluppo, il Circolo REX come Circolo di Cultura riproporrà i valori ed il significato di questo movimento che portò all’indipendenza ed all’unità nazionale nel solo modo possibile affidando l’analisi al suo Presidente

 

Dr. Ing. Domenico GIGLIO

Domenica 1 marzo alle ore 10,30

“Per un nuovo Risorgimento”

Sala Italia presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a Roma”

 

Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, e “52”

 

Nota: in sala saranno disponibili copie del recente volume “La solitudine del RE”, edizioni Helicon, presentato al Rex , domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, e del volume “Dittatura e Monarchia - L’Italia tra le due guerre” – editore Pagine, fondamentale opera storica del professore Domenico Fisichella.

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001, la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione sine titulo.

L’orientamento affermativo circa l’ammissibilità della rinuncia abdicativa, quale strumento alternativo di tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà, non fornisce una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.

Inoltre, con riguardo al proprietario danneggiato, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è  elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.

Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del soggetto responsabile nella specie, invece, interrotto dalla rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto – secondo la tesi all’esame – determina l’effetto della perdita.

Pertanto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità (Cons. Stato, Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 4, con nota di Licia Grassucci, “Occupazione sine titulo, l’Adunanza plenaria indica le due opzioni possibili: restituzione del bene o sua acquisizione”, in www.Italiappalti.it, 30 gennaio 2020).

 

Leader a confronto

“Una doppia zavorra pesa sui due leader...A Salvini va riconosciuto di aver fatto competere per la prima volta il centrodestra in Emilia-Romagna, pezzo cruciale d’Italia tradizionalmente a egemonia di sinistra… Ma Salvini non ha voluto calcolare – dovrà farlo se davvero vorrà tornare prima o poi al governo – che esiste un elettorato moderato completamente refrattario agli show modello citofonata… In più, il capo leghista ha proposto l’idea che il buongoverno e l’amministratore serio non contino niente, perché devono prevalere logiche agonistiche non legate al territorio, e questa idea è stata smentita”

“Ma non ha molto da festeggiare il Pd. L’unica vera gioia di partito in una vittoria che porta la firma di Bonaccini, è quella di aver ripreso buona parte del voto grillino di sinistra (in Emilia-Romagna, non in Calabria) e di aver visto resuscitare il bipolarismo… Ma la foto del voto non coincide con la foto del Parlamento. Lì il corpaccione un po' decomposto di M5S ancora esiste, anzi è maggioritario, e con questo il Pd deve fare i conti. Per Salvini lo sdrucìto blocco parlamentare grillino è un ostacolo ad andare al voto, perché nessuno dei 5 stelle vuole rinunciare al seggio e tornarsene a casa … Il terzo polo inesistente in natura ma sopravvivente nel Palazzo risulta un fattore che condiziona e paralizza… Il bipolarismo in Parlamento non c’è, e mai come adesso l’Italia reale, quella misurata nelle urne, è diversa dall’Italia legale, quella rappresentata nelle istituzioni”.

“Dunque il problema per Salvini è che scricchiola il format della conflittualità e della campagna elettorale permanente… Mentre il problema, per Zingaretti, è che non tutta l’Italia è come l’Emilia… I due leader dovrebbero ricordarsi di quanto diceva Winston Churchill: I problemi dei vincitori sono meno dolorosi di quelli degli sconfitti, ma non meno complicati” (Mario Ajello, “Leader a confronto. La zavorra del vinto e quella del vincitore”, Il Messaggero, 28 gennaio 2020).

 

Il buco del Fucino

“C’è una storia di malafinanza dietro i fuochi d’artificio della battaglia legale che divide gli eredi della nobile casata romana dei Torlonia. Anni di prestiti avventati, acrobazie di bilancio, investimenti sballati si sono mangiati reputazione e patrimonio della Banca del Fucino. Una zavorra di operazioni ad alto rischio ha mandato a picco l’istituto fondato a Roma nel 1923 dal senatore del regno Giovanni Torlonia, erede della colossale fortuna di una dinastia con oltre due secoli di storia alle spalle. Servono 200 milioni per evitare il crac e all’orizzonte è già comparso un cavaliere bianco con le insegne della neonata Igea Banca, partita da Catania per sbarcare in forze nella capitale con Mauro Masi, già direttore generale della Rai, sulla poltrona di presidente”.

“I soldi freschi andranno a coprire i buchi in bilancio e  rilanciare l’attività di un istituto di credito da sempre legato a doppio filo al Vaticano, tanto da essere considerato a lungo una sorta di succursale dello IOR, la banca del Papa. Le grandi manovre per l’ingresso dei nuovi azionisti sono partite da mesi, ma non sarà facile chiudere i conti con un passato su cui gravano ombre e sospetti. Il forziere dei Torlonia, per quasi un secolo stanza di compensazione degli affari della borghesia capitolina, è affondato nell’arco di soli tre anni, bruciando mezzi propri per oltre 100 milioni. Ad alzare il velo sulla fallimentare gestione è stata la vigilanza di Bankitalia. Dopo anni di richiami formali e informali, gli ispettori hanno bussato alla Banca del Fucino nel febbraio del 2017 e l’esito dei controlli, terminati a fine aprile, è stato disastroso.”

“Per anni i vertici della Banca del Fucino sono rimasti colpevolmente inerti mentre l’istituto accumulava crediti a rischio e quando finalmente, messi alle strette dalla Vigilanza, amministratori e dirigenti si sono decisi a correre ai ripari, i conti erano ormai fuori controllo. In sostanza, per anni è stata prassi comune elargire prestiti senza verificare adeguatamente le garanzie presentate dal cliente. Peggio ancora: i finanziamenti di difficile rimborso sono stati iscritti a bilancio senza adeguate svalutazioni”.

“A questo punto, il patrimonio dell’istituto è ormai ben al di sotto del livello di guardia e la banca ormai prossima al dissesto” (Emiliano Fittipaldi e Vittorio Malagutti, “Il buco del Fucino”, L’Espresso, n. 5/2020, 50 ss.).

 

Raid vandalici nelle scuole

Un articolo a firma di Alessia Marani, apparso sulla Cronaca di Roma del quotidiano Il Messaggero del 28 gennaio 2020, che desta profondo sconcerto, riferisce i continui raid vandalici in alcune scuole romane (Peano, Primo Levi, De Pinedo, Ruiz) da parte di studenti. Incursioni su commissione, dietro compenso, al fine di evitare interrogazioni o compiti in classe già programmati.

Inoltre, lo svuotamento degli estintori, nonché i danni provocati nelle aule, impediscono, tra l’altro, il regolare svolgimento delle lezioni.

“Le scuole hanno organizzato incontri con le famiglie ed avviato le prime procedure di espulsione per gli studenti identificati e denunciati”, ma è necessario disporre interventi maggiormente drastici, anche con immediata attivazione di telecamere per la repressione di siffatti riprovevoli comportamenti.

 

Il programma dell’attuale governo

Nel corso di una recente trasmissione televisiva, l’On. Bertinotti ha individuato il vero programma dell’attuale governo: “tirare a campare”.

Triste ricorrenza

Ricordiamo, commossi, le vittime delle foibe.

19 febbraio 2020

 

 

 

Identità e libertà dei popoli. L’Italia, l’Europa e le sue Monarchie*

di Fabio Torriero**

 

Quando nelle trasmissioni, negli incontri pubblici, parlo di valori, di tradizione, mi dicono medioevale. Io, al contrario, ricordo gli aspetti positivi del Medioevo (la nascita degli ospedali, delle università, le cattedrali che hanno trasmesso la cultura classica, grazie agli amanuensi), il tomismo, la Scolastica, Giotto, Dante, l’Impero d’Oriente, che vide la sintesi tra cultura greca, diritto romano e religione cristiana, il valore dell’economia curtense, ancora oggi studiata come modello etc).

Spesso rispondo con una provocazione: dico che chi attacca la tradizione, chi contesta i valori non negoziabili, ad esempio, del cattolicesimo (diritto alla vita, matrimonio non arcobaleno, centralità della famiglia naturale), è lui, il vero partigiano dell’anacronismo. Dico che loro, i sostenitori di questa tesi, sono quelli che stanno indietro, in quanto “neo-pagani”, e che i medioevali di oggi sono più avanti, in quanto il Medioevo storicamente è venuto dopo.

Del resto, basta fare un parallelismo culturale tra la caduta dell’impero romano d’Occidente, nel 476 d.c, e la società odierna, per riscontrare pericolose ed inquietanti analogie: il disprezzo per la vita, la promiscuità sessuale, la pedofilia (la pratica del “puer” da iniziare), l’idolatria degli animali resi divinità.

Per non parlare delle fake news, di chi fa “ideologia della storia” cioè il pregiudizio ideologico elevato a verità, e non la storia, basata sui documenti, le testimonianze, le fonti. Comunemente si dice che nel Medioevo c’era la cintura di castità, lo ius primae noctis, venivano bruciate le streghe. Quanta ignoranza. La cintura di castità non è mai esistita, lo ius era semplicemente una tassa che i giovani sposti pagavano al feudatario locale, e le prime streghe sono state bruciate a partire dall’umanesimo, il periodo che viene esaltato come il riscatto della civiltà umana rispetto all’oscurantismo dei secoli bui, E come se non bastasse, le guerre di religione sono scoppiate nel Cinquecento. Come volevasi dimostrare.

Perché questa articolata premessa? Per dire come in comunicazione, per pregiudizio ideologico, ignoranza, strumentalizzazione politica, la Monarchia, come istituzione subisce la stessa sorte della parola Tradizione. E se bisogna, come doveroso, riaffermare la verità, il lavoro è molto impegnativo, complesso e lungo: bisogna rimuovere ostacoli, cambiare la neo-lingua, smascherare i luoghi comuni e il pensiero unico dominante e alla moda.

Ci sono infatti, da sempre, tante fake news sulla Monarchia. Le principali le conosciamo tutti: è anacronistica, dittatoriale, inutile, costa. Interessante anche la contraddizione tra le stesse fake di stampo giacobino-laicista. Se non conta nulla, come può venire accusata di essere tirannica? Se è tirannica come si può affermare che sia inutile?

In quanto ai costi, basta comparare il costo della Monarchia inglese con i costi del nostro Quirinale e in quanto all’anacronismo, si può facilmente replicare che ciò che è bene e ciò che è male non conosce le lancette della storia. Valgono sempre.

Ma veniamo alle risposte che è pedagogico dare ai nostri avversari e alle persone che “ignorano”, perché non sanno, o perché fingono di non sapere per malafede o per meri interessi politici.

RISPOSTA COSTITUZIONALE

Visto che la Monarchia è sinonimo di arretratezza, anacronismo, tirannia, inutilità, i più grandi filosofi, scienziati della politica, studiosi, intellettuali, da Aristotele a Hegel, passando per San Tommaso, Sant’Agostino, che hanno definito la Monarchia la migliore forma di governo, erano e sono stati tutti folli? E tali fake news non insultano, offendono oggi la dignità di popoli che da secoli vivono felicemente sotto le Monarchie che, guarda caso, reggono i Paesi europei che offrono le migliori garanzie in quanto a unità nazionale, stabilità, continuità delle istituzioni, progresso e coesione sociale?

Ci sono tante definizioni di Monarchia. Ne sceglierò solo alcune. “La Monarchia è la proiezione della famiglia su scala politica”, “la Monarchia è ordine e movimento”, è “Progresso ereditario”, è - secondo una felice e creativa intuizione dei monarchici francesi – “l’anarchia più uno”. Per Salvator D’Alì, il famoso eccentrico pittore, e artista a 360 gradi, “solo sotto una cupola monarchica si può essere liberi, veramente anarchici”. Quanta modernità in questa frase, un concetto-base che stravolge l’ideologia moderna, l’attuale pensiero unico basato sul mantra della libertà senza limiti, su l’individualismo di massa. La vera libertà è quando l’uomo è delimitato, con regole e valori superiori nei quali si riconosce. Che condivide. Non quando l’uomo si autodetermina su una base libertaria assoluta, secondo le pulsioni dell’io che creano dipendenza, sudditanza, la vera schiavitù (e uccidono la libertà vera). In tal modo la società implode, muore, perde ogni senso della polis, della res publica, della relazione.  Ogni cittadino si perde in una bolla autoreferenziale, autocentrata, anaffettiva.

E ancora: la Monarchia rimane sempre sé stessa, pur mutando nelle sue forme storiche. Non a caso abbiamo avuto nella storia europea, Monarchie assolute, costituzionali, parlamentari, federali, sociali etc. Oggi tra le 10 Monarchie europee, abbiamo la Monarchia inglese, esempio di democrazia basata sul diritto non scritto, le consuetudini millenarie; le Monarchie nordiche sono sociali e parlamentari; la Monarchia spagnola è una corona autonomista, la Monarchia belga è federale. Cosa resta fermo e cosa cambia? Resta ferma l’idea dello Stato, espressione dell’identità storica, culturale, religiosa dei popoli, la trasmissione ereditaria, il senso della dinastia, la separazione tra lo Stato, che resta fermo e il governo che invece, muta col mutare del voto, secondo la libera scelta dei cittadini.

E ancora: la Monarchia assolve ad una fondamentale funzione: è una obbligata e indispensabile “precondizione” della politica: fa essere, determina la sana e giusta politica. Il fatto che un Re, simbolo vivente della patria, sia indipendente dai partiti, non sia scelto da loro, né subisca i ricatti, non agisca per la sua rielezione, o il semplice e transitorio consenso, ma sia indipendente per “missione, legittimità storica, vocazione e collocazione istituzionale”, favorisce l’identificazione con i cittadini che si sentono rappresentati e accolti. E ciò è una naturale precondizione di unità nazionale, di continuità e stabilità delle istituzioni. Valori centrali per lo sviluppo pacifico di una nazione.

Infine, il ruolo “arbitrale” del sovrano. Ossia, l’esercizio della terzietà. L’arbitro naturale non può che essere un Re, non un presidente della Repubblica, eletto dai partiti, che bene che vada, sembra un buon capo-ufficio, male che vada non è arbitro, né può esserlo. Non si può essere giudici e parte in causa al tempo stesso. E’ una spiegazione semplice quanto naturale. E i vari presidenti della nostra Repubblica che si sono avvicendati nell’arco del tempo, sono stati e vengono apprezzati per quanto di monarchico riescono e sono riusciti a fare.

La funzione arbitrale vuol dire, infatti, promozione attiva della legalità costituzionale, mediazione istituzionale, intervento nei conflitti costituzionali, capacità di intervento nello Stato di eccezione, e in momenti di gravi conflitti sociali. 

RISPOSTA VALORIALE

Le ragioni della Monarchia non possono prescindere anche da un’attenta analisi della odierna realtà culturale, sociale, istituzionale, specialmente dell’Occidente. Cioè, dalla capacità di attualizzare e declinare tale istituzione ponendola e proponendola come la migliore risposta rispetto a due epocali domande: chi siamo e dove andiamo come civiltà e come popoli?

Da tempo le categorie politiche non sono più “destra-sinistra”, ammesso che siano state sempre oggettive e non piuttosto, usate come forzato linguaggio ufficiale del ceto politico, che le ha deificate solo per dividere ed eccitare le rispettive tifoserie (per fini elettorali), o come utopie narrative degli intellettuali. Da tempo destra e sinistra non corrispondono più alla realtà e alla verità. In Italia poi, le ripartizioni, le definizioni sono sempre state più complesse e trasversali rispetto ad altri Stati europei. Da noi i liberali, i sociali, gli statalisti, i liberisti, gli atei, i cattolici, gli europeisti, i nazionalisti, sono sempre stati presenti in tutti e due gli schieramenti, sia a destra che a sinistra. Noi siamo figli della destra storica, che è stata liberale in politica, ma non liberista in economia; siamo figli del fascismo che è stato un coacervo di sensibilità e correnti; siamo figli della dottrina sociale della Chiesa che ha rappresentato e rappresenta una sorta di terza via tra il capitalismo e il marxismo.

Oggi le nuove categorie sono “alto-basso”, popoli contro caste, identità contro globalizzazione, sovranità contro economie finanziarie cosmopolite; il civismo, come forma di autorappresentazione territoriale della società, patriottismo amministrativo;  e “antropologia contro ideologia”, ossia diritto naturale, primato della vita, della famiglia naturale, contrapposto al culto della libera, totale, autodeterminazione dell’uomo, fino a scegliere chi deve nascere (con l’aborto), quando bisogna morire (l’eutanasia), a normalizzare il diritto a prostituirsi, drogarsi, comprare figli (con utero in affitto), a costruire famiglie arcobaleno (omosessuali), e a scegliere il proprio sesso (la priorità dell’identità psichica), a prescindere dall’identità biologica (sancita dalla natura).

In estrema sintesi, lo scontro tra i limiti (morali, naturali, storici, spirituali) che “delimitano” la vita degli uomini e delle comunità organizzare, gli Stati, e un’idea illimitata di libertà, nel nome e nel segno del nuovo dogma contemporaneo, in base al quale ogni desiderio deve diventare un diritto; mentalità che porta direttamente a certificare, consacrare, l’individualismo di massa che chiamano modernità, secolarizzazione, laicizzazione della società, edificando obbligatoriamente una visione di Repubblica intesa come mera espressione delle pulsioni dell’io.

Con tali basi, lo ripetiamo ancora una volta, la società che si basa per costituzione, sulla relazione, sull’identità, tramonta.

Una società globale, del cittadino globale, del mercato globale, senza limiti, senza confini, senza frontiere, senza identità, non è e non sarà mai una società liberata, felice, ma una società di esseri soli, chiusi in bolle autoreferenziali, autocentrate e opposte all’empatia che invece costituisce il cuore della cosa pubblica, del bene comune, dell’interesse generale.

Forse un continente di uomini senza identità storiche, culturali, sociali, religiose (viste come nazionalismo, conflitti, guerre, discriminazione, xenofobia, fascismo, omofobia etc), potrebbe essere un continente più integrabile, più armonioso, ma a che prezzo?

Eccolo: un mondo di “apolidi”, senza appunto, identità culturali, statuali, religiose; un mondo di “precari”, senza identità sociale e lavorativa; di “liquidi”, senza identità sessuale. Stiamo descrivendo il drammatico indebolimento culturale e biologico dei popoli: col cosmopolitismo e il gender.

La difesa e l’affermazione dei valori naturali e delle identità storiche, culturali e religiose, è al contrario, il perimetro dove si gioca e si giocherà in futuro, il ruolo, la funzione, l’attualità della Monarchia.

Monarchia come presidio delle patrie, delle identità, della storia, della cultura, dei valori e dei simboli identitari dei popoli e delle nazioni, strettamente connessi e all’interno di uno spazio storico, geografico e culturale che si chiama Stato. Stato sovrano.

Il suolo non è un semplice passaggio, dove popoli differenti e indifferenziati, mettono i piedi per andare ovunque e quindi, da nessuna parte. Per questo lo “ius soli” è un pericoloso e clamoroso errore: un conto è l’accoglienza che deve essere universalizzata, e parametrata alla capacità degli ordinamenti di assorbire in termini lavorativi, sociali, sanitari, normativi e abitativi, i migranti. Un conto è la cittadinanza, che presuppone una scelta volontaria, un percorso costituzionale, la condivisione dei valori aggreganti e fondanti di un popolo.

Il suolo non è un dettaglio, ma il luogo, il territorio, che esprime una storia, una cultura, una mission. La vita non nasce e muore con noi, ma c’era prima, prosegue con noi e continua dopo di noi. Di “Padre in Figlio”, come in Monarchia, dal Re che incarna la storia, la tradizione, il quale passa il testimone al figlio, il Principe, che assorbe, modifica, cambia la trasmissione ereditaria dei contenuti e valori, esalta il passaggio di consegne. Attualizza e modernizza il passato. Ecco come si spiega il senso e il significato del concetto di Monarchia, secondo le definizioni più efficaci e suggestive dei pensatori, filosofi, costituzionalisti, politici che si sono avvicendati nella storia. La Monarchia come la proiezione naturale della famiglia, come ordine e movimento, come progresso ereditario.

E solo la Monarchia può difendere, custodire, preservare e affermare in un mondo globalizzato le identità storiche, culturali, sociali e religiose dei suoi popoli. Anzi, per meglio dire, i Re sono gli ambasciatori naturali dei loro popoli.

Oggi lo scontro in atto e si vede, è tra sovranisti e mondialisti, tra identitari e globalisti. Ma in realtà sono due posizioni speculari che si rafforzano reciprocamente.

Papa Giovanni Paolo II aveva risolto egregiamente tale contrapposizione. L’uomo deve far coesistere la dimensione universale della fede, la visione dell’umanità con la nazione, con la propria appartenenza. Se non si trova una sintesi tra le due spinte naturali dell’uomo e dei popoli, l’utopia del tutto e del niente, e la paura dell’ignoto (da qui il bisogno di certezze), il messianismo democratico, il governo mondiale dell’economia e i nazionalismi vissuti come chiusura, fortezza, egoismo, si alterneranno pericolosamente in una dialettica sbagliata e illusoria.

La Monarchia può e deve inserirsi in questo duello tra sovranisti e globalisti. Dando una solidità, un obiettivo, agli Stati sovrani e uno sguardo alla vocazione dei popoli più ampia, nel dialogo su valori comuni e condivisi dei Continenti.

Esempio, l’Europa delle 10 monarchie. Ognuna rappresenta peculiarità originali dei propri Paesi, diritti e dignità nazionali, ma nello stesso tempo sono figlie di quell’idea unitaria di Europa, che o è cristiana, recuperando il senso e il valore delle sue radici millenarie, legittimate dal Medioevo, o non è. Per concludere: Casa Savoia e Carlo Magno sono i simboli, il richiamo e la riscossa della Monarchia, di ieri, di oggi, di domani.

 

*Testo della conversazione tenuta al Circolo di Cultura Politica Rex il 16 febbraio 2020

**Giornalista parlamentare, Docente Lumsa, spin doctor di politici e ministri

 

 

 

 

La Lega, come diventare “nazionale”

di Salvatore Sfrecola

 

Continua la sostanziale stasi della Lega di Matteo Salvini, evidente nei sondaggi che le attribuiscono un -1, che nella coalizione di Centrodestra è recuperato da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. S’intravede una ricomposizione delle forze politiche d’opposizione con il concorso delle aspettative dei moderati, cattolici e liberali, soprattutto, che considerano FdI un partito coerente, radicato sul territorio, con aperture culturali assicurate anche dalla Fondazione Fare Futuro diretta da Adolfo Urso.

È una evidente difficoltà della Lega, come dimostrano ricorrenti chiusure verso il Centro e verso il Sud di ambienti popolari, soprattutto del Veneto, quelli che si dicono veneti e non italiani, che poi sono gli eredi dei contadini che facevano pagare l’acqua (!) ai soldati dell’Esercito italiano che avevano passato il Mincio per liberarli dal giogo austriaco.

Quella Lega prende voti al Centro e al Sud, come hanno dimostrato le elezioni regionali in Abruzzo, Basilicata e Calabria, ma non convince più di tanto le classi medie. Troppo aggressivo Salvini, poco istituzionale come in quegli ambienti si ritiene debba presentarsi un uomo di destra che dia conto di una chiarezza di idee e di una forte determinazione nel perseguirle. Che riesce più facile alla Meloni.

Lo conferma l’analisi del voto in Emilia-Romagna, dove i consensi sono venuti prevalentemente dai piccoli centri rispetto alle grandi città, a conferma del fatto che la Lega parla prevalentemente alla pancia degli elettori, che non è certamente da trascurare ma che va integrata con la consapevolezza delle classi medie le quali tendono ad esprimere, insieme alle ragioni più immediate della politica, anche aspirazioni di carattere ideale.

Per divenire “nazionale” e conquistare altri consensi la Lega deve fare un passo avanti, in primo luogo con la “conquista” di Roma, dove il partito è debole, come dimostra la mancanza una sede degna del suo ruolo. Roma che non è soltanto la capitale d’Italia, la città dei ministeri, dell’università più grande d’Europa, dei grandi enti pubblici, delle sedi centrali degli ordini professionali, delle magistrature superiori, Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti. Roma, la città alla quale guardano le persone di cultura in tutto il mondo, espressione della civiltà, non solo del diritto ma della vita associata, delle grandi opere pubbliche, delle strade che ancora oggi disegnano in Italia e in Europa i percorsi dell’economia e della cultura. La Roma degli acquedotti, cioè della civiltà, e della fede,” onde Cristo è romano”, per dirla con Padre Dante.

Roma è il centro amministrativo dello Stato. Ed è a Roma che si fa politica, che è confronto, mediazione per il bene comune. Inoltre, la conquista politica di questa città apre la strada al Mezzogiorno, considerato che la maggior parte dei suoi abitanti è di origine meridionale e qui ha raggiunto posizioni di assoluto rilievo nelle professioni, nell’amministrazione, negli enti e nelle imprese. Di questo mondo variegato il partito di Matteo Salvini oggi non presenta, a livello di dirigenza politica e parlamentare, nessun esponente di rilievo. Un errore, certamente, non solo per la città ma perché la valorizzazione dell’ambiente dimostrerebbe a parenti e amici rimasti nelle regioni del sud che effettivamente la Lega ha passato il Rubicone e si appresta a rinnovare la sua rappresentanza politica e, c’è da augurarsi, governativa dopo la modesta esperienza dell’Esecutivo giallo-verde, in vista di un impegnativo confronto con le sinistre, agguerrite e ben radicate, invece, nel tessuto connettivo della capitale, e per dare un apporto significativo alla coalizione di centrodestra dove Giorgia Meloni il senso della nazionalità lo coltiva da sempre sistematicamente favorendo anche quell’apertura ad ambienti culturali conservatori dei quali ha estremo bisogno per continuare a crescere.

(da www.italianioggi.com)

 

 

 

Doveri di un Capo dello Stato

di Domenico Giglio

 

Il Capo dello Stato, sia un Imperatore, un Re o una Regina, un Presidente di Repubblica, un Fuhrer, un Duce e via discorrendo, a prescindere anche dai loro poteri che possono essere più o meno ampi, ha un dovere di rappresentanza e di simbolo della Nazione, della sua Unità, nonché del vertice dello Stato e la sua mancanza, impedimento, scomparsa, defezione e simili interrompe proprio il funzionamento della “macchina dello Stato”. Ecco perché se Monarchia, il Sovrano e l’Erede, in caso di spostamenti, anche in periodi tranquilli, è bene siano separati, lo stesso vale per un Presidente ed un suo Vice, oppure in altri casi nelle Monarchie ha previsto l’istituto della Luogotenenza o della Reggenza, o in Repubbliche sia costituzionalmente prevista una scala di sostituti automatici. Se “morto il Re, viva il Re”, così si può dire “morto il Presidente, viva il Vice Presidente” o “viva il Presidente del Senato” per affermare la continuità dello Stato.

In caso di guerre la questione diviene ancor più delicata perché in molti casi il Capo dello Stato è anche il Capo delle Forze Armate, anche se oggi è sempre più rara una effettiva presenza ed un diretto comando. Pensare ad un Capo dello Stato in mano al nemico apre una prospettiva gravissima di crisi dello Stato. Lasciamo stare quindi Francesco I di Francia, prigioniero di Carlo V, dopo la sfortunata battaglia di Pavia del 1525, e guardiamo i casi nell’epoca moderna che sono perciò rari e l’esempio più clamoroso è quello di Napoleone III, preso prigioniero dai prussiani a Sedan, il che portò alla immediata dissoluzione dell’Impero, ed anche la tragica vicenda di un Massimiliano d’Asburgo fucilato a Queretaro dai ribelli messicani di Benito Juarez (in cui onore –sic - poi vennero tanti Benito anche in Europa, nome prima inesistente) che assunsero il potere, cancellando anche in questo caso, l’impero.

Preservare perciò la propria libertà, nell’interesse generale e non della salvezza della propria persona è quindi un dovere ineludibile. Ecco perché nel 1814 il Presidente degli USA, Madison, lascia precipitosamente la Casa Bianca, con la colazione già in tavola, per non essere preso prigioniero, dagli inglesi che ivi banchettarono, incendiando poi il palazzo presidenziale! Qualcuno ha mai parlato del fuggiasco Madison? E poi perché lo Zar Alessandro lascia ed incendia Mosca all’avvicinarsi di Napoleone, e Stalin fa lo stesso all’avvicinarsi delle armate tedesche, nel 1941? Ed il Presidente francese che, nel 1940, abbandona Parigi per andare a Bordeaux, e Churchill, il quale afferma in caso di sbarco tedesco che, con il Re, sarebbe andato, non fuggito, in Canada a continuare la guerra fino alla vittoria. Lasciamo poi stare la Regina d’Olanda, i Re di Norvegia, di Grecia e di Jugoslavia, il Presidente della repubblica polacca e cecoslovacca che abbandonano non solo la loro capitale, ma il territorio nazionale, mentre l’unico che rimane in patria, il Re del Belgio, poi divenuto prigioniero di Hitler in Germania, viene successivamente accusato proprio di questo e impedito a rientrare nel territorio nazionale dopo la fine della guerra, da una assurda legge nel 1945 aspettando il 1950 quando un referendum popolare dà la netta maggioranza del 57,68% per il suo rientro e riassunzione dei poteri regi!

Tutto ciò premesso, veniamo al caso italiano e cerchiamo di seguirne la storia passo per passo. E’ notoria l’avversione di Hitler nei confronti dei Savoia e la sua rabbia per l’esautorazione dell’amico Mussolini, la decisione di poterlo liberare ed averlo nuovamente al suo fianco, e contemporaneamente punire il Re d’Italia per il cosiddetto tradimento. Perciò è fuori da ogni realtà pensare che, specie dopo l’armistizio, Hitler non avrebbe tentato di impadronirsi di Vittorio Emanuele III, costasse quel che costasse (l’anno dopo l’operazione tedesca, perfettamente riuscita, fu quella condotta contro il Reggente ungherese Horthy che aveva il 15 ottobre 1944 annunciato l’armistizio, e preso prigioniero dai tedeschi aveva dovuto smentirlo nello stesso giorno!). Di questa necessità che il Re non fosse preso prigioniero, erano convinti anche gli angloamericani, che avevano stipulato l’armistizio con il Governo del Re, tanto che era stata ventilata l’idea di un suo trasferimento in quel di Palermo, già da tempo nelle loro mani, ma che avrebbe tolto al Re ogni libertà e dignità. Quindi lasciare Roma capitale era una necessità storica, istituzionale e costituzionale, non potendo trasformare questa duplice capitale, pensiamo al Pontefice, in un campo di battaglia come Leningrado, e simili, per cui la sua difesa avrebbe potuto procurarle danni ancor maggiori di quelli procurati dai due sciagurati bombardamenti del 19 luglio e 13 agosto. Con ciò non possiamo non dare atto del nobile comportamento e del sacrificio dei nostri soldati che si batterono valorosamente contro i tedeschi a Porta San Paolo e dell’azione svolta a Roma da un tale generale Calvi di Bergolo, guarda caso genero del Re! Sempre relativamente al trasferimento vi era stata una ipotesi descritta in un libro poco noto di Arturo Catalano Gonzaga “Per l’onore dei Savoia”, edito da Mursia nel 1996, di un trasferimento del Re, Famiglia Reale e Governo, in Sardegna, con partenza il 12 settembre, da Civitavecchia, su un cacciatorpediniere, o il “Vivaldi” o il “Da Noli”, ed arrivo a La Maddalena, quando, appunto si pensava fosse quella la data dell’annuncio dell’armistizio. Perché, in questo balletto di date, tra l’effettivo 8 e l’ipotetico 12 settembre, sta la spiegazione degli eventi realmente accaduti. Quella del 12 settembre, anche se più logica, era stata una semplice supposizione del generale Castellano in quanto in sede di firma dell’armistizio, il 3 settembre, nulla di preciso al riguardo avevano detto gli americani. Dico più logica perché avrebbe giovato ad entrambe le parti, anche se in maggior misura per noi, specie per ulteriori istruzioni all’Esercito, a maggior chiarimento della famosa circolare segreta OP 44, inviata da giorni. La comunicazione della data dell’8, se, in ogni caso, fosse stata data con maggiore anticipo avrebbe consentito migliori disposizioni all’esercito ed una partenza da Roma meno turbinosa. Appresa invece la stessa mattina dell’8 con obbligo di comunicare l’avvenuto armistizio da parte del nostro Governo, nella stessa giornata, il che avvenne alle 19,45 con il messaggio radio del Maresciallo Badoglio, la scelta del trasferimento dovette essere presa in tempi brevissimi. Infatti la famosa colonna di automobili si mosse da Roma, Ministero della Guerra, in Via Venti Settembre, alle 5,10 del mattino del 9 settembre. Il fattore rapidità era essenziale perché tutti conoscevano le intenzioni hitleriane di bloccare il Re ed il tempo giuocava a nostro favore solo nel caso di una immediata decisione, presa dal capo del Governo ed accettata, se non subita, dal Re ed ancor di più dal Principe Umberto. Non dimentichiamo, mentre moltissimi o lo hanno dimenticato o forse lo ignorano, che nella stessa giornata dell’8 settembre l’aviazione americana aveva effettuato un massiccio bombardamento della cittadina di Frascati, a venti chilometri da Roma, in quanto sede del Comando germanico, che distrusse la città, ma non uccise Kesserling, comandante delle truppe tedesche. Kesserling non si trovava quel giorno a Frascati dovendosi occupare della difesa contro il contestuale sbarco americano a Salerno. Questa assenza di Kesserling è la migliore smentita della tesi sostenuta dallo Zangrandi di un accordo tra i due Marescialli, Badoglio e Kesserling, per facilitare partenza e viaggio del Re da Roma, verso Pescara sulla statale Tiburtina-Valeria. Quando e come sarebbe avvenuto l’accordo in quelle pochissime ore? Chi i plenipotenziari che si sarebbero dovuti incontrare? Come e dove ? Fu solo il fattore sorpresa che questa volta giocò a nostro favore a consentire il lungo viaggio senza blocchi su di una strada che specie fino ad Avezzano non permetteva alte velocità. Trasferimento perciò e non fuga, con lunga sosta dei Reali a Crecchio nel Castello dei Duchi di Bovino, la puntata di alcuni componenti il convoglio a Pescara per valutare una possibile partenza aerea, il loro ritorno a Crecchio e la decisione definitiva dell’imbarco su una nave della Regia Marina, la corvetta Baionetta, fatta venire ad Ortona dal Ministro della Marina, ammiraglio De Courten, e dell’incrociatore Scipione Africano, come scorta, con meta Brindisi, porto e città saldamente nelle mani del nostro esercito e della nostra marina, dove non erano né tedeschi né angloamericani, e sul palazzo del Comando, tenuto dall’ammiraglio Rubartelli, sventolava la nostra grande bandiera. Con quel trasferimento, come hanno poi riconosciuto storici seri, non monarchici, ed anche un presidente della repubblica, Ciampi, si era conservata la continuità dello stato e salvato Roma da altre distruzioni.

La sciagurata frase della “fuga di Pescara” (e non Ortona, errore che dimostrava la scarsa conoscenza dei fatti) venne tempo dopo e faceva parte della campagna denigratoria sul Re e Casa Savoia che la repubblica di Salò scatenò per diciotto mesi su giornali e sulla radio, campagna che contribuì notevolmente al voto repubblicano dell’Italia del Nord, nel referendum del 1946, sostituendo alla repubblica fascista, la repubblica antifascista (!) e coloro che inventarono la fuga, accusa ripresa successivamente dalla propaganda repubblicana e divenuta un luogo comune, non pensavano certo ad un altro ben triste viaggio lungo le rive del Lario.

Concludendo, i doveri per lo più sono amari, ma vanno assolti e questo, con la partenza da Roma, dove, ipocritamente non gli fu consentito di far ritorno, dopo il 5 giugno 1944, fece, non per sé, ma per l’Italia, Vittorio Emanuele, come, dai microfoni di Radio Bari, purtroppo poco potente e poco conosciuta ed ascoltata, disse la sera dell’11 settembre: “Per il supremo bene della Patria che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell’intento di evitarle più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all’estremo sacrificio sul vostro Re. Che Dio assista l’Italia in quest’ora grave della sua storia”.

15 febbraio 2020

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia amministrativa

La rimessione all’Adunanza Plenaria della presente questione trae origine da una controversia avente ad oggetto la responsabilità dell’amministrazione sanitaria per danno conseguente a trasfusioni infette e i moduli transattivi definiti dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con d.m. 4 maggio 2012.

Ai sensi dell’art. 99 c.p.a., l’Adunanza Plenaria, è stata investita della corretta interpretazione della lettera b) dell’art. 5, comma 1, del d.m. 4.5.2012, al fine di appurare, in particolare: a) a quali posizioni soggettive tale disposizione faccia riferimento; b) se il termine decennale ivi indicato risulti coerente con i principi civilistici in materia di prescrizione; c) se il sistema transattivo predisposto dalle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, così come attuate dal d.m. n. 132/2009 e dal d.m. n. 4.5.2012, debba intendersi aperto ai soli diretti danneggiati da trasfusione infetta e ai loro eredi che agiscano iure hereditatis; ovvero anche ai congiunti che agiscano per ottenere il ristoro dei danni patiti iure proprio. (Cons. Stato, Sez. III, 11 dicembre 2019, ordinanza n. 8435, con nota di Licia Grassucci, “Danni da emotrasfusioni”, in www.Italiaappalti.it, 22 gennaio 2020).

 

L’Università è un bene comune

“Quanto valgono le Università italiane? Pochissimo. L’investimento annuo per l’istruzione terziaria è dello 0,3% del PIL, calcola l’Eurostat. Spendiamo meno della metà della media europea e siamo ultimi in classifica. E secondo l’Ocse l’Italia ha ridotto di 12 punti percentuali la quota di spesa pubblica per l’istruzione universitaria tra il 2006 e il 2016. Non c’è da stupirsi, quindi, se i laureati sono il 28% dei 25-34enni, contro una media Ocse del 44%. Colpa della scarsa leva economica messa a disposizione delle università per rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, come richiede la nostra Costituzione. Al punto che la carenza di risorse spinge le università a privatizzare i frutti dell’insegnamento e della ricerca, finanziate però dai cittadini”.

“Solo dando alle università la possibilità di misurare i cambiamenti prodotti sulla società renderà tutti più consapevoli di quanto l’attività accademica sia fondamentale per accrescere giustizia sociale e sviluppo sostenibile (Patrizia Luongo, “L’università è un bene comune”, L’Espresso, n. 3/2020, 59).

 

Harry e Meghan

Non ho ancora incontrato qualcuno interessato al loro futuro.

 

Sulla motivazione delle sentenze

Non sempre sentenza ben motivata vuol dire sentenza giusta; né viceversa. Talvolta una motivazione sciatta e sommaria indica che il giudice nel decidere era talmente convinto della bontà della usa conclusione, da considerar tempo perduto il mettersi a dimostrar l’evidenza: come altra volta una motivazione diffusa ed accurata può rivelare nel giudice il desiderio di dissimulare a sé stesso e agli altri, a fora di arabeschi logici, la propria perplessità (Piero Calamandrei, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, Milano, 2001, 174).

 

Verso il bipolarismo?

Una volta superato l’equivoco M5S, l’Italia potrebbe tornare a un serio bipolarismo, anche se il non esaltante livello della nostra classe politica rende tale prospettiva rischiosa o, quanto meno, remota.

 

In libreria

Peter Gomez, Valeria Pacelli e Giovanna Trinchella sono gli autori de “La repubblica degli impuniti” (Roma, 2019), una ragionata rassegna di quanti negli ultimi venticinque anni l’anno fatta franca “grazie alla prescrizione e alle altre leggi ideate per salvare i colletti bianchi”.

Tra questi “ci sono politici, religiosi, funzionari dello Stato e industriali che rappresentano il meglio (ma per alcuni il peggio) delle élite del Paese. A volte controllano giornali, televisioni, siti internet. A volte li foraggiano con le loro campagne pubblicitarie. Sempre, o quasi, frequentano o hanno rapporti di amicizia con opinion leader e con chi fa le leggi”.

Nell’ultima pagina di copertina una amara conclusione: “La ragione per cui la prescrizione è stata ideata è semplice e in teoria assolutamente condivisibile: dopo un certo numero di anni lo Stato non ha più interesse a indagare su un reato perché è passato troppo tempo. Inutile lavorare per scoprire gli autori di un crimine che le stesse vittime non ricordano più. In realtà in Italia accade una cosa diversa: spesso i reati si prescrivono quando gli imputati sono già stati individuati”.

Rimaniamo, comunque, in fiduciosa attesa di una condivisibile legge su tale fondamentale istituto.

 

Le solite Sardine

Le Sardine in piazza a Bibbiano. Bene arrivate.

Restano o ripartono? Meglio se restano.

12 febbraio 2020

 

 

 

 

CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA

REX

“il più antico Circolo Culturale della Capitale”

72° Ciclo di Conferenze 2019 - 2020 – Seconda Parte

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“Sovranismo, populismo, sono tematiche attuali ed anche di successo, ma la ipotesi per l’Europa, di diventare il vaso di coccio tra i vasi di ferro degli USA, della Russia e della Cina può diventare realtà se non si approfondiranno i più veri, antichi e consistenti valori della nostra civiltà millenaria. Il Circolo REX come Circolo di Cultura vuole portare un contributo al necessario approfondimento affidando l’analisi di questi valori al

 

Professore Fabio TORRIERO

Domenica 16 febbraio alle ore 10,30

“Identità e libertà dei popoli: l’Italia, l’Europa e le sue Monarchie”

Sala Roma presso Associazione “Famija Piemonteisa - Piemontesi a Roma”

 

Via Aldrovandi 16 ( ingresso su strada) e 16/B (ingresso con ascensore) raggiungibile con linee tramviarie “3” e “19” ed autobus “910”,”223”, e “52”

 

Nota : in sala saranno disponibili copie del recente volume “La solitudine del RE”,- edizioni Helicon- presentato al REX , domenica 2 febbraio, contenente una selezione delle lettere scambiate tra Umberto II ed il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, nei lunghi anni dell’esilio, e di “Dittatura e Monarchia- L’Italia tra le due guerre” – editore Pagine, fondamentale opera storica del professore Domenico Fisichella.

 

 

 

Ladri di democrazia: a proposito del taglio dei parlamentari

di Salvatore Sfrecola

 

Dovrebbe far riflettere il fatto che il taglio dei parlamentari sia stato fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, una organizzazione politica che predica la “democrazia diretta”, che si ispira a Jean-Jacques Rousseau, un filosofo svizzero autore del Contratto Sociale (Du contrat social: ou principes du droit politique), pubblicato nel 1762, che avrebbe avuto successo ai tempi della Rivoluzione Francese, al quale è intestata la piattaforma informatica che raccoglie i desideri degli iscritti i quali formulano anche scelte politiche. Non solo, ma Davide Casaleggio, Guru del Movimento e ispiratore della piattaforma, ha espressamente manifestato l’opinione che in futuro il Parlamento possa anche essere ridimensionato nel suo ruolo se non addirittura sparire. Infine ai fautori della democrazia diretta, che evocano la Polis greca, bisognerebbe ricordare che quella espressione della guida politica delle comunità era quanto di meno democratico possiamo immaginare con la mentalità di oggi. Ad Atene nell’Agorà potevano partecipare tutti i cittadini per definire le scelte di governo della Polis ma, in realtà, quelle scelte erano appannaggio dei più ricchi, cioè di coloro che si potevano assentare dalle attività produttive senza che ne risentisse il loro reddito. Non certo i contadini e gli operai i quali non recandosi al lavoro avrebbero perso la paga.

Ai cittadini la riforma è stata presentata al solito modo del M5S, come un risparmio, come un taglio dei costi della “casta”. Che hanno cercato di accreditare con l’esempio, con la restituzione di parte delle indennità dei parlamentari (non tutti, come abbiamo imparato) i quali compensano abbondantemente con rimborsi spese. Anche di questo hanno parlato i giornali.

Appesi al filo fragile di un consenso che di giorno in giorno diminuisce Luigi Di Maio e compagni si gettano oggi sul referendum del 29 marzo nella speranza di recuperare qualche voto in vista delle prossime scadenze elettorali. E ricattano anche gli altri partiti che, di fronte al montare del discredito che circonda la classe politica non hanno il coraggio di dire che la riduzione del numero dei parlamentari è un vero e proprio furto di democrazia perché risulteranno ridotti gli spazzi della rappresentanza popolare, soprattutto delle minoranze territoriali e linguistiche. Ciò, in particolare, per effetto del naturale ampliamento dei collegi elettorali (in relazione al minor numero di parlamentari da eleggere) che allontanerà ancora di più gli elettori che non saranno messi in condizione di scegliere il proprio rappresentante, conoscendone la personalità e le idee rispetto alle necessità del territorio.

Anche l’affermazione che i parlamentari sarebbero troppi è una balla solenne. Deputati e senatori in Italia sono meno che in altri paesi. Abbiamo, ad esempio, di recente seguito le elezioni nel Regno Unito. Lì la Camera dei Comuni è formata da 650 deputati, 20 più che in Italia. E quel Paese è senza dubbio un esempio di democrazia e di efficienza del sistema elettorale: elezioni il 12 dicembre, risultati noti il 13, in mattinata la Regina ha incaricato il leader del partito di maggioranza di formare il nuovo governo.

In ogni caso pensare che si possa decidere sulla formazione di un organo di rappresentanza popolare solamente tenendo presente il numero dei componenti di un’assemblea legislativa significa non capire che la democrazia ha naturalmente dei costi, che vanno certamente contenuti ma sempre nell’ottica del buon funzionamento dell’istituzione. Questo deve preoccupare i cittadini ed i politici, non il costo se l’apparato è messo nelle condizioni di svolgere al meglio le proprie attribuzioni.

Ma altre sono le argomentazioni da portare al tavolo della discussione, sui mezzi d’informazione e sulle piazze, quanto al taglio dei parlamentari, pensando agli effetti della riforma sulla nostra Costituzione.

Su Facebook, che accoglie le opinioni di quanti propendono per il SI e di coloro che si oppongono alla riforma – che, pertanto, voteranno NO – desidero segnalare l’intervento della Professoressa Marina Calamo Specchia, ordinario di Diritto costituzionale comparato nell’Università di Bari, quindi con esperienza degli ordinamenti stranieri, la quale, alla domanda se ne risulterebbe stravolta la Costituzione, ha risposto: “Assolutamente sì. Completato dall’iter di riforme costituzionali in atto. Questa volta si vuole stravolgere la Costituzione repubblicana con astuzia, spacchettando i singoli interventi, dando l’idea che siano indipendenti. In realtà c’è un filo che li lega tutti. Sul piatto delle riforme costituzionali c’è: 1) la riduzione del numero dei parlamentari, che produrrà l’effetto di sotto-rappresentazione di intere aree del paese, in particolare delle aree marginali che non vedranno più rappresentati i propri interessi; e questo si pone in collegamento diretto con la riforma delle autonomie, che i partiti avranno più facilità di realizzare venendo meno la funzione di opposizione della rappresentanza delle aree più deboli; 2) l’autonomia differenziata, che così come congegnata renderà una parte del Paese definitivamente dipendente e lasciato al suo destino di sottosviluppo economico e infrastrutturale e che sarà amplificata dal taglio della rappresentanza; 3) la riforma del sistema elettorale che se non fungerà da contrappeso - attraverso la formula proporzionale puro - taglierà fuori dalla rappresentanza le forze politiche minoritarie; 4) la riforma sull’elezione diretta del capo dello stato avanzata dalle destre; 5) l’introduzione del cd. referendum legislativo approvativo, che confinerà il Parlamento nel ruolo di camera di registrazione di decreti-legge e di disegni di legge in modo molto ma molto più accentuato di quanto accada oggi e concentrando il centro della decisione politica nelle mani di due o tre leader di partito. Una riforma totale passando per riforme parziali....”.

Non c’è dubbio che la Professoressa Calamo Specchia abbia centrato il punto sottolineando le conseguenze che deriveranno dal taglio dei parlamentari, a cominciare da quella riduzione degli spazi riservati alle minoranze che in democrazia devono essere oggetto di particolare cura perché il diritto della maggioranza di governare sia bilanciato dal controllo delle minoranze le quali possono far valere le proprie idee e sperare di divenire, a loro volta, maggioranza.

Questo è il quadro di riferimento, questo occorre far capire agli italiani che il 29 marzo andranno a depositare nell’urna il proprio voto, soprattutto al Sud e dovunque la narrazione anticasta ha particolare presa, alimentata dal disagio economico che produce invidia sociale, e non dà spazio alle argomentazioni razionali, basate su una corretta informazione critica essenziale in democrazia.

Al Referendum Costituzionale, dunque, occorre votare contro la distruzione del sistema parlamentare, al di là del fatto che il risparmio, assolutamente irrisorio, avrebbe gli effetti negativi innanzi indicati sul rapporto con gli elettori, senza trascurare, inoltre, che i lavori delle assemblee legislative sono molto impegnativi, riguardano un numero enorme di materie, e richiedono la presenza dei deputati e dei senatori in aula e nelle Commissioni laddove si svolge la parte più significativa, sotto il profilo degli approfondimenti, dei lavori parlamentari.

9 febbraio 2020

 

 

 

 

Maleducazione istituzionale

di Domenico Giglio

 

Che ovunque assistiamo alla decadenza, se non addirittura all’assenza di buone maniere, anche ai livelli più alti delle istituzioni nazionali ed internazionali è cosa nota, ma c’è sempre chi batte i precedenti record come nel caso di Nancy Pelosi, Presidente della Camera dei Rappresentanti degli USA, che ha volutamente e volgarmente stracciato il testo del discorso annuale sullo “Stato dell’Unione” che il Presidente Trump aveva appena pronunciato, in modo che tutti potessero vedere il suo gesto.

Spiace dover notare questa scortesia, che non ha precedenti, da parte di una persona, che dal cognome, denota le sue origini italiane, in quanto ha offeso il Capo dello Stato e con lui le decine di milioni di elettori statunitensi, che lo hanno portato democraticamente alla presidenza. Forse le pesava lo smacco avuto nella respinsione da parte del Senato, della messa in stato d’accusa (impeachment) del presidente, da lei fortemente voluta, nel mentre il suo partito, il democratico, faceva una ridicola figura nei caucus dello Jowa. Così facendo si semina, o meglio si coltiva, perché la semina era già avvenuta nel 2016, in occasione delle ultime elezioni presidenziali, l’odio politico nei confronti dell’avversario, che si dovrebbe combattere con le armi dei programmi di governo e di soluzione dei problemi, mentre si preferisce la diffamazione ed il dileggio, il che porta dall’altra parte a rendere “pan per focaccia”, abbassando il dibattito politico a livello di rissa da angiporto.

7 febbraio 2020

 Notarella minuscola

Maleducatissima. Ma va anche detto, per senso di giustizia, che quando la Presidente della Camera ha cercato di dare la mano a Trump, il Presidente si è girato volgendole le spalle. La Pelosi è pur sempre una Signora.

Salvatore Sfrecola

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia costituzionale

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che essa reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente (Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242).

 

La casta è rimasta

È il recente volume (Milano, 2019) di Marcello Altamura che individua, con inchiesta scrupolosa e impietosa, privilegi, lucri, sprechi della politica di oggi.

Nella premessa del libro l’autore ricorda che “nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa si trova una verità italiana che resiste ai secoli: tutto cambia perché nulla cambi. Ossia: se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’é. E così accade anche nella politica italiana, dove il vento del cambiamento resta (per ora) apparente. Dal 2007, anno in cui i privilegi della casta politica vennero messi a nudo da La casta di Stella e Rizzo, un libro che ha inciso non solo sul mercato editoriale ma anche sulla stessa politica italiana, quanto sono cambiate le cose? Pochissimo o nulla: anzi, per certi versi, sono addirittura peggiorate”.

“Perché la politica, in Italia, è soprattutto un colossale affare economico. Oggi come dodici anni fa. Anzi, negli ultimi dieci anni i costi non sono stati affatto abbattuti, al massimo limitati. Spese enormi che includono anche voci decisamente superflue… Costi altissimi e perlopiù ingiustificati. Costi che sono i cittadini a pagare e che sono considerati quasi indispensabili da chi ne usufruisce”.

“La casta dunque, anche se moderna, è rimasta... Sono i privilegi la continuità tra la casta di ieri e quella di oggi”.

 

Di Maio visto da Susanna Turco

Di Maio, scrive Susanna Turco (“Giggino va in trincea”, L’Espresso, n. 3/2020, 30 ss.), genera altro Di Maio. “Cambia giusto il vestito. I risultati si vedono. Pur eccellendo come un camaleonte nella capacità di cambiare forma a seconda del ruolo su cui si posa, infatti, l’ex ministro del Lavoro e del Mise (non ha saputo chiudere un tavolo, per tacere dell’Ilva), pur provando in ogni modo a vestire i panni del ministro degli Esteri resta infatti il ragazzo che faceva lo stewart allo Stadio San Paolo. Zero esperienza internazionale. Zero formazione accademica. Zero inglese – o comunque molto poco. E bisogna immaginarselo, quando, ad esempio, a novembre il giovane Di Maio ha incontrato il russo Sergej Lavrov, uno che fra le altre cose fa il ministro degli Esteri di Putin da oltre tre lustri… E del resto, per condurre i micidiali bilaterali, gli speed date della diplomazia, ci vuole finissima arte politica. Non post sul blog. Non dagli alla casta. Non la piattaforma Rousseau. Tocca sbattere il naso contro la realtà: in quei posti dove la retorica finto-giovanilista di Giggino non l’applaude nessuno”.

“E questo, in fondo, Di Maio lo sa. Tanto è vero che lui il ministro degli Esteri non voleva farlo (voleva essere premier, vicepremier, o magari ministro del Sud, ricordano le sciagurate cronache di quei giorni). Tanto è vero che la sua principale qualità sta appunto in questo: aver capito quali vasti territori non possa nemmeno lambire. E, di conseguenza, non azzardarcisi nemmeno: lasciar fare, piuttosto. Preferibilmente non esserci. Stare altrove. Fino al necessario presenzialismo di questi giorni, in effetti, il dato che saltava più all’occhio era l’assenza di Di Maio: dai vertici mondiali, all’inizio, dalla Farnesina anche dopo”.

 

Processo a Salvini?

Maurizio Belpietro in un articolo apparso su La Verità del 22 gennaio 2020 precisa che “il capo della Lega quando decise di tenere più di un centinaio di profughi a bordo della nave della Guardia costiera lo fece coram populo senza nascondersi all’opinione pubblica. Del resto, vi sono dichiarazioni di vari esponenti dell’allora maggioranza gialloblu che testimoniano di quanto fosse nota la faccenda e per rendersene conto è sufficiente sfogliare le pagine dei giornali… Nel corso di una recente trasmissione radiofonica in onda sul servizio pubblico, il Presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere ha dato pubblicamente del bugiardo al Presidente del Consiglio, smentendo la ricostruzione fatta da quest’ultimo sulla vicenda di cui trattasi… e di essere comunque pronto a sfidare pubblicamente il capo del Governo”.

 

Le solite Sardine

Le Sardine in piazza a Bibbiano. Bene arrivate.

Restano o ripartono? Meglio se restano.

4 febbraio 2020

 

 

 

In margine ad un intervento del Cardinale Parolin

Cittadinanza e integrazione: l’equivoco dello ius culturae

di Salvatore Sfrecola

 

“La cittadinanza è la parola chiave per favorire il processo di integrazione di coloro che sbarcano sulle nostre coste ed evitare fenomeni di ghettizzazione”. Lo ha detto il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, intervenendo alla presentazione dei volumi de La Civiltà Cattolica “Essere mediterranei e fratellanza”.

Ad una lettura “benevola” la frase si può prestare ad una duplice interpretazione. La cittadinanza come presupposto dell’integrazione, la cittadinanza come effetto dell’integrazione, come avveniva nell’antica Roma dove ottenere la cittadinanza, dirsi civis romanus sum, era una conquista, un obiettivo raggiungibile sempre che fosse nell’interesse della res pubblica della quale il candidato doveva condividere i valori essenziali ai quali essere fedele. In sostanza qualunque straniero poteva diventare cittadino ma doveva dimostrare di esserne degno. È così che dal Campidoglio hanno governato re ed imperatori provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto. Avevano ben meritato. Per i militari la cittadinanza si otteneva dopo 25 anni di onorato servizio. E quando la richiesta di cittadinanza avesse riguardato gruppi di stranieri la concessione doveva fondarsi sul consenso dei cittadini romani. Rispetto delle leggi, dunque, e condivisione della romanità. E comunque chi si fosse dimostrato indegno veniva accompagnato senza tanti complimenti ai confini, come nel 187 A.C. quando venero rimandati a casa 12 mila latini “dal momento che una moltitudine di stranieri era diventata un peso insopportabile per Roma”, scrive Tito Livio.

Ho detto, a proposito delle parole del Cardinale Parolin, di una lettura benevola, considerato il ruolo dell’Autore. In realtà, così come formulata, l’espressione sembra indicare un ruolo della cittadinanza propedeutico al processo di integrazione. Il tema, da tempo centrale nel dibattito politico sull’immigrazione, torna di grande attualità a seguito dell’evidente rafforzamento del governo giallo-rosso e, al suo interno, del Partito Democratico che non passa giorno senza che richiami la battaglia sull’estensione della cittadinanza agli immigrati, presentata in forma di ius culturae, come si sente dire, quale riconoscimento di un sorta di conoscenza dell’italianità derivante dalla frequenza di un percorso scolastico in una scuola italiana. Il tutto con gran cassa della stampa e delle televisioni. Sarebbe “integrato” e, pertanto, meritevole della cittadinanza italiana chi avesse, ad esempio, frequentato le scuole elementari. Lontano, dunque, dall’esperienza romana, dal riconoscimento di una utilitas per i cittadini italiani che dovrebbero accogliere gli stranieri, come del resto hanno fatto e fanno alcuni paesi europei. In Germania, infatti, abituati a considerare la patria sopra ogni cosa (uber alles), hanno costantemente cercato di scegliere i migranti da accogliere, come nel caso dei siriani, cristiani e mediamente acculturati anche professionalmente. Quindi facilmente integrabili

Integrazione è parola che esprime un concetto complesso. Il Dizionario Treccani la definisce “assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapposto a segregazione)”. Assimilazione, cioè il “fatto di farsi simili” evidentemente agli italiani. È sufficiente per l’integrazione un ciclo elementari di studi? Ora non è dubbio, al di là delle espressioni usate dai siti che illustrano il contenuto degli insegnamenti ed il metodo didattico, che non si esce dalla quinta elementare con un sentimento di condivisione della italianità in un Paese nel quale da anni, neppure in famiglia, s’insegna il minimo della nostra storia, fondamentale per la formazione del cittadino, tanto che in quell’ambito didattico è inserita l’educazione civica. Nei programmi si parla pomposamente di riferimento alle fonti, di elaborazione di “informazioni tratte da fonti differenti, per ricostruire fenomeno storici”, di “confrontare le caratteristiche delle diverse società, anche rapportandole al presente”. L’alunno “comprende aspetti fondamentali del passato dell’Italia dal paleolitico alla fine dell’impero romano d’occidente, con possibilità di apertura e di confronto con la contemporaneità”.

Tutto questo è sufficiente per favorire l’integrazione di uno straniero, che ha una propria cultura atavica, spesso elementare ma fortemente percepita come guida dei rapporti con la società cui appartiene e con gli altri soggetti che ne fanno parte, una cultura trasmessa dalla famiglia e dal clan e vissuta nell’esperienza quotidiana? Un giudice italiano, con decisione che ha riscosso grandi consensi di persone e di organizzazioni sociali favorevoli all’accoglienza indiscriminata per motivi umanitari, ha perdonato lo stupratore sostenendo che nella sua “cultura” quel comportamento, che a noi fa orrore, non è vietato. Se avesse fatto le elementari sarebbe comunque da considerare integrato e meritevole della cittadinanza? Avrebbe, nel frattempo, maturato la convinzione che la sua “cultura” di origine è diversa dalla nostra, che lo stupro non è solamente un reato ma un’ignobile prevaricazione di una persona che ha la nostra stessa dignità? Ricordo che in una scuola media italiana, quindi ad un maggiore livello di istruzione, le ragazze di fede islamica si sono rifiutate di alzarsi in piedi per un minuto di silenzio in ricordo delle vittime del Bataclan, giovani di poco più grandi, perite in un attentato terroristico, non un atto che potrebbe essere controverso. Secondo il PD meriterebbero la cittadinanza.

L’accoglienza, dunque, per motivi umanitari va tenuta distinta dalla integrazione/assimilazione all’esito della quale è consentita la concessione della cittadinanza, sempre che risulti verificato l’interesse della comunità nazionale ad acquisire quel determinato soggetto. La cittadinanza, dunque, con tutto il rispetto dovuto al Segretario di Stato di Sua Santità, non è la premessa dell’integrazione ma ne è la conseguenza. D’altra parte sembra evidente che non basta frequentare una scuola negli Stati Uniti d’America, neppure una delle più prestigiose università, per “sentirsi” americani, per essere integrati in quella complessa società nella quale convivono etnie diverse dove peraltro si sentono tutti americani, statunitensi, come dimostra l’impegno dei giovani sui fronti di guerra e l’ossequio che riservano alla bandiera a stelle e strisce, ovunque, anche fuori delle abitazioni private.

L’integrazione vera è anche favorita dall’ambiente, dalla società nella quale ci si intende integrare. Quale esempio possiamo dare noi italiani agli integrandi se non ricordiamo neanche i rudimenti della nostra storia unitaria dell’epopea risorgimentale nel corso della quale i migliori cervelli dal Nord al Sud si sono impegnati col pensiero e l’azione per favorire l’unità? Se le bandiere nazionali esposte al di fuori delle scuole, dove si formano i cittadini e dove gli stranieri dovrebbero assorbire la nostra “cultura” per sentirsi integrati, sono spesso degli stracci dai colori irriconoscibili? Ovunque, fino alle bandiere esposte dalla Scuola Nazionale di Amministrazione lungotevere Maresciallo Diaz, assolutamente improponibile. E pensare che è una struttura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, cioè del governo della Repubblica italiana.

È logico, dunque, che il coraggioso bambino egiziano che ha salvato i compagni presi ostaggio in un pulmino da un aspirante suicida, al quale abbiamo riconosciuto per il suo eroismo la cittadinanza, si faccia fotografare avvolto nella bandiera egiziana e probabilmente inneggi al grande Faraone Ramses II, orgoglio della sua nazione, dal momento che i suoi compagni non gli hanno detto, perché i più non lo sanno, che per gli italiani il Padre della Patria è Vittorio Emanuele II, il Re che rese possibile la convergenza delle più diverse idealità nel moto unitario del Risorgimento, e del quale ricorre quest’anno il 200mo anniversario della nascita (14 marzo 1820).

3 febbraio 2020

 

Circolo di Cultura e di Educazione Politica

Rex

“Il più antico circolo culturale della Capitale”

72º ciclo di conferenze 2019-2020

2 febbraio, ore 11

Il Circolo REX è lieto ed onorato di presentare,

primo in Roma,

un libro di estremo interesse

“La solitudine del Re”

che raccoglie parte della corrispondenza intercorsa nei lunghi anni dell’esilio di Umberto II, tra il Re ed il suo fedele Ministro Falcone Lucifero. Un evento eccezionale perché nella storiografia non vi era mai stata una pubblicazione del genere. E questo è merito del nipote del Ministro della Real Casa, il marchese avvocato Alfredo Lucifero, al quale lo Zio aveva lasciato sia il suo diario, sia questo carteggio.

Ad illustrarne la storia sarà lo stesso Nipote , dopo una presentazione del professore Emanuele, ed una analisi storica del professore Perfetti, e della curatrice del volume Lia Bronzi.

Con l’occasione sarà presentato anche un libro di poesie di Alfredo Lucifero da parte del critico Carlo Motta.

Essere presenti significa onorare e rinverdire la memoria del nostro amato RE e rendere omaggio alla persona che Gli fu più vicina negli amari anni dell’ingiusto esilio .

Sala Roma, presso “Associazione Piemontesi a Roma”

Via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale) o 16 B (ingresso con ascensore)

raggiungibile con le linee tranviarie 3 e19 ed autobus 910, 223, 52 e 53

 

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia civile

In caso di accertamento della responsabilità medico-chirurgica, attesa l’innegabilità e l’indispensabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza tecnica presenta carattere “percipiente”, sicché il giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova (Cass., Sez III civ., 15 novembre 2017, n. 26969, a cura di Mario Piselli, in Guida dir., n. 12/2018, 62).

 

Andare oltre per cambiare

Da più parti si sostiene la necessità di “andare oltre per cambiare e per vivere un cambiamento di epoca, non per restare sé stessi.

Un atteggiamento inconsueto nella storia italiana, dove le alleanze tra partiti e culture diverse sono state formate per conservare, non per cambiare. Con una grande eccezione: l’incontro tra democristiani e comunisti negli anni settanta, nella versione di Aldo Moro, ben più che nel compromesso storico immaginato da Enrico Berlinguer, avrebbe lasciato alla fine del processo due partiti profondamente cambiati. Forse per questo motivo non si è mai compiuto… Nelle altre operazioni, a cominciare da quella da cui prese l’avvio il Pd, si è cambiato per non morire, cambiare per la necessità di farlo e non per una spinta di libertà, cambiare per conservare: una pura occupazione di spazio. La manovra dell’agosto 2019, l’abbraccio tra il Pd e M5S e la nascita del governo Conte due, non è sfuggita a questa regola. Anzi, la stessa personalità del presidente del Consiglio suggerisce continuità, trasformismo, gattopardismo. Anche se ora, per il segretario del Pd Nicola Zingaretti, è diventato un punto di riferimento per tutti i progressisti...

Per la politica italiana, andare oltre è una rigenerazione di quelle radici che non possono essere tranciate, significa rischiare qualcosa di sé stessi per far nascere qualcosa di nuovo. Nei prossimi mesi non ci saranno più Pd e M5S così come li conosciamo. Il Movimento fondato da Grillo e Casaleggio, e affondato da Di Maio, deve riscrivere totalmente la sua presenza nel Palazzo e nella società. Il Pd di Zingaretti uscirà trasformato dall’incontro con quella che potrebbe essere l’unica vittoria della sua storia, la difesa del fronte emiliano-romagnolo”. (Marco Damilano, ”Cambiamento d’epoca, L’espresso, 29 dicembre 2019).

 

Pillole di storia antica

È una raccolta di aneddoti di tutto il mondo antico, curata da Costantino Andrea De Luca (Roma, 2019).

Uno dei più gustosi è il seguente. Il 3 gennaio del 106 a.C. nacque nel Comune di Arpino, nel Lazio, Marco Tullio Cicerone. Suo padre apparteneva all’ordine equestre, ed era quindi di rango inferiore rispetto alla grande maggioranza dell’aristocrazia romana. Cicerone veniva quindi preso in giro spesso dai colleghi per le sue “origini umili”. Plutarco racconta che durante un’accesa discussione, probabilmente a un processo, Metello Nepote, discendente da una delle famiglie più nobili della città, soleva chiedere all’Arpinate chi fosse suo padre. La domanda era volutamente provocatoria, poiché sottolineava le origini inferiori del suo interlocutore. Cicerone lasciò parlare Metello per un po', poi gli rispose: “A te non posso fare la stessa domanda, caro Metello, perché tua madre ha reso la risposta alquanto difficile” (n. 207, 201 s.).

Era infatti risaputo che la madre di Metello fosse una donna molto dissoluta.

 

Sanremo

“Non vedo mai Sanremo.

Amnesty International dovrebbe annoverarlo tra le torture”.

(Vittorio Sgarbi, “Diario della capra 2019/20”, Milano, 2019).

 

Un valente scrittore ci ha lasciato

Il 12 gennaio è deceduto Giampaolo Pansa, suscitando unanime rimpianto.

Scrittore colto, prolifico, autore di numerose opere di successo, alla costante ricerca, nei suoi lavori, della verità storica.

 

Bibbiano

Sia fatta integrale giustizia. Senza sconti.

28 gennaio 2020

 

 

 

I veri professionisti della politica

di Domenico Giglio

 

Se avevamo definito i “Cinque Stelle”, dilettanti allo sbaraglio, dobbiamo dare atto che l’attuale segretario del PD, nonché presidente della Regione Lazio, Zingaretti, da vero professionista della politica, ha saputo trasformare in vittoria quella che in realtà è stata una mezza sconfitta. Per oltre un quarto d’ora, domenica sera, ai primi risultati delle elezioni regionali, a reti televisive unificate (Porta a Porta, TG7,Sky,RaiNews,TG5), nemmeno fosse il messaggio di Capodanno del Capo dello Stato, ha imperversato senza interruzione sul significato storico della vittoria in Emilia Romagna (poi vedremo come non sia stato così in tutte le province), che è stata solo il mantenimento di quanto la sinistra già aveva fin dalla nascita, mai troppo deprecata, dell’Ente Regione, e snobbando (speriamo non si offendano i calabresi) la disfatta storica del centrosinistra in Calabria, che passava trionfalmente al centrodestra (55,71% contro 30,26, cioè più del 25% !) dove il PD aveva fatto ricorso ad un industriale indipendente, non avendo nemmeno la faccia di presentare un candidato presidente iscritto al Partito.

Questo atteggiamento del segretario ex comunista, oggi “democratico”, riprendendo una tradizione comunista di trasformare in ”democratiche” tutte le associazioni fiancheggiatrici è la prova di una scuola che preparava funzionari e dirigenti del vecchio partito, e insegnava a come utilizzare degli slogan di facile effetto, come è stato in tutta la campagna elettorale parlare degli avversari, come fomentatori d’odio.

Ma è possibile che noi italiani abbiamo la memoria così corta! Dal 1945 in poi se vi sono stati dei seminatori d’odio istituzionale, politico, sociale questi non sono stati certo gli esponenti del centrodestra di allora, ma gli esponenti delle varie sinistre, sempre di matrice comunista. Tornando ai “sovrumani silenzi”, zingarettiani e non leopardiani non solo sui risultati della Calabria, anche per quanto riguarda l’Emilia è opportuno sottolineare che ben 4 province, non certo secondarie, hanno dato la maggioranza netta dei voti alla non brillante candidata del centro destra, Piacenza con il 59,60% contro il 36,8 % (più 22,8), Ferrara con 54,80 contro 40,70 (più 14,1), Parma con 49,6 contro 45,6 (più 4,00 - ritorna il Ducato di Parma e Piacenza ?!) ed infine anche Rimini (forse in omaggio a Fellini?) con un ridotto 47,50 contro 46,40. Dei grillini e dei loro candidati non parliamo perché non siamo dei Maramaldi.

27 gennaio 2020

 

 

 

 

Di Maio e il “fuoco amico”

di Salvatore Sfrecola

 

Si è dimesso Luigi Di Maio, da Capo politico del Movimento 5 Stelle, con un discorso, preparato da un mese, come ha tenuto a precisare, fatto di recriminazioni, di denunce nei confronti di chi all’interno del Movimento lo avrebbe sabotato. Insomma, tutta colpa del “fuoco amico”, senza riconoscere nessun errore alla sua azione politica, alle scelte che ha portato avanti da quando, giovanissimo, ha assunto le funzioni di Vice Presidente della Camera, gestendo il delicato ruolo con indubbia compostezza ed equilibrio; l’Assemblea di Montecitorio, un osservatorio straordinario che avrebbe dovuto assicurargli quella conoscenza della politica e della gestione del governo che non aveva potuto fare in precedenza.

Invece non ha imparato, non ha saputo trarre, dall’osservazione che quel ruolo parlamentare gli assicurava, quella maturazione che l’esperienza porta con se, sempre se hai il desiderio e l’umiltà di imparare. E così, giunto al governo non solo ha voluto il ruolo di Vice Presidente del Consiglio, che gli spettava in quanto leader di una delle due componenti dell’Esecutivo, ma ha preteso e ottenuto due ministeri di grande importanza e di straordinario impegno, il lavoro e le attività produttive, ciascuno dei quali, nelle attuali condizioni di carenza di lavoro e di crisi aziendali di grandi proporzioni e di rilevante impatto sull’economia non solo del territorio, farebbero tremare le vene ai polsi di politici di maggiore anzianità di servizio. Non Luigi Di Maio che non conosce limiti, che ritiene basti avere qualche opinione, anche solo generica, per ottenere ed imporre alla struttura amministrativa di realizzare gli obiettivi. Trascurando che sono obiettivi politici, spesso interferenti nella competenza di altri ministeri. Si pensi all’ILVA che riguarda una gestione la quale fornisce acciaio ad una vasta gamma di attività ricadenti nelle possibilità operative di altro comparto della Pubblica Amministrazione, ad esempio delle infrastrutture perché, di fronte ad una crisi della richiesta di acciaio, lo Stato avrebbe potuto rispondere con un grande piano di opere infrastrutturali in un Paese gravemente carente, in particolare di ferrovie, al Sud e nelle isole, ferrovie necessarie per sviluppare le rispettive economie.

Preso dalla sua volontà di fare, incurante degli effetti di alcune misure, alimentate solo da demagogia e da quella invidia sociale che muove da sempre il popolo minuto giustamente indignato dalle gravi trascuratezze della politica, ha preteso misure di contenimento delle pensioni alterando principi fondamentali di giustizia, che impone sia mantenuta la promessa fatta a chi, in costanza di servizio, ha versato i contributi previsti, e della gestione finanziaria dello Stato che riserva al fisco la ricerca delle risorse necessarie per finalità di giustizia nell’ambito di una società composita.

In questa bulimia del potere Di Maio non ha studiato e immaginato le reazioni che quelle misura avrebbero provocato ed ha continuato affidando a parole ed a slogan rappresentativi del nulla la ricerca del successo, senza preoccuparsi delle plurime sconfitte elettorali e del forte malcontento che questo ha provocato tra deputati e senatori. Questi, in costanza della regola del divieto di un nuovo mandato dopo il secondo, preoccupati dal calo dei consensi e dagli effetti della riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari, hanno visto sempre più difficile continuare una esperienza politica ricca di attrattive per persone mediamente di scarsa professionalità, molte delle quali senza alcune esperienza lavorativa. Questi, più di lui attenti agli umori dei territori, hanno presto manifestato dissenso rispetto ad una gestione verticistica del potere ed a politiche pubbliche capaci di scontentare i più.

Ma Di Maio non ha percepito questo disagio, l’insufficienza della proposta politica, la inadeguatezza dei risultati anche rispetto a misure di qualche interesse, sia pure assistenziale, come il “reddito di cittadinanza”. Gravissimo limite per un Capo che deve avere il polso della situazione anche nelle sue prospettive. E così, di fronte al crollo dei consensi e nella ragionevole ipotesi di ulteriori sconfitte in Emilia-Romagna ed in Calabria, che il Partito Democratico attribuirà alla conduzione della campagna dell’alleato che gli ha fatto mancare voti presentando una lista ed un proprio candidato presidente. Un tempo sarebbe stata definita una lista di disturbo.

Se ne va, dunque, Luigi Di Maio e si toglie la cravatta in un finale gesto di sfida ai suoi ed a quanti avevano apprezzato il look “ministeriale” che fin dall’inizio lo aveva caratterizzato. Non è servito, sembra dire in questo finale gesto di ribellione, quasi a mostrare il petto al “fuoco amico”. Che se c’è stato lo ha provocato lui stesso con i suoi tanti errori, frutto di ignoranza e di arroganza, che, infatti, non riconosce. È il limite dell’uomo. La sua modesta dimensione politica.

23 gennaio 2020

 

 

Autogol grillino

di Domenico Giglio

 

Sentendo parlare delle dimissioni di un importante leader ho pensato a Zingaretti, che tra Segretario PD e Presidente della Regione Lazio avesse scelto una delle due cariche dimettendosi dall’altra, cosa quanto mai logica ed opportuna. Mi sbagliavo. Si trattava invece del pentastellato Di Maio, l’elegante e raffinato capo politico del grillini, chiamato tempo or sono a tale carica da ben 30.000 di loro.

Perché lo definisco autogol? Perché avvicinandosi a delle importanti elezioni regionali questa notizia non può che creare ulteriori difficoltà all’elettore grillino, già disorientato, che in fondo vedeva in Di Maio un esponente di prestigio (Ministro degli Esteri!) ed ora rimane scioccato in attesa di un nuovo capo assai meno conosciuto.

Nel calcio si diceva “squadra vincente non si tocca”, e certo oggi come oggi il Movimento Cinque Stelle non era certo vincente, ma aveva con Di Maio una certa visibilità. Ci si domanda: perché tanta fretta. Aspettare il 26 gennaio cosa comprometteva? Forse si è voluto evitare che il peso di una sconfitta ricadesse su Di Maio. Anche dopo queste dimissioni ricadrà egualmente su di lui e forse la sconfitta (che non ci farà certo piangere) sarà ancora maggiore, ma cosa si può aspettare da un movimento che mi ricorda “Dilettanti allo sbaraglio”.

22 gennaio 2020

 

 

 

Il taccuino del Direttore (22 gennaio 2020)

 

Dissoluzione del M5S tra arroganza e ignoranza della storia nella personale esperienza di Luigi Di Maio

Già dal pomeriggio di ieri correva voce che Luigi di Maio, capo politico del Movimento Cinque Stelle e Ministro degli affari esteri, avrebbe lasciato la carica politica mantenendo tuttavia la direzione del dicastero che oggi appare tra i più impegnativi in relazione alla crisi politica che interessa vaste aree, tra le sponde del Mediterraneo, davanti alle coste italiane, e lo scacchiere medio orientale. I giornali di oggi commentano la probabile scelta del leader del M5S e, insieme, si dilungano sullo stato di salute del movimento che, dopo il boom del 2018, perde progressivamente consensi e parlamentari, quasi quotidianamente.

Sarà certamente effetto del desiderio di alcuni, che hanno provato l’impegno politico in Parlamento, di essere confermati in una condizione di obiettiva difficoltà dovuta al limite dei due mandati in uno al ricordato calo dei consensi e alla contemporanea decisione di ridurre il numero di deputati e senatori, condizioni che limitano necessariamente le aspettative di molti. Ma non è da trascurare, anzi è probabile che in queste considerazioni si annidi la realtà dei fatti, che il Movimento abbia esaurito la propria spinta “rivoluzionaria”, la capacità di attirare consensi per essersi presentato come “anticasta”, portatore di un vento di rinnovamento nei confronti della classe politica che aveva dimostrato tutta la sua inadeguatezza negli anni precedenti. E qui va detto che la sicumera, l’arroganza che ha contraddistinto nel tempo la propaganda politica, dalla polemica nei confronti dei “competenti”, sicché “uno vale uno”, anche se non sa usare i congiuntivi, e l’azione di governo dei Grillini è dimostrazione dell’ignoranza della storia la quale ci dice che i movimenti di protesta hanno bisogno di assumere rapidamente un atteggiamento concreto, costruttivo che si ispiri ad un ideale politico, ad una filosofia, sia pure generica, che li consegni ad una ben definita parte dello schieramento politico. Dire “non siamo di destra né di sinistra”, ripetuto anche in questi giorni nei quali la campagna elettorale per le elezioni regionali rende surriscaldato il clima politico, è uno slogan che non regge nel tempo. E se inizialmente aggrega, in quanto la contestazione della classe politica facilmente accomuna soggetti provenienti da posizioni ideali diverse, al momento delle scelte di governo le indicazioni programmatiche non possono essere del tutto asettiche rispetto alla filosofia politica che contraddistingue ed identifica chi partecipa al dibattito sui destini di una comunità politica.

Tuttavia la carenza dimostrata dai Grillini non è soltanto ideale, è anche culturale, storica, perché una minima analisi del pregresso li avrebbe portati a considerare che, già nell’immediato dopoguerra, un movimento politico di protesta, quello dell’“Uomo Qualunque”, guidato da un brillante commediografo, Guglielmo Giannini, irrompendo nell’agone politico con vivace determinazione, aveva contestato i partiti al governo ma si era rapidamente disgregato dinanzi alla realtà delle esigenze della governabilità. Sicché personaggi brillanti, aggregati intorno al commediografo napoletano, in parte lasciarono la politica, in parte aderirono ai partiti che pure avevano duramente contrastato.

Ed in proposito, uno storico raffinato, Lucio Villari, ricorda (Bella e perduta, l’Italia del Risorgimento) come già ai tempi dei moti del 1848 a Napoli si era andato delineando, all’ombra del Borbone e dei suoi amici “umanamente e politicamente vicini ai lazzaroni, alla plebe e ai preti ignoranti (condividendo la loro volgarità, le loro spesso ciniche battute di spirito, i razzi e le buffonerie di un “napoletanismo” scherzoso ma intellettualmente finto e disonesto) che non alla borghesia in ascesa” un movimento politico che molto somiglia all’Uomo Qualunque e al Movimento Cinque Stelle che “ritenevano non necessarie alla società le persone istruite, tranne, dicevano, i medici per curare gli ammalati e gli ingegneri per costruire le case”, con l’effetto che rapidamente “il meglio della società meridionale era sparito dall’orizzonte culturale del paese e i superstiti sceglievano il silenzio e l’attesa”. Per la verità molti si trasferirono in Piemonte attratti dalle vivaci iniziative del governo sabaudo alimentato dalla fantasia e dalla determinazione del conte di Cavour. “La “mediocrità” amata dai Borbone – commenta Villari - non era altro che la “mediocrità che regnerà sempre” scolpita nei versi della Palinodia leopardiana… Nel regno persino una struttura portante come forze armate risentiva della diffidenza del re nei confronti di una possibile crescita culturale dei militari. Scarsa cultura e nessun ideale del di italianità dovevano illuminarli. Fu per questo che il bene armato esercito borbonico, privo di supporti culturali e di alte idealità, agì stupito fino al tradimento del 1860. Un castello di carte che sarebbe crollato, tranne un estremo guizzo di orgoglio, sotto l’impeto patriottico delle camice rosse di Garibaldi”. Ma su questo torneremo ancora.

 

Se Conte si fa fotografare in seconda fila

Riflettevo sull’immagine di Giuseppe Conte, il nostro Presidente del consiglio dei ministri, relegato in seconda fila nella foto di gruppo al termine della riunione sulla crisi libica. La televisione ed i network lo hanno impietosamente ripreso mentre scrutava il pavimento alla ricerca delle suo posto che immaginava in prima fila, accanto ad Angela Merkel e ad Emmanuel Macron. Invece il cerimoniale gli aveva riservato un posto in seconda fila, al lato, obiettivamente del tutto inadeguato al ruolo politico che nella vicenda libica dovrebbe spettare all’Italia che sull’altra sponda del Mediterraneo ha interessi economici antichi e, ancor più antiche, relazioni culturali. È evidente che Conte sconta errori della politica estera italiana non solo del suo governo ma risalenti agli anni immediatamente successivi alla conclusione dell’esperienza coloniale che i nostri governi non hanno saputo gestire creando solidi, comuni interessi economici assistiti da una consuetudine culturale consolidata e resa evidente anche dalle testimonianze della presenza romana, espressione altissima di civiltà, come dimostrano, se non altro, i pozzi scavati del deserto per sottrarre alla sabbia terre da coltivare a grano per le esigenze dell’Impero.

Incertezze politiche, modestia culturale, incapacità di assumere iniziative coraggiose in politica e in economia pongono oggi l’Italia ai margini del dibattito internazionale laddove si decidono gli equilibri geopolitici e, in fin dei conti, le sorti dell’economia dei singoli paesi. È veramente deprimente la condizione politica che viviamo, intollerabile, assolutamente, che non meritiamo.

Nel commentare su Facebook la foto di Berlino Rinaldo Silvagni ha scritto “fortuna per lui che le file erano solo 2”.

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia civile

La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam. Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi. Qualora quest’ultimo diritto non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera (Cass., Sez. Un. civ., 7 novembre 2017-16 febbraio 2018, n. 3873, in Guida dir., n. 12/2018, 42 ss.).

 

Novità al Centro

“Forza Italia langue, ma Mara Carfagna – con la neonata associazione Voce libera – sembra intenzionata a costruire un’alternativa o una variante rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora governatore della Liguria, con la costituzione del movimento Cambiamo. E un processo analogo, di distacco di ali centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo Renzi ha fondato Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha creato Azione”.

Il consenso che le forze politiche di centro riescono a catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri… La novità è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia e Cambiamo) e due a sinistra (Italia Viva e Azione)”.

“Ma che cosa impedisce l’allargamento del consenso ai partiti di centro?… Una ragione, ovviamente, è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma esiste anche una ragione più profonda, e come tale più seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben vedere, le quattro – cinque formazioni che si contendono l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo quando dal piano dei principi generali si scende a quello delle proposte politiche specifiche” (Luca Ricolfi, “Giustizia e tasse. Due idee spartiacque per il centro che verrà”, Il Messaggero, 30 dicembre 2019).

 

Finalmente!

Pare che per la proprietà della Roma calcio – pur se taluni particolari della cessione sembrerebbero ancora da definire – dopo la fallimentare gestione di Pallotta, personaggio ormai inviso alla stragrande maggioranza dei tifosi giallorossi, siano in arrivo uomini nuovi.

Dopo sette anni senza successi, campagne acquisti e cessioni di assoluta e deplorevole inconsistenza, l’allontanamento di due giocatori storici molto amati dai tifosi quali Totti e De Rossi, la chimerica attesa di un nuovo stadio, la proprietà della Roma passa, per 790 milioni, nelle mani di un altro americano, Dan Friedkin che, comunque vadano gli eventi, non farà sicuramente rimpiangere Pallotta.

Ma anche l’intero direttivo necessita di un accurato repulisti, che veda persone competenti e di sicuro affidamento al timone societario.

 

Un libro da leggere (o da rileggere)

È l’interessante lavoro di Aldo Cazzullo, “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione”, che, seppur edito da Mondadori nell’anno 2018, conserva ancora la sua integrale attualità.

Il volume inizia ricordando che “la notte di Natale del 1948, accanto al presepio – l’albero non si usava – la maggioranza dei bambini italiani trovò come regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli… Eppure eravamo più felici allora di adesso. Al mattino ci si diceva: speriamo che oggi succeda qualcosa. Ora ci si dice: speriamo che oggi non succeda nulla”.

“La Ricostruzione è uno dei grandi momenti della storia d’Italia… L’Italia del 1948 era un Paese a pezzi… Gli italiani avevano sofferto moltissimo… Eppure un Paese così provato seppe rimettersi in moto con una rapidità impressionante”.

“Anche oggi l’Italia è un Paese da ricostruire… Abbiamo infinitamente più cose di allora… ma siamo anche più depressi”.

“Molti giovani non hanno fiducia nel loro Paese, e il loro Paese non ha fiducia in loro. L’Italia investe troppo poco nelle cose per cui è importante: la cultura, l’arte, la bellezza, lo spettacolo, la ricerca. Il risultato è che migliaia di laureati, formati con il denaro pubblico, vanno a esercitare il loro talento all’estero”.

“Si va facendo strada l’idea pericolosissima per cui studiare non serve a nulla… E la politica alimenta e collega i malcontenti, facendo promesse impossibili”.

Ecco perché ci sentiamo di condividere in pieno la frase riportata sul retro della copertina del volume: “Anche oggi siamo un Paese da ricostruire. Vediamo come abbiamo fatto l’altra volta”.

Lo stile narrativo è agile e piacevolmente coinvolgente.

Si consiglia la lettura ai giovani e ai meno giovani: ai primi perché abbiano adeguata conoscenza di persone e fatti di un recente passato ed ai secondi perché abbiano migliore consapevolezza di quanto attualmente accade.

Un’ultima notazione. Alla pag. 149, parlando di Giuseppe Dossetti, fondatore del gruppo meglio conosciuto come “Comunità del Porcellino”, viene citata “una senatrice bresciana”. Confortato dal parere di alcuni amici, dovrebbe trattarsi dell’indimenticabile Prof. Laura Bianchini, una delle 21 donne dell’Assemblea costituente e, se così fosse, riteniamo che non meriti l’anonimato.

Rientrata, poi, nella scuola, dopo l’esperienza politica, è stata impareggiabile docente di storia e filosofia nel Liceo classico Virgilio di Roma.

21 gennaio 2020

 

 

Zingaretti (non Montalbano) uno, bino, trino

di Domenico Giglio

 

In una recentissima intervista lo Zingaretti, politico, segretario nazionale del Partito Democratico, ha parlato di un nuovo partito o partito nuovo, capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale, impresa senza dubbio impegnativa in entrambi casi. Ma questo Zingaretti non è anche il Presidente della Regione Lazio, che comprende la capitale Roma, oltretutto la città più popolosa e popolata d’Italia? E’ anche lo stesso che colloquia su problemi del governo nazionale con il cinque stelle (non quelle degli alberghi di lusso) Di Maio? Non è anche quello che gira l’Italia per tutte le varie Regioni dove si tengono elezioni, facendo anche pranzetti riservati con il candidato della sinistra, dell’Emilia Romagna, Bonacini, per non comprometterlo con il PD?

Insomma è uomo di multiforme ingegno ed interessi e fra loro, compresa Regione Lazio, non c’è contrasto di leggi o divieti di cumulo, ma rimane il fatto incontrovertibile che governare una regione non richiede molto tempo, se il titolare della presidenza può dedicarsi a tutte queste altre attività. Questa duplicità è però strana ed unica dal momento che tutti gli altri presidenti regionali svolgono solamente il compito di governare la propria regione e non ci sembra che abbiano tempo per altre occupazioni. Meraviglia che gli esponenti del centrodestra alla Regione Lazio, che oltre tutto rappresentano la maggioranza degli elettori laziali, in quanto Zingaretti fu eletto grazie ad una dispersione di voti del centrodestra, provocati dalla lista di un personaggio che non volle rinunciare a candidarsi praticamente da solo per una sterile ambizione.

Chiedano perciò gli esponenti del centrodestra laziale a Zingaretti di scegliere o Presidente o Segretario e denuncino ai cittadini del Lazio questa incredibile situazione per cui il suddetto debba praticamente decidere, e non si fermino ai primi logici dinieghi, ma sappiano insistere con quella costanza che la sinistra saprebbe usare a parti invertite.

11 gennaio 2020

 

 

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia civile

Il giudicato implicito su una questione pregiudiziale rispetto ad altra, di carattere dipendente, su cui si sia formato giudicato esplicito esterno, deve escludersi, allorché la prima abbia ad oggetto un antecedente giuridico non necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le stesse parti in relazione a ulteriori e distinte controversie (Cass. civ., Sez. II, 9 novembre 2017, n. 26557, a cura di M. Finocchiaro, in Guida dir., n. 12/2018, 62).

 

Metodo sbrigativo per l’approvazione del bilancio.

Salvatore Sfrecola (“Escludere il Parlamento sulla legge di bilancio è uno sfregio alla Carta”, La Verità, 22 dicembre 2019) si è occupato, da qualificato esperto e non da orecchiante, del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020, di recente approvato, col fiatone, dai due rami del Parlamento. Trattasi, come è stato bene evidenziato, di “un impegno inutile, perché quel documento è immodificabile. Non giuridicamente, ma perché non vuole la maggioranza giallo-rossa, paventando il ricorso all’esercizio provvisorio”.

Operando in tal modo è stato assestato un duro colpo alle prerogative parlamentari. Inoltre, “il mancato approfondimento del bilancio nella apposita sessione che le Camere riservano all’esame dei documenti finanziari, costituisce una gravissima lesione della democrazia. Insufficiente l’esame, impedito l’esercizio del potere emendativo che spetta a ciascun parlamentare, il bilancio è stato approvato sulla base di un maxiemendamento sul quale il governo ha posto la questione di fiducia”.

Questo “è un nuovo, preoccupante segnale di allarme per la democrazia rappresentativa. E non è certo il pericolo dell’esercizio provvisorio che può giustificare questa compressione dei diritti costituzionali delle Camere perché previsto dalla Costituzione all’art. 81, comma 2… All’esercizio provvisorio l’Italia è ricorsa per anni senza che vi siano stati effetti negativi. Anzi, si può dire che la spesa, in questi casi, è stata più prudentemente diluita”.

Pertanto, “è indubbio che stiamo assistendo, come in altri casi di abuso della questione di fiducia, ad una limitazione delle prerogative dei parlamentari e quindi della sovranità che appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, come si esprime l’art. 1”.

 

Alleanze male assortite

“Per l’Italia è stato politicamente l’anno dei due Giuseppi, il Conte uno e il Conte due, e l’anno dei due Mattei, Salvini e Renzi. Prima paralleli, quando il primo decise in modo ancora oggi misterioso e suicida di muovere una situazione in cui aveva tutto da guadagnare per far cadere il governo di cui faceva parte senza avere un piano di riserva e quando il secondo ne approfittò per rovesciare quanto aveva affermato fino a poche ore prima e dare il via libera al governo con il Pd e il M5S, oggi convergenti nel desiderio di smuovere la situazione, ma di convergenza parallela, come si addice alle alchimie della politica italiana, e dunque a distanza, e senza fidarsi troppo uno dell’altro, e come potrebbe essere altrimenti, guardinghi, sospettosi, degli altri e forse anche di sé” (Marco Damilano, “Più in alto e più lontano”, L’Espresso, n. 52/2019, 22 ss.).

 

Roma langue

Tra buche, rifiuti sparsi ovunque, cartacce, topi, volatili imbrattatori, bus in fiamme e chi più ne ha più ne metta, Roma barcolla.

È a dir poco inconcepibile che il degrado e l’abbandono abbiano così duramente attanagliato la capitale d’Italia. Per tacere del traffico caotico reso vieppiù incontrollabile dallo stato inaccettabile di numerose strade, causa anche di incidenti particolarmente gravi.

Ma cosa si aspetta ad intervenire con provvedimenti idonei a porre rimedio a siffatta situazione preagonica?

Deficitaria risulta, altresì, la chiusura di alcune fermate della metro che provoca non pochi intralci alla movimentazione cittadina.

Programmare, rinviando sine die la conclusione di ogni lavoro, è un virus evidentemente contagiato dal Governo centrale.

 

Un libro da leggere

Deve essere segnalato un recente volume di Corrado Augias, prolifico e profondo scrittore, “Questa nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria” (Torino, 2017).

Particolare apprezzamento meritano le pagine su Palermo “Pieni gli occhi del ricordo di lei”, dove si incontrano personaggi e luoghi ricordati con avvincente partecipazione.

Identico elogio spetta al saggio “Il natio borgo del genio” che narra in modo esaustivo e approfondito la sofferta vicenda umana del grande poeta Giacomo Leopardi.

Ma l’intero volume può essere definito “una lettera d’amore di un raffinato uomo di lettere, che ha imparato a guardare la sua patria da fuori senza però mai smettere di amarla”.

Un libro tutto da leggere e da meditare ed il calibrato stile narrativo dell’autore contribuisce a coinvolgere intensamente il lettore.

9 gennaio 2020

 

 

 

Il taccuino del direttore (6 gennaio 2020)

 

Si assottiglia la pattuglia dei 5 Stelle

L’incontro tra Di Maio e Zingaretti (“ che fa arrabbiare in Italia viva”, come scrive Monica Guerzoni sul Corriere della Sera), enfatizzato senza che ne siano stati spiegati gli obiettivi, è la prova della debolezza del leader del Movimento Cinque Stelle, alla ricerca di una visibilità e della riconferma di un ruolo politico che sente sfuggirgli ogni giorno di più all’annuncio di defezioni dai gruppi parlamentari della Camera e del Senato, mentre altri sono preannunciati o prevedibili a breve.

Le defezioni di deputati e senatori sono l’immagine riflessa di un elettorato che si assottiglia progressivamente in conseguenza della mancanza di prospettive di rinnovamento della politica da molti intravista nei giovani volonterosi presentati nelle liste elettorali, pur nella consapevolezza della mancanza di esperienza. Si consideri anche, tra le ragioni dell’esodo, l’ipotesi di andare a votare con la riduzione del numero dei parlamentari che determinerebbe la somma di due fatti negativi: il calo del consenso e del numero dei seggi disponibili, per cui forte è la tentazione di chiudere rapidamente la legislatura per tentare di mantenere una rappresentanza parlamentare di un qualche rilievo.

“Né di destra né di sinistra”, il M5S ha dimostrato di non avere un’anima identitaria legata ad una filosofia politica che non fosse basata sulla negazione della professionalità di alcuni, ai quali sono stati ridotti i compensi e pensioni, e sull’assistenzialismo di altri, così mortificando l’impegno di studio e di lavoro, senza offrire prospettive concrete a chi è rimasto ai margini del mercato del lavoro per inadeguatezza dell’offerta o incapacità di corrispondervi. Inevitabile, dunque, il declino del Movimento, come è stato sempre di tutti quelli che hanno cavalcato esclusivamente la protesta, pur largamente condivisa, che non è riuscita a divenire proposta concreta e perseguibile in tempi brevi di crescita e sviluppo. E se ne vanno alcuni, avanguardia probabile di molti. Grillo li vuole cacciare tutti per restare nel fortino dei duri e puri, in quella ridotta, come insegna la storia, che riduce un ruolo che non si è saputo interpretare.

 

A chi la quarta sponda?

È evidente che da troppi anni ormai l’Italia non ha saputo interpretare il ruolo politico ed economico che la sua posizione geografica nell’ambito del Mediterraneo suggerisce e impone da secoli, da quando quel mare fu definito “Nostrum”, per dire che tutte le sponde erano parte dell’impero romano che aveva assicurato a quelle popolazioni prosperità economica in un contesto di grande civiltà. Poi la definimmo “quarta sponda” e, perduta come colonia, non abbiamo saputo riconquistarla favorendo lo sviluppo di una democrazia che avrebbe potuto accompagnarsi ad una partnership economica, industriale, commerciale, turistica che poteva costituire un esempio per altri paesi musulmani moderati. Come avremmo potuto fare per la Somalia invece di vendere armi a questo o quello dei capi tribù in lotta, promuovendo iniziative economiche legate a imprese italiane e somale che avrebbero arricchito quelle popolazioni, garantito pace e sicurezza a quelle aree geografiche che nella incertezza politica diventano sempre più appetibili per le potenze straniere e la criminalità politica.

 

Viaggio in Tunisia

Reduce da un tour delle oasi della Tunisia ho potuto conoscere luci ed ombre di questo territorio e del suo popolo a un’ora di volo da Roma. Un paese la cui economia si basa sull’agricoltura, sull’industria olearia, sulla pesca, tradizionale attività degli eredi dei Fenici e dei cartaginesi, e sul turismo che offre belle spiagge, strutture ricettive di qualche pregio a prezzi certamente concorrenziali. Così Hammamet, Monastir, Djerba. Accanto a queste località ben curate il paese denuncia il degrado di quelle ai margini del deserto dove la povertà e la miseria la fanno da padrone insieme a condizioni di abbandono rese evidenti dalle immondizie agli angoli delle strade e sui marciapiedi. E questo contrasto dimostra che quando si vuole si può fare, che nelle aree dell’interno, caratterizzate da clima caldo, potrebbe essere praticata, con adeguato impegno di moderni sistemi di irrigazione, un’agricoltura che darebbe certamente lavoro ad un popolo che in parte risente della sua storia di nomadismo e quindi di mancata attenzione all’agricoltura che comporta un’attività stanziale. Attività certamente impegnativa ma che oggi è assistita ovunque dalla disponibilità di macchinari che molto alleviano la fatica dell’uomo.

È terra dovunque di contrasti la Tunisia, comunque splendida, che noi sentiamo inevitabilmente vicina alla nostra storia per i monumenti che l’occupazione romana ha lasciato e che sono, ripeto, segno di civiltà perché l’acqua, distribuita dagli acquedotti, è la civiltà, perché i territori soggetti al dominio di Roma godevano degli stessi servizi, dalle strade alle fognature, dai teatri alle terme, che l’Urbe metteva a disposizione dei cittadini che vivevano sulle sponde del Tevere.

 

 

Accoglienza e integrazione

di Salvatore Sfrecola

 

Ferruccio de Bortoli oggi sul Corriere della Sera richiama i nomi dei primi nati del 2020 (“Migranti cosa dicono i numeri”), una fotografia impietosa del calo demografico in Italia. Infatti, sono in prevalenza stranieri i nuovi nati, figli di immigrati che abbiamo accolto con la generosità della quale gli italiani sono capaci da sempre, fin dai tempi dell’antica Roma, che inventò, all’atto della sua fondazione, il diritto di asilo.

Ovviamente questi bambini frequenteranno le nostre scuole, a cominciare dalle materne, seguendo quel corso di studi per cui avrebbero diritto, secondo i fautori dello ius culturae, di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. E qui occorre mettere i puntini sulle “i”, come si dice, perché studiare in Italia non significa automaticamente integrarsi, sentirsi italiani, come studiare a Oxford o ad Harvard non significa essere o sentirsi inglesi o americani. Integrazione vuol dire ben altro. Significa condivisione convinta di valori civili e spirituali comuni al popolo che accoglie e del quale si vorrebbe entrare a far parte, considerato che la legge sulla cittadinanza è costituita da una normativa che ha lo scopo di individuare i membri di una comunità, di un popolo, tale per la sua storia per quanto lo accomuna e ne fa appunto una comunità. Il popolo, quale elemento costitutivo di un ordinamento individua, “tra le varie persone viventi nello Stato, quelle legate al medesimo da un rapporto permanente, ed in virtù di questo capaci di imprimere allo Stato una sua fisionomia, un proprio modo di essere” (Mortati). Il popolo in questo senso comprende i soli cittadini e si distingue pertanto dalla “popolazione”, costituita dalle varie persone fisiche, anche se diverse dai cittadini, le quali vivono in un determinato territorio.

Ora non è dubbio che integrarsi significa condividere i valori che fanno di una comunità di individui un popolo, caratterizzato da una storia comune, dalla consapevolezza delle radici culturali e spirituali che nel tempo si sono consolidate ed hanno assunto una connotazione che distingue un popolo dagli altri, anche se legati da una comune origine, come quando si parla delle radici greco latine dell’Europa.

Così individuato il concetto di integrazione, non può dirsi integrato, tanto per fare un esempio pratico, colui che, in ossequio ad usanze o della cultura del paese di provenienza, intendesse impedire alla figlia di convolare a nozze con un italiano perché di diversa religione, perché in Italia il credo religioso non discrimina, come si legge nell’art. 3, comma 1, della Costituzione che ha recepito valori antichi, già presenti nello Statuto del Regno d’Italia, a dimostrazione che l’uguaglianza “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione” è valore risalente nella cultura di questo popolo. Né potrebbe dirsi integrato l’uomo che impedisse a moglie e figli di vivere con i loro coetanei italiani, né è da considerare integrate le giovani islamiche che in una scuola italiana si sono rifiutate di onorare, in piedi e in silenzio, le vittime del parigino Bataclan perché quell’atteggiamento dimostra una mancanza di rispetto per vittime innocenti di una violenza e nessun rifiuto della violenza attuata dai terroristi inneggianti ad un Dio vendicatore e aggressivo in nome di un desiderio di conquista dell’Occidente Cristiano.

5 gennaio 2020

 

 

Ritorna l’Impero Ottomano?

di Domenico Giglio

 

La recentissima decisione del premier turco, Erdogan, di inviare un corpo di spedizione di oltre 6.000 soldati in Libia, in appoggio ad una delle due parti della guerra civile in corso, non giunge improvvisa, né può sorprendere, perché da anni nelle vicende del Medio Oriente, nelle terre che, come del resto la Libia, facevano parte fino al 1918, o al 1912, dell’Impero Ottomano, la ormai ex repubblica laica impostata e costruita di Kemal Pascià, il mitico Ataturk, sta cercando di riprendere, se non i territori, il predominio.

Niente più Sultano e Califfo, di nome, ma, malgrado gli eleganti vestiti occidentali maschili, Erdogan ha rilanciato l’islamismo all’interno, ed una politica imperiale all’esterno, approfittando della consueta divisione storica risalente al XIX e XX secolo delle potenze europee ed occidentali nei confronti dei territori che facevano parte del vecchio impero. Fenomeno che si è aggravato nel XXI secolo quando in queste nazioni europee è venuta a mancare una classe dirigente culturalmente e storicamente colta, e politicamente preparata, o, come nel caso del Regno Unito, un tempo “lord protettore” dell’Egitto, del Sudan “Anglo-egiziano”, dell’Irak, dello Yemen e Sultanati vari e padrone di Cipro, dopo il 1956 vi è stata una vera abdicazione da questo ruolo storico, con relativa eredità, che il successore statunitense, con presidenti di entrambi i partiti non all’altezza, particolarmente gli ultimi democratici, non ha saputo raccogliere.

Evanescente l’ONU, nella Europa la Spagna da tempo fuori dal giuoco, Germania e Benelux altrettanto, non certo interessati i paesi nordici o balcanici, rimangono Italia e Francia, oltre agli USA, gendarmi del mondo, e qui quella carenza di esperti e di classe dirigente si sente in tutta la sua gravità, nel mentre rinascono le antiche gelosie e rivalità . Al momento vi è stata una contrarietà a questo invio di soldati, ma Erdogan non recederà facilmente e l’unica opposizione, con consueto appello al popolo libico (ma esiste questo popolo?), è venuta da quella parte dei duellanti che si troverebbe a combattere, con scarse possibilità di vittoria, contro un vero esercito efficiente, quale è quello turco.

5 gennaio 2020

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia penale

Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità ex art. 131 bis c.p. non è impugnabile in Cassazione, a esclusione delle ipotesi previste dall’art. 409, comma 6, c.p.p. (casi di nullità per violazione del contraddittorio previsti dall’art. 127, comma 5, c.p.p.), sia perché tale limitazione è espressamente prevista dal citato art. 409, comma 6, c.p.p. e sia perché, comunque, il provvedimento di archiviazione non risulta iscrivibile nel casellario giudiziale, trattandosi di provvedimento non definitivo e, pertanto, viene a mancare l’interesse a impugnare, non risultando il provvedimento lesivo di alcun interesse dell’indagato (Cass., Sez. III penale, 26 gennaio – 20 giugno 2017, n. 30685, con nota di G. Amato, in Guida dir., n. 38/2017, 69).

 

Divisivo

“Divisivo: che crea divisioni o contrapposizioni, impedendo di preservare o di raggiungere un’unità di punti di vista e di intenti (Treccani)”.

“Il sindaco di Predappio qualche settimana fa aveva considerata divisiva l’iniziativa di finanziare il viaggio di uno studente ad Auschwitz. Il comune di Schio di recente ha rifiutato di installare pietre di inciampo in memoria dei suoi cittadini deportati ad Auschwitz considerando la proposta anch’essa divisiva.

Quale unità avrebbero incrinato la visita ad Auschwitz e le pietre di inciampo?”

È la domanda che Sofia Ventura (Divisivo, L’Espresso, n. 49/2019, 7) pone a sé stessa e ai suoi lettori: domanda che anche noi riteniamo di condividere.

Ma nel nostro Paese esistono fin troppe e insensate “contrapposizioni”, figlie evidenti della diffusa cultura becera e acritica.

 

In tre mesi tre nuovi partiti

“Da quando il Partito democratico ha deciso di fare un governo con il M5S, sono nati in Italia due nuovi partiti (entrambi alla sua destra: quello di Renzi e quello di Calenda) e un movimento di protesta che potrebbe diventare anche un partito (alla sua sinistra: le cosiddette “sardine”).

Per il Pd quest’effervescenza ai suoi confini di sigle e proposte politiche, magari minoritarie e in prospettiva effimere ma al momento ben intenzionate ad affermare la propria autonomia e originalità, è un problema serio: l’aumento della concorrenza politico-elettorale nell’area in senso lato di sinistra implica necessariamente la riduzione dei suoi consensi diretti e dunque il suo progressivo indebolimento (come puntualmente certificato dai sondaggi che ormai lo danno sotto il 20%).

Chissà, se si fosse corso il rischio delle urne dopo la crisi agostana innescata da Salvini, invece di imbarcarsi in un’alleanza improbabile con i nemici mortali del giorno prima, si sarebbe forse evitato questo moto disgregatore, a partire dalla scissione renziana” (Alessandro Campi, “In tre mesi tre nuovi partiti a sinistra e a destra del Pd ”, Il Messaggero, 10 dicembre 2019).

 

Moscacieca

Gustavo Zagrebelsky (“Moscacieca”, ed. Laterza, 2015, 250): “Non voler vedere significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi per apprestare rimedi”.

 

In libreria

Vittorio Feltri e Massimiliano Parente (“Il vero cafone. Ciò che non dovremmo fare e facciamo tutti”, Milano, 2016) hanno dato alle stampe questo “galateo al contrario”.

Una guida irriverente per riconoscere il vero cafone in ogni ambito e circostanza della vita. Al termine della lettura scoprirete quanto in ognuno di noi si nasconde un vero cafone

“La cafonaggine, come la signorilità, e i costumi in generale, non sono concetti immutabili, ma cambiano con il cambiare dei tempi. D’altra parte, se oggi ci comportassimo seguendo le regole del galateo dettate da monsignor Della Casa, sembreremmo dei deficienti”.

 

Conviene sciogliere le Camere?

“Una crisi a gennaio può corrispondere all’interesse dei politici, non degli italiani. Né della Costituzione, povera donna. Siccome però il loro interesse di solito prevale sull’interesse pubblico, non si può affatto escludere che, dopo aver festeggiato il Capodanno, la maggioranza faccia harakiri. Talvolta, per sopravvivere, bisogna un pò morire (Michele Ainis, “Ecco a chi converrebbe sciogliere le Camere a gennaio, L’Espresso, 49/2019, 33).

 

“Sardine” in marcia

          In cerca di vagheggiati obiettivi.

26 dicembre 2019

 

 

Limitare l’esame parlamentare del bilancio dello Stato mette in forse la democrazia

di Salvatore Sfrecola

 

Forse non tutti sanno della natura essenzialmente finanziaria delle assemblee elettive la cui storia coincide con lo sviluppo della democrazia fin da quando si è affermato il principio che il prelievo delle imposte debba essere consentito da chi sarebbe stato chiamato a pagarle. Fin dalla Magna Charta Libertatum (15 giugno 1215), quando viene istituita la Camera dei Comuni, assemblea dei contribuenti alla quale il Re Giovanni d’Inghilterra, attribuisce la funzione di autorizzazione al prelievo. In tal modo si legano tassazione e rappresentanza popolare sicché, com’è noto, gli abitanti delle colonie inglesi d’America si ribellano alla Madre Patria perché non era loro consentito di essere rappresentati al Parlamento di Londra. Il loro motto era no taxation without rappresentation, non paghiamo le tasse se non siamo rappresentati ai Comuni. Sicché non è azzardato dire che se i governanti inglesi dell’epoca avessero accolto le istanze dei coloni non ci sarebbe stata la secessione ed oggi Mr. Trump sarebbe probabilmente un suddito di Sua Maestà la regina del Regno Unito.

Nel frattempo all’autorizzazione al prelievo si è unita quella alla utilizzazione delle risorse così assicurate al Governo del Re ed alla Corte, il tutto consegnato in un documento che si chiama bilancio che spetta alle assemblee parlamentari approvare. Si parla, dunque, di diritto “del bilancio” sul quale molto si è discusso, come momento centrale della vita politica in quanto nel bilancio di previsione sono le indicazioni delle politiche fiscali e di quelle della spesa, cioè della assegnazione delle risorse alle politiche pubbliche, dalla sicurezza all’agricoltura, dalla scuola alla giustizia, dall’industria alla sanità, per fare qualche esempio. Tanto che Camillo Benso di Cavour soleva dire “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò con un paese è governato”, dove “ben fatto” significa chiaro, capace di evidenziare ogni pur piccola voce di spesa.

Posto l’inscindibile rapporto tra Governo e Parlamento, tra decisione su entrate e spese e rappresentanza popolare è evidente il rilievo che assume l’esame parlamentare del bilancio di previsione dello Stato la cui importanza è attestata dal fatto che le Camere riservano ad una apposita “sessione” l’esame dei documenti finanziari, un tempo nel quale altre iniziative legislative segnano il passo perché prioritariamente va valutato l’impianto complessivo della politica economica e finanziaria che il governo presenta al giudizio del Parlamento.

È evidente, dunque, che ogni limitazione del dibattito parlamentare diventa immediatamente compressione delle prerogative costituzionali delle assemblee. È quanto è accaduto in Senato dove è stato impedito l’esercizio del potere emendativo che spetta a ciascun parlamentare e il bilancio è stato approvato sulla base di un maxiemendamento monstrum con molte centinaia di commi e di pagine sul quale il governo ha posto la questione di fiducia, un istituto parlamentare del quale, chi crede nella democrazia, suggerisce di non abusare.

Espropriato il Senato, analoga sorte toccherà alla Camera che sarà chiamata a votare a scatola chiusa perché non si potranno apportare emendamenti che possano far slittare l’approvazione del bilancio di previsione, per non cadere nel “bilancio provvisorio”, uno spauracchio evocato da politici e commentatori come se fosse un gran male. In realtà l’esercizio provvisorio del bilancio è istituto previsto dalla Costituzione all’att. 81, comma 2, e deve essere “concesso” per legge e per periodi non superiori a quattro mesi. Niente di drammatico perché lo Stato può incassare tutte le imposte dovute e può solo spendere fino all’ammontare di tanti dodicesimi degli stanziamenti del bilancio in fase di approvazione quanti sono i mesi dell’esercizio provvisorio, ovvero nei limiti della maggiore spesa necessaria qualora si tratti di spesa obbligatoria e non suscettibile di impegni o di pagamenti frazionabili in dodicesimi.

All’esercizio provvisorio l’Italia è ricorsa per anni senza che vi siano stati effetti negativi. Anzi, si può dire che la spesa, in quei casi, è stata più prudentemente diluita.

La vicenda del bilancio è, dunque, centrale nella attività parlamentare e la compressione dei diritti dei senatori e, a breve, dei deputati, anche se abbiamo fatto il callo a certe manomissioni dei diritti, è pur sempre una grave lesione della democrazia.

Matteo Salvini, leader della Lega, ha preannunciato un ricorso alla Corte costituzionale. Ma al di là del giudizio che la Consulta potrà dare della procedura seguita nel dibattito parlamentare è indubbio che stiamo assistendo, come in altri casi di abuso della questione di fiducia, ad una limitazione delle prerogative dei parlamentari e quindi della sovranità che appartiene al popolo “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, come si esprime l’art.1, cioè innanzitutto nella discussione e nell’approvazione della legge di bilancio.

21 dicembre 2019

 

Frammenti di riflessioni

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte Costituzionale, con sentenza 16 maggio 2019, n. 118, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

a) dell’art. 12-bis, comma 4, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta), inserito nell’art. 3 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 29 marzo 2018, n. 5 (Disposizione in materia urbanistica e pianificazione territoriale. Modificazione di leggi regionali), nella parte in cui consente di non sottoporre né a VAS né alla verifica di assoggettabilità a VAS i piani urbanistici di dettaglio che determinino modifiche non costituenti variante del piano regolatore generale vigente;

b) dell’art. 16, comma 1, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 1998, come sostituito dall’art. 9 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2018.

 

Crisi di governo o crisi di sistema?

“Nelle maggioranze si litiga. Il contratto gialloverde è stato archiviato in agosto lasciandosi dietro una scia di veleni che dà l’idea di quanto si potessero voler bene gli alleati del Conte 1. Mentre la quotidiana navigazione del Conte 2 ha fatto capire da quasi subito che anche tra i nuovi alleati giallorossi non ci si scambiano certo le frasi dei baci Perugina e neppure le premure di professionisti legati di un vincolo di obbligo reciproco. Segno di tendenze profonde della nostra corale indole politica”…

“Ora invece quei litigi avvengono tra partiti che non sono affatto sicuri di trovarsi ancora in vita l’indomani. E che forse proprio per questo avrebbero tutto l’interesse a dosare meglio la loro competizione in modo da evitare di farsi troppo male l’un l’altro. Mentre all’opposto essi sembrano trovare un pò tutti un motivo di conforto nel fatto di contrastarsi senza più remore. Neppure, se vogliamo, la remora della propria stessa sopravvivenza.

Le molte crisi di governo del primo cinquantennio repubblicano volevano essere l’antidoto contro una crisi di sistema. Prassi discutibile, si dirà. Solo che ora crisi di governo e crisi di sistema finiscono per fare tutt’uno. E se anche non si arriverà a cambiare la combinazione dell’esecutivo, la sua continua fibrillazione ci avvisa che la crisi del sistema sta facendo un altro passo avanti. Un altro ancora, e si spalancherà l’abisso (Marco Follini, “Se la crisi di governo è un passo verso l’abisso”, L’Espresso, n. 47/2019, 31).

 

Democrazia vacillante

Un nuovo governo non può nascere con il fine specifico ed esclusivo di impedire che alla guida del Paese prevalgano le scelte della volontà popolare.

È ciò che è accaduto in Italia dove si è preferito un governo rabberciato tra forze politiche per loro stessa natura inconciliabili che, nonostante le promesse di dare un volto nuovo al Paese, si è limitato ad una serie di rinvii, più o meno pretestuosi, sulle questioni più urgenti e vitali, mettendo in serio rischio specie i settori portanti della nostra economia.

È, pertanto, necessario cambiare immediatamente rotta per non precipitare in una situazione irreversibile a tutto danno della nostra già traballante democrazia.

 

Ancora. Oggi le Sardine

Il movimento delle Sardine ha provocato il più che giustificato stupore “che sempre scatena lo sconosciuto, il non previsto, quello che avviene senza essere stato calcolato”, pur rifacendosi a precedenti già conosciuti.

Tra i tanti, l’occupazione degli studenti dell’Università di Palermo nel dicembre 1989.

Poi, dopo la fuga di una pantera da un circo a Roma, mai ritrovata nonostante numerosi tentativi, il nome della Pantera ispirò le coeve occupazioni studentesche.

Nel 2002 fu la volta dei Girotondini, auspice Nanni Moretti e, da ultimo, il Movimento 5 stelle, nato dal Vaffa day di Beppe Grillo nel 2007.

Tali movimenti, di (apparentemente) incerta origine e di non chiare finalità, non sono però in grado di poter influire più di tanto sul nostro sistema democratico.

Comunque, senza idealità c’è solo culto del realismo e del potere. Ma senza realtà, senza Governo, non potrà avvenire nessun cambiamento (Marco Damilano, “Non perdetevi di vista”, L’Espresso, n. 48/2019, 10 ss.).

 

Il potere

“Il potere è idiota quando è affidato a idioti che non hanno passioni.

I grandi uomini, al contrario, fanno avanzare il mondo anche senza il potere”.

“Il potere non è quello che hai ma quello che fai”.

(Vittorio Sgarbi, “Diario della capra 2019/20”, Milano, 2019).

18 dicembre 2019

 

 

Dopo Pio XII … Livermore

Tosca e Vespri siciliani inaugurano le stagioni operistiche di Milano e Roma

della Prof.ssa Dora Liguori

 

Non vorrei essere blasfema ma va detto che, dopo Pio XII, il quale, forte dell’infallibilità papale, ebbe a proclamare il dogma dell’assunzione in cielo della vergine Maria, dal lontano 1950 in poi, a nessun papa (né a chicchessia) pare sia più venuto in mente d’individuare altre personalità da, ugualmente, assurgere in così alto loco.

Il vuoto, però, l’8 dicembre è stato, finalmente, colmato alla Scala, non da un papa ma da un regista - Davide Livermore - che, forse ignorando l’illustre precedente, ha deciso di, piuttosto che farla gettare nel Tevere, far assurgere Tosca in cielo.

Detto questo, per onestà di pensiero, occorre riconoscere che anche Puccini ha barato… e come, nel momento che ha fatto morire la sua Tosca nelle acque del Tevere. Infatti la poveretta, a meno che non riuscisse a volare, gettandosi dalla fortezza papalina (situata a parecchi metri dal fiume), non avrebbe che potuto spiaccicarsi sul duro suolo. E può essere che questa immagine, essendo alquanto cruenta, abbia indotto, il sensibile Puccini, a far cadere, è il caso di dire con “ volo d’autore”, la protagonista in acqua.

A parte questa eclatante stranezza di stampo pseudo cattolico della regia, chiudendo gli occhi, il pubblico milanese ha potuto godere di un cast vocale, dalla Netrebko a Meli e Salsi, superlativo.

Tornando all’impagabile Livermore, non nuovo a queste “alzate di testa” (guai a criticarle ritenendosi anche lui infallibile come il papa), è possibile dire che, assunzione impropria di Tosca e trasposizione dell’opera all’oggi, dove un Cavaradossi esulta a Napoleone vincitore, la sua regia, trainata dalla bontà del cast (compreso il direttore d’orchestra Chailly) e meno assurda dell’usato, è riuscita a riscuotere numerosi applausi.

Fatta la doverosa premessa occorre, però, ricordare che, tanto per fare un esempio, sempre il Livermore, ci ha donato un “Attila” trasportato nella seconda guerra mondiale, la cui azione scenica aveva bisogno di una guida per riuscire a raccapezzarci qualcosa e un “Barbiere di Siviglia” che vedeva scorrazzare sulla scena un topo che, via, via, da piccolo diveniva sempre più gigante, senza che il pubblico riuscisse a comprendere l’attinenza fra il barbiere, il topo e Siviglia. Pubblico che, alla fine, seriamente incaz… etc, non ha risparmiato all’intoccabile Livermore un’ondata di fischi.

E ahime! Magari Livermore fosse il solo.

Purtroppo l’opera lirica, per alcuni registi, nonostante il dissenso del pubblico, pare sia divenuta un’occasione per descrivere turbe psico-analitiche di freudiana memoria. E pertanto, questo pubblico, negli anni, si è dovuto sorbire un Alfredo, in “Traviata”, che col matterello stende delle tagliatelle per una Violetta predestinata, più che alla tisi, all’obesità; una Giovanna  D’arco, schizofrenica e insidiata dal padre; una “Sonnambula”  che abortisce in scena, frutto di rapporti ravvicinati con il conte e non certo con quel tonto del suo fidanzato Elvino; e una Norma che, trasportata in Palestina e sedotta da quel mascalzone dell’israeliano Pollione, miete il sacro vischio (che come noto vi abbonda) nel deserto.

Ma si sa: più il pubblico protesta e più sovrintendenti e registi, per così dire, stravaganti, se la ridono… tanto, nessuno interviene e Pantalone (leggasi cittadini italiani) attraverso le tasse, comunque, paga. Insomma, la moda instauratasi è tale che ormai nessun teatro che si rispetti, infischiandosene del pensiero del pubblico, si nega un regista “trendy”  capace di  scodellare, quando va bene tutta una serie di illogicità manifeste e, quando va male… l’intero museo degli orrori.  Senza contare che queste illogicità diventano autentiche offese verso il povero compositore,  ritenuto dai citati illuminati registi, colpevole d’avere concepito la propria opera in forme e modi, assolutamente dissimili dal loro “genio” pensante.

Insomma la sfida è aperta: chi sente di, registicamente parlando, fare di peggio… avanzi pure.

E, senza por tempo in mezzo, ad avanzare, sono stati i “Vespri Siciliani”, opera che ha inaugurato la stagione 2019-20, del teatro della capitale.

Anche qui occorre dire subito come il cast vocale, soprattutto riferendoci al personaggio di Elena affidato al soprano Roberta Mantegna, fosse superlativo. Per il resto più che chiudere gli occhi, era meglio votarsi ad una cecità perenne. Infatti, il teatro capitolino, non contento degli stravaganti registi nostrani, sempre attingendo ai soldi dei cittadini italiani, è andato a cercarsi una regista in Argentina, tale Valentina Carrasco che, dobbiamo ammetterlo, ha superato in astrusità e, diciamo, anche in cattivo gusto, i registi maschietti. Le donne, notoriamente, se ci si mettono, non sono seconde a nessuno.

Passando allo spettacolo vero e proprio, è risaputo come i cosiddetti “Vespri Siciliani”, storicamente, ci raccontino di una sommossa popolare intervenuta a Palermo, nel 1282,  e causata dall’offesa che dei soldati francesi avrebbero arrecato a delle donne siciliane.

Ciò premesso: poteva mai la regista lasciare all’opera verdiana una simile antica data?

Operisticamente parlando…non fia mai!

Ed eccoti i “vespri” trasportati in improbabili anni ’50, con l’opera invasa da una serie di stupri e improbabili avvenimenti rappresentati, più che con sottigliezze psico-analitiche, all’interno di un  manicomio  squallido e totale. Ma il meglio di sé, la regista, ce lo ha consegnato quando, nel corso del quarto atto, dedicato interamente al balletto “Le quattro stagioni”,  ha costretto, in un impeto di pulizia reale e psicologica, le povere ballerine, invece che a danzare, a lavarsi, interamente, in scena, bidet compreso.

Ma, dico io: va bene che stiamo parlando di stupri però, determinate cose, molto più efficacemente non si potrebbero altrimenti raccontare, come ad esempio hanno già fatto Visconti, Zeffirelli o, parlando di registi più recenti, De Hana? Insomma dei fatti che, quand’anche scabrosi, portati in scena da chiunque goda di un minimo d’esperienza, rendano l’idea senza offendere il cosiddetto “buon gusto” (che mai dovrebbe mancare in ogni esperienza artistica) e che, soprattutto, non offendano l’opera d’ingegno del povero autore. Insomma che bisogno c’è di tanto “spoetizzare”?

Evidentemente si!

La sfida come sopra detto è aperta: a quando un Rigoletto che stupra la figlia o una Turandot che preferisce, a Calaf, Liù?

 

P.S Alla disperata, faccio un sentito appello a Sgarbi:

Gentile Onorevole, giustamente, Lei condanna le offese manuali arrecate, da parte di sciagurati individui, a determinate opere d’arte (pitture, sculture o monumenti che siano) chiedendo, per costoro, pene sempre più rigorose. Più che sensato! Ma non pensa che anche deturpare un’opera lirica sia passibile di reato? E non Le pare che il melodramma, gloria soprattutto italiana, rappresenti anch’esso un’ espressione del genio umano da rispettare?

Resto in attesa di una Sua autorevole pronuncia. D.L.

 

 

 

Il PD danneggia lirica e danza

No all’emendamento a costo zero per equiparare i professori delle accademie di arte, musica e danza a docenti universitari

di Salvatore Sfrecola

 

Ancora una volta musica e arte, nonostante siano da sempre una riconosciuta eccellenza italiana, vengono ignorate da alcune parti politiche con gravi conseguenze sull’attività dei Conservatori di musica, delle Accademie d’arte e dell’Accademia nazionale di danza, istituti che la legge n. 508 del 21 dicembre 1999 definisce all’art. 2, comma 4, “sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale … godono di autonomia statutaria, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile”, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, in attuazione dell’art. 33, comma 6, della Costituzione.

Accade, infatti, che l’attuazione di questa autonomia, dopo i primi decreti delegati adottati dal Governo Berlusconi (2001-2006) sia ancora incompleta. Ed in sede di emendamenti alla legge di bilancio 2020, una proposta attuativa di detti principi costituzionali e fondamentale per Accademie e Conservatori di musica, condiviso dalle Conferenze di Direttori di dette istituzioni, nonostante l’appoggio del ministro Lorenzo Fioramonti e dell’intera opposizione, sia stato bloccato dalla contrarietà del Partito Democratico e dai dubbi del Ministro dell’economia, Roberto Gualtieri e dei suoi uffici. Parliamo di un emendamento a “costo zero” che avrebbe consentito il passaggio dei docenti al regime universitario come accade ovunque nel mondo “senza variazioni di stipendio”, ma anzi con vincolo di disciplina per legge anziché dei contratti collettivi che riconducono queste Istituzioni di Alta Cultura (AFAM) nel calderone della scuola secondaria, un comparto dove la fa da padrona la componente sindacale attratta dai grandi numeri dei docenti della scuole medie.

E così istituzioni che rilasciano diplomi di laurea di primo e secondo livello, che rappresentano il vanto della cultura italiana nel mondo essendo noto a tutti che sono frequentate da moltissimi studenti stranieri sia in fase di formazione che di perfezionamento, e pertanto interessate a rapporti di collaborazione da analoghe istituzioni straniere, ancora una volta segnano il passo. Ma sembra ormai tardi per la protesta dell’Unione Artisti (UNAMS), che minaccia uno sciopero.

(da La verità del 13 dicembre 2019, pagina 5)

 

 

 

Per Mattarella l’evasione fiscale è “indecente”. Ma che fanno i partiti per contrastarla?

di Salvatore Sfrecola

 

In un incontro con gli studenti di alcune scuole secondarie di secondo grado, il Presidente Mattarella, al quale è stato chiesto “perché in Italia è così difficile combattere la piaga dell’evasione fiscale”, ha risposto soprattutto in termini di carattere etico. Ha cioè sottolineato come l’evasione fiscale sia “l’esaltazione della chiusura in sé stessi, dell'individualismo esasperato”, aggiungendo che “significa ignorare che si vive insieme e che la convivenza significa contribuire tutti insieme - come dice la Costituzione, secondo le proprie possibilità - alla vita comune”. Una situazione definita, senza mezzi termini, “indecente”.

Il richiamo del Capo dello Stato ai valori della convivenza, al dovere che tutti i cittadini hanno di pagare le imposte, eppure contestualmente avvalendosi dei servizi che lo Stato rende attraverso la spesa pubblica, è senza dubbio di grande effetto morale soprattutto su giovani studenti che nelle scuole imparano a diventare cittadini, titolari dei diritti e dei doveri che ne conseguono. Tuttavia non c’è dubbio che se l’evasione fiscale, indicata in 119 miliardi annui, è effetto di una mancanza di senso civico, di consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità, una grossa responsabilità va individuata nella classe politica che evidentemente è restia a combattere il fenomeno. Infatti, al di là delle dichiarazioni di principio, secondo le quali se pagassero tutti, tutti pagherebbero di meno, ricorrenti nel linguaggio politico, c’è una inadeguatezza delle misure necessarie per stroncare l’evasione. Inadeguato il sistema fiscale, che non consente di far emergere le attività rispetto alle quali non viene pagato il tributo, assolutamente insufficiente l’azione repressiva che pure impegna uomini e strutture dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza.

Un sistema fiscale farraginoso, conseguenza di una stratificazione di norme che attendono di essere inserite in un contesto lineare e semplificato, che consenta gli adempimenti e, contestualmente, i controlli, è certamente alla base dell’evasione, nel senso che agevola chi intende sottrarsi agli obblighi tributari. È, cioè, una questione di volontà politica che, all’evidenza non c’è. E questo dimostra che il “partito degli evasori” è grande e potente ed è trasversale, nel senso che ogni forza politica ha la sua quota di evasori e di elusori che non vuole disturbare per non perdere consensi. D’altra parte è la misura dell’evasione che attesta la consistenza dei soggetti coinvolti.

La ritrosia dei partiti a combattere l’evasione si ritrova anche nell’affermazione, ricorrente in molti discorsi di uomini politici, secondo la quale per ridurre l’evasione è necessario prioritariamente alleggerire imposte e tasse. Intervenire sul carico fiscale è certamente necessario per liberare risorse e favorire i consumi ma non c’è dubbio che la lotta all’evasione fiscale deve contestualmente operare sul fronte della revisione del sistema delle imposte per favorire l’emersione dei fattori che favoriscono i mancati adempimenti tributari. Essendo escluso che, di per sé, la riduzione delle imposte possa, se non eliminare, ridurre significativamente l’evasione. Chi evade lo fa anche se il carico fiscale è limitato. È un problema di mentalità, di senso civico come ha sottolineato il Capo dello Stato. Ed è evidente che chi è abituato all’illegalità prova una soddisfazione innegabile anche nella violazione delle norme tributarie, sia pure per piccoli importi.

I partiti riflettano su questa situazione. E si diano carico di una riforma del sistema tributario che, come in altri ordinamenti, al di là del senso civico richiamato, impedisca o limiti fortemente l’evasione. Lo facciano anche per riconquistare agli occhi dei cittadini quella credibilità che la maggior parte delle forze politiche ha perduto, avendo dimostrato l’incapacità di riscuotere le imposte e, contestualmente, trattandosi di due facce di una stessa medaglia, di gestire con efficacia, efficienza, economicità e legalità la spesa pubblica, cioè il denaro messo a disposizione del potere politico dai cittadini onesti.

(da www.italianioggi.com)

 

 

Una favola del XXI° secolo. raccontata da un teleutente a Domenico Giglio

di un teleutente

 

Le favole e chi le racconta esistono ancora ed iniziano sempre con un “C’era una volta un RE”. In questo caso il Re è Vittorio Emanuele III e la favola raccontata alla televisione da un famoso giornalista, in un programma dedicato alla storia dice che questo Re (è lui il “cattivo” della favola, ma il “buono” chi è ?), prima dell’8 settembre 1943, invece di preoccuparsi di dare istruzioni al suo esercito (ma spettava a Lui o ad i Ministri competenti?), si preoccupò di riempire 40 (ripeto quaranta) vagoni merci, con le più svariate mercanzie, mobilio, opere d’arte, per spedirli e nasconderli nel paese dei balocchi. Il favolista ha mai valutato la lunghezza di un treno di 40 vagoni? Ne ha visto passare uno analogo? Ha mai pensato al tempo necessario per caricarli? Ed in quale stazione è avvenuto il carico? A Roma dove il 19 luglio e poi il 13 agosto 1943 erano state bombardate proprio le stazioni? E da dove proveniva il materiale? E tutto questo in silenzio, senza che nessuno si accorgesse di nulla? E dove potevano essere diretti e scaricati, mentre era in corso una guerra e le ferrovie erano giornalmente bombardate?

A questo punto un ascoltatore della favola chiede al favolista dove poter leggere per intero questa fiaba, ma non ha risposta, insiste per sapere da dove è stato preso lo spunto, ma non ha risposta. Possiamo ancora credere alle favole? Qualche altro ascoltatore è stato più fortunato e sa dirmi dove il favolista ha trovato gli elementi di questo racconto e come sia finito, con il ritorno (come e quando?), di questi vagoni dopo di che tutti vissero felici e contenti che è la classica chiusura di tutte la fiabe.

La morale della favola qual è: finito lo scherzo e l’ironia, quanto sopra esposto è di una estrema gravità in quanto milioni di telespettatori, data l’autorevolezza del favolista, riterranno l’evento effettivamente accaduto e trarranno motivi per un giudizio negativo sul personaggio citato, che essendo mancato settantadue anni or sono non può rispondere, né possono rispondere chi era al suo fianco ed avrebbe predisposto questo trasloco verso il nulla, perché che senso avrebbe avuto trasferire il tutto non certo verso il Meridione dove era in corso la guerra, ma verso il Piemonte, regione originaria della famiglia del protagonista, ma dove? E quanto tempo sarebbe stato necessario a scaricare i quaranta vagoni, senza che nessuno se ne accorgesse? O forse tenerli per mesi e mesi su un binario morto, protetti e salvaguardati da chi? Ancor meglio in Svizzera?

Nelle favole antiche c’era sempre una buona fata che provvedeva a salvare il protagonista, magari nascondendolo in una nuvola che copriva il tutto, ma in una favola moderna non vedo chi potesse essere questa fata. Vorrei una risposta dal favolista.

6 dicembre 2019

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia comunitaria

Gli articoli 3, 5 e 6 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letti alla luce dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e dell’art. 4, paragrafo 1, dell’art. 11, paragrafo 3, e dell’art. 16, paragrafo 3, della direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno Stato membro che, secondo l’interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza nazionale, non impone ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore (Corte di giustizia UE, grande sezione, sentenza 14 maggio 2019, C – 55/18).

 

Italia sommersa

Da Venezia a Matera, passando per l’Ilva. Drammi che raccontano un’Italia colpita al cuore, a cui la politica non sa rispondere.

L’Italia di nuovo torna sotto gli occhi del mondo. “Nell’acqua che invade le calli, i vicoli, i bar, gli alberghi, la basilica e piazza San Marco, il sindaco e il patriarca sommersi e smarriti, l’ululare delle sirene nel silenzio spettrale come durante un bombardamento, i vaporetti affondati, il fango che copre tutto, come nell’ultima alluvione di tale gravità, del 4 novembre 1966, che devastò Firenze con 35 morti. Era un’Italia in grado di rialzarsi dalle sue rovine, l’onda richiamava quella di piena che aveva messo in ginocchio le città d’arte, le meraviglie del Paese, l’aqua granda, ma anche l’onda di impegno civile che aveva trascinato la meglio gioventù ad accorrere a Firenze e che di lì a poco, nel 1968, si sarebbe trasformata in contestazione. Da quell’alluvione eccezionale partì anche il progetto Mose, iniziato in piena Prima Repubblica, la cui attivazione è prevista per il 2021, ma le dighe da 5,5 miliardi sono già corrose dalla salsedine, dal tempo e anche dalla corruzione… Un monumento allo spreco e alla ruberia, mentre Venezia affonda nell’acqua alta che non è una calamità naturale così come non può essere soltanto considerata tale l’alluvione che ha allagato nella stessa serata settecentosessanta chilometri più a Sud, Matera, capitale della cultura europea 2019. Venezia specchio d’Italia, così come Matera e l’llva di Taranto”.

...”Nessun paese europeo aveva attraversato finora un cammino di dissoluzione della rappresentanza politica così travolgente come l’Italia. E nessun paese europeo aveva vissuto la stessa crisi di legittimità del sistema e l’incepparsi delle sedi decisionali. Dietro ogni Ilva trasformata in una bomba ambientale e dietro ogni povero Mose già arrugginito prima ancora di mettersi in moto c’è un rinvio, una irresponsabilità. In più, c’è un venir meno della fiducia nello Stato che è stata picconata da decenni di discorsi a sfondo secessionista o di corteggiamento della rivolta fiscale. Risorse sperperate, corruzione e evasione tollerata si tengono insieme, se l’unico punto in comune tra governanti e governati resta la fuga dalle decisioni. Anche la breve storia del governo Conte 2, in fondo, si riassume su questo punto: se è un prendere tempo per rimandare lo scontro elettorale, è meglio far scendere il sipario… È questo l’unico principio d’ordine dell’Italia alluvionata, il rimando alla resa dei conti prossima futura” (Marco Damilano, “Resa dei conti”, L’Espresso, n. 47/2019, 8 ss.).

 

Senza strategie

“Qual è lo stato di salute della politica industriale italiana? Il paziente è grave, in profonda agonia. Speriamo solo non ancora in pericolo d vita. Questa è la risposta suggerita dalle recenti vicende che riguardano, in particolare, l’ex Ilva di Taranto e Alitalia. Siamo ben lontani da quella che dovrebbe essere la prospettiva normale del Paese”.

In questo difficile autunno del 2019, “obiettivo principale è dare certezza, prospettiva e tranquillità a lavoratori e famiglie coinvolte”…

Ma “cosa succede al nostro Paese?... Ci siamo ridotti a procedere per emergenze e non più per progetti, per salvataggi invece che per rilanci, per assistenza e non per promozione; peggio ancora: ci siamo ridotti a far definire la politica industriale dalla giustizia civile e dal diritto fallimentare e non dalle stanze di Palazzo Chigi o dalle aule del Parlamento”…

Come si è giunti a tanto? “Possibili cause sono da ricercarsi nelle debolezze di fondo della politica italiana e in quelle della politica industriale in particolare…

Il tempo per rinsavire ormai è agli sgoccioli” (Paolo Balduzzi, “Il Paese dell’eterno salvataggio industriale”, Il Messaggero, 22 novembre 2019).

 

Italia in ginocchio

Un governo traballante, condizioni climatiche disastrose, ponti che crollano, acque indomabili flagellano il nostro Paese.

E i responsabili? In Italia, la dinastia dei responsabili è estinta da tempo.

 

Una moda scema

Vittorio Feltri (“Dare alla Segre cittadinanze onorarie è una moda scema”, Libero, 26 novembre 2019) così qualifica le iniziative di diversi Comuni che fanno a gara per conferire la cittadinanza onoraria alla Senatrice a vita Liliana Segre. Iniziative che certamente non cancellano le tante atrocità patite dagli ebrei nei campi di sterminio.

5 dicembre 2019

 

 

FRAMMENTI DI RIFLESSIONI

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

 

Giustizia civile

Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo (Cass., Sez. un. civ., sentenza 16 maggio 2019, n. 13246).

 

Tasse e giustizia

“Al di là della vicenda drammatica di Taranto, l’Italia fa fatica ad attrarre investimenti e tecnologie. E, ancora di più, a trattenere il capitale umano che è indispensabile per poter anche solo pensare di avere un futuro.

Sono il fisco e la giustizia e – per essere più precisi – il livello di difficoltà dell’adempimento tributario e l’incertezza del diritto, i due fattori che, più di qualsiasi altro, hanno allontanato l’Italia da una battaglia per il ventunesimo secolo che si gioca sulla conoscenza.”

“La prestazione sul Fisco e sulla Giustizia continua ad eludere decine di tentativi di semplificazione e sembriamo come intrappolati in un paradosso: lo Stato appare contemporaneamente invasivo e, spesso, impotente nel far rispettare le sue stesse regole…

È questo lo scenario strutturale rispetto al quale si consumano drammi come quello dell’acciaio: regole complicate alle quali si cercano strade d’uscita attraverso decreti ed eccezioni che, però, producono soluzioni sempre fragili e nuova incertezza. In questo contesto fare politica industriale è semplicemente impossibile… Sono quelli sul Fisco e la Giustizia i cantieri di cambiamento più importanti per chi voglia provare a far uscire l’Italia da un declino senza fine”.

(Francesco Grillo, “Dalle tasse alla giustizia perché l’Italia è bloccata”, Il Messaggero, 13 novembre 2019).

 

Ilva e non solo

Al Ministero dello sviluppo ci sono 146 tavoli di crisi: se ne risolve bene uno su tre. E crescono i disoccupati.

“In una fase storica di delicatissima transizione per l’economia globale, l’esecutivo di Roma non è in grado di abbozzare una risposta che indichi quantomeno una direzione di marcia per un Paese che vede sgretolarsi il proprio tessuto industriale. ...Messa di fronte a problemi concreti come quello, enorme, della chiusura dell’Ilva di Taranto con la perdita di almeno diecimila posti di lavoro e il definitivo naufragio della siderurgia nazionale, il governo di Giuseppe Conte si spacca, peggio si frantuma, dietro una cortina fumogena di slogan che promettono la difesa a oltranza dell’interesse nazionale contro le oscure manovre dello straniero, cioè la multinazionale a trazione indiana Arcelor-Mittal. E così nella confusione generale, tra gli estremisti grillini decisi a farla finita una volta per tutte con l’impianto di Taranto e le sue polveri inquinanti contrapposti ai renziani che manovrano per mettere in campo nuove cordate di acquirenti, l’unico dato concreto di cronaca rimane il grottesco spettacolo di un esecutivo, anzi due, il Conte uno e il Conte bis, che nell’arco di poco più di un anno sono riusciti a fornire ai padroni di Ilva ogni pretesto possibile per sfilarsi da un accordo che li obbliga a investimenti miliardari in un’azienda che viaggia a ritmo di due milioni di perdite al giorno. L’immunità penale per eventuali reati commessi nel risanamento ambientale è stata prima concessa, poi revocata, quindi reintrodotta e infine, pochi giorni fa, di nuovo cancellata. Una girandola surreale che, con buona pace della certezza del diritto, sembra studiata apposta per convincere i grandi investitori internazionali a girare al largo dall’Italia. Adesso Conte corre ai ripari. Apre l’ennesimo tavolo negoziale. Un copione già visto più volte. Ennesima conferma che l’orizzonte del governo sulle questioni di politica industriale fatica ad andare oltre le ventiquattro ore” (Vittorio Malagutti, “Ilva e non solo”, L’Espresso, n. 46/2019, 22 ss.).

 

Vittorio Feltri, “L’irriverente. Memorie di un cronista”, Milano, 2019

Ne “L’irriverente” Vittorio Feltri “traccia il ritratto, pungente e affettuoso al tempo stesso, delle persone che hanno lasciato un segno nella sua vita”.